Un giorno é un anno è una vita

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Jürgen Trimborn

Un giorno è un anno è una vita Rainer Werner Fassbinder. La biografia Edizione italiana a cura di Anna Ruchat Traduzione di Silvia Albesano, Alessandra Luise, Anna Ruchat


La casa editrice, esperite le pratiche per l’acquisizione dei diritti di riproduzione di immagini e testi, rimane a disposizione di chi avesse a vantare ragioni in proposito. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © by Ullstein Buchverlage Gmbh, Berlin. Published in 2012 by Propyläen Verlag Per le poesie © Juliane Lorenz, Rainer Werner Fassbinder Foundation, Berlin 1962 © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: Ein Tag ist ein Jahr ist ein Leben. Rainer Werner Fassbinder. Die Biographie


Un giorno è un anno è una vita a Robert



Sommario

Introduzione in forma d’intervista di Hella Schlumberger Intervista con Playboy, 4 aprile 1978

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un giorno è un anno è una vita

Premessa. Life is so precious – even right now

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Un bambino raggelato. 1945-1963 Colpito da una pubertà quasi assassina

7 14

Una deviazione, passando per il teatro. 1963-1969 Quel che si chiama amore Sapevo che avrei fatto film E poi naturalmente il Grand-Guignol fassbinderiano

29 32 36 46

Il ragazzo prodigio del cinema tedesco. 1969-1970 Questo giovane cinema tedesco è fottuto L’estrema assurdità della vita vissuta

71 80 87

Ormai mi posso permettere un sacco di cose. 1970-1971 Forse l’amore è un’impostura A macchia di leopardo Un po’ di disprezzo per gli esseri umani

101 112 126 133

Molte cose feriscono, qualcuna uccide. 1971-1973 Film di morte e d’amore Dalla televisione il pubblico si aspetta una certa dose di realtà

138 145 150


In fondo voglio soltanto che mi amiate. 1973-1974 Non avevo dubbi che un giorno o l’altro sarebbe accaduto È bello veder pensare una donna Faccio film per farvi infuriare

164 166 172 182

Mi fraintendono nel modo più indegno. 1974-1977 194 The Most Original Talent since Godard 206 Tutto ciò che mi fa male mi fa bene 209 La sola cosa che accetto è la disperazione 215 Viaggio al centro della tristezza 222 Un viaggio nella luce. 1977-1980 Io sparo in ogni direzione Solo ora comincia il mio tempo Ora ho finalmente in mano questo mestiere

227 230 239 253

Potrò dormire quando sarò morto. 1980-1982 Che bisogno c’era dell’Orso d’oro La paura della fine Each Man Kills the Thing He Loves

266 274 281 288

Ringraziamenti

303

appendici

Nota all’edizione italiana

309

Poesie

311

Filmografia

331

Teatrografia

361

Note

371

Indice dei nomi

421


Introduzione in forma d’intervista «Rainer Werner Fassbinder, una conversazione pubblica con l’uomo che ancora incute terrore ai suoi critici» di Hella Schlumberger

Playboy, 4 aprile 1978 Hella Schlumberger, giornalista di Playboy, incontra Fassbinder per la prima volta in un bistrot del Viktualienmarkt a Monaco. Fassbinder se ne sta seduto con Charles Aznavour al tavolo; è scomposto, quasi non parla, probabilmente ha anche qualche difficoltà con il francese e l’inglese. Aznavour invece chiacchiera tutto entusiasta, cosa che alla fine gli permetterà di ottenere il ruolo di Meck in Berlin Alexanderplatz.1 L’appuntamento per l’intervista è per il giorno dopo, alle 18, nell’abitazione di Fassbinder in Reichenbachstraße. Puntuale, Hella Schlumberger suona, ma nessuno le apre. Lascia il registratore dai vicini, due anziani di una disponibilità squisita, e scende al bar a prendersi un caffè. «Deve andare da Fassbinder?» chiede impietosita la barista. «Allora dovrà aspettare parecchio… Vuole una parte?» Quando il locale chiude la giornalista torna all’appartamento. Le apre Armin Meier, il «compagno fisso» di Fassbinder da tre anni e mezzo a questa parte. Bavarese, orfano, macellaio qualificato, ha anche insegnato a Fassbinder come si fanno i würstel. Alla fine arriva il maestro. È pallido, gonfio, porta una camicia color kaki con le spalline. Ospite e padrone di casa si ritirano in soggiorno mentre Armin se ne va in cucina a preparare i crauti. Gli piace cucinare, pulisce, 1  Cfr. qui p. 255: «In un primo momento il regista aveva pensato di girare, contemporaneamente alla lavorazione del serial tv, anche un film per il cinema con un cast internazionale».


