Dominique Lapierre Larry Collins Stanotte la libertĂ
Traduzione di Francesco Saba Sardi
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La responsabilità di governare l’India è stata posta, per qualche imperscrutabile disegno della Provvidenza, sulle spalle della razza inglese. Rudyard Kipling, 1889 La perdita dell’India sarà per l’Inghilterra un colpo fatale e definitivo… La ridurrà a essere una nazione insignificante. Winston Churchill, 1931 Molti anni fa, noi abbiamo dato un appuntamento al destino ed è suonata l’ora di tener fede alla nostra promessa… A mezzanotte, quando la gente dormirà, l’India si sveglierà alla vita e alla libertà. Il momento è giunto, un momento che di rado la storia concede, quello in cui un popolo esce dal passato per fare il proprio ingresso nel futuro, in cui un’epoca si conclude e l’anima di una nazione, a lungo soffocata, ritrova la capacità di esprimersi… Jawaharlal Nehru, al Parlamento indiano, un’ora prima dell’indipendenza dell’India la sera del 14 agosto 1948
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Impero britannico delle Indie prima del 15 agosto 1947
Stati dei maharajah India sotto diretta amministrazione inglese
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GOLFO DEL BENGALA
410 milioni di abitanti di cui: 281 milioni di indù 115 milioni di musulmani 7 milioni di cristiani 6 milioni di sikh 150 000 inglesi gli indù sono divisi in 3000 caste e sottocaste, e comprendono circa 70 milioni di intoccabili e di aborigeni
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India direttamente amministrata dagli inglesi: 310 milioni di abitanti - 2/3 del territorio India dei 565 stati principeschi: 100 milioni di abitanti - 1/3 del territorio 15 lingue e 845 dialetti 557 987 villaggi 85% di analfabeti 200 milioni di bovini reddito medio giornaliero: circa 5 centesimi di euro
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Com’è nato Stanotte la libertà
In memoria di Larry Collins L’avventura letteraria che portò me e Larry Collins a scrivere Stanotte la libertà ebbe inizio una sera del 1970. Eravamo a Parigi, a cena dal mio ex editor della rivista Paris Match. Erano stati appena serviti i formaggi, quando Raymond Cartier mi chiese a bruciapelo se io e Larry avevamo già iniziato un nuovo progetto letterario. Avevamo da poco pubblicato Gerusalemme! Gerusalemme!, una mastodontica ricerca sulla nascita dello Stato di Israele, e quei mesi di arduo lavoro ci avevano lasciati senza forze. «Sai benissimo, Raymond, che non sono molti gli argomenti a cui si vorrebbero dedicare quattro anni della propria vita» risposi. «Hai qualche suggerimento?» Cartier aggrottò le sopracciglia e si chinò su di me come se stesse per rivelarmi un segreto. «Mio caro Dominique, quando avevo la tua età mi recai in uno sperduto villaggio nel nord del Bengala per intervistare un vecchio indiano mezzo nudo che aveva messo in ginocchio uno degli imperi più potenti di tutti i tempi. Si chiamava Mohandas Gandhi. Che ne dici se tu e Larry Collins raccontaste la storia di quell’indiano e della caduta dell’Impero britannico in India, un paese la cui popolazione a quel tempo costituiva un quinto della razza umana? Si parla del 1947, poco meno di venticinque anni fa. Molti di quelli che contribuirono a scrivere quell’incredibile pagina di storia dovrebbero essere ancora vivi. Sono certo che riuscirai a trovarli. Dominique, qui ci sono tutti gli ingredienti per una tragedia greca, con eroi del tutto fuori dall’ordinario. Se avessi la tua età, comincerei la ricerca oggi stesso!» 11
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Due settimane dopo, io e Larry eravamo a Londra a pranzo con Lord Mountbatten, l’ultimo protagonista vivente di questa tragedia greca. Che personaggio era Lord Mountbatten! I suoi modi giovanili mi fecero subito scordare che aveva settantadue anni. Alto, slanciato, flessuoso come un gatto, negli occhi un guizzo di curiosità e bricconeria, quest’uomo, che era nato insieme al Novecento e aveva condotto tante vite diverse, non aveva nulla di formale o rigido nel suo modo di porsi. Me lo immaginavo trottare sul suo cavallo nel campo da polo, indossare la magnifica uniforme di Primo Lord dell’Ammiragliato costellata di mostrine, medaglie e scintillanti trecce dorate, sfoggiare il berretto col ricamo a foglie dorate di comandante in capo delle operazioni di guerra in Asia, o ancora con la giubba adorna di stellette e decorazioni di viceré d’India. A Mountbatten la nostra idea piacque molto. Deplorò il fatto che i suoi connazionali avessero mostrato di apprezzare così poco il suo operato nel processo di decolonizzazione, e che non avessero mai mancato di rimproverargli la velocità con cui aveva portato a termine il suo compito, un’accusa che lui considerava ingiusta e immeritata. Infatti, liberando il suo paese da quel nido di vespe che era l’India senza versare una sola goccia di sangue britannico, Mountbatten aveva salvato la Gran Bretagna da una di quelle guerre coloniali in cui la Francia si era praticamente specializzata. Fu ancora più facile aggiudicarci il suo sostegno per il nostro progetto perché risultammo essere gli autori di uno dei suoi libri preferiti. «Ho letto Parigi brucia? almeno quattro volte» ci confessò. «È così che la storia dovrebbe essere sempre raccontata.» Subito dopo pranzo montammo sulla sua Jaguar e andammo a Broadlands, la sua casa nel sud dell’Inghilterra, vicino alla cittadina di Romsey. Mountbatten si era ritirato in questa maestosa villa immersa nel verde di querce centenarie. Sulla sua scrivania troneggiava una pila di lettere, perlopiù provenienti dall’India e dal Pakistan, inviategli da sconosciuti, da amici che gli erano rimasti fedeli e da ex membri della sua servitù a cui da venticinque anni spediva regolarmente una piccola rendita. Duna, il suo labrador nero, e Mistou, il suo gatto, costituivano la sua unica compagnia nella calda atmosfera di quella stanza tutta mobili vittoriani, tappeti vellutati e pesanti tendaggi. A ricordargli la vita piena che aveva condotto, innumerevoli 12
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fotografie racchiuse in cornici d’argento che ritraevano i suoi familiari, i più grandi leader mondiali, immagini di guerra e fotogrammi delle sue missioni e dei suoi viaggi. Su un ritratto di Elisabetta ii c’era l’affettuosa dedica «A mio zio Dickie». Una foto mostrava il fragile Mahatma Gandhi, avvolto nel suo dothi, tra Lord Louis e sua moglie Edwina, quando erano viceré e viceregina d’India. In un’altra, i Mountbatten, novelli sposi, festeggiavano la luna di miele a Hollywood, circondati dagli amici Charlie Chaplin, Mary Pickford e Douglas Fairbanks. Ma la vera attrazione si trovava nella cantina, dove il padrone di casa ci condusse con palese orgoglio. In quel labirinto di tunnel Mountbatten aveva raccolto tutti i documenti ufficiali e i ricordi personali che aveva custodito con cura nel corso della sua vita. Per me e Larry, ansiosi di imbarcarci in quello che sarebbe stato il progetto più ambizioso del nostro sodalizio letterario, fu come trovare un tesoro nascosto. Quel materiale non solo documentava le peripezie della decolonizzazione: era la storia del nostro secolo. Mountbatten aprì un cassetto a caso. Dentro giaceva un plico di lettere ingiallite dal tempo. La prima, scritta a mano, era firmata da Nicola ii, zar di tutte le Russie, che invitava il giovane nipote Louis a passare l’estate del 1914 con i suoi nobili cugini nello yacht di famiglia, ormeggiato a San Pietroburgo. Cinquantotto anni dopo, gli occhi azzurri che avevano fatto battere il cuore di tante donne si illuminarono alla vista di questo relitto. «Allora ero pazzamente innamorato della granduchessa Marija» ci confidò. «Sembrava la donna di un quadro di Gainsborough.» Sotto a quella lettera c’era un messaggio di «Vittoria, regina di Gran Bretagna, d’Irlanda e dei domini, difensore della fede e imperatrice d’India» che annunciava la nascita del suo pronipote, Albert Victor Nicholas di Battenberg.* Era il 25 giugno del 1900. Il Novecento aveva appena compiuto sei mesi. La regina Vittoria regnava sul più grande impero coloniale di tutti i tempi, una maestosa istituzione che, cinquant’anni più tardi, il neonato Louis sarebbe stato chiamato a smantellare. Le teste coronate che si affacciavano alla sua culla erano membri della sua famiglia. Suo diretto antenato era Carlomagno. Tra i suoi zii e cugini annoverava Guglielmo ii di Germania, Alfonso xiii di Spagna, * Il padre di Louis cambiò il cognome Battenberg, di origine tedesca, in Mountbatten all’inizio della Prima guerra mondiale. [N.d.A.]
