Stati di grazia

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Davide Orecchio

Stati di grazia Romanzo


Questa è un’opera d’invenzione. Tutti i personaggi sono frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone reali è da ritenere casuale. Esclusa la mappa, tutte le immagini presenti (pp. 293-295, 297) sono dell’autore. www.davideorecchio.it/stati-di-grazia Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014


Stati di grazia



parte prima

Il dono



Gli ultimi giorni di Paride Sanchis

Enna, 3 novembre 1954 (un diario) Camminato con Pietro su via delle Muse e pensato: io che ho la fortuna di avere un fratello. Prima e dopo via delle Muse con Pietro fraterno, cuore fraterno, ingegno fraterno, il porfido, i piedi tra lo scaglione e la selce, la gora dell’acqua, del fango e del ghiaccio, fratello che contagia di fratellanza botteghe, usci, l’estraneo, l’amico che passa, i cappotti adesso fraterni, i lampioni fraterni, il freddo e la notte fraterni, l’appetito di noialtri prima di cena, che vuol dire noi due per sempre così, nati per sempre e molto lo spazio percorso in effetti. Via Messina, via del Mercato, Sanfrancì: sciaguattare come gromme sotto la barca e su e giù e mai fermarsi, e nessuna stanchezza. Passeggiata con Pietro di quelle stordite e tipica e tipicamente parlato e più ancora ascoltato. Non sono solo. Avvertito calore sotto la pelle dov’è la cinta di corpo che separa gli organi dalla vita stessa, da me, dall’aria, dall’alito,   9


dalle cose che si mostrano e vedono. Subbuglio di gioco infantile dentro al cappotto. I compagni di strada che Pietro precede cui nell’ombra del municipio pizzico il braccio, così per scherzare. La sua risposta un calcio che mira al sedere mio fraterno e lo manca. Ghigno di me che lo sfotto: «M’hai lisciato». Mulinato a Pietro la coda dei capelli mentre soffiava il naso e dunque altro scherzo: lui è basso, l’ho fatto come se raccattassi lattuga. Di nuovo tentata vendetta in una sberla che Pietro mi lancia e non ha preso che buio. Noialtri, noi tra noi due e rido sotto le ossa del municipio e dimentico la questione del morto ossia mascariato la questione sfottendo il fratello. Quando sono con Pietro non punge lo stomaco. Ancora minacce di Pietro al mio canzonarlo. Ululato moresco di Pietro e altro mio ridere che verso a condimento barocco e abbondante dell’essere noi, dello scherzo, della pietanza serale di gesti. Qualcuno passando si volta. Niente paura, siamo noi tra noi due e adesso giù per i dirupi di Fundrisi, a capofitto nel presepe di San Bartolomeo fino a Janniscuru dove calmi di nuovo e seduti sulla fontana di pietruzza che cola si prende fiato. Siamo nella pace delle pacche sulle spalle, di sghignazzi e vapori dalle labbra e perle liquide dalle narici e, riposati, corteggiamo ancora il cammino avvolti in lane come ai tempi del ruzzolare da basso alla torre e viceversa e sempre assieme, Pietro e io. Qui pensato di raccontare la questione del morto che m’era tornata ma zitto, invece, meglio restare, trattenere, non parlare, per ora più facile e dopo chissà. Ed eccoci da Patrinicola per l’ordine di mezzo litro di rosso e un falsomagro così da riempire lo stomaco versando certe memorie nel fumo e macchiare la tovaglia di altre (ho emorragie di ricordi) finché 10


guardato in strada dal vetro opaco di vapore e polvere, sporco di me e delle occhiate di tutti che posandosi infettano passato, dubbi, scabbie dell’io, dermatiti dell’io, diarree della mente che non si tiene, perdite dell’essere separato dal noi, ostile, non fraterno, pericolante, e in mezzo a quel feltro m’è parso di vedere un’ombra piccola strisciare sul muro; ossia il morto. Visto o creduto di vederlo. Un colibrì appare e sparisce tra i rami. S’è ripresentata la coscienza; sui miei rami, tra le mie secchezze e andandosi a intingere nella cocciniglia che soffro. Era il momento di fare menzione, ma no: mi sono tenuto. A Pietro i bambini non importano e trascurato la questione e ne parlerò un’altra volta. Usciamo nei baveri alti e occhi bassi e mani in tasca fino alla soglia di casa dove Pietro mi lascia. Dentro trovato Angela e Annamaria, loro, le altre, già nel sonno che m’ha consentito di scrivere su questo diario che non è un vero diario siccome non sono un uomo davvero, seppure padre e marito. Per il momento dico così: annotato lamenti. E adesso un elenco. Al mondo io calcolo bambini ruggine, bambini di pietra e caucciù (i primi feriscono e scorticano, i secondi resistono), bambini figli e bambini orfani, bambini scolari, bambini domanda, bambini carezza, bambini liquidi, bambini diamante (custoditi, ma se ne trovano pochi nella nostra città), bambini tonno, bambini risata e bambini pianto, bambini che tirano calci, bambini biondi, bambini urlo, ovali, stratificati, a meringa o equilateri, bambini biondi ma con misteriosi fondali neri su capo e nuca, bambini occhio e bambini naso, bambini bocca ma non bambini sapore (mentre l’odore!), bambini rugiada, bambini resina, bambini saliva e bambini fiato, bambini succo,   11


bambini polpa, bambini salati o zuccherati, acidi, aspri, dolciastri, acetati, unti, cannoli o arancine (non esistono invece in alcun continente conosciuto bambini sciapi), bambini pistillo, bambine petalo e stame, bambini aperti e chiusi, concavi e convessi, bambini siciliani (quasi sempre convessi), bambini soglia e bambini muro, bambini di legno. Se non ci sono ancora ma presto si avranno bambini bambù, io calcolo però bambine di ardesia, bambine di quarzo, salgemma e schisto, bambine di cristallo, bambine raggruppate in drusa, dicroismi di bambine, bambini di talco, argilla, bardiglio, diaspro, bambine di giada, bambini di lava, bambini spugnone, fragili e atermani, duri o elastici, anisotropi, isotropi, emiedrici e iridescenti, bambini prismatici, trapezoidali, bipiramidali e rombici, bambini concreti, conglomerati, depositati, epigenesi di bambini, giacimenti, filoni, miniere di bambini, bambini di zolfo, bambini fantasma, nudi, neri, sporchi, bambini paura, bambini schiena, bambini nel buio. Piango per ogni cosa che vedo. Un muro, una finestra, poche persone nella piazza, una fetta di formaggio sul tavolo, certi riverberi di luce, la luce naturale che muore, un uomo che s’abbottona il cappotto, l’abito di mia moglie, il domani nel muschio, la spilorceria del selciato. Non faccio che trattenere lacrime.