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lava i piatti, insomma una vera donnina di casa. «Massì, qualcosa bisogna pur fare, non ti regalano niente nella vita, e se poi hai anche la fortuna di amare qualcuno…» Fassbinder beve la sua Coca-Cola, fuma le sue Marlboro, di tanto in tanto fa cadere la cenere dietro il divano, apre i pantaloni, ci infila la mano e, se pure scontroso, sembra pronto alla conversazione. Parla piano, con lunghe pause, spesso risponde solo con un sì o con un no, evidentemente vuole che lo si pungoli. Durante il pranzo, di là in cucina, alla televisione, danno un vecchio film con Moser,2 e Fassbinder di colpo scoppia in una risata cristallina, infantile. Più tardi, quando la conversazione riprende, lui torna a interpretare la parte del bambino saggio e vulnerabile, ossessionato da paure e imposizioni, che di tanto in tanto si rigira fra le mani la sfera di cristallo dell’utopia, l’utopia di una società priva di aggressioni. È difficile fissare un secondo appuntamento. A Monaco, o non risponde nessuno al telefono, oppure Armin dice che il maestro la richiamerà e lui non richiama. Poi d’improvviso, un mattino alle otto, arriva una telefonata: stiamo partendo per Parigi. Così anche Hella Schlumberger parte per Parigi. Arriva davanti all’ultima delle palazzine a due piani in rue Cortot, bussa quattro, cinque volte, tutto tace. Le monta dentro una rabbia incontenibile. Se in quel momento Armin non avesse aperto la porta… Sono ancora molto stanchi dalla notte appena trascorsa… Al tavolo rotondo, nel locale dai soffitti alti e dalle finestre gigantesche – con due alberi (veri) e del fogliame decorativo (finto), con il camino e la scala che va al piano di sopra –, è seduto un ospite, un amico, la stessa faccia gonfia e scanzonata di Fassbinder, ma rasata. Porta scarpe rosa, una camicetta rosa, insomma una checca fatta e finita. È Walter Bockmayer, giovane regista che ha esordito in tv nell’inverno del 1977 con Jane bleibt Jane. C’è anche Ingrid Caven in abito lungo, nero, con dei veli, poi c’è la madre di Fassbinder (nome d’arte: Lilo Pempeit) che si guarda intorno muta. Armin spadella in cucina e questo fa ben sperare. Ed ecco che il padrone di casa (affitto: 2500 franchi francesi al mese) scende le scale con passo felpato. Tutti trattengono il respiro: cosa vorrà? Di che umore sa2  Hans Moser (pseudonimo di Johann Julier), Vienna 1880-1964, è stato un cabarettista e attore austriaco molto popolare.


