Quando hanno aperto la cella

Page 1

Luigi Manconi Valentina Calderone

Quando hanno aperto la cella Storie di corpi offesi Da Pinelli a Uva, da Aldrovandi al processo per Stefano Cucchi Prefazioni di Gustavo Zagrebelsky e Alessandro Bergonzoni Con una lettera di Ilaria Cucchi


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.p.A., Milano 2013 Prima edizione: il Saggiatore, Milano 2011­­


Quando hanno aperto la cella Quando hanno aperto la cella era già tardi perché con una corda sul collo freddo pendeva Michè A Fabrizio De André che, nel 1961, scriveva questi versi e che nei concerti dell’estate del 1998 dedicava «Smisurata preghiera» a Maria Soledad Rosas, detta Sole, che si tolse la vita mentre era agli arresti domiciliari e a Edoardo Massari, detto Baleno, suicidatosi nel carcere di Torino.



Sommario

In quello spazio vuoto di diritti di Gustavo Zagrebelsky 9 Di come si tratta un corpo di Alessandro Bergonzoni 13 Stefano Cucchi e gli altri. Ovvero Ilaria e le altre

17

prima parte

Dal 1969 a oggi. Nulla è cambiato?

45

Giuseppe Pinelli, 15 dicembre 1969

47

Franco Serantini, 7 maggio 1972

53

Nanni De Angelis, 5 ottobre 1980

59

Salvatore Marino, 2 agosto 1985

64

Federico Aldrovandi, 25 settembre 2005

70

Da Carlo Giuliani a Stefano Gugliotta

78

seconda parte

Curriculum vitae. Tredici storie come tante

93

L’ultima fotografia di Marco Ciuffreda

98

Il forte infarto di Marcello Lonzi

106


La birichinata di Katiuscia Favero

119

La morte straniera di Eyasu Habteab e di Mija Djordjevic

127

Il mite falegname Aldo Bianzino

135

La fine del volo di Niki Aprile Gatti

145

La notte che non finisce mai di Giuseppe Uva

153

Manuel Eliantonio e quella paura del gas

171

Il vuoto dove affonda Carmelo Castro

179

Francesco Mastrogiovanni e la solitudine del morente

188

Il grave gesto anticonservativo di Giovanni Lorusso

202

Stefano Cucchi che amava la boxe

214

Cara Valentina e caro Luigi di Ilaria Cucchi 233 Le cifre crudeli

237

Luoghi e modi della privazione della libertĂ . Un glossario

243

Note 257


In quello spazio vuoto di diritti

Questo libro è una scossa alla coscienza del lettore. Apre uno squarcio sulla vita del nostro paese perlopiù sconosciuta; riordina, cataloga, riporta alla luce storie di persone – spesso giovani – che entrano nelle nostre carceri, nelle nostre questure o nei nostri ospedali psichiatrici giudiziari e ne escono morte. Vederle tutte insieme, queste storie, una dopo l’altra, serve innanzitutto come esercizio di memoria. Si tratta di vicende sconosciute, oppure venute a galla sui giornali e sui blog, ma rapidamente dimenticate. Lo scrivono, e bene, Luigi Manconi e Valentina Calderone, autori di questo libro: l’atteggiamento della società nei confronti del carcere è la rimozione; una rimozione che fa emergere la cattiva coscienza – di antiche radici – della nostra società. C’è un mondo di reclusi che vengono trattati da esclusi. Sono tagliati fuori dalla società civile, viene ignorata la loro esistenza. Quando siamo al semaforo in auto e vediamo avvicinarsi un lavavetri o un venditore ambulante voltiamo la faccia dall’altra parte per evitare di incrociare il loro sguardo. «Non mi riguarda» pensa la buona società. E si volta dall’altra parte. Allo stesso modo, essa, nella sua gran parte, si comporta con chi viene da lontano come straniero, oggi nella veste di «clandestino». Così, nella stessa logica ma ben più drammaticamente, le vicende – vicende di giovani che entrano nel nostro sistema carcerario – vengono accantonate, rimosse. Si tratta di uno strabismo col quale dissimuliamo diffidenza, egoismo, chiusura in noi stessi. Il mosaico doloroso racchiuso in questo libro testimonia di storie che non fanno opinione pubblica. Testimonia di episodi caduti nel buco nero dell’oblio. Accanto a coloro i cui nomi compaiono più o meno fu-