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Ferdinando i di Romania, Gustavo vi Adolfo di Svezia, Costantino i di Grecia, Haakon vii di Norvegia e Alessandro i di Iugoslavia. Le crisi europee erano un problema di famiglia. Da un altro cassetto Mountbatten riesumò un pacchetto di buste ricoperte da un grafia minuta a matita. «Indovinate di chi sono questi scarabocchi?» ci chiese ridendo. «Di Gandhi! Ogni lunedì il nostro uomo osservava una giornata di silenzio e per comunicare con me usava il retro delle buste della sua posta e un mozzicone di matita. Almeno in quei benedetti lunedì non rischiavo di sentire una di quelle dichiarazioni dell’ultimo minuto che l’imprevedibile Mahatma tirava fuori all’uscita dal mio ufficio.» Tornammo a Broadlands diciannove volte e ognuna delle nostre visite fu un vero piacere. Mountbatten aveva una memoria prodigiosa. Ricordava il colore della rosa che Nehru portava all’occhiello in occasione di quello e quell’altro incontro, o la marca delle sigarette che Mohammad Ali Jinnah, fondatore dello Stato del Pakistan, fumava una dopo l’altra. Ma la nostra maggiore fortuna consisteva nel fatto che ogni ricordo, ogni avvenimento di quelle settimane cruciali che precedettero l’indipendenza dell’India erano stati documentati per iscritto e conservati nelle cartelle meticolosamente ordinate nelle profondità degli armadi di Broadlands. Mountbatten non aveva ricevuto un solo visitatore, fatto alcun passo, presenziato a nessuna dimostrazione o fatto alcuna telefonata senza averne dettato subito un rapporto a una delle innumerevoli segretarie del suo staff. Le descrizioni erano così precise e dettagliate che potevamo ricostruire gli eventi come se fossimo stati presenti anche noi. Come tutti gli amici dell’ex viceré, lo chiamavamo «Lord Louis». Lui ogni tanto ci preparava delle sorprese incredibili. Una volta si scusò per non averci avvertito della presenza di un altro ospite al pranzo con cui ci concedevamo una pausa dal nostro lavoro. Ci ritrovammo a tavola con il principe Carlo. Capimmo dal modo in cui il nostro prozio lodava la nostra ricerca che gli avevamo regalato uno dei suoi ultimi piaceri, quello di rivivere minuto per minuto, nel dettaglio, i sei mesi che l’avevano portato all’apice della sua carriera. Il suo sostegno al nostro lavoro superò ogni più rosea aspettativa. Un giorno ci affidò dei documenti che erano stati tenuti segreti per venticinque anni e che – se rivelati – avrebbero potuto minare gravemente i rapporti tra la Gran Bretagna e i suoi ex domini. Arrivò per14
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sino a scomodare sua nipote, Sua Maestà la Regina, per convincerla ad accordarci un permesso speciale alla consultazione di documenti sottoposti per cinquant’anni a segreto di Stato, che lui riteneva fondamentali per il nostro lavoro. L’interesse e il puntiglio di Lord Mountbatten per ogni minuto dettaglio della nostra ricerca ci affascinava. A Nuova Delhi avevo trovato la sontuosa carrozza che il 15 agosto del 1947 aveva portato Mountbatten, sua moglie Edwina e il Primo ministro Nehru attraverso la capitale in festa. Mi ero appuntato il nome del fabbricatore del veicolo, inciso su una delle lampade. Sei mesi più tardi, dopo aver letto la scena in cui si descriveva la carozza, Mountbatten ci segnalò che il nome del fabbricatore era sbagliato. Ricordava che fosse Parker, non Barker. Controllai i miei appunti: aveva ragione. Sì, io avevo scritto Parker, ma durante la trascrizione la nostra segretaria aveva confuso le lettere. Spesso il suo senso dell’umorismo condiva le nostre fredde e accademiche ricostruzioni con aneddoti comici o, a volte, toccanti. La notte in cui fu proclamata l’indipendenza dell’India, ci raccontò, si ritirò nella solitudine del suo ufficio. «Sono ancora uno degli uomini più potenti della terra» pensò. «Per qualche minuto ancora, da questo ufficio dominerò un quinto della razza umana.» Gli venne in mente all’improvviso un racconto di H.G. Wells, L’uomo che faceva i miracoli. Era la storia di un inglese che, per un giorno, veniva investito del potere di fare tutto ciò che desiderava. «Ci siamo, sono i miei ultimi minuti come vicerè d’India» si era detto Mountbatten. «Devo fare qualcosa di eccezionale. Ma cosa?» Ecco che gli venne l’ispirazione: «Promuoverò la moglie del Nawab di Palampur al rango di Altezza». Mountbatten era un vecchio amico del nababbo di Palampur, uno staterello al centro dell’India. Nel 1945, durante un soggiorno con il principe, Lord Louis aveva ricevuto una richiesta molto particolare da parte di un residente diplomatico britannico accreditato dal suo ospite. Il nababbo aveva sposato un’australiana a cui il precedente viceré si era rifiutato di concedere il titolo di Altezza poiché non era di sangue indiano. Ma la donna si era convertita all’Islam e godeva di grande popolarità tra la sua gente. Al nababbo si era spezzato il cuore. Tuttavia, l’intervento di Mountbatten non era servito a nulla: Londra si opponeva con tutte le forze ai matrimoni tra principi indiani e donne straniere. Così la notte dell’indipendenza, approfit15
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tando degli ultimi istanti di autorità suprema, Lord Louis aveva elevato il rango della moglie australiana del nababbo di Palampur ad «Altezza». Trent’anni dopo, mentre firmavo autografi dopo un intervento che avevo tenuto a Ginevra, vidi una donna venire verso di me. Era vestita in modo semplice e dimesso, il suo viso segnato dalle rughe era privo di trucco, e i suoi capelli grigi erano coperti da uno scialle. Posò sul tavolo una copia di Stanotte la libertà, piena di orecchie, e mi chiese timidamente di firmarlo. «A chi lo dedico?» chiesi. Lei esitò un attimo, poi aggiunse, con un velo di nostalgia negli occhi: «Alla Begum di Palampur». Dopo l’Indipendenza lei e il marito avevano lasciato l’India per stabilirsi in Europa. Il nababbo era morto in condizioni di relativa instabilità economica. La donna che Mountbatten aveva reso Sua Altezza adesso dava lezioni di inglese ai ricchi arabi che vivevano sul lago di Ginevra. Non mancavamo mai di discutere con Lord Louis le scoperte spesso inaspettate della nostra ricerca. Un giorno gli mostrammo il rapporto del nostro incontro con il medico indiano che, nel 1947, aveva avuto in cura il fondatore del Pakistan, Mohammad Ali Jinnah. Leggendolo, Mounbatten sbiancò. «Non ci posso credere» disse con voce strozzata. «Mio Dio.» Quando sollevò lo sguardo, i suoi occhi azzurri, di solito così calmi, riverberavano di un forte turbamento. Agitò in aria i nostri documenti: «Se solo avessi saputo queste cose a quel tempo, la storia avrebbe preso una piega diversa. Avrei dilazionato di vari mesi la concessione dell’indipendenza. Non ci sarebbe stata la spartizione. Il Pakistan non sarebbe esistito. L’India sarebbe rimasta unita. Si sarebbero evitate tre guerre…». Lord Louis era stupefatto. Il documento descriveva nei dettagli una radiografia al torace di Jinnah che avevamo ritrovato insieme al suo medico e confermava la diagnosi di tubercolosi in stadio avanzato. Nella primavera del 1947 Mohammad Ali Jinnah, l’inflessibile leader islamico che aveva mandato all’aria tutti gli sforzi fatti da Mountbatten per preservare l’unità dell’India, sapeva già che gli restavano solo pochi mesi di vita. 16
