Tutto per l'onore

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Alexandra Lapierre Tutto per l’onore

Traduzione di Cinzia Poli


www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © Plon, 2008 © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: Tout l’honneur des hommes­­


Tutto per l’onore

In ricordo di Lesley Blanch, che mi ha aperto tante strade



Aveva la sensazione di portare in sé tutto ciò che restava dell’onore degli uomini. Joseph Kessel, La regola dell’uomo


Russia e CAUCASO il CaucasoDIdiDŽEMAL-EDIN Džemal-Edin LALa RUSSIA E IL Lago Ladoga

MAR BALTICO

San Pietroburgo

Peterhof

Carskoe Selo Krasnoe Selo Toržok

Tver’ Starica

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Al lettore

Il sacrificio di Džemal-Edin, il figlio maggiore del terzo imam del Dagestan e della Cecenia, è una storia vera. Mossa dalla preoccupazione di fare luce sull’estrema complessità delle guerre del Caucaso, una tragedia che dura da più di due secoli, ho scelto di circoscrivere la narrazione al suo rapimento e allo scambio di ostaggi che avvenne nel 1855 fra l’esercito russo e i resistenti ceceni. Per quanto possibile, le date corrispondono a quelle del calendario russo, che nel xix secolo era dodici giorni indietro rispetto al resto d’Europa. Le ho riportate nel testo così come figurano negli archivi. La traslitterazione dei nomi caucasici è mutata continuamente nel corso del tempo, pertanto questa instabilità talvolta rende arbitrarie le scelte ortografiche. Ho cercato di unificarli secondo la logica e le convenzioni. Riguardo al nome del terzo imam del Dagestan – Chamyl, Schamil, Schamyl, Shamyl, Samuel, Shamil –, ormai l’uso vuole che in francese si scriva Chamil. Tuttavia alla fine, dopo numerosi indugi ed esitazioni, ho optato per Shamil, che è più frequente nelle fonti internazionali – siano tedesche, americane, inglesi, spagnole o italiane: questa grafia permette di identificare il personaggio nella maggior parte dei fondi archivistici.


In conclusione del volume, il lettore troverĂ un piccolo glossario dei termini caucasici, una lista dei personaggi e dei luoghi principali, e una breve bibliografia. A.L.


Prologo «Né i nostri… Né i loro!»



Una pianura nella grande Cecenia giovedì 10 marzo 1855

Nel momento in cui la bara dello zar Nicola i sprofonda nella tomba dei Romanov a San Pietroburgo, due gruppi di cavalieri si radunano sulle sponde del Mičik, in Cecenia. Da una parte del fiume si trovano i combattenti dell’imam Shamil, il Leone del Dagestan, che resistono all’invasore russo e da trent’anni decimano il vastissimo esercito dei cristiani. Gli alberi della foresta che termina a strapiombo sul fiume dissimulano ancora il grosso delle truppe. Si odono soltanto lo scalpiccìo dei cavalli sul pendio boscoso e il clangore delle armi. La scorta dell’imam si è allineata sulla riva. Lunghe barbe e crani rasati, berretti di agnello e pastrani neri, sciabole a tracolla e stendardi innalzati: i guerrieri di Allah circondano quattro pesanti carri coperti, da cui non proviene il minimo rumore, nemmeno un soffio. Uno splendido stallone bianco, completamente bardato d’argento, scalpita sul greto: è privo di cavaliere. Dietro il purosangue e le vetture, l’imponente catena del Caucaso si innalza fino al cielo. Dall’altra parte, i russi. Tre reggimenti che con difficoltà riescono a issare i cannoni sull’unica collinetta della pianura. Soldati e ufficiali, tutti sanno che fra poco avanzeranno in campo aperto. La prateria, senza boscaglia, senza ombra, scende dolcemente fino all’acqua. Il fuoco dei musulmani di Shamil potrà spazzarli via in ogni istante. Del resto sono stati proprio loro, i cavalieri ceceni, a scegliere questo luogo troppo esposto per l’incontro. In caso di 15


incidente, contano di attraversare il Mičik e massacrare il fior fiore dell’esercito degli Infedeli. Tre generali russi – tre principi di origine georgiana – stanno immobili sull’altura, mostrando la fronte. Al loro fianco c’è un quarto personaggio a cavallo, un giovane tenente con l’uniforme blu dei lancieri Vladimirskij. Come i tre principi, anche lui punta il binocolo sui guerrieri dell’altra sponda, sull’altro mondo. Cerca con lo sguardo l’artefice di questa strana cerimonia: l’imam Shamil. Lui aspetta sul colle, seduto sotto un ampio parasole nero, discosto dalle truppe. Là sotto, il giovane tenente distingue soltanto un’ombra. Il sole, caldo come in estate, si irradia sui rami coperti di muschio di un abete morto: un albero isolato sulla riva russa, a metà strada fra il campo musulmano e quello cristiano. Proprio lì dovrà avvenire lo scambio. Sui due eserciti è calato il silenzio. Tutto è immobile. Gli uomini sono tesi, pronti ad attaccare. Ma non deve scorrere sangue, non questa mattina. Sull’altra sponda, trentacinque montanari del Dagestan e della Cecenia affrontano il letto del fiume. Circondano i quattro carri appena partiti, con il loro misterioso carico. Le ruote affondano fra i ciottoli del guado. Il convoglio sembra sul punto di rovesciarsi. Ma passando da isolotti a banchi di sabbia, le vetture riescono nella traversata. La prima ha appena raggiunto l’albero morto. Un cavaliere dell’imam esce dai ranghi. Agita uno stendardo: il segnale per l’incontro. I principi e il giovane scendono il fianco della collina. Nella pianura avanzano mostrando la fronte. Li seguono gli aiuti di campo, trentacinque soldati e un convoglio di altri quattro carri, su cui sono distribuiti quarantamila rubli e sedici prigionieri ceceni. Il riscatto. I due gruppi nemici si avvicinano. Si scrutano vicendevolmente con diffidenza. Una volta arrivati all’albero, i principi potrebbero scorgere ­16