Introduzione in forma d’intervista    xi

rà? C’è qualcosa che l’ha disturbato? No, niente l’ha disturbato, grazie a dio, ecco che si accende un’altra sigaretta. L’atmosfera è apparentemente distesa, ma si percepisce il sottile terrore dovuto alla presenza di Fassbinder, tutte le antenne sono puntate verso di lui: è lui che semina il panico, lui che stabilisce l’umore generale, è lui che sceglie con chi parlare e con chi andare a letto. Armin sistema rapidamente un ceppo nel camino, prima di ritirarsi con gli altri. Fassbinder si accoccola sul tappeto, la mano nei pantaloni, in posa da intervista: si parte! È molto più rilassato che a Monaco, ridacchia spesso, beve birra e fuma una sigaretta dopo l’altra. Ma l’aria è gelida, non c’è altro calore che quello del camino: anche nel privato Fassbinder coltiva l’artificiosità che ritroviamo nella maggior parte dei suoi film. Non gli piace mostrare i propri sentimenti. Forse non ci riesce nemmeno. Quanto a punti deboli, dice di non averne. Cinque ore dopo Fassbinder, Bockmeyer, Armin e l’intervistatrice escono a pranzo. In un pub che guarda caso non è molto frequentato dagli eterosessuali, in rue Castex, vicino alla Bastiglia, Fassbinder si rianima: ora è vestito in pelle, tiene la manina al regista Daniel Schmid, abbraccia Walter Bockmayer e alla fine schiocca addirittura un bacio sulla testa di Armin. In quel momento sembra l’emblema dell’equilibrio e della giustizia. Non appena tornano a Monaco però il maestro ci ripensa e dà il benservito al suo compagno Armin con un secco «Fuori dai piedi». playboy

Lei critica continuamente il provincialismo tedesco eppure non si trasferisce in America. Come mai?

fassbinder

Non si possono trarre conclusioni dal fatto che io sono ancora qui. E comunque passo la maggior parte del mio tempo a Parigi. Trovo che la Germania stia diventando un paese di individui sempre più simili gli uni agli altri. Vale a dire, veri individualisti…

playboy

Come lei…

fassbinder

Questo lo dice lei… Voglio dire… Coloro che vedono la realtà in modo un po’ diverso devono pensarci due volte prima di espri-


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Un giorno è un anno è una vita

mere la propria opinione e chiedersi se ne valga la pena. È così che ha inizio la castrazione della fantasia. playboy

Comincia ad avvertire anche lei la cosiddetta «isteria del simpatizzante»?3

fassbinder

Sì, probabilmente la cosa si attenuerà un po’, ma rimane il fatto che da noi la critica non è gradita (il che è profondamente antidemocratico). È anche possibile che le cose peggiorino. Quello che è venuto alla luce dopo la faccenda Schleyer4 è solo la punta dell’iceberg.

playboy

Quale iceberg?

fassbinder

Non mi piace usare la parola «fascismo», ma al momento non me ne viene in mente una migliore. Si punta il dito contro il fascismo violento e sanguinario del Terzo Reich («Guardate, il fascismo è questo!») e intanto pian piano si introduce nella quotidianità un fascismo più praticabile. Di questo si dovrebbe poter discutere, visto che a quanto pare viviamo in una democrazia. E questa è la sola cosa di cui valga la pena interessarsi.

playboy

Che cosa la trattiene ancora nella Germania Federale?

fassbinder

In primo luogo la lingua con la quale sono cresciuto e lavoro; poi l’educazione e l’infanzia, che naturalmente hanno lasciato un segno – sono queste le sole ragioni per cui non mi trovo già da tempo altrove.

playboy

Ma lei tiene sempre a precisare di non aver ricevuto un’educazione.

fassbinder

Non ho avuto una di quelle educazioni organizzate e assillanti, contro le quali da adolescenti ci si deve ribellare. Di conseguenza

3  Negli anni settanta, in Germania, chiunque tentasse di conservare il senso delle proporzioni malgrado la crescente isteria (tra gli altri Heinrich Böll) veniva considerato un simpatizzante del gruppo Baader-Meinhof. 4  L’imprenditore tedesco Hans Martin Schleyer fu rapito dalla Raf e ucciso il 18 ottobre 1977.


Introduzione in forma d’intervista    xiii

nessuno è mai più riuscito a integrarmi e a farmi fare quello che non volevo fare. playboy

Si dice che lei sia una persona autoritaria. È vero?

fassbinder

In passato lo ero di più, perché non avevo molte alternative. Oggi posso permettermi di lavorare senza esercitare quell’autorità che normalmente viene riconosciuta a un regista. Per questo preferisco avere a che fare con dei veri professionisti. Un tempo, quando tentavo di lavorare in modo non gerarchico, nei momenti decisivi, il gruppo si cercava sempre un papà o una mamma. Se non avessi assunto io quel ruolo, il gruppo, i diversi gruppi con cui ho lavorato si sarebbero sciolti molto prima. I professionisti invece non pretendono che io assuma un ruolo paterno.