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Lo studio dell’archivio del protagonista britannico al centro della nostra ricerca ci tenne occupati per un anno. Prima di partire per l’India e il Pakistan, volevamo incontrare alcuni degli ex governanti e militari del prodigioso impero su cui Lord Louis aveva regnato. Mountbatten scandagliò la sua rubrica alla ricerca dei sopravvissuti del sogno imperiale e ci consigliò di pubblicare un annuncio sul Times, invitando i vecchi servitori dell’Impero in possesso di esperienze eccezionali a contattarci. L’idea si rivelò produttiva. Attraversammo l’Inghilterra in lungo e in largo, dal Suffolk al Surrey, dalla Cornovaglia alla Scozia, dal Kent al Galles, per incontrare gli ex membri dell’Impero britannico in India. * Un giorno suonai alla porta del cottage nel Kent dove viveva il colonnello nominato da Mountbatten per stare al seguito di Mohammad Ali Jinnah, fondatore del Pakistan, e dirigere il suo gabinetto militare nel periodo immediatamente successivo all’Indipendenza. Si chiamava William Birnie. Alto, in forma, il viso rubicondo di chi ha una passione per il gin e il whisky, Birnie aveva passato diversi mesi a stretto contatto con il leader islamico. Era una fonte di informazioni praticamente unica su uno dei principali autori del grande imbroglio indiano. Birnie si era portato dal suo magico soggiorno in India una serie di souvenir, tra cui una pelle di tigre che adornava l’ingresso del salotto. Davanti a quella feroce creatura mi fermai, sottomesso. Divertito dalla mia reazione, il colonnello si tolse la giacca, il maglione e la camicia e in un batter d’occhio rimase a torso nudo. Una profonda cicatrice gli correva sul petto, dalla spalla fino alla cintola. Birnie indicò la testa della tigre e posò l’altra mano sul torace. «Sì, è proprio lei!» Una notte, quando era ancora un giovane tenente impegnato nelle operazioni nelle Central Provinces, aveva avuto la felice idea di uccidere una delle numerose tigri che si aggiravano per il campo. Aveva legato una capra ai piedi di un banano e si era acquattato ad aspettare nella boscaglia, con una torcia saldata alla canna della pistola. Dopo qualche minuto aveva sentito i rami spezzarsi e un belato disperato. 17
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«Accesi la torcia» raccontò. «Una magnifica tigre era balzata sulla povera capra. Feci fuoco immediatamente, ma nella semioscurità non riuscii ad abbattere l’animale. Invece di svignarsela, quella maledetta mi saltò addosso senza neanche darmi il tempo di sparare di nuovo. Riuscii giusto a ruotare la pistola e puntarle il calcio in gola. Fu una lotta terribile, tutta in pochi centimetri. Mi scorticò con i suoi artigli e vidi i suoi denti pronti a divorarmi. Ma la pistola nella sua bocca alla fine la convinse ad andarsene. Interruppe il combattimento e sparì nell’oscurità. Io mi affrettai ad arrampicarmi su un albero. Non era affatto comodo.» «Doveva sentirsi sollevato, lì sano e salvo su quel ramo» suggerii. «Per niente!» protestò con vigore l’inglese. «Ero furioso! Quella maledetta se l’era squagliata con la mia pistola! Una Holland & Holland nuova di zecca che avevo comprato giusto il giorno prima per la cifra astronomica di cinquanta sterline!» L’indomani il tenente e i suoi compagni partirono a dorso d’elefante alla ricerca della tigre. La trovarono due giorni dopo. Birnie la finì con un solo proiettile, ma non rivide più la sua splendida pistola nuova. * In un modesto cottage nella campagna del Sussex incontrai Sir Frederick Burrows, l’ultimo Governatore britannico del Bengala. Nulla nell’aspetto di questo presidente del sindacato in pensione faceva supporre che dal 1945 al 1947 fosse stato il sovrano di un’area più popolosa dell’Inghilterra e dell’Irlanda messe assieme. Con i suoi sessantacinque milioni di abitanti, il Bengala si estendeva per circa mille chilometri, dalle giungle ai piedi dell’Himalaya alla foce del Gange e al Brahmaputra. Calcutta, capitale della provincia, era la città britannica più popolata dopo Londra. Raj Bavhan, la residenza del governatore, era un magnifico palazzo di 137 stanze in un parco di dodicimila metri quadri. Lì si erano tenute feste sfarzose in cui Sir Frederick si sedeva su un trono d’oro e velluto viola, circondato da uno stuolo di aiutanti in campo e ufficiali in uniforme. L’ex governatore, che una volta aveva a disposizione uno staff di 500 domestici in livrea, adesso doveva accontentarsi di una donna delle pulizie. 18
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Sfogliò davanti ai miei occhi increduli il suo album di fotografie, attestato degli ultimi anni di dominio britannico. Non fece nulla per nascondermi la sua nostalgia e la sua amarezza. L’Inghilterra aveva dato la libertà al popolo su cui aveva dominato, ma quando aveva lasciato il paese non era riuscita a impedire a quella stessa gente di uccidersi a vicenda. Mi fece il triste resoconto della fine del suo governo. Mentre lui e Lady Burrows stavano assicurando il loro bagaglio in un’ala del palazzo, centinaia di dimostranti scatenati avevano invaso il resto dell’edificio, saccheggiando l’argenteria e il vasellame, strappando le tende, e avevano danzato di gioia nei salotti, per le scale, sui pianerottoli. L’ultima immagine della loro camera da letto è rimasta scolpita nella loro memoria. Decine di ometti scuri che non avevano mai dormito se non nella nuda terra ora saltavano sul materasso come fossero a una fiera. Le guardie avevano dovuto aprire un varco in mezzo alla folla per far raggiungere a Sir e Lady Burrows la motovedetta che li aspettava. La confusione di quella loro ritirata aveva impedito ogni forma di commiato. Gli ultimi rappresentanti dell’Impero della regina Vittoria erano praticamente dovuti fuggire da Calcutta. Sir Frederick mi aveva gentilmente offerto il pranzo per prenderci una pausa dal nostro lavoro. L’uomo che aveva avuto 500 domestici adesso provvedeva lui stesso a portare i piatti in tavola. Dopo mangiato si alzò e, indicando le stoviglie, mi chiese: «Signor Lapierre, le dispiacerebbe se continuassimo la nostra conversazione in cucina mentre lavo i piatti?». * Il tenente colonnello John Platt era stato l’ultimo ufficiale britannico a lasciare il suolo indiano. Salendo a bordo delle motovedette ancorate alla Porta delle Indie a Bombay quella mattina del 28 febbraio 1948, Platt e i suoi uomini avevano messo la parola fine all’avventura imperiale britannica. Venticinque anni dopo, Platt, ormai diventato generale, mi invitò a pranzo nello stupefacente Army and Navy Club di Londra per raccontarmi di quella storica partenza. Ai tempi Platt comandava il battaglione del Somerset Light Infantry, reggimento in cui già suo padre e suo nonno si erano distinti, stanziato sulle frontiere dell’Impero indiano dal 1842. Sullo stemma del reggimento spiccavano una tromba e una corona sormontata dalla 19
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scritta jalalabad, teatro di una sanguinosa vittoria sulle tribù afgane nell’Ottocento. L’addio si era svolto in un’atmosfera di festa. Platt e i suoi uomini passavano da un ricevimento all’altro, l’ultimo dei quali fu organizzato dalla nuova gestione autoctona del Royal Bombay Yacht Club, luogo in cui fino al giorno dell’Indipendenza a nessun indiano era consentito mettere piede, nemmeno a un maharajah. Al momento del commiato, i rappresentanti dell’esercito indiano consegnarono al nostro ufficiale britannico la nuova bandiera dello Stato, con l’immagine dell’arcolaio di Gandhi, e un modellino in argento della Porta delle Indie, il primo monumento che i giovani britannici scorgevano al loro arrivo in India dopo il lungo viaggio dalle loro isole lontane. Platt ebbe in dono anche una fotografia. L’immagine rappresentava un tributo al cameratismo che aveva sempre caratterizzato i rapporti tra gli indiani e i loro ex colonizzatori: ritraeva infatti un soldato indiano nell’atto di ricevere la Croce della regina Vittoria da parte di un generale inglese a Montecassino, durante la Seconda guerra mondiale. Dal canto suo, Platt offrì loro una riproduzione della Union Jack in seta cinese, ed espresse il desiderio che venisse appesa nella sala d’onore della nuova guarnigione autoctona di Bombay. Il giorno dopo gli uomini del Somerset Light Infantry, in bermuda color kaki e mollettiere bianche, marciarono lungo il vasto piazzale della Porta delle Indie, dove decine di migliaia di cittadini di Bombay erano accorsi da ogni parte, persino dagli slums e dalle periferie. Battaglioni di soldati sikh e gurkha resero il loro omaggio mentre la banda navale indiana eseguiva God Save the King. Fu una partenza gloriosa. «Quando io e i miei uomini arrivammo sotto l’arco della Porta, sentimmo la folla nella piazza e sul molo intonare una canzone» continuò. «Il canto si fece subito più forte, esplose da migliaia di petti. Era Auld Lang Syne.* Nella folla c’erano vecchi militanti del Partito del Congresso, con i loro cappelli bianchi. Molti di loro probabilmente recavano ancora in testa i segni delle manganellate sferrate dai nostri poliziotti! C’erano donne in sari, studenti in uniforme, vagabondi avvolti negli stracci. Persino i soldati della Guardia d’onore si unirono al coro. Glielo assicuro, fu…» Vidi gli occhi del generale brillare nella penombra. Non riuscì a finire la frase e bevve il caffè in silenzio. Immaginai l’emozione di *
Il famoso Valzer delle candele. [N.d.T.]