ventitré figure di donne e bambine strette le une contro le altre nei quattro carri nemici. Ma i ceceni serrano le file. Non permettono ai russi di avvicinarsi agli ostaggi: sono le spose dei principi, le loro sorelle, figlie, nipoti, catturate l’estate scorsa da Shamil e tenute prigioniere da più di otto mesi. La moneta di scambio. Uno dei figli dell’imam, un temibile guerriero di vent’anni, pallidissimo e molto nervoso, saluta i principi, posando la mano sul cuore. Parla la lingua àvara che né i generali né il tenente capiscono. Il discorso appare interminabile. L’interprete ne traduce solo qualche frammento, ciò che ritiene essenziale: «Mio padre manda a dirvi che vi restituiamo le donne pure come gigli e protette da qualsiasi sguardo come gazzelle del deserto». I principi annuiscono senza proferire parola, irrigiditi dalla gioia, dalla rabbia e dal desiderio di vendetta. Il tenente si stacca lentamente dal gruppo dei russi. Si inchina a sua volta davanti al figlio dell’imam… suo fratello. I due giovani si abbracciano. Non si vedono da sedici anni, e per questo non si riconoscono più. La gelida stretta li fa tremare. Il cavaliere ceceno che ha dato il segnale dello scambio presenta al tenente una čerkeska, pregandolo di indossarla. Avendo dimenticato la lingua nativa, lui si volta verso l’interprete, con sguardo interrogativo. «L’imam» traduce l’altro «vuole rivedere suo figlio solo con il costume del suo paese.» Il giovane protesta: è l’unico segno che ne tradisce il turbamento. «Come posso spogliarmi qui, davanti a tutti?» «I desideri dell’imam sono legge… Imparerete presto che nessuno disobbedisce a vostro padre, nessuno.» Scende da cavallo. I ceceni si accalcano intorno, formando un cerchio compatto che lo nasconde dagli sguardi. Non può, anzi non deve conservare niente del passato russo, niente. Né stivali, né speroni, né spalline. Basta con i colori cangianti. Basta con l’oro e la porpora! Apre un bottone dopo l’altro 17


dell’uniforme. Slaccia la fibbia della cintura e stacca le corde di seta, le cui punte color rame luccicano al sole. Il cerchio si apre e lui emerge. La metamorfosi è completa: un guerriero ceceno. Il giovane si drizza con il cappotto nero che gli copre le ginocchia, gli stivali morbidi, la vita sottile strettamente avvolta da una correggia di pelle, il petto attraversato da una cartucciera e il pugnale alla cintura: è identico ai cavalieri che lo circondano. Lo riconoscono tutti come uno di loro. Ha lo stesso corpo solido e scattante, la stessa nobiltà e agilità, e probabilmente la stessa resistenza. Ma sotto il pesante copricapo di agnello, il volto dell’ex tenente sembra più pallido e teso che mai. I compagni del reggimento, gli amici di infanzia, coloro con cui è cresciuto alla corte russa, gli si fanno intorno per un’ultima volta. Uno di loro si slaccia il balteo e gli passa la sua sciabola: «Conservala… Per ricordo». L’amico del tenente, sebbene strozzato dall’emozione, cerca di scherzare: «Ti scongiuro, però, non trafiggere nessuno dei nostri con questa!». «Né i nostri…» risponde serio il giovane. E sconvolto da questo addio che, come sa bene, è definitivo, ripete: «Né i nostri… né i loro». Salta in sella. Il cavallo bianco a lui destinato, quel purosangue che scalpitava a riva, lo condurrà verso la macchia ombreggiata dove lo attende Shamil. In lontananza anche l’imam trema. Trema d’amore, di paura e d’impazienza. Quel figlio adorato, i nemici glielo hanno strappato tanto tempo fa, ormai! Come avranno allevato i russi il suo erede, quel fiero bambinetto di otto anni che lui stesso aveva dovuto consegnare in ostaggio? Il primogenito dell’imam Shamil sarà diventato un giaurro? Un cane d’Infedele… Un rinnegato… Un traditore? Prima di andare a prostrarsi ai piedi del padre, come pretendono le usanze musulmane, il giovane posa uno sguardo fugace sui carri in cui si trovano le principesse prigioniere. Sono tutte ­18


in piedi, mute, sembrano trasformate in statue. Indossano miseri abiti e il velo. Attraverso i lunghi foulard che le ricoprono, divorano il loro liberatore con gli occhi. Lo conoscono. Ai balli di corte al Palazzo d’Inverno hanno danzato la mazurca con lui. Sotto i tessuti scorrono le lacrime. Di felicità, riconoscenza, ammirazione, pietà… Sanno che era stato sottratto violentemente al suo popolo e portato di forza a San Pietroburgo. Sanno che si è costruito una vita in Russia, è diventato un ufficiale letterato, amante della musica di Glinka e della poesia francese. Sanno che lo zar lo considera un figlio adottivo: un membro della famiglia imperiale, un tenente dell’esercito russo a cui appartiene completamente. Sanno di avere la vita salva grazie alla sua rinuncia a questo mondo, del quale ha sposato tutti i valori. Sanno anche che lo zar Nicola lo ha lasciato libero di scegliere, che lui avrebbe potuto rifiutare lo scambio. Sanno che oggi, in questo momento, il figlio dell’imam sacrifica la sua esistenza per loro. Una delle tre principesse sa molte altre cose ancora. Un tempo lo ha amato. Lo guarda avvicinarsi e ricorda i segreti che si erano confessati all’epoca del loro idillio. L’immagine di questo cavaliere nero che corre verso un destino sgradito gliene evoca un’altra: quella del bambino scaraventato dalla fatalità in un universo che non avrebbe mai dovuto conoscere. Tutto questo accadeva sedici anni prima… Un ragazzino ceceno scendeva a cavallo il sentiero scavato nella roccia, fra il nido d’aquila del padre e l’accampamento dell’esercito russo. Dietro di lui, il suo popolo martoriato marciva senza sepoltura sulle rocce color cenere. Non piangeva. Aveva addosso il coltello e la sciabola. Li avrebbe uccisi tutti. Pieno di orgoglio, pieno di paura e di odio, il bambino raggiungeva il campo dei carnefici. Oggi deve intraprendere lo stesso percorso. In senso con19