10  Quando hanno aperto la cella

gacemente nelle cronache, altri muoiono nelle nostre carceri senza che nessuno se ne accorga. Uomini che non hanno parenti, magari migranti, extracomunitari. Cosa sappiamo di loro? Niente. Una prassi diffusa che emerge da questo libro è proprio questa: non sono le istituzioni a portare alla luce questi casi. Al contrario. Spesso si allestiscono reti di coperture generalizzate, dove ci si protegge reciprocamente, a colpi di firme false e cancellature. Sono reti che intrappolano spesso anche i compagni di cella dei detenuti morti; altro segno della cappa di omertà che avvolge questo ambiente. Un’omertà che trova sostegno anche in un’idea comunemente accettata: le vittime, in quanto «tossici», o «alcolizzati», gente che comunque vive «ai margini» della società, se la sono, in qualche modo, «cercata». Fanno parte di un’umanità deviante, sono già parte di un’altra umanità; così da sentirle diverse da noi e anche rimuoverle, fino a nascondere le loro morti. Anche per questo ben venga la catalogazione e la sistematizzazione di casi tragici che Luigi Manconi e Valentina Calderone operano in questo loro lavoro; per darci un pugno nello stomaco, per renderci partecipi di quello che accade in alcuni non isolati casi in Italia, per far emergere vicende di soprusi e abusi, per non dimenticare. Questo libro, però, non è un atto d’accusa contro le forze dell’ordine, né contro lo Stato. Non è una generalizzazione. Non vuole dimostrare che lo Stato come tale non funziona né alimentare risentimenti generici nei confronti degli operatori della pubblica sicurezza o delle manchevolezze della giustizia. Vuole essere una documentazione utile per la giustizia, la verità e la conoscenza. Giustizia, verità e conoscenza si costruiscono tassello per tassello, non per assunzione di giudizi a priori. Le storie di vita e di morte qui raccontate sono la testimonianza di come, talvolta, quando una persona debole – non importa se colpevole o innocente – si trova totalmente nelle mani di altri, in istituzioni chiuse e «totali», il rigore della legge possa facilmente cedere al sopruso. In questi casi, il rapporto tra il detenuto e l’autorità può degenerare, non essere più mediato da una norma, ma basarsi sulla predominanza materiale fra chi dispone della forza e chi sta, inerme, a disposizione della forza. I luoghi di questo libro ci appaiono isole inespugnabili, dove più che la sovranità del diritto regna la legge dell’arbitrio e, nell’arbitrio, si manifesta non il meglio, ma il peggio della natura umana: abusi, violenze, soprusi, manifestazioni di avvilimenti esistenziali di cui gli stessi autori sono le prime vittime.