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quella scena finale. Potevo sentire il coro spontaneo che riecheggiava sul piazzale, e la commovente promessa che ci sarebbe stata un’occasione futura per «rivedersi».* Lì, di fronte alla Porta delle Indie, finiva un’era. Cominciava quella della decolonizzazione, portata da quell’uomo vecchio e fragile di cui Mountbatten ci aveva parlato in termini tanto elogiativi. Un giorno del gennaio del 1915 Gandhi, il futuro liberatore, al ritorno dal Sudafrica era passato sotto quella stessa porta. Sottobraccio aveva l’Hind Swaraj, il suo manifesto, che sarebbe diventato la bibbia della sua lotta per l’indipendenza. Dopo la partenza di Platt e dei suoi uomini, in molti porti, nelle colonie di tutto il mondo, si sarebbero celebrate cerimonie simili a quella che si tenne il 28 febbraio 1948 a Bombay. Ma nessuna sarebbe stata caratterizzata dal sentimento generale descritto da Platt. Le motovedette portarono il Somerset Light Infantry alla nave di trasporto truppe, la Empress of Australia, ormeggiata al largo. Nel bagaglio dell’ufficiale comandante erano stipate le pelli delle quattro tigri che aveva ucciso nella giungla. Sopraffatto dalla nostalgia, come tutti gli altri passeggeri, l’inglese uscì sul ponte per rivolgere un ultimo sguardo alla radiosa e magnifica metropoli di Bombay, adagiata all’orizzonte. Una mano sulla sua spalla lo riscosse dalla malinconia. Era arrivato un telegramma: arrivederci, buona fortuna e buona caccia. L’augurio proveniva dal Club della caccia di Bombay. Era l’ultimo saluto dell’India ai suoi ex colonizzatori. * Un giorno, in un ex monastero annesso ai resti di una chiesa gotica del Warwickshire, poco lontano da Birmingham, incontrammo l’uomo che aveva sovrinteso alla spartizione dell’India. Armato di cesoie, era intento a potare il magnifico roseto della sua villa. Di media costituzione, con labbra sottili, radi capelli grigi disposti in un perfetto riporto sulle tempie e occhialetti rotondi di metallo sul naso affilato, Sir Cyril Radcliffe era circondato da un’aura di freddezza e riservatezza che certo non incoraggiava le confidenze. Era stato l’unico, fra tutti i veterani dell’epopea indiana, a mostrare una certa riluttanza nel rice*
L’autore fa riferimento a una canzone del 1939 di Vera Lynn, We’ll Meet Again («Ci rivedremo»), molto popolare durante la Seconda guerra mondiale. [N.d.T.] 21
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verci. Sir Cyril non era propriamente un veterano dell’avventura imperiale. Il suo rapporto con l’India era stato anzi l’opposto di un’epopea. Venticinque anni prima, quelle mani dedite a pareggiare con tanta delicatezza una scintillante rosa Dorothy Perkins avevano ritagliato la mappa del subcontinente indiano con un paio di forbici. Con la precisione di un bisturi, quel processo di vivisezione aveva creato due stati separati, l’India e il Pakistan, condizionando la vita di quasi cento milioni di persone. L’uomo a cui era toccato quel terribile compito non sapeva nulla dell’India. Non ci aveva mai messo piede. Paradossalmente, fu proprio a causa di quell’ignoranza che, un giorno di giugno del 1947, l’illustre avvocato quarantacinquenne era stato strappato al Gabinetto di Londra. «Fui convocato dal Gran Cancelliere» ricordava. «Mi spiegò che il piano per la spartizione dell’India non aveva risolto la questione cruciale della divisione del Punjab e del Bengala. Jinnah e Nehru si erano resi conto che non avrebbero mai raggiunto un accordo sulla disposizione delle nuove frontiere e avevano deciso di affidare tale responabilità a un’apposita commissione indopakistana. A presiederla doveva essere, secondo il loro desiderio, un avvocato inglese che non era mai stato in India. Questa figura avrebbe garantito l’imparzialità delle operazioni. Il Gran Cancelliere pensò che io facessi al caso loro.» «Era un grande onore» sottolineò Larry. Sir Cyril si irrigidì. «Dividere quelle due enormi province era l’ultimo dei compiti a cui avrei desiderato essere chiamato. Sarò anche stato impreparato sull’India, ma avevo sufficiente esperienza per capire che quello sarebbe stato un incarico ingrato. «Il fatto che in un momento critico della loro storia comune due nemici giurati come Jinnah e Nehru avessero scelto un inglese era un tributo alla Gran Bretagna» lo incoraggiai. «Come avrebbe potuto rifiutare?» Per tutta risposta, Sir Cyril tirò un sospiro. Ci raccontò che, un’ora dopo il suo incontro con il Gran Cancelliere, era arrivato un alto funzionario dell’Indian Office, aveva steso una mappa di fronte a lui e gli aveva spiegato quali erano le province da separare. «Avevo una vaga idea che si trovassero a nord del paese, una a est e una a ovest. Guardai il dito del funzionario percorrere il fiume Indo, 22
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sfiorare la barriera dell’Himalaya, scendere a Nuova Delhi, riarrampicarsi verso il Gange, descrivere la riva del Golfo del Bengala. La dimensione delle regioni che dovevo dividere mi diede le vertigini.» Qualche giorno dopo quell’incontro, Sir Cyril era approdato nel caldo soffocante di Nuova Delhi. Mountbatten gli aveva messo a disposizione un bungalow nella sua tenuta. Trincerato dietro le persiane, si ritrovò a tracciare su una mappa dei Royal Engineers le linee di confine che avrebbero separato due enormi popoli. Privato di ogni forma di contatto con i luoghi o le genti che stava dissezionando, non era in grado di prevedere l’impatto della sua operazione chirurgica in aree così brulicanti di vita. «Sapevo che l’acqua è il simbolo della vita in tutto il mondo; che chi controlla l’acqua, controlla la vita» ci disse. «Ed ecco che mi ritrovavo a disegnare condotti d’irrigazione, sistemi di canali, chiuse e laghi artificiali su una mappa. Mutilai campi di grano e di riso senza neanche averli mai visti. Non avevo potuto visitare neanche uno dei villaggi che sarebbero stati attraversati dalle mie frontiere, né farmi un’idea della tragedia che si sarebbe abbattuta sui poveri contadini che si vedevano improvvisamente privati dei terreni, dei pozzi, delle strade. Gli strumenti a mia disposizione erano del tutto inadeguati. Non avevo mappe a scala sufficientemente larga, e i dati indicati su quelle che possedevo spesso si rivelavano errati. Per esempio, i cinque fiumi del Punjab tendevano a scorrere a varie miglia di distanza rispetto al letto ufficialmente designato dal dipartimento delle rilevazioni topografiche. Le statistiche demografiche, che dovevano essere il mio principale punto di riferimento, erano imprecise. Erano state alterate dai due avversari per avallare le loro richieste. C’era un che di surreale nell’ascoltare queste parole standosene nella tranquillità di quella villa inglese. Guardavo quell’uomo onesto e rispettabile e mi era difficile immaginare che fosse stato l’artefice involontario di una simile tragedia. «Tra il Bengala e il Punjab, quale provincia le diede meno problemi?» domandò Larry, ansioso di trovare qualche ricordo positivo in quella storia a tinte fosche. «Il Bengala, senza dubbio. Ebbi qualche esitazione solo su Calcutta. Jinnah aveva avanzato delle pretese sulla città, cosa che, da un punto di vista economico, mi sembrava giustificata. Ma, a conti fatti, la maggioranza indù mi sembrò un fattore più importante. Una volta 23
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stabilito questo principio, il resto fu relativamente facile. Il mio confine non era che una linea tracciata a matita su un pezzo di carta. Nell’ammasso di paludi e pianure mezze allagate del Bengala non c’era alcun elemento che potesse servire da confine naturale. «E il Punjab?» Solo a sentirlo nominare le sopracciglia di Sir Cyril si aggrottarono. Si deterse la fronte con un fazzoletto. «La zona era un mosaico di diverse comunità religiose che si sovrapponevano e sconfinavano l’una nell’altra. Individuare un confine che rispettasse l’integrità di tali gruppi era impossibile. Dovetti amputare.» Sir Cyril ricordava il caldo torrido di quelle settimane estive e l’umidità, crudele e snervante. Le tre stanze del suo bungalow erano tappezzate di mappe, documenti e relazioni stampati su centinaia di sottili fogli di carta di riso. Quando lavorava in maniche corte, i fogli gli si attaccavano alle braccia sudate lasciando strane stigmate sulla pelle: l’impronta di un luogo che forse rappresentava le speranze di centinaia di migliaia di esseri umani. Un ventilatore sul soffitto agitava l’aria surriscaldata. I fogli svolazzavano per la stanza in una tempesta simbolica, presagio del triste destino che aspettava i villaggi del Punjab. «Sapevo sin dall’inizio che alla pubblicazione del mio piano per la spartizione sarebbe seguito un bagno di sangue» ammise Sir Cyrl, malinconico. * Un giorno d’estate del 1979, vedendo Lord Mountbatten scendere dalla macchina davanti alla scalinata di Broadlands, mi venne in mente l’immagine usata da Charles de Gaulle nelle ultime pagine delle sue Memorie. Il «naufragio della vecchiaia» sarebbe mai toccato a questo gigante? Aveva appena compiuto settantanove anni. Bardato nella sua uniforme di colonnello delle guardie della regina, alle gambe gli stivali e le fibbie strette sulla giubba, il petto ricoperto di decorazioni, il portamento altero, il passo trionfante, era identico alla foto in cui, trentadue anni prima, viceré, incedeva verso il trono delle Indie. Nel corso della conversazione toccammo qualche volta il tema della morte. Mountbatten era affascinato, in particolare, dall’assas24
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sinio di Gandhi: con la sua tragica fine, il leader indiano aveva ottenuto ciò che non era riuscito a fare in vita: riconciliare le comunità del suo paese. Secondo Lord Louis, questa conquista aveva impregnato la sua morte di un significato e una dimensione che il destino raramente concede. Anche se non lo disse apertamente, ci fece capire che sperava di trovare una fine ugualmente vittoriosa. Come tutte le estati, Mountbatten aveva in programma di passare le vacanze con la famiglia nel suo castello in Irlanda. Era stato fedele per trentacinque anni a questo angolo dell’isola che gli era tanto caro: il villaggio di Mullaghmore sulla costa di Sugo. Era lì, circondato dagli affetti, che si sentiva al sicuro. Alla vigilia della partenza, Larry lo aveva sentito per telefono. «Lord Louis, stia attento. Lei è un bersaglio appetitoso per l’Ira.» «Mio caro Larry» tagliò corto Mountbatten «il suo monito dimostra solo quanto poco sa della situazione. Gli irlandesi conoscono bene la mia posizione sull’argomento. Non sono in pericolo.» Quasi ogni giorno l’ex vicerè portava i suoi amici a pesca sulla Shadow v, un massiccio peschereccio a motore. Il pomeriggio del 27 agosto c’erano sei persone a bordo. Lord Louis era al timone, insieme a sua figlia Pamela e al marito di lei John Brabourne, ai loro gemelli quattordicenni Nicholas e Timothy, alla nonna, Lady Brabourne, e a un marinaio irlandese. Qualche minuto dopo che l’imbarcazione aveva lasciato il porto nell’allegria dei saluti, gli abitanti di Mullaghmore sentirono un’esplosione. La barca era saltata in aria. I pescherecci andarono subito in soccorso, recuperando i corpi orribilmente mutilati di Lord Mountbatten, del nipote Nicholas e del giovane marinaio. Gli altri furono portati in ospedale in gravi condizioni. La stampa britannica diede voce alla rabbia e allo schock di tutta la nazione, descrivendo i terroristi irlandesi come «assassini sanguinari». In onore del suo primo capo di Stato, l’India abbassò la bandiera a mezz’asta e decretò nove giorni di lutto nazionale, mentre la Gran Bretagna concesse all’artefice della decolonizzazione i funerali di Stato a Westminster. A differenza della moglie Edwina, che aveva chiesto di essere sepolta in mare, Lord Louis fu seppellito vicino a Broadlands. Diciotto anni dopo, era l’inizio del 1997, Thomas McMahon, il terrorista che aveva piazzato l’ordigno a bordo della Shadow v, fu rimesso in libertà, malgrado stesse scontando l’ergastolo. 25