trario. Risale verso l’infanzia, con la sensazione di camminare all’indietro. Dovrà dimenticare ciò che ha vissuto per sedici anni, ciò che ha scoperto dagli invasori. Deve disimparare tutto, di nuovo. Incrocia le prigioniere. Per un attimo i due universi si confondono: niente le distingue l’una dall’altra, niente soprattutto le distingue da lui, il cavaliere ceceno che cerca il primo amore fra le donne col velo, e lo scorge sotto lo scialle. Le passa accanto. Trattiene il cavallo. Si scambiano un lungo addio, senza pronunciare nemmeno una parola: l’addio di Varen’ka, ostaggio dell’imam e figlia del principe di Georgia a Džemal-Edin, ostaggio dello zar e figlio dell’imam.


Libro primo Gli anni dell’apprendistato

Il Caucaso 1834-1839

La ilaha illa Allah Non c’è altro Dio all’infuori di Allah


Selvagge son le genti in quelle gole Loro è dio libertà, legge è la guerra; […] fedele è l’amicizia, più fedele La vendetta; […] e l’odio è, come amore, immenso. Michail Jur’evic Lermontov, Ismaïl Bej


i Senza limiti

Ghimri, un villaggio fortificato nel Dagestan 25 settembre 1834 Per chi non conosceva la montagna, il sentiero era impraticabile. I cani, le pecore, le stesse capre esitavano a incamminarsi. Eppure la vecchia Bahu-Mesadu lo percorreva nelle due direzioni, dal villaggio alla fonte, più volte al giorno. Ormai era solita scendere a prendere l’acqua da sola, prima dell’alba, prima che le altre donne si svegliassero, prima del richiamo del muezzin alla preghiera, quando nessuno poteva essere testimone dell’imbarazzo che le provocavano i gesti con cui iniziava ogni mattino. Brocca sulla testa e velo fra i denti, si addentrava nella notte, concentrandosi per dominare il passo incerto, quel tremito che la scuoteva da capo a piedi e ne tradiva le emozioni confuse dopo la nuova partenza del figlio. Per abitudine aveva imparato che probabilmente le caviglie sarebbero diventate più agili a metà discesa, invece le articolazioni delle ginocchia e delle anche si sarebbero sciolte solo al pozzo quando, inarcandosi sulla vera per arrivare alla corda, avrebbe teso i muscoli doloranti per afferrare il secchio e tirare su l’acqua. Allora, per un momento, i pensieri che le risuonavano in testa, le mezze frasi, le accuse sentite o sognate, i ricordi, i progetti, e perfino le preghiere avrebbero taciuto. Al ritorno, nonostante avesse la schiena schiacciata dall’e23


norme brocca di rame, avrebbe affrontato la salita eretta, con lo sguardo alto e le membra finalmente snodate. E nessuno avrebbe sospettato quanto la madre di Shamil avesse l’anima pesante e il cuore inquieto. Qual era la causa di questo fardello a cui Bahu-Mesadu non sapeva dare un nome, e che ormai si portava dietro da diversi giorni, dall’omicidio del secondo imam e dalla vendetta di Shamil sui suoi assassini? Eppure avrebbe dovuto sentirsi fiera, ebbra di gioia! L’unico figlio, che aveva messo al mondo sofferente e fragile, grazie al fervore della fede e alla superiorità del suo sapere, al coraggio, alla nobiltà e alla bellezza, si era appena imposto come guida spirituale e capo militare di tutti i musulmani del Caucaso. Oggi Allah gli conferiva l’onore supremo e il potere più santo. A quell’ora, nella moschea di Achul’go, il villaggio di Bahu-Mesadu in cui sorgeva ancora la casa degli avi, Shamil era consacrato imam. Terzo imam del Dagestan e della Cecenia. Il primo era stato ucciso proprio lì, durante l’assalto dei russi due anni prima. Il secondo il giorno prima, da alcuni musulmani traditori. Quella mattina Shamil prendeva il loro posto, diventando l’ombra di Dio sulla terra. Come non fremere di orgoglio e gioia? Questi sentimenti invece restavano così tiepidi che la donna si rammaricava di tanta moderazione. Quel giorno Allah le permetteva, anzi Allah le ordinava di gioire! Qual era la causa di queste strane riserve? Forse la diffidenza nasceva da ciò che lei udiva qui, da ciò che provava in assenza di Shamil… Dal comportamento degli Anziani verso di lei… Dai discorsi intorno al pozzo. Ma avrebbe affrontato le chiacchiere delle donne in seguito. Intanto aveva bisogno del silenzio e della solitudine notturni. Bahu-Mesadu sapeva che proprio a Ghimri, l’aul in cui Shamil era nato, cresciuto e in cui si era sposato, si radunavano i suoi avversari più feroci. Sapeva che la comunità aveva votato contro di lui, mentre tutte le altre lo sceglievano come imam, che i suoi pari gli avrebbero messo i bastoni fra le ruote se avesse voluto che la consacrazione si celebrasse lì. Sapeva anche che Shamil avrebbe spezzato la resistenza mettendo a ferro e fuoco ­24