playboy

E cosa pretendono?

fassbinder

Che li accetti in quanto professionisti, che dia loro una motivazione, che riconosca il valore del loro ruolo all’interno della produzione. Se sono messi nelle condizioni di lavorare bene, senza costrizioni e paure, il clima generale non è condizionato dalla paura.

playboy

Paura di che cosa?

fassbinder

Del fallimento, di non trovare conferme professionali. Finché non si è imparato il mestiere si crede di dover sempre avere il controllo di tutto, poi non è più così. Un tecnico delle luci al quale si lascia campo libero può fare cose incredibilmente belle e importanti per una produzione. Basta osservare tutti quei professionisti che lavorano nella grande macchina della televisione: gli tarpano le ali, li costringono nei binari delle proprie funzioni. Se si rifiuta la creatività e si pretende soltanto la routine, finisce che molti cominciano a bere per poter reggere l’omologazione cui sono costretti. E secondo me, se non hai coraggio nella vita, non lo puoi avere nemmeno sul lavoro. Noi però purtroppo viviamo in un paese in cui la codardia è favorita.


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Un giorno è un anno è una vita

playboy

E politicamente come si schiererebbe in questo paese, se dovesse farlo?

fassbinder

Qui non mi definirei «di sinistra». Se lo facessi dovrei poi chiedermi in quale dei tanti gruppuscoli vorrei identificarmi, con quale di quei gruppi vorrei tentare di fare qualcosa per la libertà. Sono consapevole di questa deprimente inconcludenza e credo che si dovrebbero trovare modalità diverse per combattere cose terribili come il Berufsverbot.5 Tra un po’ non si potrà più nemmeno manifestare contro le centrali nucleari. Il fatto che questa situazione abbia preso piede a una velocità così folle, dimostra che da noi non c’è una sinistra che funziona, manca una vera opposizione.

playboy

Nei confronti della destra, però, di solito non è così duro.

(irritato)  Ma si guardi i miei film, per favore! Non ho fatto un solo film che possa dirsi reazionario, e comunque quelli sanno cosa penso di loro.

fassbinder

playboy

È vera la leggenda secondo cui lei scrive le sue sceneggiature in un bistrot di Parigi mentre beve, ascolta musica e gioca a flipper?

fassbinder

Sì, è vera. Ma anche a Monaco tengo sempre la radio accesa, esco a farmi un giro, guardo la tv… Insomma mi serve un ambiente che mi dia modo di scappare. Quei terribili fogli bianchi hanno qualcosa di minaccioso, qualcosa di paralizzante nel momento in cui mi dico: adesso bisogna riempirli. Per me scrivere non è qualcosa di sacro che deve avvenire nel silenzio più assoluto. Trovo che la scrittura sia molto faticosa perché bisogna formulare ciò che nella testa è accaduto molto tempo prima.

playboy

E come reagisce se le mettono i bastoni tra le ruote nella realiz-

5  Il Berufsverbot è una limitazione del diritto al lavoro (che in Germania non è sancito dalla Costituzione). Nel 1972 fu utilizzato per allontanare dalle professioni impiegatizie statali i comunisti dichiarati.


Introduzione in forma d’intervista    xv

zazione di un progetto, come è accaduto per I rifiuti, la città e la morte, accusandola di antisemitismo? fassbinder

Quell’accusa proprio non l’ho capita. L’ho trovata indegna. Sono o non sono tra coloro che hanno fatto di più per il cinema tedesco all’estero? E poi le motivazioni! Quello degli ebrei è l’ultimo dei tabù, in Germania, e mantenerlo secondo me non significa proteggere gli ebrei, ma introdurre un’altra discriminazione. È logico che un tabù finisca col ribaltarsi nel suo opposto. Se non si può parlare di loro, vuol dire che prima o poi dovranno fare di nuovo da capro espiatorio. Non mi posso spiegare la cosa in altro modo.

playboy

E gli altri tabù, omosessualità, prostituzione, travestitismo?