4 novembre Indossata la vestaglia. Stretta la flanella nella cinta. Varcata la soglia per il caffellatte e in cucina ecco Angela, che neppure 12


si volta. Assorta negli scavi del canterano, lo sparagrembo la protegge, l’acquaio la sigilla e lei punta i piedi sulla carbonaia e avvolge il sedere nel drappo di lana sfrangiato che chiama gonna. Ha i fianchi macchiati dal liquido della piattaia. Sottostà alla cappa che minaccia di succhiarla così che ascenderebbe nel turbine del soffritto, nella protesta del borbottino. Ma resta qui, moglie terrena. Moglie domanda e silenzio, moglie geco, moglie ventriloquo dei pupazzi stoviglia, moglie abbigliata da una pelle corazza di non lingua e nessuna parola per me, un guscio di non ascolto di me. Bevuto il caffellatte in silenzio non violando l’accoppiamento suo con gli oggetti che ha intorno, dal paiolo riverso, protuberante, alla pignatta; tutta una schiera se si conta anche l’olla. A me non mi guarda. Con lo straccio pulirà gli umori e l’assiduità di ranno e liscivia si deve a un bisogno di nettezza, ma i sensi di lei riprendono nel succo di giulebbe per rosolare, crostare e imbudellare, mantecare e marinare, forse persino allessare; una conseguenza di me, una prigionia e per fortuna entra la bimba che strilla, s’annuncia e dimentico Angela. Pensato: Annamaria strilla come se desse voce a cento bimbe che l’abitano. A differenza di Angela lei mi guarda e parla e nell’ombra della schiena materna giochiamo. L’ho presa per le braccia, la porto in grembo, lei ancora ha gridato, l’imprigiono sul petto, ha scherzato coi miei capelli, me li ha tirati, mi ha carezzato e poi graffiato senza unghie. Fatto l’urlo del cervo e l’ho issata, la bimba versa cascate di gioia, l’ho capovolta e a testa in giù m’ha sorriso. Questa sì che è vita.

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5 novembre Di recente lacrimato per le forme circolari e le quadrangolari (quasi tutte le figure, astratte o concrete), le parole non dette, quelle né pensate né dette, le carte da gioco, l’odore di Angela, i pasti in famiglia, la famiglia, il ricordo di mio padre, una maglia azzurra di lana, il morto del quale nessuno più parla, pensavo all’uscita da scuola quando Pietro mi prende e raccoglie e mi porta. Col fratello sulla Giulietta dell’avvocato padrone suo Vanacore si va al bosco dei carrubi e immerso nel sedile temuto di rimettermi a piangere, ma perché?, e perché così spesso? Eppure no, per fortuna: rimasto asciutto. Nel bosco passeggiamo tra i mirti, sotto nodi di sughera e ghiande di leccio per poi andarci a stendere sul prato vicino al campo di fave in sonno. Chiuso gli occhi contro il sole, sbottonato giacca e cappotto e masticato erba in silenzio nel lenimento dei raggi quando Pietro m’avvisa: «Fatti un’amante» e con questo mi tira le palpebre per lo stupore e l’ascolto. Insiste: «Fattela senza pensarci» e dice: «L’ho avuta anch’io, ma adesso non più». Risposto che no, non potrei e non saprei. Chiede: «Allora che fai?». «Nulla di nulla» rispondo. Ma Pietro: «Così mica vivi. Forse dovresti viaggiare, partire per sempre». Questo lo mormora come il sussurro di un nonno, parola senza più voce che già si dilegua tra i carrubi e nel vento.

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6 novembre Angela cucina timballi che m’assomigliano col fatto di afflosciarsi nei giorni e marcire e per il risucchio della salsa fin troppo acquosa. Sono il naufrago del condimento. M’aggrappo alle zattere di mozzarella, alla melanzana. Navigo il sugo senz’arrivare. Affiorano capperi, olive cadavere. Io sono la foglia del basilico scheletro. Io sono unto, sgualcito, sapido e annego. Pronuncio l’addio e il buon appetito. Profetizzo il mio andare a male, coltivo il disprezzo non etico dell’insegnante che ero e oggi fingo e pensato che forse Pietro ha ragione: dovrei partire, viaggiare lontano. Ma lasciare mia figlia: come si fa? Adesso non rincaso per pranzo. Meglio resistere altrove fino all’ora di cena quando Angela crolla così da schivarla, e fatto su e giù tra città bassa e alta e camminato per ore senza prendere pause sui lati destri e poi sui sinistri. Mai seduto: non al Caffè Roma, non al Casabianca; giusto un bicchier d’acqua all’Eden in piedi. Come ho letto in un libro sui folli, perdo me stesso come capita ai folli che passeggiano e hanno l’amnesia di tutto a cominciare da gambe e fiato che non sono più gambe e fiato ma estensioni della mente selvatica, mentre gli occhi bruciavano e la gola un po’ dolorava nonostante la sciarpa stretta e già il passo s’affievoliva. Entrato nei vicoli rossi arroccati tra San Girolamo e il Corso. Nel fortilizio che è la mia città ascoltato i latrati delle donne erompere dalle case da basso contro i bambini dispettosi e i bambini abbaiare contro le donne latranti. Testimoniato la guerra nei vicoli di donne malcerte e bambini forti nelle voci da sembrare neonati. Incrociato il vanniaturi che m’ha gridato contro e dentro e l’ho   15