il villaggio. Era per questo, per evitare un nuovo bagno di sangue a Ghimri, che lo aveva svuotato dei suoi fedeli, trascinando le truppe a quattro ore di cammino e scegliendo Achul’go come luogo di riunione? Era per questo? Oppure perché si aspettava che gli uomini di Ghimri lo tradissero apertamente? In questo modo avrebbe potuto piegarli e costringerli all’obbedienza una volta per tutte? Li metteva alla prova, insomma? Se le cose stavano così, Bahu-Mesadu temeva che ci sarebbero state conseguenze. Si guardò intorno. Era buio pesto, una notte senza stelle, benché si intuisse la presenza della luna dai riflessi che proiettava sulle nevi perenni dietro la catena montuosa. Le montagne. La loro massa gigantesca gravava sulla piccola figura di Bahu-Mesadu, stringendola da tutte le parti. Tranne che alla sua sinistra. Là c’era il vuoto. Sentiva il brontolio dell’Avar Kojsu, il torrente che gorgogliava in fondo all’abisso. E poi quel debole rumore di detriti, molto familiare: il mormorio di pietre quando i sassi si smuovevano sotto le suole sottili e cadevano nel baratro. Spesso Shamil le rimproverava di andare da sola al pozzo, nell’assoluta oscurità. Era un bravo figlio e si preoccupava. Ma lei non aveva bisogno della luce solare per sapere quanti passi la separavano dai cornicioni a strapiombo sul sentiero, così bassi che per superarli le donne dovevano chinarsi sotto la parete rocciosa e arrampicarsi. Bahu sentiva che le sporgenze della falesia si avvicinavano dall’odore di umidità, dal vento che le soffiava ai piedi, dal borbottio smorzato del fiume. Allora lasciava scivolare la brocca dalla spalla alla pancia e si accucciava, tenendo l’acqua stretta a sé. Tuttavia, se uno dei suoi nipoti si fosse azzardato a seguirla o fosse venuto qui prima della chiamata mattutina del muezzin, lo avrebbe frustato. Il pensiero correva a loro, al villaggio. Per quanto dicesse e facesse, Bahu-Mesadu diffidava di Ghimri. E dire che ci aveva vissuto quarantacinque anni! Alzò lo sguardo. L’alba spuntava attraverso i banchi di nubi che pesavano sull’aul. Sebbene fosse costruito a sud – forse più a sud di Achul’go –, 25


il villaggio non sarebbe stato toccato dal sole nemmeno in quel giorno di settembre. In fondo, ciò che la donna non tollerava di Ghimri era il freddo… Come si sarebbero riscaldati quell’inverno? Shamil aveva vietato di tagliare anche un solo albero della foresta nella valle. Non un ramo di faggio o di quercia, non un tronco, neppure una corteccia di castagno! Riteneva che la foresta fosse vitale, il miglior baluardo contro i russi. Impigliati fra i rami, i soldati diventavano facili prede. Affermava che finché fosse esistita la foresta, i guerrieri del Caucaso sarebbero stati invincibili. E così aveva dato ordine di conservarla intatta. Chi avesse trasgredito, per costruirsi la casa o per scaldarsi, sarebbe stato punito. Un albero abbattuto si pagava con una mucca. Due alberi si pagavano con la vita. Un ulteriore motivo di malcontento. L’anziana faticava a salire, si fermò un attimo per riprendere fiato. Il paese era costruito talmente in alto che mancava l’aria. Lasciò scivolare la brocca da una spalla all’altra, un gesto che non avrebbe osato fare in pubblico. E a ragione: la torsione le provocò un dolore folgorante alle reni che le strappò una smorfia. Riprese a salire. Imperturbabile alla sua maniera, BahuMesadu brontolava… Contro se stessa, ormai incapace di dominare la sofferenza. Era proprio il timore di essere sorpresa che le faceva fuggire gli sguardi a Ghimri. Perché mai Shamil non aveva portato tutta la famiglia ad Achul’go, perché non si spostava definitivamente là? Forse perché Achul’go si trovava troppo in basso sulla montagna? Troppo vicino ai confini russi? Troppo facilmente accessibile? Può darsi, eppure per l’investitura aveva scelto la moschea di Achul’go. Anche lei era cresciuta all’ombra di quelle mura e credeva a quanto si diceva: la moschea di Achul’go era la più grande, la più bella, l’unica che fosse ancora in piedi. Certo, una volta anche la moschea di Ghimri era bella. Ma i russi l’avevano rasa al suolo, dopo averla profanata con i loro escrementi. Il suo sguardo ansioso corse allo strapiombo roccioso. Si distingueva solo una placca aggrappata alla montagna, una macchia un po’ più scura nell’immensità color cenere. Oggi, in questo buio mattino di settembre, Bahu-Mesadu immaginava il ­24


villaggio come era stato due anni prima. Le casupole cubiche, a un piano, in cui i tetti piatti delle prime davano accesso alle seconde, impilate le une sulle altre come scatole e disposte ad anfiteatro. La prima linea di costruzioni, la più estesa, era sospesa sul baratro, l’ultima si addossava alla vetta della montagna. Il resto sembrava un caos di balconi e terrazze, con un minareto e qualche torre d’avvistamento senza porte né finestre, senza alcuna apertura, un labirinto così stretto da scoraggiare l’ingresso. Tutto pareva concepito per respingere il visitatore, perfino i vicoli scoscesi, tortuosi, stretti, in cui due cavalieri non potevano incrociarsi. L’unico modo di prendere il villaggio era esattamente quello: l’assalto. Ma ogni casa rappresentava un blocco, una roccaforte, difesa dalla fortezza situata poco sopra. In passato Shamil non aveva lasciato niente al caso. Aveva fatto consolidare i bastioni, costruire fortini e torri. Consapevole della straordinaria potenza dell’artiglieria russa, si era lungamente interrogato: nonostante tutto, i mortai degli Infedeli avrebbero potuto espugnare il suo nido d’aquila? Il suo capo Kazi Mullah, il primo imam, lo aveva rassicurato. Come avrebbero potuto i russi trascinare i pesanti cannoni a quell’altezza? Come avrebbero potuto issare un simile carico su sentieri così propizi alla guerriglia e tanto vertiginosi che perfino le bestie li evitavano? Le stesse domande se le erano poste anche i russi. E per la sventura degli uomini di Ghimri avevano trovato ottime risposte. Al sorgere dell’alba, Bahu-Mesadu avrebbe scoperto ciò che conosceva fin troppo bene: un campo di rovine, pietre arse e monconi di alberi. Accadeva due anni prima. Accadeva ieri, e forse anche domani. Cosa sarebbe successo se quei porci, approfittando dell’assenza di suo figlio, si fossero abbattuti un’altra volta sul villaggio? Non si faceva molte illusioni: se i russi avessero seguito il secondo cammino, quello dall’alto, pericoloso quanto il sentiero del torrente, non avrebbero incontrato né tiratori scelti né cavalieri imboscati pronti a tagliare loro la strada. Avrebbero potuto 27