fassbinder

Se se ne mostra il lato esotico, glamour, allora non ci sono tabù, ma quando li si cala nel vivo dei rapporti sociali è tutta un’altra cosa. È sempre così, per tutte le minoranze. Prima, quando facevo ancora dei film in cui i rappresentanti delle minoranze erano i buoni e gli altri i cattivi, la società li apprezzava molto. Ma da quando, molto più giustamente, ho deciso di mostrare le minoranze come realmente sono, così come la società le ha trasformate, con tutti i comportamenti sbagliati, ecco che i miei film non piacciono più. Il mio rapporto di empatia con le minoranze è problematico.

playboy

Anche lei fa parte di una minoranza?

fassbinder  playboy

Di più di una, sì.

Quali?

fassbinder

Mah, della minoranza di coloro che si possono permettere di andare via da questo paese. E poi, pur con la concreta utopia dell’anarchia in testa, rimango un sostenitore estremo della democrazia, e anche in questo senso appartengo a una minoranza. Questa cosa dell’anarchia oggi non la si può quasi più dire, perché dai media abbiamo imparato che anarchia è sinonimo di terrorismo. Da una parte infatti c’è l’uto-


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Un giorno è un anno è una vita

pia di uno stato senza gerarchie, senza paure né aggressioni, e dall’altra una situazione sociale concreta in cui le utopie vengono soffocate. Se è potuto nascere il terrorismo nel nostro paese è perché l’utopia veniva soffocata già da troppo tempo. Qualcuno ha dato fuori di matto, è comprensibile. E forse, in ultima analisi, è proprio quello che voleva, magari addirittura inconsciamente, una determinata classe dirigente, per poter definire in modo più concreto la propria identità. playboy

A discapito delle minoranze?

fassbinder

Non ce ne saranno più di minoranze, e non perché vengono uccise ma perché si saranno integrate. A un certo punto le persone avranno tutte lo stesso aspetto, si vestiranno allo stesso modo, abiteranno negli stessi appartamenti. Questo sembra essere l’obiettivo finale, e non mi sembra una cosa particolarmente utopica.

playboy

Come passa il tempo quando non lavora? Cosa le viene voglia di fare?

fassbinder

Mah (pausa), non saprei. Mi piace andarmene in giro. Niente di avventuroso, come fanno i più giovani. Nooo. Mi piace andare in paesi e città dove ci sono altre civiltà e dove non mi sto a preoccupare delle ingiustizie sociali. Così, tanto per fare. Lo definirei addirittura turistico, come approccio.

playboy

E viaggia da solo?

fassbinder  playboy

Cerco di imparare sempre di più a stare solo.

È vero quello che si legge di lei, che sia un «nemico delle donne»?

fassbinder

Trovo che sia idiota dover continuamente ripetere «non sono un nemico delle donne», «non sono un antisemita». L’origine della mia fama di misogino me la spiego così: prendo le donne sul serio, più di quanto non facciano gli altri registi. Per me le donne non esistono soltanto per mettere in funzione gli uomini. Non sono degli ogget-


Introduzione in forma d’intervista    xvii

ti. Questo è un atteggiamento del cinema che io disprezzo. E mostro proprio come le donne, più degli uomini, siano costrette a far ricorso a mezzi talvolta disgustosi per sottrarsi al ruolo di oggetti. playboy

E lei, personalmente, come si pone nei confronti di questo problema?

fassbinder

Nei confronti degli uomini e delle donne mi comporto in modo simile. Quando dai bisogni nascono degli obblighi, quando ciò che prima ci divertiva si trasforma in una pretesa reciproca, reagisco subito in modo aggressivo e negativo. Con Ingrid, la donna con la quale sono stato sposato, continuo ad avere l’intesa più profonda, il rapporto più importante della mia vita.

playboy

È stato anche piuttosto geloso in passato…

fassbinder

Lo sono ancora.

playboy

Ma al momento ce l’ha una relazione, diciamo così, felice con qualcuno?