sentito nel petto, nella pancia, in fegato e polmoni come il tuffo nello stagno di un gigante. Adesso un ritratto nel Duomo di me: accanto alla colonna che suda putti e grifi, a sollevare lo sguardo verso il soffitto e i suoi cassettoni, desiderando stendermi sul faldistorio per accendere il sonno con l’agnusdei; e troverò rifugio in un nartece, vicino a compagni di penitenza. Ma niente paura: resto seduto, spaesato come da piccolo e nella chiesa respirato un’aria che già allora pensavo più fitta di quella al di fuori, più consistente, un’aria colorata, profumata da ogni candela, dotata di un odore che pesa e riscalda. Iniziato a sonnecchiare accanto alle vecchie che baciano i piedi a Gesù. Dormito un poco e il tempo è passato fino al rincasare in una lingua straniera che traduco così: ho mangiato, non ho scambiato parole e adesso m’arrendo.

7 novembre Il sangue di un bambino sgorga in fretta, non ti dà tempo per rimediare, cola da setacci smagliati e si perde. Penso al morto e non smetto, scivolo nel mio pensiero del morto, mi ferisco col pensiero coltello del morto, respiro il veleno del morto pensato, lo penso crocefisso e rifletto sul consiglio fraterno di Pietro che non seguirò mai (fatti un’amante), sebbene nella controra, nel vuoto che non si colma neppure trattenendo alito, nella pagina bianca della domenica elencato quelle che al mondo riesco a contare: donne pelle e donne acqua (le ripartisco in donne mare e donne fiume – anche torrente – mentre sono più rare le donne lago), donne pioggia, donne 16


vapore, donne alluvione, donne tempesta, donne letto e donne ovatta, donne divano, donne schiuma, unghia e stella, donne a ventaglio, ogivali, biformi e cuspidate, appallottolate, sagittate, sbertucciate, coniche, circolari, a spira, cilindriche, ellittiche, calviformi, donne groviera, donne ricotta, donne grana, donne cosacavaddu, donne fiore sicano muffose, donne maiorchino, donne picurinu, donne vastedda e donne burrata, donne caprino, donne giuncata, donne crescenza, donne provatura e donne provola, donne coltello, donne canestro, donne graticcio, donne gheriglio, donne zuccherine, amare, saline, rancide o stantie, agrodolci, arcigne, donne ferrigne, piccanti, squisite o salmastre, elettriche, mucide, ulimose, redolenti, donne fetide o fragranti, penetranti, beneolenti, donne miasma, donne bouquet e donne zaffata, donne balsamo e nidore, donne cordigliera, donne pampa, donne acrocoro, giogaia, serra, donne aguzze, impervie, brulle, a pan di zucchero, boscose o aspre, vulcaniche, innevate, dirupate, erte, franose, donne brughiera, donne pianoro e prateria, donne steppa ma non donne taiga, vaste o secche, pensili o glaciali, eoliche, fertili e fluviali, donne magenta, donne carminio e scarlatte, indaco, donne mauve, donne pesca, donne nocciola, donne anguria, donne fragola, carruba, ciliegia, mandorla, prugna e mora – non esistono invece donne cedro –, donne visciola e donne mirtillo, donne fusillo, donne chiffero, donne trenetta, ranuccio, elica, farfalla, donne conchiglia, donne linguina e bavetta, donne penna e pizzocchero; donne reginetta.

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9 novembre Il tre novembre ultimo scorso dimenticavo elencando che i primi nel calcolo sono i bambini che mancano. E il tiranno per me, doloroso per me è Bartolo Giugno. Bartolo il morto. La mia classe è un minerale. Poi io resto il fossile. Le mie lacrime facili sono implicate. Osservo il lutto e nell’appello rimarcato l’estinzione. Non m’adeguo al tacimàci degli altri, sebbene quanti errori fino a oggi perché aspettato nel tempo che mi fosse offerta la scomparsa, come dire l’assassinio. La confessione di noi. Ma a nessuno vale Bartolo Giugno. Lui sta dove sta, è quel che è. Noi proseguiamo violenti, nel silenzio del ladro di vita. Sento la colpa. Ero il vigliacco sin dall’inizio, quando finto che la scomparsa fosse un’assenza e non chiesto nulla. Settembre e ottobre sfidando i suoi dodici compagni alla menzogna dell’addio di Bartolo, come un fatto che si prevede e s’attende. La profezia ipocrita. Il mostrarsi saputi quando non si sa niente e fuori si muore. Mai considerato il posto vuoto. Ogni appello una voce rispondeva assente per lui. Parla e s’alza Terrasi e non gli chiedo dove sia o cos’abbia il compagno di banco. Terrasi il bambino Calogero m’avverte che Bartolo è via. Finto nel giorno dopo giorno che non sapessi dov’era il sempre sporco e coi capelli di gesso, Bartolo di poche parole ma dalla risposta pronta, un tempo capace di gioie e urla squarcianti, bambino giostra, bambino cresciuto, bambino non più, bambino civetta, bambino luna, figlio di Leonardo minatore nello sciopero, uomo da tessera Pci, uomo protesta a voce alta, Leonardo Giugno pugno chiuso, padre di Bartolo esausto nell’arresto senza fiato né 18