individuare facilmente il nastro argentato dell’Avar Kojsu in fondo al dirupo, le falesie grigie a strapiombo e il volo dei rapaci su greggi invisibili. Avrebbero potuto attaccare i pozzi, le torri e i minuscoli campi che avevano già incendiato. Sarebbero stati come a casa loro. I capifamiglia, che non avevano seguito Shamil ad Achul’go, si sarebbero sottomessi. A Ghimri sarebbe finita la Guerra santa. Eppure non era così lontano il tempo in cui gli uomini caucasici amavano la libertà al punto che una ragazza non avrebbe accettato un marito se lui non le avesse offerto almeno la testa di dieci Infedeli e inchiodato le loro mani destre sulla porta della casa paterna. Bahu disprezzava la viltà dei vicini. Nel suo clan, il partito della pace aveva un nome: gli Ipocriti. Eppure, nel profondo, compativa la loro debolezza. Come avrebbero potuto i sopravvissuti resistere all’invasore, se due anni prima valorosi soldati come Kazi Mullah – il primo imam – e il suo luogotenente Shamil avevano capitolato? I russi li avevano decimati grazie ad armi sconosciute. Avevano fatto saltare la montagna, scavando la falesia a forza di esplosivi, avanzando in verticale da un cornicione all’altro, sollevando i cannoni con pulegge e argani, sfruttando i punti di appoggio. Sotto il fuoco delle truppe di Shamil avevano subìto perdite considerevoli. I loro soldati erano caduti come mosche. Ma che importava? Via via che venivano uccisi, li sostituivano. Del resto l’esercito russo non possedeva forse una riserva illimitata di ufficiali, soldati e servi? Shamil diceva che solo gli schiavi erano decine di milioni. Quindi questa guerra era perduta in partenza, argomentavano oggi gli Ipocriti. Ed era perduta per un terribile motivo: era contraria al Corano che vieta di combattere contro un nemico numericamente superiore. Ebbene, Shamil e i suoi uomini si erano scontrati in quattrocento contro trentamila. Alla fine trentamila russi si erano riversati su queste rocce, seminando morte e desolazione. Da allora, nei minuscoli campi l’orzo e il mais non crescevano più e i bambini soffrivano la fame. Ovunque la terra aveva un colore cinereo che nessun vento, ­24


nessuna pioggia lavava via. La fuliggine rispuntava incessante, sporcando la neve. Era questa la vittoria che Dio concedeva ai suoi servitori? Giorno dopo giorno le voci aumentavano: Shamil non apparteneva ai ranghi degli eletti! Indeboliva l’Islam! Offendeva Dio! Nel silenzio notturno, Bahu-Mesadu non poteva ignorare le dicerie. Si interrogava. In effetti la resistenza ai russi, che agli occhi del figlio richiedeva di annientare chiunque rifiutasse la Guerra santa, non era contraria al Corano? Che Allah avesse pietà della tracotanza di Bahu-Mesadu! Come osava lei, vecchia ignorante, porsi queste domande, quando Shamil apriva la strada per la Salvezza? Eppure il dubbio non l’abbandonava più, la tormentava. Ne chiedeva perdono al figlio e a Dio, si castigava caricandosi di fardelli che le opprimevano il corpo e la mente. Portava su l’acqua, la terra e le pietre necessarie alla ricostruzione di Ghimri. Trascinava, rotolava, spingeva questi macigni troppo pesanti, ripetendo i gesti per cui Allah l’aveva messa al mondo: il lavoro dei campi, le mansioni domestiche, tutti i compiti fisici ai quali gli uomini del suo clan non si abbassavano. A loro, l’esercizio delle armi, l’onore di combattere, di uccidere e morire da valorosi. A lei, l’onore di alleviare la loro miseria e di assecondarli nel corso della vita. Bahu-Mesadu oltrepassò le rovine dell’antico pozzo avvelenato dai russi che vi avevano gettato le carogne e i cadaveri, varcò le torri di avvistamento e il primo cortile. Come ogni volta che arrivava in prossimità del villaggio, alzò lo sguardo al cielo. Ma volle drizzarsi più del solito e Dio la punì. Bahu inciampò in una pietra, la brocca le scivolò dalla spalla e il braccio non ebbe la forza di reggerla. Il recipiente ruzzolò fra i sassi, producendo un rumore metallico. Lei si affrettò a raccoglierlo e si mise in ascolto, temendo che l’abbaiare di un cane finisse per svegliare le donne. Niente. I cani dei pastori scorrazzavano sulla montagna e gli altri, quelli che rubacchiavano i magri frutti e i polli, erano stati uccisi. Regnava ancora il silenzio. Toccò il suolo per valutare l’entità del danno. 29


