Bloodsong

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Allen Ginsberg

Bloodsong La tragedia di David Kammerer e Lucien Carr A cura di James Grauerholz Traduzione di Monica Martignoni


Tutti i testi di Allen Ginsberg sono riportati da The Book of Martyrdom and Artifice: First Journals 1937-1952, a cura di Juanita Lieberman-Plimpton e Bill Morgan, Da Capo Press, New York 2006. La traduzione dei brani poetici alle pagine 38, 69, 70 e 151 è di Leopoldo Carra. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore ©Allen Ginsberg LLC, 2013 Per l’introduzione © James Grauerholz, 2013 © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013 Titolo originale: The Bloodsong. The Tragedy of David Kammerer and Lucien Carr


Sommario

Introduzione. Una natività beat di James Grauerholz

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Il libro del martificio

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Il circolo dei Libertini

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The Bloodsong

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Decadenza e «oscenità»

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The New Vision

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Note al testo

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Introduzione Una natività beat

Erano tutti così giovani… settant’anni fa. E ora sono passati otto anni da quando l’ultimo se ne è andato: Lucien Carr, il blaue Blume – come lo chiamava il coltissimo Alan Ansen riferendosi al fiore azzurro di Novalis e di Hoffmann, ossia al fiore dell’amore, del desiderio e della ricerca di ciò che è irraggiungibile, dell’infinito –, è spirato in pace nel 2005, all’età di settantanove anni. Dopo la morte di David Kammerer il 14 agosto 1944 – Kammerer era il più anziano nel «Circolo dei Libertini» che la matricola Allen Ginsberg aveva da poco scoperto alla Columbia –, gli altri quattro esponenti del gruppo rimasero amici per tutta la vita: William Burroughs, Jack Kerouac, Allen e Lucien, colui che aveva ucciso David a Riverside Park, nelle ore precedenti l’alba, servendosi di un coltellino pieghevole e di pesanti sassi infilati nelle tasche della vittima, con la complicità del fiume Hudson. Il «Circolo» aveva raggiunto il suo numero legale, metaforicamente parlando, durante l’inverno 1943-1944. Quando David Kammerer morì quella notte nel fiume, i suoi componenti erano stati insieme per soli otto coinvolgenti mesi. In quel lasso di tempo era stato giocato l’equivalente storico-sociologico di una mitica «apertura» scacchistica. Dunque: un giovane Cavallo incontra una vecchia Regina e il suo re, di poco più giovane. Anzi, meglio chiamarlo Reggente. All’università il Cavallo conosce poi una Torre e un Alfiere che hanno la sua età, e li presenta alla vecchia Regina e al Reggente. Tutti insieme formano una bella combriccola. Ma ben presto la Regina si sente trascurata dal suo giova-


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ne Cavallo, che si prodiga in attenzioni verso gli altri amici, e con la sua ossessiva gelosia, alla fine, istiga il Cavallo a commettere un regicidio (un «autogol», mi rendo conto, che il gioco degli scacchi non permette). Ma non appena Lei viene mangiata anche il Cavallo viene tolto dalla scacchiera! Adesso, dopo essere sopravvissuti a questa serie di mosse, il Reggente, l’Alfiere e la Torre sono legati per la vita. Chiamiamolo pure il «Sacrificio Kammerer». Dopo lo shock dell’agosto 1944, i tre amici che non erano finiti in prigione – e che fino al Natale del 1943 non si conoscevano nemmeno – furono ancora più uniti e si incamminarono verso i loro destini intrecciati per sempre. Ginsberg, Kerouac e Burroughs affrontarono ulteriori avventure e disavventure, sempre in contatto, insieme o separati ma comunque pronti a scriversi, a raccontarsi a se stessi e agli altri, a sviluppare le proprie radici e le proprie diramazioni. Dave Kammerer giaceva sottoterra già da dieci anni quando gli scritti dei suoi amici cominciarono a essere pubblicati: La scimmia sulla schiena, Urlo, Sulla strada, Pasto nudo, apparsi tutti nel periodo 1953-1959, e in gran parte quasi autobiografici. Poi venne la Fama, parola che può avere tanti significati diversi. I libri citati, insieme ad altre opere beat fondative, sono «nati» circa cinquant’anni fa, hanno continuato a crescere nell’immaginario e oggi sono vivi e in buona salute. Ma le creazioni dei beat prima maniera raggiungevano un vasto pubblico solo per il fatto di essere mediate. L’arte e gli scritti «beat», e le vite «da beatnik» di Ginsberg, Burroughs e Kerouac, venivano raccontate da giornali, riviste e libri (nonché da radio e televisione) secondo punti di vista che variavano dal sociologico al sensazionalistico, assumendo spesso coloriture demagogiche. La fama iniziale, per i tre, fu una miscela di nomea scandalistica e di prestigio intellettuale presso un pubblico ristretto ed elitario. I beat incominciarono a godere realmente di «buona stampa», perlomeno agli occhi di un pubblico più vasto, soltanto verso la fine degli anni sessanta. Ma già nel 1959 ognuno dei componenti del trio ur-beat di New York era un personaggio noto, e tali rimasero tutti fino alla morte. (Se avessero sottoscritto insieme quella forma assicurativa conosciuta come tontina, si potrebbe dire che a beneficiarne sia stato William, anche se solo per quattro brevi mesi del 1997.) La vita di Lucien aveva preso una strada diversa: dopo essere stato ri-


