Massimo Bocchiola
Il treno dell’assedio Romanzo
Questa è un’opera d’invenzione. Tutti i personaggi sono frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone reali è da ritenere casuale. Tutte le traduzioni sono dell’autore. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © 2014 by Massimo Bocchiola Published by arrangement with Agenzia Santachiara
Il treno dell’assedio A mia moglie Francesca
abbonato Perché, lo ha sentito anche lei? L’elzeviro dal fronte in realtà veniva da Vienna, e proprio questo l’ha impressionata, che è riuscito a scrivere dal fronte stando a Vienna! patriota L’elzeviro dal fronte, mi sono detto, lo ha scritto
per ripicca, perché forse lo hanno respinto… per fargliela vedere! Per dimostrare loro cosa sarebbe riuscito a scrivere dal fronte se ci fosse andato! Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità
My father’s father, his father’s father, his-Shadows like winds. Go back to a parent before thought, before speech, At the head of the past. They go to the cliffs of Moher rising out of the mist, Above the real Rising out of present time and place, above The wet, green grass. Wallace Stevens, The Irish Cliffs of Moher
Gli alberi di Chateaubriand (1 – aria)
[Il vescovo Adalberto] si recò presso il popolo dei prussiani a predicare il verbo della salvezza, e durante la lunga permanenza presso di loro, poichÊ molti se ne convertirono alla fede cristiana, predisse ai suoi seguaci che ivi avrebbe ricevuto la corona del martirio, e per rassicurarli aggiunse che nessuno di loro sarebbe perito con lui. Un giorno per iniziativa del vescovo fu fatto a pezzi un empio albero che sorgeva presso un fiume ed era venerato superstiziosamente da tutta la popolazione. Rodolfo il Glabro, Storie
Prima di tutto il resto c’è la casa. La sua casa in estate è un cascinale bianco sulle prime colline di un lembo settentrionale di Appennino. Queste alture formano come una fortezza tra due mari: a sud quello acquatico, che è il mar Ligure di levante, e a nord una piana orizzontale (equorea, come l’acqua del mare) e popolosa, in parte ancora agricola ma altrettanto degradata, che sale con crescente odio di sé verso la cinta industriale e la città di Milano. La porzione di territorio dove vive è tagliata latitudinalmente dal Po: a nord c’è la Bassa e a sud c’è l’Oltrepò dove si trova la casa. Del resto non occorre troppa fantasia per vedere anche in questo paesaggio un mare: di onde stondate in cima, che salgono dalla pianura fino a mezza montagna per crestarsi alla linea di displuvio e finalmente frangersi, in aspre rughe rocciose ammantate di sempreverdi, su un litorale quasi inesistente. Ma se invece si vedono onde come una fortezza, il poggio su cui sorge la casa – il colle di Montalto – ne formerà un bastione settentrionale. 9
Quando lui è qui in estate (specie nell’agosto tutto circondato dall’estate e rivestito dal lavoro dei campi che precede e dà inizio alla vendemmia) può godere senza troppi patemi della sensazione che sia inespugnabile, come lo sono in genere i bastioni prima che arrivi il treno dell’assedio. O quando il treno dell’assedio è ancora a distanza, con i cannoni al traino, gli stendardi, i pennacchi e le fanfare, i tamburi che rullano e il serpente variegato della colonna in marcia, o delle colonne se sono più di una e stanno convergendo lentamente: alternati, i colori, come i nastri sul petto e le medaglie del comandante della piazzaforte che osserva dalle mura. (Deciso a chiedersi retoricamente e affettando sollievo: È tutto qui? Questo esercito di schiavi, di mercenari, di lecchini della morte, venuto per sottrarci la libertà di restare serrati dentro le nostre mura.) Dietro il cascinale c’è un piccolo frutteto che è stato trascurato per molti anni, quando la casa era abitata meno di frequente. Alcune