In quello spazio vuoto di diritti  11

Molti dei casi raccontati in questo libro sono avvenuti in uno spazio «vuoto» di diritto, quando cioè le persone sono nelle mani delle forze dell’ordine nella situazione che precede l’adozione di misure formali nei loro confronti, appena fermate a un posto di blocco o portate in questura a seguito di un controllo. Si tratta di uno «spazio» difficile da regolare: qui è il senso della deontologia degli agenti delle forze dell’ordine che deve avere il primo posto. Il 19 febbraio 2011 l’Ansa ha dato notizia della triste vicenda di Noureddine Adnane, 27 anni, venditore ambulante marocchino, datosi fuoco a Palermo. Aveva tutto in regola Noureddine ma i vigili urbani avevano deciso che lì, dove sostava ogni giorno, non poteva stare. Gli avevano sequestrato il suo carretto pieno di cappellini, giocattoli, torce, accendini. Lui aveva detto che non era giusto e che, fra l’altro, con quei soldi dava da vivere a sua moglie, a sua figlia di 2 anni e ai suoi fratelli in Marocco. Aveva minacciato di darsi fuoco. Non gli avevano dato retta, ma Noureddine l’ha fatto sul serio. Si è dato fuoco davanti alla caserma della polizia di via Ernesto Basile e dopo otto giorni è morto. Ecco che cosa significa «spazio vuoto», dove l’arbitrio nei confronti dei deboli può facilmente allignare. Dovrebbe essere un dovere per la società in cui viviamo rivolgere la nostra attenzione verso questa zona oscura della nostra civiltà (o inciviltà). Quando è caduto il fascismo, uno dei primi impegni assunti dalla classe dirigente antifascista, di cui molti avevano conosciuto il carcere, fu l’umanizzazione del sistema penitenziario. Nel 1945 uscì un numero speciale del Ponte, la storica rivista di Piero Calamandrei, dedicato alla terribile condizione dei detenuti nei luoghi di reclusione. Sarebbe interessante uno studio comparativo, tra le condizioni di allora e quelle di oggi. Forse ne risulterebbe la conferma che, quale che sia il sistema politico, dittatura o democrazia, è comunque all’opera il medesimo meccanismo della rimozione sociale. Forse davvero è una struttura portante della psicologia sociale la distinzione della «parte sana» della società da una «parte insana» che la prima, quella «sana», vuole semplicemente oscurare, per poterla meglio ignorare. Che una tendenza spontanea di questo genere esista, non significa però che ci si debba adeguare passivamente. Significa soltanto che bisogna raddoppiare gli sforzi. Un essere umano che muore in carcere è uno dei massimi scandali dello stato di diritto. Lo Stato rivendica a sé il potere di impadronirsi della libertà altrui per salvaguardare la sicurezza di tutti, per evitare la violenza di tutti contro tutti, per superare la condizione primordiale dell’homo homini lupus. Dovrebbe essere evi-


12  Quando hanno aperto la cella

dente – per la contraddizione che ne deriverebbe – che lo Stato stesso, per primo, e per lo Stato i suoi apparati, ha il dovere di astenersi dalla violenza nei confronti di coloro con i quali entra in rapporto: prima di tutto nei confronti di coloro della cui libertà può disporre. I casi documentati in questo libro sono la testimonianza di una difficoltà e di un’arretratezza anche culturale: quanti sono coloro che, disponendo di potere per conto dello Stato nei confronti di cittadini la cui libertà e la cui incolumità sono nelle loro mani, sono consapevoli del fatto che proprio la loro posizione di supremazia dovrebbe comportare un sovrappiù di rispetto? Non vale invece l’idea contraria, che si esprime in tanti atteggiamenti correnti nei confronti dei detenuti, ch’essi siano piuttosto sudditi che cittadini? Queste considerazioni sono dettate semplicemente dal senso di umanità che è venuto crescendo nel corso dei secoli e si è espresso in forma solenne nella Costituzione vigente, là dove è detto che la pena deve avere una funzione di umanizzazione e di reinserimento sociale. La pena è un’afflizione, senza dubbio, ma non un’afflizione fine a se stessa, ancor meno l’occasione per esercizi di violenza sulla persona reclusa: deve mirare a ricreare le condizioni per la rinnovata accoglienza nella società di coloro che ne sono stati separati per il periodo della loro esistenza da trascorrere nelle strutture di pena dello Stato. Questa finalità della pena crea un obbligo supplementare di rispetto della persona, dei detenuti e uno scandalo aggiuntivo, in tutti i casi in cui, alla fine della pena, troviamo l’esito contrario, la morte o la soppressione del detenuto. L’argomento di questo libro è dunque altamente politico, non nel senso della politica dei partiti, ma nel senso delle regole comuni della polis, del nostro vivere insieme. Ci si può augurare ch’esso, sollevando il velo su molti episodi, contribuisca ad alimentare una sensibilità e a sollecitare la responsabilità nei confronti d’un aspetto vergognoso della nostra organizzazione sociale. A volgere lo sguardo verso ciò che si preferirebbe non vedere. Gustavo Zagrebelsky