reazione tra uniformi e pistole come il gatto che sollevo, rivolto, stropiccio e gli sospendo la dignità e lui lascia che io faccia. Leonardo il vedovo cui la moglie morì giovane come un albero d’arancio che divorano i funghi. Leonardo anche vedovo adesso di Bartolo il timido, il piccolo ora morto che teneva gli occhi bassi, amava la storia, frugava Garibaldi, bambino sogliola e fondale e nel giorno dopo giorno finto di non ricordare i giochi e le risse di Bartolo e il nome e la faccia orgogliosa di Leonardo che venne fuori dal nulla, e in questura lo picchiarono. Ma sapevo; soltanto vigliacco. Sapevo della miniera, come tutti sanno. Poi deciso di fare. Un giorno di metà ottobre: non so perché mi fiotta tra la notte e il sole una voglia di andare, muovere, cambiare. Senza più scanto, mi dico, vai e riportalo in classe. Così ho fatto, ma era troppo tardi. Pure il tempo mi sfruculiò. Incodardito anche per bestemmiare e difatti non bestemmio, quando anche vorrei. Il mio tentativo non valse. Il morto morì, divenne quel che è, ubbidì alla legge del prima o poi, scese le scale, entrò nella pozza, galleggiò, affondò, chiuse gli occhi bambini ai pesci, aprì la bocca infantile alla lattuga di mare inventato, s’intagliò nel piccolo per sempre ed Enna accettò il funerale di contrabbando. Funerale per forza e nauseante, quasi un mettere le mani tra le ortiche. Questo il disagio di noi e io il vigliacco molto obliquo, molto in disparte rispetto allo stremato padre sul tabbùtu di Bartolo, uomo che seppelliva la sua stessa vita col figlio, faccia stordita ma ruggente del due volte vedovo. Io, ancora io: quanta indolenza, quanto inadeguato, quanto puzzo e puzzavo.

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11 novembre Nuovo tormento da Pietro per la questione del mestiere che faccio e sostiene che a farlo in questa città ci vuole coraggio, «anzi si deve inclinare a gettarsi via». Chiesto: «Dove le hai lette queste parole: inclinare, gettarsi via?». E Pietro rafforza: «Proprio a buttarla via, la vita». Argomenta il fratello nel dire che io sono quello che ha sempre studiato e lui quello che lavorava; e che io ora mi spreco. M’ha chiesto: «Per chi e cosa importa che tu faccia il mestiere che fai, se ogni anno c’è un bambino di meno?».

13 novembre Caro diario, ancora ricordi: io sono l’ultima sillaba tua, muovo la penna, verso parole, rilascio memorie, la tua ultima e penultima lettera sono io che curo me con te e fermo i gesti non fatti, non detti, fatti male e mal detti, io nel magistero di me e della vita che insegna e fallisce, io lo sgorbio e organismo dell’imperfezione: avevo deciso di fare. Tra la notte e il sole m’era fiottata la voglia di muovere, convincere, riportare. Prendilo, ricalalo in classe, pensavo e ripenso e mi sento limosina e degno di uno schiaccio assai grande. Provai a salvarlo: fatto cilecca. Un giorno di metà ottobre dopo scuola fermo Calogero, con un cenno significo a Terrasi che aspetti perché devo parlarti, lasciamo che gli altri scolari sfoghino via, quindi proposi un pezzo di strada e il bambino offrì la mano e uscimmo nella grattugia dell’inverno precoce. I nasi perdevano gocciole e andiamo alla piazza che 20


troviamo deserta. Nel cammino chiedo a Calogero se sa dov’è Bartolo e quello ci pensa e annuisce. «Perché non l’hai detto?» «Voi avete chiesto?» Succede che le labbra si pieghino nell’angolo della malinconia e capitò a Terrasi al quale domando se adesso si senta solo e rispose di sì, e nello sguardo gli salì rabbia che lo mise in fuga alla fontana. Il bambino che corre la corsa pianto e libera, lo scatto del bambino solo bambino, non risposte né interrogazione, sollevato da terra, rimosso dal mondo. Quand’è tornato ansimava: temporeggiatore, indeciso, appeso alla lavagna come un pupazzo Calogero, rigido nell’incastro del banco Calogero, bambino pena, bambino smorfia senza sorriso, bambino spina, rovo e lisca, bambino attesa e bambino fango. Orfano dell’amico, abbandonato tra i vimini e adesso gli abbottono il cappotto, calzo la scoppola, stringo sul collo la sciarpa che s’era allentata. Dovrei dirgli: «La colpa è mia» ma zitto gli poso una mano sulla spalla e aspetto che ci si sieda noi due sull’uscio del rudere Cimino al riparo dal vento e che Calogero accosti la gamba al mio soprabito e la scaldi. Solo a quel punto parlato per chiedere: «Dove sta Bartolo?». «Alla miniera» risponde. Poi dal ginocchio stacca una crosta di sangue nato dal gioco, dal tonfo del bambino agitato e distratto, crosta che è la storia del suo gioco e anche adesso ci gioca, Calogero masticacrosta, Calogero tira la crosta, Calogero verifica se qualcosa di sé sappia incidere il mondo. Il giorno dopo che scuola era chiusa alzato alle cinque, sceso piano dal letto e lasciato la stanza senza svegliare le femmine, indossato in cucina i calzoni premeditati, la camicia collusa, giacca e cappotto cospiratori e uscito, aperto il buio come tendaggi attraversandolo in bici, calato su via Pergusa deserta se   21


non per un carro di merci. Le case una mandria ospite del mio passaggio, in sordina i muggiti delle finestre, i portoni scodinzolano, i balconi mammelle da mungere, gli intonaci una pelle di zecche. Preso la discesa ripida di ghiaia e lasciato la città. Incombe un cielo che il biancore farciva. Dopo mezz’ora, e nella luce che precede l’alba, ero sulla strada per Caltanissetta. Pedalato forte per sconfiggere il freddo. Già stanco ma fatto coraggio e respirato appena col naso. A metà percorso: via dalla statale, dentro alla trazzera. Scelto il sentiero che s’inoltrava nei campi e nei frutteti coperti dalla nebbia e dal gelo dell’aurora, e dovuto rallentare sul terreno accidentato sfiorando mandorleti, uliveti, eucalipti e pistacchi, a malapena vedendoli ma sapevo che erano lì, un albero dopo l’altro. Biciclettato. Sudato sotto il cappotto, la giacca e la sciarpa. Sentito vivo, forte seppure affaticato nel presente delle gambe e dei muscoli svegli. Sentitomi polpacci e caviglie contro i pedali. Sentitomi talloni e polsi contro il manubrio, sangue nel formicolio delle punte dei piedi e pelle sulle dita a sfregare manopole. Il ferro del sellino che mi tortura: anche quello in fondo ravviva. E poi la paura, e in effetti eccitato. Si disperde la nebbia, la luce s’accende contro le rocce sabbiose del monte Capodarso che avvisto, contro la diga verde del Capodarso rivoltato verso il cielo ma ora nell’alba dopo la nebbia più marrone secco che verde; né dimentico il rosso della terra che m’accompagnava come la corsa di un cane. Da qualche parte stavano a galla in stagni nascosti folaghe e tarabusi beccuti, stanchi per aver volato tra gole d’ambra e di ardesia. Barbagianni, assioli e aquile erano le spie delle rupi; con gli artigli una poiana mi segna. Le ruote della bicicletta sono bianche del calcio calcarenitico, capodarsico e il monte sembra mio padre, 22