L’acqua colava, spandendosi in sottili rivoli. Bahu se la figurava scorrere lungo il pendio: lo scorrere infinito di una purezza perduta. Questa immagine le suscitava una visione ancora più dolorosa: le migliaia di piccoli rivoletti color porpora che erano colati verso di lei, bagnandole i piedi in una pozza sanguinolenta. Quel ricordo le risvegliava un disgusto simile alla nausea. Eppure non era stato il sangue a tingerle i pantaloni fino alle caviglie: il sangue sarebbe stato più puro, più nobile di quel veleno infame! Era vino. Shamil aveva costretto i concittadini a rovesciare tutte le riserve, obbligandoli a fustigarsi l’un l’altro e a pentirsi della colpa di cui si erano macchiati producendo alcolici. Quanti anni la separavano da quella scena? Sette anni? Otto? In ogni caso molto tempo prima che i russi si abbattessero sul villaggio bruciandone le colture! All’epoca Shamil probabilmente non aveva trent’anni. Bahu-Mesadu non poteva fare altro che approvare: anche suo marito era stato un alcolizzato. E così suo suocero! Ma la vigna, perché Shamil aveva distrutto la vigna? A Ghimri crescevano i più bei pergolati del Caucaso! Shamil ne aveva estirpato le radici, togliendo ai fratelli perfino la tentazione di offendere Dio. Non aveva lasciato ceppi né tralci. Lo rivedeva mentre si sollevava in mezzo ai campicelli disposti in terrazze. Lo rivedeva, splendido e imponente, mentre scavava con la sciabola quella terra di cui ogni singolo granello era stato portato fin lassù sulle spalle dalle donne – sua madre, sua nonna, le sue antenate – a costo di fatiche che solo Bahu poteva capire. L’annientamento di tanti sforzi, ripetuti per tante generazioni, l’aveva sconcertata. Questo gesto aveva un valore simbolico, lei lo aveva capito. Sapeva anche cosa significava: sostituire un ordine vecchio – la legge degli uomini – con uno nuovo: la sharia, la legge di Dio che ordinava la purificazione delle anime e la guerra a oltranza contro gli Infedeli. La sua mente tornò alla domanda che la angustiava, riprendendo il suo tormento infernale: cosa sarebbe successo se gli ­24


abitanti di Ghimri avessero deciso di sbarazzarsi di una guida spirituale che non avevano scelto? Lo consideravano responsabile di tutte le loro sciagure. L’ira dei russi dipendeva dalle incursioni di Shamil e del suo compare, il primo imam, anche lui nativo di Ghimri. Altri aul, infinitamente più facili da distruggere, come Achul’go o Arakhanee, non avevano conosciuto simili massacri. Semplice: Shamil non abitava lì! Se lo avessero venduto agli Infedeli? Perché no? Sulla sua testa pendeva una taglia. La sera dell’attacco del 1832 e della morte del primo imam, Shamil valeva dieci volte di più che al mattino. Ma ora, nel giorno della sua consacrazione, il suo valore si centuplicava. A differenza dei membri del partito, Bahu-Mesadu non ci trovava alcun motivo di vanto. Non voleva pensare al desiderio di catturarlo che i russi nutrivano da due anni a questa parte, da quando cioè Shamil era sfuggito loro ed era risorto per incendiare tutti i villaggi fedeli al Grande Zar Bianco. Vagabondava col pensiero, passando in rassegna le temibili insidie del futuro. In mancanza di Shamil, gli Ipocriti di Ghimri avrebbero potuto offrire la sua famiglia: la madre, la sorella, la moglie, i due figli… In cambio della pace. Appena il muezzin li avesse chiamati alla preghiera, senza dubbio gli Anziani sarebbero andati a discutere di questa possibilità. Bahu-Mesadu conosceva perfettamente la sorte che sarebbe spettata a lei, a Fatima e soprattutto al piccolo Džemal-Edin, il primogenito di Shamil, il suo erede, se i concittadini avessero deciso di consegnarli. Peggio di un’esecuzione capitale: l’esilio. E la servitù perpetua. La schiavitù fra i giaurri? Si ribellava all’idea di questo tradimento. Se c’era una condizione che nessun musulmano, uomo, donna o bambino poteva accettare era quella: la schiavitù. «Dio è sordo alle preghiere degli schiavi» tuonava Shamil. «Nessuno deve farsi catturare vivo e cadere in mano agli Infedeli!» Bahu sapeva che questa predica non si rivolgeva ai suoi ca31


valieri. Per loro era ovvio, nessuno si sarebbe mai arreso. Shamil ripeteva invece questi ordini alla madre, alla moglie e alla sorella. Quando resistere fosse diventato impossibile, prima di uccidersi, avrebbero dovuto uccidere i bambini. Meglio la morte della prigionia: il disonore sommo! Ma prima… Contava su di loro perché facessero fuori il maggior numero di quei maiali e vendessero cara la pelle. Con la mano libera Bahu-Mesadu premette leggermente sul manico del pugnale che aveva sotto la tunica. Non era affatto strano che fosse armata: tutte le donne del Dagestan vivevano con il kinžal alla cintura. Non aveva paura. Il suo destino era scritto. Sarebbe successo ciò che doveva. Nessuna paura. Pensava soltanto a come salvare i nipoti e tutte le persone a cui Shamil teneva. La perdita dell’acqua era un cattivo presagio. Aveva ripreso il cammino del pozzo e, mentre scendeva con il solito passo cadenzato, rendeva grazie ad Allah misericordioso per aver impedito che a Ghimri qualcuno fosse testimone della sua debolezza e del suo errore. Ormai era chiaro che sarebbe stata una giornata difficile. Ma gli andirivieni solitari la tranquillizzavano. Sul sentiero del torrente si sentiva a casa. Del mondo lei conosceva solo quella notte, quella desolazione rocciosa, quei picchi oscuri e minacciosi, quel fiume che scorreva in fondo al burrone, quei baratri così neri che i pipistrelli ci volavano anche in pieno giorno. Amava i massicci invalicabili che da secoli innunerevoli plasmavano gli uomini, benché quell’immensità rendesse impossibile la loro unione. Quante volte aveva sentito Shamil ripetere che Allah voleva l’unità dei Credenti caucasici e che quest’ultima poteva passare solo attraverso la fede in Dio e il rispetto della Sua Legge? Diceva che la popolazione delle montagne era costituita da svariate centinaia di migliaia di musulmani, la maggior parte dei quali si trovava in Cecenia e lì, nel Dagestan. E che delle trenta tribù di quest’ultima regione, circa centoventicinquemila persone erano àvari come loro. Ma fra àvari, darghini, lak, lesghi, ceceni e ingusci, nessuno parlava la stessa lingua. Come era possibile intendersi? Solo qui nel Dagestan esistevano quaranta ­24