Di come si tratta un corpo

Di cosa si tratta? Di come si tratta: un uomo, un essere, un corpo, ma soprattutto di come non si possa più trattare con chi ricatta il bene, quindi non si tratta. E non si tratta solo di giustizie e di verità, di politica e di società, ma di meraviglia asfissiata. Pre-misericordia? Anti pietà? Poesia fuori luogo, o dentro certi luoghi? Diritto alla tenerezza, briciole che bruciano («… sa, io non mangio pane…!»). Non volevo provare invidia per certe madri, sorelle, padri, figli, per riempire quel vuoto che è già alibi; non vorrei dover essere obbligato a capire e vedere attraverso altri (vedi il mio testo «I dieci demandamenti»), che «per fortuna» hanno potuto provare cosa significa morire o essere uccisi, per imparare a insegnare a vivere, o insegnare a vivere per imparare, per rispettare, per compiangere, per amore. L’altro amore però, quello ante-canzoni, pre-sentimento, non quello di cui mi vergogno a dire o mi imbarazza parlare per abusi continui, per reiterata vacuità d’aggettivo, per svuotamento ossessivo da rimbombo nel vuoto per emozioni. Un amore che non definirei appunto nemmeno sentimento, ma somma somma. Però sono stanco di rileggere libri così, di questi familiari che raccontano sempre la stessa tremenda storia; lo dico con la certezza di essere frainteso… Cosa dice la giurisprudenza, cosa dicono i testimoni, cosa dicono le carte, cosa dicono… Non mi interessa (quasi) più, quasi non mi importa nemmeno, alla fine, sapere come va a finire, chi ha avuto giustizia, quanto ha dovuto aspettare, quel che ha dovuto pagare (in tutti i sensi), che poi il figlio, il padre, il fratello, nessuno glielo può più restituire… Quasi quasi non mi interessa più perché mi importa invece aspettare al varco il giorno, l’ora o l’attimo in cui ognuno avrà un suo caduto, cioè tutti ne avremo uno a testa di questi


14  Quando hanno aperto la cella

morti ammazzati e allora non si scriveranno più libri siffatti né si vedranno tournée di congiunti in giro per l’Italia fare la spola tra una platea e un’altra per sperare di avere attenzione: nessuno darà più l’esempio perché ognuno sarà quel qualcuno e avrà in sé tutto l’occorrente per cominciare la mutazione. Fine degli esempi! Ne avrà uno il giudice buono, uno il giudice cattivo, la guardia buona, quella perfida, il dottore perfetto, il medico incurante, il testimone venduto, il poliziotto corporativista, ne avrà uno il giustizialista, il politico revanscista, il ministro minimizzante, la direttrice possibilista… Tutti avremo il nostro caso, per caso. Chiunque, uno. Aspetto quel giorno, attimo, secondo, momento: sia chiaro non è vendetta o legge del taglione per carità (se ne abbiamo ancora) è paradosso antropologico, tendenza antroposofica, anche perché dicono che solo attraverso il dolore c’è conoscenza, solo con la sofferenza ci sia consapevolezza, anche se io penso che attraverso l’immedesimazione e il contagio, attraverso l’arte e la poetica vi possa essere coesistenza e presenza. Ma questo libro comunque sta nel frattempo, in quel lasso pieno di ancora che ci divide dal cambio di passo, manca poco ma queste storie atterrano ancora lì, per ora. Allora noi nell’attesa di tempi maggiori, non possiamo più far parlare solo gli addetti ai dolori, i nostri capi demandatari, non si può più (o ancora) aspettare di cascarci in quelle celle, in quei commissariati, non dobbiamo aspettare che le leggi o i numeri cambino questo sistema metrico decimante, l’ingiustizia non può morire di morte naturale, la crudeltà non è eterna, dobbiamo anticipare i tempi, dare una caparra, ci è chiesta una cauzione (salvo o non salvo buon fine) per sprigionar le forze: dobbiamo «diventare» anche solo per un istante, anche solo col pensiero, a colpi d’attenzione, dobbiamo usare l’intenzione elettrica, dobbiamo fare il rame, diventare conduttori (ma non solo presentatori), per diventare anche fili. La morte di un filo, questa volta sì nostro, equivale alla fine del collegamento con tutti quelli che aspettano calore, luce, energia, un’interruzione che lascia al buio ancora una volta chi deve far vedere cosa succede di nascosto, che permette ancora vergogne e vergogne, torture e torture, stenti e stenti, martirii e martirii. Vostro e come Alessandro Bergonzoni