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lasciato nel 1946 dal riformatorio di Elmira, nello stato di New York, era diventato uno stimato giornalista e redattore. Nel 1956, quando la City Lights pubblicò Urlo, Carr (l’episodio è ora ben noto) chiese a Ginsberg di togliere il suo nome dalla dedica nell’edizione successiva. Allen accolse la richiesta allora e anche in seguito, risparmiando per quanto possibile a Carr l’attenzione dei media, proprio quando il meme della Beat Generation, durante gli anni sessanta, si diffondeva e iniziava a brillare. Ma questo accadeva cinquant’anni fa. Quanto all’altra storia, quella svoltasi in quei lontani giorni di guerra, su molti dei suoi punti salienti è stata fatta nel frattempo ampia luce, come si suol dire. E oggi più che mai attenzione e notorietà arrideranno a quei nove, drammatici mesi del 1944: la pubblicazione di questo volume coincide infatti con l’uscita nelle sale italiane del film diretto da John Krokidas, Giovani ribelli - Kill Your Darlings. Quella che gli studiosi definiscono una «sintesi narrativa» della storiografia su quei nove mesi embrionali, con la ricca scelta di fonti primarie ora disponibili, non rientra nell’orizzonte di questo breve saggio. Nella mia postfazione al romanzo di Kerouac e Burroughs, E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, che i due scrissero insieme nel 19441945 ispirandosi agli stessi eventi raccontati in questo libro, ho presentato una simile sintesi aggiornata al 2008. Esistono storie della Beat Generation, biografie, memorie espressamente dichiarate come tali, autobiografie vagamente mascherate, raccolte di lettere e tanti altri materiali, troppi per elencarli tutti. La «Ballata di Dave e Lou» è stata narrata infinite volte a partire da un paio di mesi dopo la morte di Kammerer, riferita e reinventata da persone coinvolte, testimoni e semplici curiosi come una delle quattordici stazioni della Via Crucis beat, che ha alimentato, e ancora oggi continua a farlo, romanzi e film. Il mio principale punto di riferimento per testi, materiali, citazioni – e a lui vanno i miei più sentiti ringraziamenti – è stato Bill Morgan, che, insieme a Juanita Lieberman-Plimpton, ha curato il libro dei diari e delle poesie giovanili di Allen Ginsberg: The Book of Martyrdom and Artifice: First Journals and Poems, 1937-1952 (Da Capo Press, New York 2006). Quel volume è l’unica fonte dei testi che qui ho selezionato allo scopo di illustrare le esperienze di Ginsberg in quei nove mesi, le sue considerazio-