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Purtroppo l’omicidio di Lord Mountbatten non sortì lo stesso effetto benefico di quello di Gandhi. Lord Louis esprimeva spesso la sua perplessità sulla facilità con cui gli occidentali condannavano gli sporadici episodi di violenza nelle comunità indù e musulmane, quando «nell’Irlanda del Nord persone della stessa origine e dello stesso credo combattono tra loro da così tanto tempo». * Tre secoli e settantatré anni dopo che William Hawkins, capitano del galeone Hector, era sbarcato sul suolo indiano per dare inizio all’avventura coloniale britannica, la squadra francoamericana di Lapierre e Collins arrivava a Nuova Delhi per studiare come quell’avventura era giunta alla sua conclusione. Larry aveva portato anche moglie e figli. Un amico ci aveva procurato due case adiacenti nel nuovo quartiere sorto all’estremità di Shanti Path, il maestoso viale che attraversava l’enclave delle ambasciate. Schierati all’entrata di casa come una guardia d’onore, mi attendevano i sei domestici assunti per stare al mio servizio. Il loro numero mi sbalordì. Ancora non sapevo che in India ogni compito dev’essere svolto da una casta specifica. Il mio staff comprendeva un portatore ovvero un maggiordomo, un cuoco, un dhobi addetto al bucato, uno «spazzino» per le pulizie, un mali per la cura del giardino e infine un chowkidar come custode. Il costo di una servitù così numerosa mi preoccupò, ma fui subito tranquillizzato. Sommati, i sei stipendi non arrivavano a tremilacinquecento rupie al mese. Le mie domande sui contributi assicurativi suscitarono stupore. L’India socialista non prevedeva nulla di tutto ciò. In compenso, avevo due obblighi: procurare tè e zucchero ed equipaggiare i miei domestici con uniformi ufficiali. Il portatore mi indicò un uomo con la testa rasata che troneggiava su una macchina da cucire sul marcipiede. Era il sarto, pronto a confezionare le divise seduta stante. Il portatore sembrava ben informato. «Signore, sono cattolico e mi chiamo Dominic» annunciò. Nonostante le differenze di credo e nascita, i domestici vivevano in armonia nelle due stanze per la servitù sul retro della casa. Qualche giorno dopo scoprii tuttavia che stavo ospitando un villaggio di una cinquantina di persone. Per quanto la capitale dell’India fosse cosmopolita, l’arrivo di due sahib, una memsahib e la loro prole costituiva un evento. Mi resi conto 26
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ben presto che una delle caratteristiche della vita in India è la totale assenza di privacy. Avevamo appena posato le valigie che suonarono al campanello di tutte e due le porte di casa. La prima visita era del lattaio, accompagnato dalla sua mandria di bufale, che ci offriva il latte «munto davanti ai nostri occhi». Poi si presentarono un ammaestratore di orsi, uno di scimmie e un incantatore di cobra con le sue manguste. Tutti insistettero per esibirsi davanti ai figli di Larry in adorazione. Seguì una serie ininterrotta di visite da parte di venditori porta a porta che proponevano tappeti, tessuti, sari, ceste, manufatti di legno, pietra, vetro, cartapesta. Insomma, gli innumerevoli prodotti dell’artigianato indiano. Poi ancora allevatori di cani, uccelli e pesci rossi. Per non parlare del pulitore di orecchie, svariati parrucchieri, un mago, un astrologo, un chiromante, un gruppo di musicisti e monaci cantanti vestiti di marrone, con la fronte dipinta di polveri multicolori. A coronamento di questo flusso inesauribile, arrivò uno splendido elefante, cavalcato da un mahout inturbantato, intenzionato a portare questi maharajah d’Occidente a fare un giretto per il quartiere. * Nuova Delhi divenne la base delle nostre ricerche. Un giorno una telefonata mi informò che l’amatissima e unica figlia di Pandit Nehru, il primo Premier indiano, aveva accettato di ripercorrere con noi quelle gloriose ma tragiche ore dell’estate del 1947. Venticinque anni dopo che suo padre aveva preso il controllo della nuova India indipendente, il destino aveva fatto ricadere sulle fragili spalle di Indira Gandhi un terribile fardello, quello di amministrare lo Stato democratico più popoloso del mondo. Dal suo monumentale ufficio sulla Raj Path, la via imperiale aperta dagli inglesi nel cuore della capitale, questa cinquantaseienne governava da sola su settecento milioni di persone, quasi un quinto della popolazione mondiale. Ogni mattina, prima di attendere ai suoi onerosi doveri, Indira Gandhi riceveva nel giardino adorno di rose e buganvillee della sua casa in Safdarjung Road i cittadini comuni del suo paese, che venivano da tutta l’India per ottenere dalla loro sacerdotessa un darshan: la comunione visiva con colei che incarnava l’autorità. Fu lì che ricevette anche me. Arrivai in anticipo, e osservai sbalordito questa pallida donna correre, nel suo sari svolazzante, da un gruppo all’altro: prima i con27
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tadini scurissimi – quasi neri – dell’estremo Sud, poi una delegazione di ferrovieri del Bengala nei loro candidissimi dothi di cotone, e ancora una classe di scolarette dalle lunghe trecce, per finire con un gruppo di «spazzini» intoccabili venuti fin qui a piedi nudi dalla lontana provincia del Bihar. La «Madre della nazione» aveva una parola per ognuno di loro. Leggeva le petizioni, rispondeva con una promessa e passava leggiadra al rito delle foto-souvenir. Così facendo la gente – il vero tessuto dell’India – aveva accesso, per l’istante di un sogno, alla fonte del potere, proprio come ai tempi degli imperatori Moghul. Indira fu catturata dalla mia curiosità. Quell’intervista fu la prima di tante altre. Si svolgevano sempre nel salotto che dava sul giardino. Lì c’era un solo ornamento: un grande ritratto di Jawaharlal Nehru col suo sorriso accattivante, una rosa all’occhiello e il cappello bianco del partito dei militanti del Congresso. Cercai invano una somiglianza tra padre e figlia, ma evidentemente doveva trattarsi di qualcosa di più spirituale. Guardai le sue mani affusolate e pensai alle lettere appassionate che aveva scritto a Nehru durante la sua prigionia. Da Oxford, dove era andata a studiare, arrivavano queste righe: «Padre, vi amo, bacio le vostre mani, soffro con voi, lotto con voi. Vi ammiro infinitamente». Dopo la laurea era tornata dal suo eroe e non l’aveva più lasciato. Si erano imbarcati insieme nelle ultime battaglie contro il potere coloniale britannico, viaggiando infaticabili per tutto il paese, arringando le folle nelle regioni contadine e nei quartieri poveri, sotto il sole bollente o nelle tempeste del monsone. Le persone accorrevano dovunque andassero, anche se molti non riuscivano a capire ciò che veniva detto. Ma non importava. Quello che contava era scorgere il cappello bianco di Jawaharlal in mezzo alla folla. Indira aveva ventun anni quando si unì ai ranghi del Congresso, l’onnipotente partito dell’indipendenza di cui Nehru era diventato presidente, e celebrò in carcere questo traguardo politico, accusata di atti di sovversione. La sua detenzione non fece che rinforzare il legame con il padre. Nell’agosto del 1947 l’India si liberò dalle sue catene. Nehru aveva cinquantasette anni, Indira trenta. Era un giorno di trionfo per padre e figlia, uniti più che mai nella lotta che avrebbe portato a un’India libera dalle superstizioni e dai fardelli, un’India moderna dove avrebbero prevalso la giustizia e la fratellanza. Nehru aveva da poco perso la moglie per un cancro. Indira andò a vivere con suo padre nella 28
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residenza coloniale di York Road, da cui lui governava un paese che minacciava di disintegrarsi. Oltre ai massacri nel Nord dell’India, dove scorrevano fiumi di sangue, il Kashmir, patria dei loro antenati, rischiava di cadere nelle mani della tribù patana. I maharajah minacciavano di ripristinare il dominio sui loro regni. Indira restò a fianco del padre, prendendosi cura di lui e consigliandolo. Indira Gandhi mi descrisse quelle ore tragiche e indimenticabili con straordinaria precisione. «Era la sera del 14 agosto e mio padre e io ci eravamo appena seduti a tavola quando squillò il telefono nell’altra stanza. Fu solo poche ore prima che lui proclamasse alla radio l’indipendenza dell’India. La linea era così disturbata che lo sentivo gridare di ripetere quello che gli stavano dicendo. Tornò a tavola sconvolto. Non riusciva a parlare. Seppellì la faccia tra le mani e rimase a lungo in silenzio. Quando sollevò il viso, i suoi occhi erano pieni di lacrime. Mi disse che la telefonata arrivava da Lahore, città passata al Pakistan dopo la spartizione. Il nuovo governo aveva tagliato l’acqua ai sikh e agli indù. Era un’estate torrida, la gente soffriva terribilmente la sete. Le donne e i bambini che avevano provato a elemosinare una ciotola d’acqua erano stati massacrati dai musulmani. Intere strade erano già state divorate dal fuoco. Mio padre era devastato. Lo sentivo domandarsi con un filo di voce: “Come potrò parlare al paese stasera? Come farò a esultare per l’Indipendenza quando Lahore, la nostra meravigliosa Lahore, sta bruciando?”.» Indira mi riferì i suoi tentativi di tranquillizzare il suo amatissimo padre. Lo aiutò a scrivere il discorso; sapeva che avrebbe parlato con il cuore in mano. «Ma quella telefonata aveva rovinato per sempre quel momento di trionfo. Anche se le parole giungevano spontanee alle sue labbra, non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di Lahore in fiamme.» Eppure pochi discorsi nella storia possono vantare la grandezza e la nobiltà di quello pronunciato da Nehru quella notte. Proprio come milioni di indiani in tutto il mondo, io lo ricorderò fino alla fine dei miei giorni. Molti anni fa, noi abbiamo dato un appuntamento al destino ed è suonata l’ora di tener fede alla nostra promessa. A mezzanotte, quando la gente dormirà, l’India si sveglierà alla vita e alla libertà. Il momento è giunto, un momento che di rado la storia concede, 29
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quello in cui un popolo esce dal passato per fare il proprio ingresso nel futuro, in cui un’epoca si conclude e l’anima di una nazione, a lungo soffocata, ritrova la capacità di esprimersi. […] Non è questa l’ora delle critiche meschine e distruttrici, non è il momento di abbandonarsi ai rancori e ai biasimi. Il nostro compito è di costruire la nobile dimora dell’India libera, capace di dare accoglienza a tutti i suoi figli.