In questo libro parliamo di alcune vicende di privazione della libertà e di violenza. Non tutte rimandano alla detenzione carceraria, ma tutte richiamano una qualche forma e un qualche istituto di controllo e di repressione a opera dello Stato e dei suoi apparati. Parliamo, pertanto, di persone decedute, oltre che in una cella, per strada o in ospedale psichiatrico giudiziario o in trattamento sanitario obbligatorio, e proprio perché – come intendiamo argomentare – le procedure della sorveglianza e della coercizione tendono, per un verso, ad ampliarsi e, per l’altro, a integrarsi tra esse. Qui raccontiamo storie, faticosamente ricostruite perché – e si tratta di un altro dato sul quale riflettere – le informazioni di fonte istituzionale sono in genere parziali, spesso alterate, talvolta manipolate. Qui solleviamo dubbi, sottolineiamo perplessità, evidenziamo contraddizioni, augurandoci che questo lavoro possa servire a ricordare l’iniquità di tante morti e ad approssimare alla verità dei fatti. Questo libro deve moltissimo ai suggerimenti e ai veri e propri contributi offerti, con generosità pari alla competenza, da Federica Resta e Stefano Anastasia. Ringraziamo per la sollecitudine, e per tutto il resto, Valentina Brinis, Francesco Gentiloni, Luigi Fratepietro, Cecilia Aldazabal, Antonella Barone, Francesco Cascini, Luigi Pagano, Carmelo Cantone, Lucia Castellano. l.m., v.c.

scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it



Cara Valentina e caro Luigi

Ci sono storie che nessuno conosce. Tragedie che si consumano nell’indifferenza generale. Tante, troppe. Di qualcuna se ne parla e si riesce a fare in modo che non finiscano nel silenzio, rimosse in un Paese e in uno Stato cui la memoria sembra dar fastidio. Prima o poi si smette di parlarne, e le persone, purtroppo, dimenticano in fretta. La loro vita non ne è toccata direttamente e basta poco per lasciarsi travolgere da altre storie e da altre vicende più consolatorie che non mettono a rischio il quieto vivere quotidiano. Della stragrande maggioranza di esse, invece, nessuno sentirà mai parlare. Ma sono storie di vita, di tremendi soprusi… E a volte di morte. Intorno a ognuna di quelle storie c’è un mondo, fatto di affetti e delle piccole grandi cose quotidiane che rendono unica ogni esistenza. Attorno ad altre c’è addirittura solitudine, una solitudine legata al fatto che si viene da un paese lontano. L’indifferenza si unisce all’impossibilità di ricevere qualunque conforto, perché queste persone sono viste come ancora più «ultime», ancora «meno degne» di ricevere rispetto. Basterebbe fermarsi a riflettere su questo per capire quanto è crudele negare la verità a qualcuno che ha già vissuto il dramma più grande. Perché quando si nega il diritto alla giustizia si sta affermando che non è successo nulla. Si sta chiedendo a quelle persone di voltare pagina, così, come se niente fosse avvenuto. Si chiede loro di rinunciare anche al diritto del ricordo e della memoria. Perché andare in fondo a quelle vicende è molto, troppo complica-