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ni su tali esperienze e sui suoi amici, i suoi tentativi di esprimere e descrivere tutto questo durante i quindici mesi successivi all’agosto del 1944. L’introduzione di Bill Morgan, le sue spiegazioni e le sue note al piede nel Book of Martyrdom sono ricche di dettagli biografici, chiariscono allusioni enigmatiche e collegano i nomi alle persone reali. Per Bloodsong ho scelto di ometterle. D’accordo, il lettore rischia di non cogliere determinati collegamenti e indizi che possono precisare una certa immagine, ma probabilmente i fatti narrati non risulteranno del tutto oscuri. La comprensione dipenderà prevalentemente dal grado di familiarità del lettore con questi avvenimenti noti. Le spiegazioni fattuali avrebbero aggiunto particolari in più, ma credo che questa storia, scandita in presa diretta dalle parole di Allen, si racconti da sola. Un rinomato esperto della Beat Generation (che quindi non citerò) ha gentilmente commentato che questa mia scelta di testi «toglie molte, ma non tutte le parti noiose dei diari di Allen». È la verità. Il nostro giovane poeta – che aveva allora diciassette, diciotto anni – affidava al suo diario certi atteggiamenti un po’ puerili, certi discorsi sconclusionati di fronte ai quali un altro, rileggendosi anni dopo, avrebbe magari provato imbarazzo, o addirittura il desiderio di distruggere quegli scritti. (Ho notato, a questo proposito, che esistono pochissime fonti giovanili dirette per William Burroughs.) È bello ricordare come Allen – negli anni novanta, quando lui e Bill Morgan lavoravano sui diari che sarebbero diventati il Book of Martyrdom – studiasse accuratamente le pagine trascritte, autoannotandosi a distanza di cinquant’anni con la massima disponibilità e completezza. Basandosi sui suggerimenti di Allen, Bill Morgan ha poi inserito le spiegazioni e identificato le persone citate, da studioso attento qual è. Avendo conosciuto Allen attribuisco le sue numerose e diligenti chiose a diversi fattori: alla sua innocente curiosità nel ripercorrere i ricordi di anni lontanissimi; al suo stile poetico diligente e accurato, che lo portava sempre a mettere i puntini sulle i; e poi alla sincera convinzione, motivata dalla sua eminente levatura di poeta, che ogni suo ricordo, parola e pensiero sarebbe stato studiato in futuro come oggi si studiano i rotoli del Mar Morto. Sì, sto punzecchiando Allen per la sua vanità e il suo egocentrismo. Però lo faccio per il suo bene. La verità è che Allen era molto ambizioso, ma


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negli anni in cui io l’ho conosciuto e gli ho voluto bene, lo era in maniera pudica e modesta. In questi diari dell’adolescenza, il giovane Ginsberg ci rivela la sua percezione della propria vita e della propria centralità nell’universo; e lo fa con stupore, in modo enfatico e vagamente infantile. È al tempo stesso adorabile e irritante. Ma proprio quando il lettore sta per alzare gli occhi al cielo, Ginsberg riconquista la sua attenzione con il suo intuito straordinario, il suo talento per i particolari, la sua capacità di rendere le persone e i loro discorsi. Se, nel corso del testo, ho eliminato tutto l’apparato delle spiegazioni fattuali e delle interpretazioni, è nella speranza che sia possibile, leggendo le parole del giovane Allen come lui le ha scritte, mettere in moto la macchina del tempo e tornare indietro a un anno in cui non esisteva ancora una «Beat Generation»: c’erano solo cinque spiantati e aspiranti libertini, riuniti dal destino per assistere all’ultimo atto della vita di un uomo; il sipario si stava alzando su tre stelle nascenti della pagina scritta, mentre il primo, originale libertino di Saint Louis usciva sommessamente di scena... Noi, così, possiamo vedere e udire ciò che Allen ha visto e udito, e mai dimenticato: l’alba della sua vita di poeta. James Grauerholz