mi ci arrampico come da bambino sulle spalle di mio padre e ripeto: per la paura di quanto corro a vedere sono vivo nel corpo e tremo. Nel fiato grosso. Vado per la prima volta; provato vergogna. La strada l’ho chiesta. Senza chiedere non l’avrei mai trovata. So cos’è una miniera. So i nomi, le macchine, l’organismo che cava e s’interra narrato dal padre che sembrava il monte. Mio padre. Solo ora ci vado, però. Mi attira un destino. La vita di Bartolo, il sudore di Giugno. Lo scolaro ostaggio del sistema mortale dell’esistenza. Per questo pedalo, io l’innocente. Vado a vedere. Al ponte sul Salso giro giù per la stradella e nella carrareccia sceso dalla bici per non cadere sul terreno argilloso, non più arido e non ancora fango come se avesse piovuto da poco ma non abbastanza per scoraggiare secchezza. Spingendo la bici terminato al traforo dov’è la roccia su cui il ponte poggia. Lasciato le ruote per terra. Cammino un poco soltanto e la vedo. La miniera. Vedo tutti. Mai visto tanta gente al lavoro. File di uomini sorgevano al buco. Altri uscivano dalla forgia. Cerchi di gente disordinavano ai forni. Velluti di un addome messo a rovescio. L’odore dello zolfo gonfiava la forra. Non faceva ma strafaceva, la moltitudine di operosi e quanti altri sotto, e io che ero venuto per muovere, agire, riprendere, subito mi riempivo lo sguardo dei piccoli; mezzi uomini piegati, rapidi, farfalle, scheletrini, un’altra specie davvero. E meno male che fino ai sedici una legge li vieta. A questa legge io dico nessuno obbedisce. Carusi pellicola d’inizio secolo. Carusi film muto e accelerato, ma solo quando li prendono a calci o rincorrono; altrimenti la soma li straccia e rallenta. Non visto Bartolo ma sapevo che è lì. Cercato un posto per   23


guardare meglio. Trovato un pozzo lontano dai capannoni e dal ponte coperto. Lontano dalla discenderia (un occhio bestiale, nero, una gola) ma davanti al buco castelletto che scende da basso, che porta e tira gli schiavi per il mio scrutinio. Se qualcuno esce o entra, io l’avrei visto. Appoggiato al pozzo li studiavo grigi e vestiti di stracci. Dell’infuso. Pensato: Se fosse estate li vedrei uscire senza mutande neppure, così come s’aggirano sotto. Capito presto che non avrei mai fermato Bartolo dagli altri, perché gli operosi sono un tutt’uno di schiene e vagoni di carico dove l’individuo non lo conosci, si perde e cementa nel giogo scultura, edificio, nell’organo e materia dei servi e creduto di vedere uomini cottimo, uomini mulo, uomini bastone, uomini mano, uomini grido e uomini gamba, uomini polvere e uomini occhio, uomini che affiorano, uomini che s’immergono, uomini scandaglio, uomini dinamite, uomini scavo, uomini ordine e uomini obbedienza, mezzi uomini obbedienza, uomini padrone, uomini collera, mezzi uomini angolo, mezzi uomini curva, uomini e mezzi uomini creati con nuche contro il cielo e occhi sul terriccio, uomini botta e graffio, mezzi uomini lamento e livido, uomini e mezzi uomini ferita, uomini e mezzi uomini sete, fame, raschio, tosse, fitte in ogni parte del corpo esteriore e interiore, collasso, sincope, spasmo, avvelenamento, dolore, coscienza, rabbia, uomini obiettivo (molto simili agli uomini cottimo, più rapidi più l’obiettivo è vicino), uomini con l’aureola (tessuta di bocche da sfamare; coro di bocche da sfamare attorno alle tempie di questi uomini), uomini e mezzi uomini sapore di terra nel palato, sapore di zolfo, lingua schiacciata, morso sulle labbra, prurito interminabile, uomini e mezzi uomini paura (della nuova immersione), uomini in cerca e uo24


mini in fuga, uomini patimento e attesa, uomini caduta, capriola e nuvola, uomini cautela, uomini terrore (dell’antimonio e del grisou), uomini piccone, scalpello e pietra, uomini fango e argilla, mezzi uomini fango, bocca spalancata, erosione di labbra, calcolo, sonno, cosce che cedono, polpacci che scricchiolano, caviglie che si spaccano, polmoni che s’aprono e chiudono come ventagli, capelli di pece e di stoppa, mezzi uomini madre che manca, fratelli e sorelle che mancano, casa che manca, senza letto, cuscino, coperta, freschezza di lenzuola, senza lingua affettuosa raschiante del cane, fusa di gatto, richiamo di porci e galline, senza tepore, latte caldo, biscotti, pane, focaccia, senza carezze, scuola, gioco, corsa, pelle pulita, pelle rosea, non nera, non di fuliggine, non sulfurea, non bruciata, senza graffi di freddo o ustioni da antro, uomini ira, uomini perdono, molestie, fastidio, e tutti piegati a stento, tutti a stento in piedi. Pensato: Li ferma solo l’altezza; non c’è età, mancano i nomi. I piccoli e i grandi, i mezzi e gli interi. Pensato: Come faccio a trovare Bartolo? Pensato che non lo trovo. Però ero occhio ed ero stupore. Un rampicante capace di vista, meravigliato (nel senso che m’aggrappo al pozzo). Un maestro di pietra. Sempre nell’ombra della cisterna guardato i mezzi adulti correre sullo spiazzo a farsi ordinare; poi, e anche prima, quasi sempre litigarsi i vagoni e le braci. Mai visto un momento di pausa. Ascoltato grida acute e trambusto di giungla. I capi in tolleranza a condiscendere osservano con le mani in tasca, a volte ridono del teatro di risse. Visto gli uomini scendere nelle tonsille di Sicilia, a cinquecento metri da quassù, a mille. Pensato a Bartolo nei diverticoli dell’isola Giugno. Chiestomi come sia fatto un inferno, di che colore sia e quanti inferni ci   25