234  Quando hanno aperto la cella

to. Significa mettere in discussione un intero sistema. Significa dover ricostruire momento per momento singoli episodi e dare nomi e cognomi a chiunque, a vario titolo, ne sia stato coinvolto. Molto più semplice insabbiare e nascondere, forti del fatto che per tanti di quei casi nessuno rivendicherà risposte. Non ci saranno grandi titoli sui quotidiani, al massimo poche righe, spesso ambigue e a volte esplicitamente cariche di insulti. Per i motivi più svariati. Magari perché la vittima non aveva alle spalle una famiglia. O perché la famiglia non ha la forza o la capacità di chiedere conto dell’accaduto. Quando non si sa nemmeno da dove partire, tanto più se si ha la consapevolezza di lottare contro qualcosa di tanto grande e potente. O molto più semplicemente per il naturale bisogno di vivere il dolore nel chiuso dei propri affetti. E chiedere giustizia non lo consente. La giustizia, se fosse efficiente, «giusta», realmente uguale per tutti, dovrebbe seguire un percorso dovuto e regolare. Non vendetta, ma elemento di ricucitura che ci consentirebbe non solo di elaborare meglio il lutto ma di poter continuare, malgrado ciò che si è subìto, a credere nelle istituzioni, a poter sperare che quanto avvenuto non si ripeta mai più. Ma in realtà, per sperare di ottenere giustizia, occorre rendere pubbliche le proprie tragedie. E questa è la violenza che ci fanno le nostre istituzioni, troppo prese a difendere se stesse piuttosto che la loro funzione. C’è poi un meccanismo che si ripete sempre. Una sorta di autoimmunizzazione di massa. Quando si parla di vittime dei soprusi delle forze dell’ordine, vittime di giustizia, vittime delle carceri e – questo il termine più appropriato – «vittime di Stato», si innesca un processo subdolo e potente. Le persone che non ne sono toccate hanno bisogno di trovare in se stesse qualcosa che provochi un distacco radicale da vicende simili. Che consenta di convincersi che in fondo quelli che ne sono stati coinvolti se la sono cercata, e che a loro, o ai propri cari, non succederà mai. E così i primi processi, e purtroppo a volte gli unici, si celebrano nell’immaginario collettivo. Sono processi alle vittime. Processi alle vittime, che poi si ripetono anche nelle aule di giustizia, quelle rare volte in cui si ha la «fortuna» di arrivarci. E magari ci si è arrivati grazie a un avvocato che ha l’inconsueta capacità di andare oltre il proprio ruolo e di entrare con la sua anima nell’anima del dramma, uno


Cara Valentina e caro Luigi  235

con il coraggio di combattere – perché di questo si tratta. Ed è la sola cosa che apre una flebile speranza. In questi processi la costante è l’ipocrisia di voler affermare a tutti i costi che il primo colpevole di quanto accaduto è la vittima stessa, andando contro ogni evidenza. Senza amore per la verità. Senza rispetto del dolore. Senza vergogna. Raramente lo Stato ha la capacità di essere rigoroso anche con se stesso. E così a volte succede che una vicenda nella quale le responsabilità sono chiare agli occhi della società civile nelle aule di giustizia si trasforma, come accaduto per mio fratello Stefano, in una vicenda di malasanità. L’altra parte della verità, quella scomoda, viene «archiviata», con una sentenza per colpa medica che arriva come una doccia fredda, in un drammatico epilogo già annunciato da un processo che sembra gestito esclusivamente al fine di difendere gli uomini e gli apparati dello Stato. Poco importa se tutti sanno e tutti hanno capito. Poco importa se la realtà è un’altra e se è del tutto diversa. L’importante è mettere in discussione il meno possibile le responsabilità all’interno delle istituzioni, anche a costo di abbandonare i cittadini che in quelle stesse istituzioni hanno continuato a credere ostinatamente, nonostante tutto. La legge non sempre è uguale per tutti. Quando ti tocca in sorte una simile tragedia, devi mettere in conto tante e dolorose conseguenze. E il solo strumento che hai è lottare, con quel briciolo di forza che ti rimane, spesso contro tutto e tutti. È il solo modo per far sì che le persone «comuni» escano dallo stato di assuefazione in cui tutti noi siamo ridotti e si rendano conto che le storie raccontate in questo libro, e le tante altre che quotidianamente si ripetono, riguardano il mancato rispetto dei diritti umani fondamentali. Riguardano il rapporto acutamente deteriorato fra lo Stato e i suoi cittadini. E pertanto devono necessariamente riguardare ciascuno di noi. E ciascuno di noi è tenuto a farsene carico. Cara Valentina, caro Luigi… Grazie! È triste dirlo ma, quasi sempre, le storie vengono alla luce solo grazie alla determinazione dei singoli. Stefano forse ha aperto una strada, ma non eravamo soli… Ilaria Cucchi


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.