«Mio padre aveva appena posato il microfono quando l’orologio del parlamento, sopra il podio, rintoccò la mezzanotte» ricordava Indira. «Poi il suono della conchiglia riecheggiò nell’emiciclo, annunciando la nascita della seconda nazione più popolosa al mondo e la fine dell’epoca coloniale.» * In seguito scoprimmo che il principale artefice di questa vittoria storica non aveva preso parte ai festeggiamenti. All’altro capo dell’India, nel centro di Calcutta, dove si preparava un terribile massacro tra le fazioni indù e musulmane, Gandhi pregava, digiunava e lavorava all’arcolaio. Per scongiurare questo incubo, Mountbatten aveva mandato nel Bengala l’unico esercito di cui disponeva: la «Grande anima», con cui aveva negoziato il processo di decolonizzazione. Era convinto che la presenza di Gandhi sarebbe bastata per evitare la guerra civile, calmare gli animi, e ricondurre alla ragione gli abitanti della città più violenta dell’India. Fomentata dalla fame, dalla povertà e dall’odio religioso, la violenza era parte integrante dei fetidi e affollati slums di Calcutta. Solo quattro anni prima, una terribile carestia aveva falcidiato centinaia di migliaia di persone in quell’enorme agglomerato che rappresentava senza dubbio uno dei peggiori disastri urbanistici del pianeta. La gente era andata a cercare il cibo nei secchi della spazzatura e nelle discariche. Le donne avevano ammazzato i figli che non erano più in grado di nutrire. Gli uomini si erano cibati dei cani, e i cani a loro volta avevano divorato gli anziani. Il virus dell’odio religioso aveva portato questa violenza su un nuovo piano. Un anno prima dell’indipendenza i conflitti tra le fazioni avevano riempito le strade di almeno venticinquemila cadaveri mutilati. Da allora gli indù e i musulmani avevano cominciato a guardarsi con sfiducia e terrore. 30
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Ogni giorno c’erano nuove vittime. Armati di cotelli, pistole, mitra, bombe molotov e uncini di ferro – li chiamavano «artigli di tigre» – per strappare gli occhi alle vittime, le bande delle due comunità si stavano preparando all’ultimo bagno di sangue che tanto preoccupava Mountbatten. Il 13 agosto l’anziano Mahatma Gandhi, ormai settantanovenne, andò a vivere in una vecchia casa con la veranda che il precedente proprietario aveva lasciato in balia di topi, serpenti e scarafaggi. Le stanze furono ripulite in tutta fretta e l’accessorio che aveva attratto Gandhi – il bagno, una vera rarità nei quartieri poveri di Calcutta – fu riparato. Fu lì, in una casa circondata dal sudiciume, dal tanfo e dagli insetti, che il liberatore dell’India si dedicò alla missione assegnatagli dall’ultimo vicerè. * Larry partì per Madras, Bangalore e Bombay per incontrare i protagonisti degli eventi del 1947, mentre io me ne andai alla volta di Calcutta, sulle orme di Gandhi. Oltre alle sue stesse gambe, il principale mezzo di locomozione che il liberatore dell’India usava per i suoi incessanti spostamenti era il treno. Il Mahatma aveva sempre viaggiato in terza classe, insieme agli intoccabili, ai lebbrosi e ai contadini. Il continuo contatto con i meno privilegiati gli aveva insegnato a capire cosa succedeva davvero nel cuore nascosto del paese. «Se sapeste quanto costavano al Tesoro britannico questi capricci di Gandhi!» ci disse Mountbatten un giorno. «Eravamo così preoccupati dal rischio di un attentato che, al posto dei normali viaggiatori, riempivamo la terza classe di ispettori di polizia sotto mentite spoglie.» Per capire meglio il profeta, anch’io m’imbarcai in una carrozza di terza classe. Fu un’esperienza difficile ma interessante. Insieme a me, sul sedile di legno c’erano tre graziose creature avvolte in colorati sari di mussola. Erano truccate con polveri scarlatte e olio di sandalo, ma la loro voce profonda non lasciava dubbi: le mie compagne di viaggio erano eunuchi. Si recavano al grande pellegrinaggio che ogni anno porta nei dintorni di Benares trecentomila membri di questa comunità. Che avventura furono quei due giorni di viaggio, arrancando a una trentina di chilometri all’ora nelle distese assolate della pianura indogangetica, immersi nel caldo soffocante, tra la fuliggine, il sudore, 31
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le lacrime, l’odore di incenso, curry e urina, e una straordinaria profusione di colori, sorrisi, e di dignità e vitalità. Gandhi aveva ragione: l’unico modo per conoscere e amare un popolo è viaggiare in una carrozza di terza classe. Quell’enorme caravanserraglio che è la stazione di Howrah, di fronte a Calcutta, dove il Mahatma era sbarcato venticinque anni prima, era ancora un bivacco per i rifugiati accampati tra i binari, nella hall, nella sala d’attesa, e sul marciapiede. Com’era successo nel 1947 con la spartizione, nel 1971 la guerra tra l’India e il Pakistan aveva spinto verso Calcutta milioni di persone in fuga dal terrore e dai massacri. Mi ritrovai in mezzo a un ammasso di malati, zoppi e moribondi. Donne dai seni cadenti spidocchiavano i figli alla pallida luce dei neon. Ragazzini vestiti di stracci rovistavano nella spazzatura alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Lebbrosi su carrellini rudimentali si trascinavano qua e là esibendo la ciotola per le offerte. Cani rognosi si acciambellavano a dormire in branchi. Eppure in questo scempio si potevano ammirare scene che ribollivano di vita. Un nugolo di coolies vestiti di rosso sgambettavano in tutte le direzioni carichi di piramidi di pacchi e fagotti sulla testa. Venditori di nocciole, frutta e sigarette si facevano strada tra la folla. Una fiumana di taxi e macchine passava strombazzando, dopo aver scaricato i passeggeri direttamente davanti al loro vagone. Alla biglietteria serpeggiavano file interminabili. Tutto quello spettacolo mi aveva ubriacato, ed ero stordito dal rumore assordante degli altoparlanti, delle urla, dei richiami e del fischio delle locomotive. Feci una scoperta interessante. Perché c’erano così tante bilance nella stazione? E di fronte a ognuna, una folla di persone tutte pelle e ossa? Perché mai qualcuno di loro avrebbe dovuto spendere venti preziosi paisa per sapere quanto pesava il proprio scheletro disastrato? Alla fine capii. Sul retro della ricevuta che confermava la loro miseria c’era l’oroscopo. A Calcutta solo le bilance osavano promettere un karma migliore. * Ero riuscito a procurarmi una camera al Bengal Club. Fino alla caduta dell’Impero, questo tempio della supremazia dei bianchi aveva esibito alla porta un cartello che vietava l’ingresso «ai cani e agli indiani». Ma la borghesia cittadina era subentrata ai colonizzatori senza ran32
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core. Avevano lasciato al loro posto i ritratti degli antichi padroni, sparsi nei saloni e nei fumoir. Camerieri a piedi nudi, nella livrea dei tempi andati, servivano la stessa inspida zuppa Mulligatawny e l’agnello alla menta, importati nel tropico del Bengala dalle nebbie inglesi, con stoviglie che recavano impresso lo stemma della Compagnia delle Indie Orientali. Ogni mattina, alle quattro e mezza in punto, il portatore musulmano, che aveva passato la notte nel corridoio, pronto a soddisfare ogni mia richiesta, mi portava il tradizionale tè del mattino, dolce e forte, con cui in India comincia ogni giornata. Dopo questa bevanda rinvigorente, me ne andavo a fare una passeggiata ai giardini del Victoria Memorial Hall. Lì trovavo centinaia di mercanti panciuti avvolti nel dothi, donne corpulente fasciate nei sari colorati, studenti in pantaloni e camicia bianca, e i veterani dell’indipendenza, con i loro cappelli bianchi. Si ritrovavano lì per sgranchirsi e aspettare il sorgere del sole, evento primordiale che governa la vita di così tanti indiani. La fortuna era con me, persino in quel buco infernale che è Calcutta. Trovai due persone che erano state molto intime del Mahatma. Erano sempre rimasti al suo fianco in quei drammatici giorni di agosto del 1947, quando solo la presenza di Gandhi aveva scongiurato che i disordini degenerassero in terrore. Ranjit Gupta era uno dei poliziotti incaricati di proteggerlo, mentre lo scrittore Nirmal Bose era stato suo segretario. Furono i miei sherpa, e mi guidarono nelle mie settimane di intense ricerche sulle orme del saggio di Calcutta. Subito dopo il mio ritorno a Delhi, Larry e io andammo in pellegrinaggio a Birla House. O meglio, ci accampammo, in quel tempio dove Gandhi aveva sofferto e pregato per la salvezza dell’India negli ultimi 101 giorni della sua vita. Per immergermi nell’atmosfera in cui aveva trascorso quel doloroso autunno del ’47 e inverno del ’48, mi portai qualche fotografia scattata in quel periodo. Le immagini ritraevano l’anziano leader steso sul charpoy, la pancia ricoperta da un impacco di fango. Nehru, il suo erede spirituale, era chino su di lui, col volto solenne. In una delle foto riconobbi la testa scarmigliata di Pyarelal Nayar, l’infaticabile segretario che per quarant’anni aveva trascritto ogni singola azione, gesto, parola e pensiero del Mahatma. In un’altra immagine comparivano le sue pronipoti, Manu e Abha, con le trecce e gli occhiali tondi cerchiati di metallo. Non 33