sono. Risposto che l’inferno è il camaleonte, e se ha un nome si chiama Sicilia. Piantando i piedi sull’argilla, ascoltandoli gridare nello spiazzo e nei fabbricati, attorno ai forni e davanti alla spelonca, questi esseri dalle schiene di gatto che si strizza e gole seccate, capito che non potevo salvarlo. Il bambino. Non era redimibile. Era il contenuto ostaggio del mondo contenitore. Il freddo del pozzo e del vento sgretolandomi. Pensato: Ecco la prigione e il destino. Pensato: Sciolti come le colate nel calcherone. Una colata di uomini e bambini nudi gettata contro e dentro la miniera per tirarne fuori lo zolfo da trasformare subito in colata, in un movimento incessante dal solido al liquido al solido, pensato, nel quale degli uomini e dei bambini importano solo: resistenza, mani dello sporco tiranno, nocche dove le grinze dimesticano, unghie che si spezzano nell’incompiuto, colore, grigiore di fossile sulla scorza che non è più pelle, gambe veloci e ostinate, voci forti per dare ordini, voci forti per lanciare allarmi. Nel versamento di bambini e uomini, figli, padri e fratelli fuori e dentro la terra, pensato che dovevano resistere in forma liquida o gassosa tutti i morti della miniera, anche loro colati nella sciara. Sopra e sotto non ci sono quattrocento ma più di mille, forse centomila, contando i morti da che la miniera esiste, i dipartiti nella miniera e i morti di morte naturale, gli uccisi dalla solfara e gli uccisi in tanti altri modi, una stirpe di vittime già morte o non ancora morte che hanno donato o donano la vita allo stomaco laggiù, pensato. Grandi vermi vuoti, ossia cunicoli, ingoiavano minatori nudi e si lasciavano scalfire; ma fino a un certo punto e non oltre. Picconi laceravano da qualche parte la cava: come cogliere i frutti di un albero fossile e vendemmiare in un campo di torba. Ascoltavo anche il rantolo dell’argano che 26


fa pensare a tutt’altro: porti, battelli che salpano, viaggi che iniziano, addii, gioia, tristezza e ansia, insomma la vita. Per fortuna nessuno mi nota. Ero una palla di sguardo rannicchiata nell’ombra di un pozzo. Ero nulla e nessuno. Poi uno esce, accompagnato da niente. Mezzo uomo. Diciamo pure bambino. È venuto spingendo una carriola. Lento con perseveranza. Passo dopo passo. Chino. Ballava la spinta. Grigio da capo a piedi. Anche la carriola era grigia, ma più verso il bianco, mentre lui era guastato nei panni. Chiestomi: Spinge la carriola o è la carriola che tira lui? In altezza (o curvatura) si fermava esattamente a metà dell’uomo nel quale aveva il diritto di farsi (col tempo sottratto, rubatogli). Attraversa il piano e si copre. Sistemava sul collo una sciarpa. Calzava un paio di guanti di polvere. Muoveva la carriola che forse invece lo succhia e poi ha tirato fuori un basco blu e se l’è pigiato. Allora (era già la metà di ottobre) pensato: Quel basco l’ho visto. Congetturando: Due inverni di seguito, appeso all’attaccapanni accanto alla cattedra; l’ho visto. Ricordato: Quel basco l’ho visto anche nel corridoio di scuola volare tra le mani di Bartolo Giugno. Convincendomi: È il basco di Bartolo; e quello è Bartolo. L’ho riconosciuto. Il mio alunno. Adesso mezzo uomo. Creatura tra operosi. Col berretto blu in testa verso il calcherone. Avuto l’impulso di saltare su e corrergli incontro, ma solo per poco; infatti rimasto col pozzo compagno. Meditato che fare, e nessun pensiero. Ancora ridottomi a sguardo e nient’altro. Intanto Bartolo avanza. Si ferma a parlare con l’altro che incontra e gli dà una pacca e prosegue. Di nuovo si ferma e riposa. Sosta sulla spianata e s’ammira attorno. Allarga le braccia lontano dai fianchi e guarda il cielo. Inclina il collo di fretta. Lo riconosco di nuovo. O credo.   27