piante sono troppo vecchie, altre sono troppo giovani e stente, altre ancora infestate dai parassiti. Tutto sommato reagiscono bene alle sue disordinate attenzioni. Fino a qualche anno fa gli piaceva ripetere di avere imparato alcuni lavori dei campi, soprattutto a falciare con la fienaia (il fèr da fén, il ferro fienaio, la falce celtica con il manico lungo che nell’iconografia compare nelle mani della morte ancora più sovente della msùra, la messoria o mietitrice), da suo nonno, che per tutta la vita era stato un piccolo coltivatore diretto. Fino a qualche anno fa. Ora comincia a pensare che sia soltanto uno dei tanti ricordi infantili fittizi, mescolati con sogni o altre immagini viste al cinema o alla televisione. Fatto sta che 10
gli slanci con il ventre anziché con le spalle e la leggera rotazione del busto gli vengono naturali. E senza nessun dubbio gli è stato trasmesso da suo nonno e da moltitudini di altri contadini l’immancabile gemito con cui si rimette diritto dopo essersi chinato verso la terra. Ci sono meli (di tre specie diverse, ma solo uno dà discreti frutti, piccoli, duri e sugosi, che maturano tardi; o forse è colpa sua, che per lo più in ottobre si dimentica di salire qui a coglierli), un pero male collocato e rachitico, da trapiantare ammesso che non sia già tardi; un albicocco sano o malato ad anni alterni (produce ottimi frutti verso metà luglio, ma in quel periodo di solito la casa è vuota), un fico ancora gracile ma già propenso, secondo la natura esuberante della sua specie, a caricarsi di fichi, un nespolo dal fogliame esotico e corrotto, privo di grazia e sterile, che tra pochi mesi dovrebbe essere abbattuto perché sembra lì solo per competere con le altre piante e ammorbarle con la sua senescenza petulante, crudele. E poi un assortimento di quattro susini, tutti diversi in forme e grandezze della bacca. L’ultimo è cresciuto spontaneo e clandestino per anni presso la rete metallica e solo l’estate scorsa, forse per paura di essere tagliato, si è scoperto, buttando delle prugne piccole e saporite come ciliegie, le più gustose e facili da mangiare. Non erano molte, ma hanno acceso in lui grandi speranze per il prossimo raccolto. Questo, fra le altre cose, ama delle piante e dei fiori: che con loro ogni anno ci si può attendere ragionevolmente di meglio dal prossimo, e anche le potature non sono che una promessa di futuri raccolti vantaggiosi. La maturazione delle diverse qualità di susine incomincia nell’ultima decade di luglio e si protrae 11
per momenti diversi, con rare e brevi sovrapposizioni tra una pianta e l’altra, fino quasi alla fine di agosto. In ogni caso, la coltivazione e l’accudimento delle piante è il modo più indolore che conosca di apprendere la pazienza e il commercio con il tempo, con la sua tirannia. Un rampicante corre, espande le diramazioni fiorite con la ferocia delle teste di un’idra; ma non finirà di fare tettoia vicino alla veranda prima di un altro anno. Questo settembre i fichi saranno finalmente abbondanti, ma solo perché un altro anno è passato. Nessuna sua impazienza o ansia di differire potrebbero trasformare questi termini in un mese, o in due anni, o in venti. Nessuno studio disperato. Quasi ogni mattina d’estate (appena sveglio, dopo un anticipo solitario di colazione e prima che, alla spicciolata, si alzi dal letto anche il resto della sua famiglia) va ad aprire la porta dietro casa e guarda le aiuole dei fiori, i rampicanti e gli alberi. Sempre più spesso dopo la morte di suo padre, nel guardarli gli torna alla memoria una frase di Chateaubriand: Ce lieu me plaît; il a remplacé pour moi les champs paternels. Questo posto mi piace: ha sostituito per me i campi paterni. (oppure, nel suo dialetto: Cal sit chì am pias; par me l’à ciapà al post di campàgn ad mé pà.)