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lasciavano mai il capezzale del loro maestro. Dormivano e pregavano con lui, gli facevano i massaggi, il clistere, lo accudivano quando soffriva di diarrea, e mangiavano dalla sua stessa ciotola per l’elemosina. Tra le persone che circondavano Gandhi c’era una ragazza sorridente dai capelli corti. A trentadue anni, Sushila Nayar monitorava le funzioni vitali di quel corpo mezzonudo sdraiato davanti a lei. Era il medico privato del Mahatma. Accettò di tornare con me e Larry nel drammatico scenario della stanza in cui, quel tragico giorno, la Grande Anima aveva firmato il suo certificato di morte. «Bapu decise di ricorrere ancora una volta all’arma che aveva utilizzato per salvare Calcutta» ci disse Sushila. Il 12 gennaio 1948 annunciò che avrebbe fatto uno sciopero della fame, a costo di morire, nella speranza che la violenza si sarebbe fermata e che il governo indiano avrebbe rispettato i suoi impegni col Pakistan. «Quella sera consumò il suo ultimo pasto: due chapatti, una mela, un goccio di latte di capra e un bicchiere di succo di pompelmo. Quando finì, ci portò in giardino per pregare. Sembrava allegro e fiducioso, aveva ritrovato il suo ottimismo. Conclusi la piccola cerimonia intonando l’inno cristiano che lo commuoveva tanto, da quando l’aveva sentito in Sudafrica per la prima volta. Cantammo insieme «La tua croce, o Signore, è la mia gioia». Poi Bapu tornò nella sua stanza, si sdraiò sul charpoy e si addormentò. La sua ultima sfida era iniziata.» In settimane di strenua ricerca riuscimmo a ricostruire nei dettagli gli ultimi sedici giorni di vita di Gandhi e l’incontro con i suoi assassini, il 30 gennaio del 1948. Riuscimmo a mettere le mani sui rapporti di polizia degli agenti che avevano indagato su quello che allora era stato definito «l’omicidio del secolo». Non fecero granché per soddisfare la nostra curiosità. Come era stato possibile uccidere Gandhi come se niente fosse, quando veniva sorvegliato giorno e notte da dozzine di guardie? Perché i terroristi schedati dalla polizia di Pune non erano stati arrestati, sebbene non avessero fatto segreto delle loro intenzioni? Perché i poliziotti di Bombay, che erano venuti a conoscenza di una cospirazione e conoscevano l’identità dei cospiratori, non aveva informato i colleghi di Pune e Bombay? Si trattava solo di negligenza? O erano stati complici dell’India nel decidere il destino del suo Mahatma? Nel 34
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1960, dodici anni dopo l’omicidio, fu istituita una commissione d’inchiesta ufficiale per far luce sulla strana condotta tenuta dalla polizia di Pune in quell’occasione. Sfortunatamente, allora la maggior parte degli agenti coinvolti era morta. La commissione concluse con soddisfazione che il servizio di sicurezza del Mahatma Gandhi non era adeguato e che le precedenti indagini non erano state condotte «con la diligenza che avrebbe richiesto un crimine commesso contro la sua [di Gandhi] vita». * L’assassino di Gandhi, Nathuram Godse, e il suo principale complice, Narayan Apte, furono impiccati. Gli altri quattro cospiratori furono condannati all’ergastolo. Un giorno, era il marzo del 1972, con nostro sommo stupore io e Larry leggemmo un articolo sulla prima pagina del Times of India che annunciava lo scarceramento dei cospiratori per buona condotta. Un provvidenziale gesto di clemenza che ci permise di fare degli incontri sensazionali. Larry si mise sulle tracce di Vishnu Karkare, che era tornato a dirigere il suo hotel ad Ahmednagar, il Deccan Guest House. Io andai in cerca di Gopal Godse, fratello dell’assassino. Alla fine lo trovai al terzo piano di una vecchia casa nella periferia di Pune. Era un uomo sulla cinquantina dall’aspetto distinto, con capelli canuti ben curati, e portava con eleganza la sua lunga casacca bianca. Conscio di essere una figura storica, era cordiale, persino affettuoso, e pronto a rispondere a tutte le mie domande senza nessuna riserva. Nella veranda in cui mi ricevette era appesa un’enorme mappa che raffigurava l’India con il Pakistan ancora annesso. Un filo di lucine correva lungo il corso dell’Indo, e al centro c’era una grossa fotografia dell’assassino circondato da una ghirlanda di fiori. Nelle risposte precise e dettagliate di Gopal non c’era traccia di rimorso o pentimento. Fui sorpreso dal tono riverente con cui pronunciava il nome di Gandhi. Diceva sempre «Gandhiji». «Che cosa pensa dell’ideale della non-violenza di Gandhiji?» domandai. «Mio caro amico, devo ricordarle che le donne indù dovettero darsi fuoco e bruciarsi vive per sfuggire all’infamia di essere violentate dai musulmani, e Gandhiji diceva loro che la vittima era il vincitore» rispose. 35
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Dopo venticinque anni in prigione, la rabbia di Gopal era immutata. «La non-violenza di Gandhiji gettò gli indù in balia del nemico» mi spiegò. «I rifugiati morirono di fame e Gandhiji esaltò il loro sacrificio, difendendo l’oppressore musulmano. Per quanto tempo ancora avremmo potuto sopportarlo? Sì, mio caro amico, per quanto tempo?» Godse mi invitò alla cerimonia di commemorazione dell’esecuzione di suo fratello, che si teneva ogni anno il 15 novembre. Aveva disposto su un piedistallo di fronte alla mappa una piccola urna d’argento con le ceneri di Nathuram. Quest’ultimo aveva chiesto che le sue ceneri fossero «conservate finché non fosse stato possibile disperderle nell’Indo tornato a scorrere in un paese finalmente riunito sotto il dominio indù». Erano presenti i membri della sua famiglia, compresi donne e bambini, insieme ad alcuni discepoli di Vīr Savarkar, il guru indù che aveva ispirato i cospiratori. La stanza riecheggiò di una musica dolente al sitar, accompagnato dal ritmo della tabla. All’esortazione del padrone di casa, i partecipanti levarono i pugni e giurarono, davanti all’urna funeraria e al ritratto dell’assassino, di riconquistare «la parte recisa della nostra patria», il Pakistan, e di riunire l’India sotto il governo indù. Poi, con un tempismo da attore consumato, aprì una cesta da cui tirò fuori degli abiti. «Questa è la camicia che Nathuram indossava il giorno in cui uccise Gandhiji» annunciò, brandendo una casacca color kaki macchiata di sangue, ricordo delle manganellate ricevute al suo arresto. Proseguì mostrando i pantaloni e i sandali. Tutti si inginocchiarono riverenti davanti alle reliquie. Godse lesse quindi le volontà del defunto. Mentre il sitar e la tabla riprendevano la loro triste nenia, i presenti, uno dopo l’altro, si prostrarono davanti alle ceneri, con una candela in mano. Sventolarono la candela intorno all’urna prima di levarla verso il serpente luminoso che simboleggiava il fiume Indo. Ripeterono all’unisono la promessa di riconquistare la terra che l’India aveva perduto. L’ex terrorista quarantanovenne Madanlal Pahwa si era stabilito a Bombay. Aveva provato a uccidere Gandhi piazzando una bomba artigianale ai piedi della piattaforma su cui il Mahatma pregava. Dopo due giorni di ricerche capillari, scovai Pahwa poco fuori 36
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Bombay, in un sobborgo abitato dai rifugiati indù del Pakistan. Era impossibile non riconoscerlo: aveva gli stessi capelli neri e folti con la riga di lato e i baffetti curati della foto segnaletica scattata venticinque anni prima. Dopo il suo attentato fallito, era stato arrestato e sottoposto a un intenso interrogatorio di due giorni al termine del quale aveva fatto i nomi dei suoi complici. Era stato tramite lui che la polizia di Nuova Delhi aveva scoperto, due settimane prima dell’omicidio, che nella capitale c’era un gruppo di terroristi intenzionati a uccidere Gandhi. La polizia era anche in possesso dei loro identikit. All’inizio Madanlal mi accolse con diffidenza, ma pian piano l’interesse che dimostrai per le sue attività più recenti lo convinse a lasciarsi andare. Adesso lavorava in un ramo che potrebbe sembrare alquanto inaspettato: i giocattoli. In particolare, era molto orgoglioso di un razzo ad aria compressa che volava fino a una novantina di metri d’altezza e poi tornava giù appeso a un paracadute. Mi propose di diventare suo socio in Europa «per competere con quei maledetti giapponesi». Sempre a Bombay, riuscii a rintracciare il più inquietante degli assassini, Digambar Badge, ex trafficante d’armi che aveva procacciato la pistola con cui Gandhi era stato ucciso. Con la sua lunga barba, più che un rivoluzionario sembrava un santone. Uscito dal carcere, anche Badge aveva intrapreso un’attività insolita. Dopo aver passato anni a vendere articoli che causavano la morte, adesso produceva un articolo per proteggersi proprio dalla morte. Con l’aiuto dell’anziano padre, «cuciva» casacche di maglia metallica simili a quelli che i cavalieri usavano nel Medioevo. Questo indumento a prova di proiettile era apprezzato soprattutto da sicari, crumiri e politici di ogni fazione. Il libro delle ordinazioni era al completo per i successivi due anni. «Ha dei clienti francesi?» gli chiesi. Mi rivolse uno sguardo d’intesa. «Al momento no, ma forse il nostro incontro potrebbe cambiare la situazione.» La disponibilità dei terroristi a riceverci mi fece venire un’idea. Avremmo potuto portarli a Nuova Delhi e filmarli mentre ripercorrevano gli eventi di quei giorni. Valutai i rischi. La polizia indiana aveva rinunciato a ricostruire il delitto per paura di ritorsioni. Andai a Pune per proporre la gita a Gopal Godse. L’avrebbe presa per una 37