Il libro del martificio Dicembre 1943 - Agosto 1944



Allen Ginsberg a Eugene, suo fratello maggiore Dicembre 1943 Oggi è il mio ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale, che iniziano domani e finiscono il 27. Non so che cosa farò a Natale; niente di che, presumo, niente di diverso dal solito. Sabato andrò al Greenwich Village con un mio amico che sostiene di essere un «intellettuale» (un po’ antiquato, non trovi?) e conosce delle persone bizzarre e interessanti in quella zona. Sabato sera ho intenzione di ubriacarmi, se ci riesco. Ti dirò com’è andata. Domenica passeggerò per la Hastings Hall, probabilmente con Anna Karenina che sto leggendo saltuariamente da una settimana. Domenica sera, con il ragazzo giapponese che sta qui nel dormitorio, andrò in un ristorante tipico del suo paese. Penso di averti parlato di lui. Voglio verificare se la cucina giapponese regge il confronto con le squisitezze cinesi. Probabilmente domenica sera andrò al cinema. Lunedì sarò a Paterson oppure al Metropolitan Opera con Naomi. Martedì sarò a Paterson e leggerò Tom Jones. Mercoledì sera io e Lou abbiamo i biglietti per andare al Met a sentire Lilly Pons in Lucia di Lammermoor. Dio solo lo sa, l’opera non è così meravigliosa, ma vogliamo vedere Cesare Sodero dirigere. Ci ha invitato ad andarlo a trovare in camerino. Per giovedì, venerdì e sabato non ho impegni, a parte il fatto che devo finire Tom Jones e dovrei finire anche tutto il Paradiso perduto di Milton. Non vedo l’ora di prenderlo in mano.


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Il libro del martificio è il

DIARIO

di Allen Ginsberg Ora, da un cuore incrinato e sanguinante, Trionfante, io foggio… l’Arte! — Allen Renard

Absorber tout, et en faire de l’idéal! Non si è mai tanto all’Inferno come quando si è in Paradiso. — Milton

Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. — Prima lettera ai Tessalonicesi

Tutto ciò che è profondo ama la maschera. — Nietzsche

Il simbolo del Martificio. Come afferma Stephen Dedalus in Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce, il suicidio permette all’artista di trascendere la sfera specifica del tempo e dello spazio. Egli va al di là del-


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la morte. Se in passato è esistito, ora vive. Sperimenta una trasmigrazione dello spirito che diffonde intorno a sé ovunque vada. Quando tocca un oggetto, anche quello muore, e diventa un’anima vivente, un simbolo. Egli è al di là della vita, al di là del bene e del male; in realtà è buono; è il sommo sacerdote di Dio. Pertanto deve essere venerato. Gillette stese il braccio sulla sua scrivania ordinata e prese un quadernetto azzurro che stava sotto una pila di libri di storia. Sulla copertina aveva scritto in stampatello: «Da un cuore incrinato e sanguinante / Trionfante io foggio… l’Arte!». In un momento di debolezza e intensa consapevolezza aveva intitolato il distico Evviva! Il titolo non aveva un significato letterale, ma indicava in modo generico che l’autore era conscio del sentimentalismo eccessivo di quei versi. Gillette tirò fuori una penna e sorridendo cancellò quell’Evviva!.


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L’espressione di sé più individuale, indipendente, libera, disinibita è espressione autentica e arte autentica. E dato che l’artista è scosso dalla reazione violenta all’estensione delle usanze sociali esterne e della repressione nella sua libertà di espressione, tende all’anarchia e al solipsismo. Se può, rifiuta l’influenza subliminale del Super-Io, che gli impedisce di esporre ed esprimere gli abissi più profondi di se stesso. Non sopporta di essere snaturato nella creazione per colpa dell’intrusione delle pretese della società. Ma in che modo l’artista desidera il piacere della creazione? Il piacere del talento artistico? È la liberazione dell’anima imprigionata nell’espressione di sé? È davvero semplicemente nell’esposizione dei suoi pensieri. Allora perché deve affidarli alla carta? Perché non li formula tra sé e sé o a voce alta? Perché non tira fuori la sua energia solo nella vita temporanea? Perché rendere le sue fantasie passeggere immutabili e permanenti? Ah, perché il suo Io si bea nella gloria riflessa della sua arte compiuta... L’Io, l’aquila, che si ciba delle carogne dei nostri desideri! L’Io, che è l’organo prolifico dell’anima, è la vera causa dell’arte permanente e non la pulsione all’espressione di sé in forma permanente. Il piacere dell’artista è estremamente sociale. L’artista ama il riconoscimento. Comunica: il suo Io è la dinamo che muove la cinghia di trasmissione della sua arte. L’espressione di sé è nella realtà – la cruda realtà – la comunicazione, non la semplice espressione, di sé. La creazione è riducibile alla comunicazione. L’arte è comunicativa per natura. L’Io è il produttore, l’esperienza e l’anima sono la materia prima, l’arte il prodotto, l’intellettuale il consumatore. Gauguin? Vanificò il suo scopo – l’indifferenza – prendendo il provvedimento positivo di dare fuoco ai suoi quadri. Se fosse stato realmente liberato dal suo Io, non avrebbe concepito il bisogno né sentito il desiderio