All’inizio dei Mémoires d’outre-tombe Chateaubriand parla del suo bosco e del desiderio di ingrandirlo; è il premio che chiederebbe ai Borboni se tornassero in trono e volessero dare un riconoscimento alla sua fedeltà. Nelle cure che prodiga da anni 12
agli alberi del bosco e nel semplice atto di contemplarli ha trovato lo spazio ristretto dove conviene chiudere quelle che Orazio chiama troppo vaste speranze. Chateaubriand aggiunge che ha dedicato agli alberi odi, elegie e sonetti. Che li conosce uno per uno come figli. Non ha assegnato loro un nome proprio, ma l’aggettivo con cui li indica («i miei pini, i miei abeti, i miei larici, i miei cedri») suggerisce qualcosa di più che un possesso: piuttosto un’appartenenza che, nella sua qualità paterna, deve essere reciproca. Parte di questo si traduce nel frutteto di Montalto. Qui la versione delle piante di Chateaubriand potrebbe essere: meli, susini, albicocchi, fichi. Lui sa di non averle ancora curate a sufficienza per sentirle proprie, e presume che non avrà mai l’impulso o la necessità di seguirne la crescita come se fossero figli – però le ha contemplate abbastanza a lungo che ai suoi occhi, questo sì, hanno sostituito l’immagine dei campi paterni (dunque qui la sequenza delle generazioni procede solo a ritroso). Quei campi con il granturco (il mais, lo chiamava suo padre; o, ricalcando dal dialetto, la melica) e i pioppi e l’altro bosco di alberi – troppi oramai – che il tempo aveva indotto i suoi genitori (e il nonno prima di loro) ad abbattere; e anche quelli che sono ancora vivi. (I tigli, le magnolie, il ciliegio e il grande faggio rosso.) Dietro la casa di Montalto non ci sono solo alberi da frutto. C’è, per esempio, anche una tamerice di incredibile forza che regna sull’estate come una pianta divina scagliata lì dai venti di una spiaggia della Grecia, e che non teme il gelo o le spanne di neve. Ma se le piante che gli fanno scordare i campi paterni sono i 13
meli e i susini e il fico e l’albicocco, è soprattutto grazie ai loro frutti: perché sono colorati e buoni da mangiare. (Sono, quelli, i frutti che suo padre non voleva, perché attiravano gli insetti e le possibili, terrificanti reazioni allergiche ai loro pungiglioni. Gli choc anafilattici, le corse all’ospedale scuotendo la testa e rimproverandosi senza remissione una colpevole assenza di cautela. Un’imprudenza come quella che vent’anni prima aveva portato un vicino a morire intossicato dalle esalazioni del vino nella cisterna. Ma peggiore, perché non motivata dal lavoro, bensì dal perseguimento di un piacere. Anche per questa ragione mal confessata, quando poteva suo padre preferiva far abbattere gli alberi da frutto, talvolta con moventi artificiosi. Lo faceva perché creavano pericolo, attirando i ronzii e le succhiate degli insetti e le beccate e il canto degli uccelli, i quali a loro volta, semplicemente come anello di catena alimentare, attiravano i gatti portatori di malanni – e perché anche la frutta può essere mira di ghiottoneria.) Ha incominciato a leggere i Mémoires d’outre-tombe una decina di anni prima perché stava leggendo un altro libro, Il libro delle illusioni di Paul Auster, al cui protagonista viene affidata la traduzione dell’autobiografia di François-René de Chateaubriand. Il libro delle illusioni gli era piaciuto molto, e ancora oggi gli sembra uno dei romanzi più belli scritti da Auster. A dire il vero, leggendolo aveva trovato coincidenze tra le vicende raccontate nel libro e la sua vita. Coincidenze che avrebbero fatto rabbrividire un superstizioso e che, ammette, lo avevano reso inquieto. Qui ci sarebbe già l’idea di una storia, ma lui ne cerca un’altra, 14
un po’ meno aderente a lui stesso – se con «lui» intendiamo in primo luogo il suo corpo e le sue vicinanze più immediate, cioè sua moglie e i suoi figli; ma comunque molto ravvicinata – e meno minacciosa di attriti, di collisioni golose e vane. È soltanto un’idea densa e indefinita, e sembra prendere forma da alcuni passi delle Memorie che compaiono nel Libro delle illusioni tradotti in inglese dal personaggio, cioè da Auster stesso. Anzitutto c’è il titolo. A un lettore italiano il corrispettivo di Mémoires d’outre-tombe nella propria lingua può sembrare obbligato. In inglese non è altrettanto pacifico. Il protagonista-traduttore chiede all’amico che gli ha offerto il lavoro come lo volgerebbe, e l’amico risponde: «Mémoires d’outre-tombe. Memoirs from Beyond the Grave». Però l’altro non è convinto. La soluzione gli suona insieme troppo letterale e non abbastanza trasparente. Come