lingue. Restava l’uso dell’arabo, ma solo i mullah e i capi religiosi lo parlavano. Lei stessa non lo capiva. Tuttavia sapeva ascoltare e si interessava agli abitanti dei villaggi vicini. Shamil, che non mancava mai di farle visita quando rientrava dalle battaglie o dai sermoni, trovava nella madre un orecchio attento. Come potevano unirsi, le chiedeva, per la gloria di Dio e la libertà, se non marciando insieme al servizio di Allah? Su questo l’aveva convinta. I Credenti avrebbero potuto riconquistare la forza, l’influenza, il prestigio e la grandezza del passato, avrebbero potuto resistere agli Infedeli solo tornando presto alla fede originaria e ai suoi princìpi, ovvero alle Leggi dettate da Dio nella sharia. I musulmani non avevano altra scelta. Era urgente ristabilire le Leggi di Dio in tutti i luoghi minacciati dalla catastrofe: quelle contrade che, per colpa dell’arrivo dei russi e della propagazione dei loro costumi corrotti, rischiavano la sozzura e l’estinzione. La fiducia che Shamil riponeva nella saggezza della vecchia madre la lusingava. Ma quali consigli poteva dargli? Bahu-Mesadu sapeva che la Guerra santa cominciava nella propria interiorità, in famiglia, attraverso la riconquista della purezza e il ritorno a Dio. Non esistevano altre vie. Shamil doveva convincere i moderati con l’esempio e la predicazione. E se l’eloquenza non fosse bastata, sarebbe dovuto ricorrere alla forza. Era proprio quella la guerra che Bahu temeva: il terrore che suo figlio seminava fra i propri ranghi, la distruzione e la morte che diffondeva fra i fratelli, fra tutti coloro che non lo seguivano. Sarebbe mai finita quella guerra? Era questo il prezzo della pace di Ghimri, di Achul’go e di tutti i villaggi caucasici. E poi? L’alba stava per sorgere e avrebbe sorpreso Bahu sulla montagna. E poi? Cosa stava accadendo nella moschea di Achul’go? Shamil era riuscito a imporsi come capo supremo delle comunità caucasiche? Le tribù si erano federate intorno a lui, il montanaro del Dagestan, il cui feudo era stato raso al suolo dai russi? Trionfava nonostante l’opposizione del potente ceceno Hajj 33


Tasho, che aveva compiuto il pellegrinaggio alla Mecca e riteneva di essere il più degno per il titolo di imam? Bahu-Mesadu sperava nell’appoggio dei maestri spirituali, nel coraggio dei fedeli, nell’abilità del figlio. Ma sarebbe potuto tornare a Ghimri per salvare la famiglia? Appoggiò la brocca con cautela e, servendosi di una manciata di sassi per tenerla in equilibrio, si versò qualche goccia del liquido sul palmo della mano destra dipinta con l’henné. Si passò l’acqua sulla fronte, sul volto. Poi, raccolta in se stessa con il fianco, la spalla e il ginocchio destri che sporgevano un po’ nel vuoto, si inginocchiò sulla discesa, verso sudovest. Con la fronte appoggiata alla pietra e gli occhi chiusi, l’anziana sentiva portare dal vento la preghiera che per lei era tutta la vita. Mormorò con fervore: Testimonio che c’è un solo Dio Testimonio che Maometto è il profeta di Dio. Allah è grande, Allah è grande Non c’è altro Dio all’infuori di Allah.

Sopra di lei, il grido del muezzin aveva svegliato i fedeli. «Né il cannone russo, né la sciabola dell’imam! A morte l’eretico! A morte il falso profeta!» Di ritorno a casa, lo spettacolo che si offrì ai suoi occhi confermava i suoi timori. Nel cortile i bambini giravano intorno a sua nuora, e scandivano queste parole che probabilmente avevano sentito alla madrasa. Fatima era sbigottita e inerte. Avvolta in un velo scuro, aveva la brocca appesa sulla schiena e stava per scendere al pozzo. La seguivano i due maschietti, vestiti con una vecchia camicia rossa fino alle caviglie, i capelli rasati, scalzi e cenciosi come gli altri. Poteva contare sulla combattività del maggiore, Džemal-Edin, che urlava più di tutti, distribuendo colpi a caso. Dimostrava sei anni, ma in realtà era molto più piccolo. Ca­24


stano, alto e filiforme come la madre, non si sarebbe fatto certo malmenare. L’altro camminava a malapena, imitando il fratello di cui ripeteva anche le urla. Il cuore di Bahu sussultò: i suoi presentimenti si avveravano. Il pericolo era imminente. La donna esitò. Invano cercava di valutare la gravità della situazione. Gli sconvolgimenti degli ultimi giorni le sembravano troppo rapidi, troppo complessi. A parte qualche spintone, quella mattina probabilmente i suoi nipoti non rischiavano niente. Ma domani? O fra qualche ora? Non avrebbe aiutato la nuora: Fatima se la sarebbe cavata da sola. Era dolce, fragile e riservata, ma guai a chi le criticava il marito o le toccava i figli. Innamorandosi di lei, Shamil aveva fatto una scelta giudiziosa. Bahu avrebbe preferito una ragazza di Achul’go. Lui però aveva voluto la primogenita del chirurgo di Uncukul’, il villaggio vicino. Non si era sbagliato. Fatima si era rivelata una buona moglie e lui non ne voleva altre. Gli dava figli maschi, l’approvava in tutto e lo venerava. Anche Shamil la amava molto – Bahu lo sapeva bene –, nonostante si imponesse sempre di passare dalla madre prima di correre dalla moglie che incarnava la felicità, la gioia e la pace della sua vita. Bahu sapeva altrettanto bene cosa significassero gli insulti che la gente rivolgeva a Fatima e a Džemal-Edin. Due anni dopo che le madri e le nonne si erano nuovamente sistemate a Ghimri, la gelosia prendeva piede nei serragli. Perché i loro figli, i loro fratelli, i loro mariti erano morti? Perché l’imam Kazi Mullah era morto? Perché durante l’assalto erano morti tutti? Tutti, eccetto Shamil! Avrebbe dovuto spegnersi con loro. E così la sua famiglia! Certo, le comari non osavano metterne in dubbio la temerarietà. Il coraggio e la forza del figlio di Bahu-Mesadu erano ormai leggendari. Aveva resistito fino alla fine, uccidendo da solo più Infedeli dei migliori e più valorosi difensori di Ghimri. Trafitto da cento colpi, era rimasto l’ultimo a combattere. E allora? Che importava? Non era morto da martire come i loro familiari, e così aveva contravvenuto ai precetti di Allah, che 35