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provocazione e mi avrebbe buttato fuori di casa? Avevo appena cominciato a esporgli la mia idea quando lo vidi annuire, scuotendo la testa a destra e a sinistra, con un’espressione compiaciuta. «È un’ottima idea» mi disse. Poi si accigliò. «Ma solo se possiamo portare anche le nostre famiglie.» Comprai i biglietti per tutti e una settimana dopo ci ritrovammo su un binario della Victoria Station di Bombay, accanto al Frontier Mail in partenza. Sembrava di essere in gita con dei parenti appena conosciuti. Mi chiamavano «Caro fratello» e «Signor Dominique» e mi facevano assaggiare gli innumerevoli manicaretti, dolci e prelibatezze che si erano portati nelle loro ceste. Godse, Karkare e Madanlal sostenevano che si trattava dello stesso treno che avevano preso venticinque anni prima quando erano partiti per assassinare Gandhi. Per non rischiare che li arrestassero tutti insieme, il leader Nathuram aveva preso l’aereo. «L’accordo era di trovarci a Delhi nel giardino del tempio della dea Lakshmi» ricordò Godse con orgoglio. Dopo quarantott’ore di viaggio, li portai nello stesso luogo. Avevo ingaggiato un cameraman e un tecnico del suono a cui avevo raccomandato di non rivelare l’identità delle persone che erano con me. Godse condusse Karkare davanti all’enorme santuario rosa della dea e indicò la campana appesa sulla porta. «Ricordi? La suonammo prima di raccoglierci in meditazione ai piedi della dea.» Le mogli ascoltavano compiaciute e orgogliose i racconti dei mariti. Avrebbero potuto essere dei soldati appena tornati dal fronte con una medaglia al valore. Dietro il santuario c’era un boschetto. «È qui che Nathuram ha fatto le prove col revolver» spiegò Karkare. «Fortuna che non c’era nessuno in giro. Non sapevamo se Gandhi sarebbe stato in piedi o seduto quando gli avremmo sparato, e così ci esercitammo a mirare per entrambe le evenienze. Scegliemmo un albero. Uno di noi si sedette contro il tronco per simulare la figura di Gandhi e con un gesso disegnammo la silhouette sulla corteccia. Nathuram si allontanò di una decina di metri e sparò cinque colpi. Centrò il bersaglio tutte le volte.» Godse ci portò al ristorante della stazione centrale, dove la sera prima dell’attentato gli assassini avevano cenato tutti insieme in una vera e propria atmosfera di festa. 38
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Poi, esattamente come avevano fatto loro quel giorno del gennaio del 1948, prendemmo dei calessi per recarci a Birla House, l’ultima residenza di Gandhi. Una fiumana di visitatori si aggirava in silenzio nel giardino e per le stanze. Le pareti di quella magione tanto venerata erano ricoperte di foto del Mahatma che ripercorrevano tutti i momenti della sua vita. I pellegrini si soffermavano con particolare rispetto quando entravano nella camera da letto, poi raggiungevano il piccolo sasso poggiato sul punto esatto in cui Gandhi era stato ucciso. Restavano a meditare nel grande prato in cui il Mahatma aveva tenuto i suoi ultimi incontri di preghiera. Stavo forse profanando questo luogo, conducendovi gli uomini che l’avevano infangato così brutalmente? Mi stavo ponendo questo interrogativo, quando sentii una voce chiamarmi. Mi girai e riconobbi il curatore del santuario, un illustre bramino che si era interessato parecchio al mio lavoro. «Caro signor Lapierre, vedo che ha compagnia oggi!» esclamò affabile. «E c’è anche una troupe televisiva. Perché non mi presenta i suoi amici?» Un brivido di freddo mi percorse la schiena. «Con piacere» risposi, cercando di dissimulare la mia agitazione. «Le presento il signore e la signora Gopal Godse, il signore e la signora Vishnu…» Mentre snocciolavo i nomi, vidi il viso del bramino stravolgersi. Temetti che gli fosse venuto un infarto. Ripresosi dallo stupore, mi rivolse un sorriso forzato e mi disse: «Signor Lapierre, le dispiace se andiamo a parlare nel mio ufficio?». Entrammo nella spaziosa stanza al piano terra dove io e Larry eravamo venuti tante volte ad ascoltare il bramino rievocare le ultime ore di Gandhi. Un domestico portò delle sedie e ci accomodammo davanti alla scrivania. Cosa avrebbe fatto? Avrebbe chiamato la polizia? O sbattuto fuori gli ospiti indesiderati? Il curatore affondò nella poltrona, sopraffatto dalla situazione così inaspettata. Rimase in silenzio per lunghi minuti, poi si alzò in piedi e i suoi occhi si illuminarono. Mi preparai al peggio. «Cosa posso offrirvi?» ci domandò. «Tè o Kampa-Cola?» Non molto tempo dopo, insieme agli assassini, mi trovavo nel punto preciso da cui alle cinque e sette minuti del 30 gennaio 1948 Nathuram Godse aveva sparato a Gandhi. La telecamera inquadrava suo fratello. 39
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«Il giardino pullulava di visitatori» ricordava Gopal Godse. «Gandhiji era in ritardo di qualche minuto. Poi all’improvviso la gente si fece da parte. La processione stava arrivando. Gandhiji era alla guida, e si appoggiava alle sue pronipoti con entrambe le mani. Nathuram si era posizionato sul sentiero che conduceva al palco della preghiera. Era il punto ideale. Lo vidi estrarre il revolver dalla tasca.» La nostra presenza aveva attratto una folla di pellegrini. Molti di loro erano sikh, con i loro inconfondibili turbanti. Cosa sarebbe successo se avessero riconosciuto l’uomo ripreso dalla telecamera? Gopal Godse proseguì, per nulla turbato. «Nathuram cercò di nascondere la pistola e si inchinò riverente ai piedi di Gandhiji, dicendogli: “Namaste, Bapu”. Poi allontanò una delle bambine per evitare che restasse ferita e fece fuoco. Una, due, tre volte. Gandhiji mormorò: “He Ram. Oh mio Dio!” e si accasciò lentamente sull’erba. Era finita.» A queste parole, vidi un sikh alto e minaccioso rovistare febbrilmente tra le pieghe della fascia del suo abito. Ero convinto che stesse cercando il pugnale che molti membri di quella comunità portano con sé. Vedevo già la lama luccicare al sole. Avrebbe tagliato la gola ai tre criminali, e magari anche a me e al cameraman. Avrebbe vendicato quelle centinaia di milioni di indiani che erano state distrutte dalla perdita della Grande anima. Ma mi sbagliavo. Era passato troppo tempo dalla morte di Gandhi. Ciò che quell’uomo cercava non era il pugnale della vendetta. Porse a Godse un pezzo di carta e una penna. Voleva un autografo. * Dopo l’Inghilterra e l’India, la nostra ricerca ci portò in Pakistan, dove intervistammo più di duecento persone, più o meno importanti, che avevano avuto un qualche ruolo negli eventi di quell’estate cruciale del 1947 o possedevano vividi ricordi da condividere. Quando io e Larry cominciammo a scrivere Stanotte la libertà, nel giugno del 1974, nelle nostre case adiacenti sulla riviera francese, ci ritrovavamo con ottocento chili di documenti, almeno novecento trascrizioni di interviste e diversi archivi storici. Mai, pensavamo, due scrittori avevano raccolto una mole di materiale così corposa per scrivere una delle più grandi epopee storiche di tutti i tempi. Il fatto che nessuno di noi due fosse inglese, indiano o pakistano ci dava la mas40
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sima libertà di scegliere l’approccio del nostro libro. Non volevamo destinare la nostra opera a un pubblico inglese, indiano o pakistano. Volevamo far conoscere a tutto il mondo la fine dell’Impero britannico e il trasferimento di poteri avvenuto il 15 agosto del 1947. Siamo orgogliosi e ci onora che il nostro libro sia considerato un classico sia in India che in Pakistan. Ma siamo ancora più orgogliosi di sapere che è stato letto da più di cinquanta milioni di persone in tutto il mondo. Oltre alle migliaia di lettere di encomio e gratitudine che abbiamo ricevuto in questi anni, ricorderò per tutta la vita l’invito che ho ricevuto dal Sabarmati Ashram, il luogo in cui Gandhiji si era fermato dopo il suo ritorno dal Sudafrica nel 1915. Oggi il Sabarmati Ashram è una scuola per bambine indigenti. Quando nel 1995 risposi al gentile invito e mi recai lì con mia moglie e alcuni amici stranieri, trovammo ad attenderci tutta la scuola. All’entrata dell’edificio, alcune alunne avevano piazzato una grossa lavagna su cui avevano scritto un messaggio di benvenuto per me. Si trattava di un breve frammento su Gandhi estratto da Stanotte la libertà. In fondo alla citazione, queste intoccabili, le figlie dell’uomo che venero di più nella storia dell’umanità insieme a Gesù Cristo, avevano scritto una sola parola: «grazie». D.L.
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