possibile alternativa suggerisce Memoirs of a Dead Man: per alcune ragioni, tra cui la principale è che rimanda direttamente alle vicende della stesura dell’originale. Chateaubriand avrebbe voluto che la sua autobiografia fosse pubblicata solo post mortem. Ma a un certo punto gli alti e bassi della fortuna e il prolungarsi della sua vecchiaia oltre il tempo che lui stesso si sarebbe augurato lo costrinsero a fare diversamente. Per sopravvivere si trovò a diventare postumo in vita. Come tanti altri. Anzi – e questa, ecco, è una chiave della storia, forse l’unica chiave di qualunque storia che infine gli verrà di raccontare – come lo siamo tutti. È questo che gli è stato insegnato appena ha avuto l’età per capirlo e per soffrirne. Anche nel titolo Memoirs of a Dead Man trova qualche cosa 15
di suo padre, che aveva lo stesso nome di Chateaubriand. Non ne ritrova soltanto lo stadio finale, la vecchiaia che nella fase estrema impone all’esistenza il peso di una morte, ma anche e soprattutto il punto di vista che suo padre aveva assunto e dichiarato e ripetuto – a lui, al figlio – fin da molti anni prima, per cui, se il tempo passa, il tempo della vita è già passato, ed è giusto guardare alla vita come a una cosa inutile, perché comunque è condannata a invecchiare e finire. Ripensa a questa idea scarna ma inespugnabile, e a quanto sia difficile per un figlio non restarne schiacciato se gli è trasmessa dal padre; e si convince ancora di più che è meglio che i figli abbandonino i padri prima di aver dato loro il tempo di possederli. Lasciandoli in compagnia di un certo disappunto a mani vuote, senza troppo della loro pelle sotto le unghie. Inoltre, lo rimanda al titolo alternativo un altro brano delle Memorie che Auster aveva ripreso nel libro. Elle me fit, en me jetant un regard avec un sourire, ce salut gracieux qu’elle m’avait déjà fait le jour de ma présentation. Je n’oublierai jamais ce regard qui devait s’éteindre sitôt. Marie-Antoinette, en souriant, dessina si bien la forme de sa bouche, que le souvenir de ce sourire (chose effroyable!) me fit reconnaître la mâchoire de la fille des rois, quand on découvrit la tête de l’infortunée dans les exhumations de 1815. [La regina] mi fece, volgendomi uno sguardo e un sorriso, quel saluto grazioso che già mi aveva rivolto il giorno della mia presentazione. Non dimenticherò mai quello sguardo, che così presto doveva spegnersi. Maria Antonietta, sorridendo, disegnò 16
così bene la forma della sua bocca, che il ricordo di quel sorriso (tremenda cosa!) mi avrebbe permesso di ravvisare la mascella della figlia dei re quando la testa della sventurata fu rinvenuta durante le riesumazioni del 1815.
Morte in vita è anche l’apparire del bianco di un osso sotto la carne, la tavola anatomica sotto la pelle, gli esiti di un’autopsia sotto quello che gli occhi ci rappresentano. Essendo un medico, suo padre aveva i mezzi per seguire con l’intelletto i propri occhi mentre seguivano le mutazioni di sorrisi e di bocche, teste e crani, fino a un passo dall’ultima, che in ogni caso avrebbe sconfitto la sua scienza. Dunque era capace di risalire a sua volta dalla mascella a un sorriso; ma un’ombra sul suo cuore lo sospingeva più spesso nella direzione opposta, fino a ben oltre quello che è accettabile. Cioè, a quello che era accettabile per suo padre; cioè per un medico che, in totale coerenza e contraddizione con l’essenza del proprio lavoro, non aveva mai accettato la morte che non soltanto cancella la vita biologica, ma la destituisce di ogni senso. Anche lui è stato testimone di quelle mutazioni, ma a un ritmo molto veloce, quasi vertiginoso (come in un filmato time-lapse), in un reparto di terapia intensiva. Ha assistito una volta alla trasformazione di un corpo, e soprattutto della parte di esso più esposta e riconoscibile (anche oltre vent’anni dopo) in un oggetto inanimato e nello stesso tempo perfettamente nudo nella sua impermanenza umana. Ha visto un teschio che era ancora un volto. Ora non gli è difficile ridefinire la violenza di questa immagine in relazione al numero dei casi incontrati da un medico in quarant’anni di professione, moltiplicandola per cento o mille volte. 17