prometteva il Paradiso ai suoi veri servitori. Gli ardimentosi erano loro. Non lui! I suoi sostenitori potevano celebrarne le prodezze quanto volevano, rendendo leggendario il balzo con cui era riuscito a sfuggire ai russi saltando all’ultimo sopra le teste dei soldati. L’azione che i seguaci chiamavano il «Salto della morte» non esprimeva la volontà divina. Tutt’altro! La sopravvivenza di Shamil – quando i suoi trecentonovantanove guerrieri erano stati uccisi –, la salvezza della sua abitazione – quando tutte le sakljas di Ghimri erano state bruciate –, questi miracoli che ovunque nel resto del Dagestan erano avvertiti come la prova della protezione di Allah, nel villaggio erano interpretati come un patto con Satana. Le donne anziane ricordavano che già da piccolo Shamil spariva sulle montagne per meditare sulla perdita dei Credenti, in fondo alle caverne, con i Giganti. Solo un’anima dannata avrebbe osato avventurarsi nella zona dei campi sulfurei di Arakan, come faceva lui fin dall’infanzia, avanzare fra le lingue infuocate che scaturivano in mezzo alle pietre, sprofondare nelle volute di fumo e nell’odore di zolfo che salivano dagli Inferi. Inoltre raccontavano che il figlio di Bahu-Mesadu era nato mancino, rachitico e malato; che si chiamava Ali e non Shamil; e vedere Ali il Mancino – Ali l’Impuro – faceva pena. Sempre preda degli spiriti e delle febbri, non poteva cavalcare, né imparare a maneggiare le armi, né giocare con gli amici. Povera Bahu, andavano ripetendo quelle ipocrite, povera Bahu: fra il figlio malaticcio e il marito ubriacone era messa proprio bene! E poi un giorno, al compimento dei sette anni, aveva avvolto Ali nudo nella pelle di una pecora che aveva scuoiato lei stessa. L’aveva lasciato dormire nel manto insanguinato per sette giorni e sette notti. Quindi, fra i centouno nomi di Allah, aveva scelto un nuovo appellativo per lui: Ali era così diventato Shamil, «colui che abbraccia tutto». Anche se restò mancino, cambiando nome Ali cambiò natura: da allora crebbe forte e sano come la gramigna e si allenò segretamente per diventare un atleta. Ma non era Dio a vegliare su quella metamorfosi: erano i Giganti che lo plasmavano a loro immagine, trasformandolo in un colosso. Bahu non si curava delle invidiose. Le loro storie, che mesco­24


lavano il vero con il falso, erano di poco conto. Tuttavia, diffidava di queste chiacchiere che riecheggiavano le discussioni degli uomini nel Consiglio degli Anziani. Ma bisognava che Shamil fosse assente perché osassero! Altri bambini scendevano a rotta di collo il pendio verso la casa di Shamil, che sorgeva in mezzo al villaggio. Era bassa e modesta, ma effettivamente intatta, con la scuderia al pianterreno, le mura di terra scrostate, la scala, il balcone di legno sostenuto da due travi annerite dalle fiamme. L’incendio aveva scavalcato il tetto, risparmiando i beni familiari, i grossi cuscini sulle panchette, i pochi tappeti che ornavano i tramezzi, tutti i libri in arabo e i preziosi manoscritti dei maestri sufi a cui Shamil teneva tanto; aveva risparmiato perfino Muezza, l’adorata gatta che aveva lo stesso nome di quella di Maometto, e non si era bruciata nemmeno un pelo. Era davvero la prova che Allah vegliava. Bahu esitò. Fra i polli, le fascine, le noccioline e i mazzetti di erba messi a essiccare sulle terrazze, la folla delle matrone infuriate si ingrossava. Ghimri sembrava proprio un’immensa scala che lei avrebbe dovuto salire faticosamente controcorrente. Aveva due parole da dire agli Anziani; due parole che non potevano più attendere. Quando Bahu-Mesadu forzò la porta del Consiglio, lo stupore pervase i saggi. Nessuna donna aveva mai osato mettere piede in quel posto. Una dozzina di uomini con la barba ben tagliata a mezza lunghezza erano seduti con le gambe incrociate sulla stretta piattaforma che correva lungo le tre pareti, rivolta verso la montagna. La sala non aveva la quarta parete e si affacciava direttamente su un balcone di legno, una specie di loggia a giorno sostenuta da sottili pali conficcati nella roccia, sul vuoto. Bahu li conosceva da mezzo secolo, ma la sua incursione era una sfida a qualsiasi tradizione. Un comportamento sconveniente che appariva ingiustificabile. Così scandì chiaramente le parole che, nel Caucaso come in Oriente, valevano come un «apriti sesamo» e un talismano. Azh dže uazhek, sono vostra ospite. 37


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