Guardare il cielo a quel modo era gesto di Giugno. Pensato che è proprio lui. Nel tirare su il collo, il basco gli è caduto per terra. Adesso scruta coi capelli sciolti in un mosto. Gli occhi di Bartolo nel cielo e i suoi capelli appesi. Le braccia di Bartolo larghe lontano dai fianchi e i piedi piantati sulla corteccia. Bartolo da solo per un riposo (istante spilorcio), a pochi metri dai forni, a non più di cinquanta da me. Bartolo con se stesso dopo la grotta, prima del calcherone, ancora un po’ prima che torni alla grotta. Pensato: Vallo a prendere. Però il pozzo non m’ha visto partire. Eppure ero venuto per lui, e lui m’era apparso. Dico: quello era il momento d’alzarmi e chiamare, fare, muovere, convincere, da maestro di pietra incarnarmi, attirare Giugno e con parole preziose spiegarmi, ascoltarlo spiegarsi e poi accarezzarne il soccombere, quindi via verso Enna lui e io. Bartolo aspettava lì solo. Smise di guardare il cielo e raccolse il basco da terra. Ma restava fermo. Non ripartiva. Dovevo chiamare. Dovevo muovere le cose del mondo. Non mosso. Rimasto zitto, cosa del mondo che aspetta. E se non fosse lui? Troppa distanza e occhi stanchi. Il piccolo è lurido, non si distingue dagli altri. Il basco è un basco. E se gridassi poi tutti vedrebbero, e perché se lui neppure è Bartolo? Allora (novembre è vicino) mette il basco, afferra la carriola, riparte. Arrivò al calcherone. Non più solo né aspettandomi. Di nuovo tra i fusi, nella colata. Scese nella vita occulta. Portò la sua storia al dettato, dentro la pagina con bordi e confini. A farsi prescrivere il gesto, il tuffo in discesa, lo strazio. Lontano per sempre e io fermo. Poi tolto dal pozzo, scappato via: l’ultima sillaba tua che muove giusto la penna e versa appena parole d’inchiostro, ed è 28


l’escremento che si squaglia e che sono. Non un maestro. Una disgrazia. Sul monte, nei campi, verso la città. Dieci giorni e muore Bartolo Giugno. Un masso lo prende. Lo scovano nella coccola di una roccia. La miniera non è una carezza, però. Il freddo non riscalda, l’odio non ama, un bambino non è un gigante. Il bambino non merita zolfo. Neppure il gigante lo merita. Nel mondo finisce Bartolo Giugno. Questo mi spezza.

14 novembre Trascorso la domenica con la bimba nei giochi in cortile. Ci istighiamo e Annamaria strilla e io ululo. Annamaria corre e io rotolo. Senza freni sul lastrico finché arriva il freddo e dovuti rientrare. Rimasti a giocare in cucina. È passato Pietro e assieme abbiamo scherzato. Non detto a Pietro come mi sento. Abbiamo fatto il teatro. Pietro col saraceno rosso e io con l’azzurro ce le siamo date. In cucina il tavolo era il campo della battaglia, i pupi calamite per Annamaria che guardava senza respiro con l’ossigeno dei suoi sorrisi, con l’euforia dell’occhio infantile. Più tardi pane e marmellata per rifocillarci. Grande libertà. Annamaria s’è messa a disegnare e sbadiglia e poi s’addormenta sui colori di una casa interrotta. Uscito con Pietro per fumare e fianco a fianco m’ha chiesto: «Allora, come va la vita?»; questione che s’è staccata da me per colare lontano, dov’era peraltro la mia risposta.

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19 novembre Strisciavo in cortile con la movenza dell’io rancido che scuoce, si scioglie, ammuffisce ed ecco Pietro. Consegna un pacco: «Aprilo, poi ne parliamo» e se ne va. Rimasto con l’incarto. Rientrato in casa. Svolto sulle ginocchia un mazzo di cinque riviste, vale a dire letture, che poi in lingua spagnola e nei titoli: Mundo Infantil, Mundo Argentino, El Hogar, Mundo Deportivo, Mundo Peronista. Sorpreso dal dono di Pietro. Offerta sudamericana e grosso mistero del da chi, come e quando se la sia procurata, e perché proprio a me. Le copertine si rassomigliano per avere incisi ciascuna un volto, una figura, variazioni sul tema di una donna che è sempre la stessa. La tinta di china ritocca le immagini. Un volto languido e angelico (non so decidermi). Carnagione di bimba, labbra strette nel rosso, il naso si vede. Capelli chiari raccolti nella crocchia dietro la nuca. Capelli sciolti sotto il copricapo di piume o a gronda. In una pagina il suo viso e parte del collo erano appesi in un cielo dal quale spuntavano come da un mare capovolto, dove il resto del corpo s’immerge in pace. Attorno stelle che luccicano, nuvole. Molto sotto: mani che implorano e una corona d’argento disarcionata. Raffigurazione sacra di lei che guarda altrove e sorride. Nelle copertine che restano: ancora santità, la quiete di una storia umana conclusa, la donna vestita con abiti civili oppure avvolta nella bandiera argentina. L’anno è il cinquantadue. Una settimana. Inizia il trentuno di luglio. Il sei agosto finisce. Una delle riviste m’informa: «È morta Eva Perón. Ma nelle immagini noi la eterniamo». Ricordato che lessi di Evita e adesso Pietro e il suo dono. Ancora sfogliato: nel corteo d’illu30


strazioni una biografia di regina. Evita con in braccio il bambino. Evita saluta la sposa. Evita in abito bianco. Evita, il calciatore e la coppa. Evita dal balcone si sporge verso la folla. Evita tra le atlete, in uno stadio che trabocca dove stringe al petto una palla. Evita in un campo d’erba tira una tenda o forse s’aggrappa; cosa nasconde la tenda nel mezzo del prato? I militari circondano Evita e la tenda. Dietro, in parte coperto dal braccio di lei che neppure s’accorge sebbene mostrando un’espressione di schifo, c’è un generale dall’aspetto terribile. Non solo immagini: aneddoti. Letto per quanto potevo in spagnolo di Perón e di chi decise d’essere Eva al suo fianco. Della madonna degli umili, poi beneficenza e voto alle donne, ma pure lusso, malattia, morte. Come ogni storia, vicenda di nascita e morte. Si sgorga, si ascende, si lotta e sfiorisce. È tutto uno sforzo verso la pronuncia del vocabolo «fine». Declamare la fine con l’atto rapido o lento di vivere. Ma perché da Pietro a me? E lui cosa sa? Dove le ha trovate queste riviste? Voleva che apprendessi meglio la vita oppure la morte?