Più complesso sarà dividere il prodotto secondo parametri incostanti come l’assuefazione o la vulnerabilità agli affetti. La storia dovrà essere meno aderente a lui di quella nelle cui adiacenze comunque non potrà non tornare spesso, più spesso di quanto vorrebbe. E dovrà contenere del sangue, perché una cosa è certa: alla sua origine c’è un corpo, e due dubbi essenziali a cui si lega sono se il corpo debba essere fatto anche di carne; e se una parte del sangue che esso contiene debba essere versata. Così decide di partire da una data lontana e stillante sangue. Con questo presupposto ha solo l’imbarazzo della scelta, e ricordando il passo di Chateaubriand sceglie il 1794 – in effetti chiamato «anno del sangue». In realtà Maria Antonietta non fu giustiziata nel 1794, ma pochi mesi prima, nell’ottobre del 1793. Tuttavia la data a cui lo richiamano i Mémoires è il 1794, perché in quell’anno («immolati insieme, lo stesso giorno, alla stessa ora, sullo stesso patibolo») parte della famiglia di René subì la ghigliottina mentre lui si trovava in esilio a Londra. Ed è anche l’anno in cui sembra che la «lama della giustizia» si abbatta su tutti, sui nemici della Rivoluzione e sui rivoluzionari moderati, sui giacobini e sui gazzettieri, sugli imputati e sui giudici che hanno appena finito di condannarli a morte. Per un periodo breve e interminabile (quanto durarono effettivamente quei mesi?), durante il 1794, la ghigliottina prende vita propria. Come la spada aveva avuto vita e leggi proprie per millenni e come, pochi anni dopo, ne avrebbero avute le armi da fuoco, alla fine di un lento progresso di secoli e per altri due secoli a venire. La morte, allora: 1794 è un numero di morte, lui pensa, ma dopo ne vengono tanti altri. Nella storia degli uomini la morte è abituata a dire la sua con i numeri. 18
Gli eccidi più sanguinosi della Rivoluzione francese furono compiuti nella regione atlantica della Vandea. Il numero delle vittime è controverso (come quasi sempre, e a fortiori in questo caso, perché in Francia c’è chi afferma e chi nega che la campagna condotta dagli eserciti repubblicani contro la ribellione rientri nei canoni del genocidio). Secondo calcoli ragionati i caduti furono circa duecentomila, tra rivoluzionari e realisti. Per lui questa è una cifra importante, e non perché voglia schierarsi sulla questione del genocidio, ma perché può suddividerla, la cifra, e poi scioglierla in una serie di unità e tradurre le unità in nomi. Naturalmente è un elenco di nomi largamente immaginati, troppo lungo per stare nel suo cervello e quindi condannato a non finire mai, ma da cui sa di poter ricavare una lista pronunciabile e indicativa delle vittime, almeno sul versante della Vandea militare. Per esempio (soltanto per esempio): La Rochejaquelein, Cathelineau, D’Elbée, Donissan, Stofflet, Lyrot, Marigny, Bonchamps, Lescure, Charette de la Contrie, Royrand, Talmont, Cadoudal, Suzannet.
Sono i generali controrivoluzionari morti di morte violenta: caduti in battaglia o giustiziati con il fucile o con la ghigliottina, quasi tutti nel volgere di un anno (tra il ’93 e il ’94). Una litania triste e musicale (quasi una filastrocca, se impaginata come ha fatto lui), che si apre con la giovinezza straziante del nome di Henri de La Rochejaquelein caduto nel gennaio del 1794 (e 19
ampliando agli ufficiali non comandanti potrebbe anche concludersi con quello di suo fratello Louis, ucciso nell’ultima battaglia dei vandeani contro un esercito napoleonico, pochi giorni prima di Waterloo). Mettere in fila i loro nomi è il primo passo per distaccarli dalla pagina dove soltanto ieri li stava leggendo – anche a costo di restituirli uno per uno alla palla che ha squarciato loro il petto, alla lama che li ha trapassati e recisi. In genere un elenco ne suggerisce un altro. E non occorre che siano lunghi elenchi. Ce n’è uno brevissimo, di tre nomi somiglianti che sembrano uno scioglilingua tedesco: Kellermann, Kléber, Westermann. Sono i nomi dei generali alsaziani della Rivoluzione. Kellermann sopravvisse fino alla tarda vecchiaia. Kléber fu pugnalato al cuore da uno studente siriano durante la campagna napoleonica in Egitto. François-Joseph Westermann morì per primo, ghigliottinato nel 1794 in quanto seguace non pentito (anzi, amico leale) di Danton. È ricordato soprattutto perché partecipò alla guerra contro i ribelli della Vandea e per il messaggio che inviò al Direttorio dopo avere vinto, dividendo il comando con Kléber, la battaglia decisiva di Savenay: Il n’y a plus de Vendée! […] Elle est morte sous notre sabre libre, avec ses femmes et ses enfants. Je viens de l’enterrer dans les marais et les bois de Savenay. Suivant les ordres que vous m’avez donnés, j’ai écrasé les enfants sous les pieds des chevaux, massacré les femmes qui, au moins pour celles-là, n’enfanteront pas de brigands. Je n’ai pas un prisonnier à me reprocher; les routes sont semées de cadavres.