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di distruggere la sua arte. Il suo metodo di comunicazione era la distruzione. Il suo piacere egocentrico stava nel beau geste, nel piacere indiretto della distruzione, nella grande sfida, nell’atteggiamento indifferente del tutto artificioso e autodisfattista. La sua massima opera d’arte era il suo atteggiamento ed egli lo portò irragionevolmente alle estreme conseguenze e alla rovina bruciando i suoi quadri. Pensò di essersi liberato dall’Io e dal Super-Io. Si espresse semplicemente in un modo diverso.


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Dormo con i miei desideri. Sogni avvelenati di fantasia e lussuria. Sogni: i miei sogni avvelenati. Sogni di degradanti giochi sessuali sulla staccionata con la sgualdrina italiana. Sogni d’infanzia: 1.  Risalire correndo il vialetto davanti al 155 di Haledon Avenue fino al portico che mamma – o papà – stava lavando. Acqua nel portico. Una creatura che mi insegue. Una corsa lenta, appiccicosa, impossibile, frustrante. 2.  Il sogno di volare, di correre dentro case e di volare giù per ingressi e dentro e fuori da stanze. Sensazione esaltante di galleggiare. Pianoforte, pareti bianche. Nella casa di zia Rose. 3.  Il sogno di creature che mi fissano, afferrano la scala antincendio e da fuori lanciano sguardi truci attraverso la finestra. Nel sogno (ma non nella realtà) gridavo a papà di venire a salvarmi. Sollievo e salvezza in papà (con un lungo bastone?). 4.  Il sogno della morte di papà. A scuola. Camminavo in silenzio, quasi stoicamente, in mezzo ai banchi, passavo davanti alla cattedra dell’insegnante – determinato e trionfante e violentemente aggressivo – e poi lacrime e grida mentre mi allontanavo.


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2 giugno 1944 Sogno: sto conversando con Arthur Lazarus nella veranda di una casa, probabilmente il 288 di Graham Avenue. Ma si trova anche sulla lunga strada di Belmar (associazione con zia Clara). Stiamo parlando e in qualche modo ci lanciamo allusioni, ci avviciniamo sempre di più, perché lui è decisamente il mio tipo di amante. Ci accordiamo per un abbraccio. Ma c’è un altro uomo insieme a noi, uno spagnolo (Maurice Levett? Don Alvirez? Ci intralcia e non se ne vuole andare. Rimane in una veranda che sembra la cucina. Arthur non sa cosa fare. Vado nell’altra stanza e faccio capire all’uomo che abbiamo da fare: cose di sesso. L’uomo accetta di andarsene ma si aggira vacillante e quando finalmente esce vuole avvertirci che matrimoni del genere non durano. Io non considero quella relazione un matrimonio. Quando torno da Arthur, lui si è accomodato su una chaise longue o su una sedia. Lo faccio sedere sulle mie ginocchia, lo abbraccio e lo bacio. È caldo e arrendevole, quasi femmineo sotto le mie dita. Ha tutta l’aria di un matrimonio duraturo. Ci stiamo abbracciando sotto la sala da ballo della Sessantesima. A quanto pare Arthur ha una fica, quindi sono felice all’idea che mi prospetti un’esperienza importante e varia. Amandolo (pratica abituale) avrò un contatto sessuale con una fica di donna. Siamo una famiglia, una famiglia nomade. Siamo in sei, di varie dimensioni. Ignoro quale rapporto ci sia tra di noi. Stiamo all’angolo tra Bridge e Fair Street e incontreremo la mia famiglia. Vorrei tenere mio padre all’oscuro della mia nuova vita da uomo sposato. Mio fratello, o un mio fratello, di circa sei anni, arriva, riconosce me e i figli che ho avuto dal mio matrimonio. Ci raggiunge mio padre, ormai anziano, con i capelli bian-


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chi, barcollante appoggiato a un bastone e cieco. Gli hanno detto che sono qui e mio fratello non gli rivela che le persone che mio padre riconosce nella folla come simili a lui sono parte di me.


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