20 novembre Altre cose che mi dicono «piangi»: l’odore in cucina, lo sporco sul pavimento, le variazioni del fango, le rughe del legno, l’idea di capezzale, la doppiezza del mio pigiama, il caffellatte di pomeriggio, un pranzo solitario, l’avanzare della notte, la stanchezza, l’indifferenza, la tracotanza, l’incontinenza, lo squarcio. Mi fanno sorridere invece: Annamaria, Pietro, il bagno caldo, l’acqua profumata, ogni genere di timballo, i libri in fiore, pu  31


lire la lavagna dal gesso, l’attenzione, ricordare, solleticarmi le braccia, colmare e turare lo squarcio, frantumare i catenacci, riscaldarsi d’inverno. Dimenticavo la premessa, ossia l’essermi chiesto: Già che piango per Bartolo Giugno, cos’altro mi fa piangere? Faccio il mio ingresso nella spelonca, finiti la scuola e il cammino e scivolo per la dolina tra i ghigni del magma domestico. Deglutito nella scolatura fino alla camera e al letto, evitando esseri umani e i cristalli mi graffiano. Approdato allo specchio. Spogliato. Tolto l’abito, camicia e pantaloni. Sfilato le scarpe con voglia di vomito. Ridotto in canottiera, scrutato i nuovi peli sulla schiena e sul collo. Fuori da me, in un deposito attiguo avvolto in sinclinali, Annamaria urla e Angela la zittisce. Indossato pigiama e vestaglia. Annusato il puzzo del ripostiglio inverno. Posando i piedi su guano e ossa, sollevato lo sguardo verso la parete di concrezioni sopra allo specchio e notato la crepa, ossia riga, ossia ruga che in fessurato cola come un fulmine lento, prima dritta poi di sbieco e molto simile allo squarcio che mi fa piangere se non lo turo. Avvertito anche quanto esalasse la zuppa di Angela rintanata tra calcite e travertino come in una buca di marmotta addormentata sotto ai campi della Masseria Ficodindia, e sotto all’inverno e contro l’inverno. Estorto le riviste argentine ai talloni del materasso per sfogliare poche pagine e offrire sguardi a Evita che sorride nel cielo; poi lasciatele, aperto la finestra e ho preso una boccata d’aria. Ma dolore alla gola, allo stomaco, al petto. Entrato in cucina e la cena va male. All’inizio no. S’è mangiata la zuppa; Annamaria con disciplina, Angela severa e io quel che sono. Poi pane e ricotta senza sciogliere l’ordine. 32


Alla fine, però, sparecchiando Angela inizia a piangere con gli occhi verso il basso, il naso a spada, le braccia a fucile e contro natura visto che la sua, di natura, è tacere. Le colano lacrime come una pioggia inattesa tra i resti dei caliceddi, mentre chiude lo sparecchiamento pigiando il grembo sul tavolo. Chiesto: «Perché?», ma lei piange e basta. La bambina guarda la madre stupita. Ripeto: «Perché?», ma è venuta fuori la voce del lupo e mica volevo. Angela si rintana nei piatti sporchi, nostra figlia si fa contagiare e piange anche lei, solo io stavolta non lacrimo e penso: Colpa mia, e Angela con gli occhi conferma nel prendere la bimba e portarla di là. Succede questo a fare la voce del lupo? Rimasto in cucina nauseato da Sanchis finché la moglie è tornata e ricomincia a mettere ordine. Provato a scusarmi e lei ha detto piano che non importa. Tra i piatti nella tinozza e il mio respiro. Con l’intenzione di non farsi sentire, di lasciarsi appena intuire. Chiestole: «Perché parli piano? Perché non dici nulla? Perché piangevi?» e lei non ha detto nulla. Voltandomi le spalle, graffiando terra coi piedi, bagnando le mani nella piattaia e asciugandole sullo straccio e di nuovo bagnandole. Respirando con la bocca, tirando su dal naso. Angela nella guerra del silenzio. Forse in lotta perché non la tocco più. Aggrappandosi alla tinozza di terracotta, stringendo lo straccio. Scattando verso l’angolo di pietra, buttando lo straccio nell’angolo, soffiando sul lume. Uscendo dalla cucina in cortile. A portare sulla panca gli avanzi a conservarsi nel freddo. Nascondendo gli avanzi nella scatola al riparo dai cani randagi. Tornando in cucina. Pensato: Ecco mia moglie, la mite. La vecchia. Sfilando il grembiule, sollevando il seno pesante. Sciogliendo i capelli   33


come farina versata. Indossando il maglione grezzo di spine di lana. (Senza mai guardarmi né parlare.) E il corpo le si consuma in solitudine. Le invecchia senz’attenzione. Pensato: Ti meriti questo silenzio. Pensato che non abbiamo memoria. Cadiamo dal tempo. Ci rompiamo le ossa e Angela se ne va e più tardi la raggiungo che già dorme, e scivoliamo assieme nell’indomani.

21 novembre A pranzo da Pietro per il suo compleanno, ad Assoro. Passeggiato insieme tra i ruderi. Così ecco che ci siamo spiegati. Al mio chiedere come, perché e quando mai non ha risposto con una risposta ma chiedendo lui se le riviste mi sono piaciute. «Non lo so mica, visto che c’era di mezzo una morta» gli dico e aggiungo che non capisco. «Non capisci cosa?» Perché me le abbia portate, domandato in forma di risposta e lui s’è sperperato: per darmi un’idea nuova e spiega che gli sembro un arnese (credo nel senso di ferrovecchio). Chiesto dove s’è procurato le carte. Replica quanto pensavo, ossia nello studio di Vanacore, dove ce ne sono di argentine e cilene perché la sorella dell’avvocato s’è sposata uno che è di laggiù. Vanacore ha interessi laggiù. E amici laggiù. Pietro porta le riviste in auto, ad aspettare. Non conosce lo spagnolo e questo lo so. Legge le immagini, ha detto. Ha detto proprio così: «Leggo le immagini». «Questa Evita la conoscevi?» chiesto. «Sì, anzi no; diciamo ’mpuzzuddu» risponde. Domandato se le devo restituire ma dice che le posso tenere e ne porterà altre, «così poi resti vivo». 34


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