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La Vandea non esiste più! […] È morta sotto la nostra libera sciabola, con le sue donne e i suoi bambini. Io l’ho appena sepolta nelle paludi e nei boschi di Savenay. Ligio agli ordini che mi avete dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli, massacrato le donne che, almeno, non partoriranno briganti. Non ho nemmeno un prigioniero a redarguirmi; le strade sono seminate di cadaveri.
Di queste parole, della cui autenticità alcuni dubitano (ma in merito alle quali una cosa si può dire: riflettono senz’altro lo spirito del tempo), ha deciso di conservarne poche. Chiuderà tutte le altre tra le parentesi e le censure imposte a un vanto utile, all’epoca, per bilanciare errori e lentezze nel compimento del dovere assegnato. Più nemici si erano uccisi e più si era al sicuro dalla lama che puniva i servitori inetti della Rivoluzione come i suoi nemici. Se vuole veramente misurare la distanza di quel tempo dal suo che scorre adesso, e del suo tempo da quello del padre, dovrà prima di tutto liberarsi di parole come «enterrer», «écrasé», «massacré». Dato che la sua storia riguarda il corpo, gli è invece indispensabile conservare «cadavres». La conta dei cadaveri. Ora vorrebbe che a ogni unità corrispondesse un nome. O che ciò fosse almeno per quei morti lontani cui il senso di umanità consentirebbe di giacere come semplici nomi: senza che a Westermann debba imporsi la coscienza che, tra le sue ragioni d’orgoglio – essere rimasto amico di un amico e avere fatto strage di innocenti –, quella che gli è costata la vita serve a mitigare (anche se appena un poco, quasi 21
niente) l’altra, che gliela aveva salvata per alcuni mesi e che oggi lo condanna come rivoluzionario all’oblio, e come soldato al disonore. Nota che nel messaggio di Westermann ci sono solo due parole ripetute: donne e bambini. E che una terza (enfanteront) indica l’atto delle prime di dare alla luce i secondi: già vivi nell’etimo della parola, già morti sotto la libera sciabola repubblicana. Come la ghigliottina, la sciabola (niente altro che un nome dell’immemorabile spada) è libera di essere strumento di se stessa, di dare luogo a numeri di morti dei quali poi servirsi come di nuove sciabole. Questo pensiero non lo ha mai lasciato da quando è diventato a sua volta padre, e presume che nel tempo in cui vive sia comune a ogni padre. Però adesso dovrà risalire più indietro, al pensiero di trovarsi lui stesso sotto una lama, sempre. Dai nomi veri e immaginati di quegli uomini e quelle donne, per lo più uccisi dopo avere ucciso, ritorna ai nomi veri dei suoi alberi che sono vivi e, per quasi tutta l’estate, carichi di frutta. Prima ripassa i nomi dolci come la frutta che grava i loro rami e dopo – in contrasto con essi e con gli altri nomi armoniosi dei generali morti – pronuncia con lo sguardo quelli un po’ più aspri ma sempre ricchi di vocali delle piante aromatiche schierate su due file come fucilieri – nell’aiuola arginata dal muretto davanti casa e nei vasi sopra il muretto (rosmarino, timo, origano, basilico) – fino alla grande macchia boscosa dell’alloro nell’angolo lontano; e quelli rudi e fantastici dei rampicanti abbarbicati attorno alla casa e al recinto che circonda il frutteto: bignonia capreolata, wisteria, caprifoglio lanoso, passiflora, partenocisso. Sembrano un’orda irsuta di barbari contrapposta alla 22
gentile cittadinanza dei peri e dei ciliegi. (Ma dietro questi nomi se ne nascondono altri, molto più popolari e socievoli: per esempio glicine, o addirittura – quasi una canzonetta dei tempi dei suoi genitori – vite del Canadà.) Passa in rassegna tanti nomi di piante e gli viene da pensarli come un ordine di genti a battaglia o un catalogo omerico di navi. Meglio ancora, potrebbe rubricarli nella mappa di un forte, tra i componenti della guarnigione o delle fortificazioni stesse (terrapieno, bastione, controscarpa: una terna di rampicanti aggrappati al perimetro delle mura, come – simmetricamente – «orribil edera» era l’assalto al baluardo nell’Otello verdiano di Boito). Un forte, quindi, al centro del quale – che cosa collocherebbe? Il suo corpo, forse? Come una ridotta costruita intorno al vizio intrinseco della polveriera; intorno al male che può divampare da dentro a causa di qualsiasi proiettile o pungiglione o incuria nel mantenimento, un peccato di gola, una colpa degenerativa.
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