fassbinder

No, non ce l’ho. Vivo con Armin da tre anni e mezzo ed è un rapporto particolarmente difficile. Poi, come le dicevo, c’è la relazione con Ingrid, importantissima, che da quando siamo separati è tornata quella di una volta. Il fatto che qualcuno ci sia, semplicemente, che sia lì per te, capisce? Una cosa di cui non bisogna per forza servirsi sempre, di cui non ci si serve per abitudine. E poi ho un rapporto molto complicato con mia madre. Quando ho cominciato a capire che lei era mia madre, era malata. Questo da un lato ha generato compassione da parte mia, dall’altro un senso di colpa, perché io, nel mio egocentrismo, credevo si fosse ammalata per colpa mia, cosa che a sua volta scatenava la mia aggressività. Solo così mi sembrava di poter sopravvivere con il mio senso di colpa, per quanto fosse ridicolo e immaginario. Sicuramente mia madre e io non ci libereremo mai di queste complicazioni, ora però siamo in grado di costruire ciò che in passato non avremmo mai creduto possibile: un’amicizia.


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Un giorno è un anno è una vita

playboy

… E tutte queste relazioni lei le «sfrutta» – è questa la parola che usa. Riesce ancora a vivere in modo spontaneo?

fassbinder

Mah (fa una smorfia). A essere sinceri no. D’altra parte credo che attraverso situazioni estreme di disperazione e di dolore, dovute anche allo sfruttamento reciproco, si possa raggiungere una nuova spontaneità. Mi sembra più facile ottenere una nuova ingenuità del sentire in questo modo, che non attraverso la rimozione.

playboy

Sembrano le parole di un uomo distrutto, negativo, un ambito positivo secondo lei non esiste?

fassbinder

No, secondo me no (pausa). Trovo che il tessuto sociale in cui vivo non sia contraddistinto da felicità e libertà, ma piuttosto dall’oppressione, dalla paura e dal senso di colpa. Quella che chiamano felicità chiedendoci di viverla come tale secondo me è un alibi, l’alibi che una società caratterizzata dalle costrizioni e dall’aggressività offre al singolo individuo. E questo alibi a me non interessa.

playboy

Da dove prende allora la forza per continuare a lavorare?

fassbinder

Dall’utopia, da uno slancio utopico anche molto concreto. Se mi dovessero togliere questa aspirazione, non farei più niente; perciò ho l’impressione che in Germania mi si stia uccidendo in quanto persona creativa, ma la prego non prenda questa mia affermazione come una paranoia. La caccia alle streghe che si è verificata da noi negli ultimi tempi e di cui parlavo poco fa, dicendo che era solo la punta dell’iceberg, è stata messa in scena a mio avviso solo per distruggere le utopie dei singoli. Per questo le mie paure e i miei sensi di colpa crescono a dismisura. Quando arriverò al punto che le mie paure saranno più grandi della mia aspirazione a qualcosa di bello, allora (pausa)… allora la farò finita e non solo con il lavoro.

playboy

Con la vita?

fassbinder

Sì, certo. Non c’è ragione di esistere se manca un obiettivo.


Introduzione in forma d’intervista    xix playboy

Riesce a immaginare di innamorarsi follemente, trasferirsi da qualche parte e non lavorare più?

fassbinder

È strano, ogni volta che mi sono innamorato follemente di qualcuno, ho finito per buttarmi a capofitto nel lavoro. E volevo sempre lavorare con la persona di cui mi innamoravo, perché lavoro e amore per me sono una cosa sola. Innamorarmi di qualcuno e ritirarmi su un’isola deserta? Per ora, almeno, non riesco proprio a immaginarlo.

playboy

Come si trova a Parigi rispetto a Monaco?

fassbinder

Meglio, perché a Parigi ci sono molte più occasioni di godersi la vita, ma c’è anche la libertà di non farlo. Lì non devo riempirmi la testa di cose che farei volentieri e che non posso fare, come a Monaco.

playboy

Quali?

fassbinder  playboy

Potrebbe pensare di vivere in campagna?

fassbinder  playboy

Culturali, private, sessuali, qualunque cosa.

No.

Che tipo di rapporto ha lei, sempre che ce l’abbia, con la natura?

fassbinder

Trovo che la natura non sia molto più umana degli esseri uma-

ni. playboy

Altrettanto crudele?

fassbinder  playboy

Sì.

Quand’è che le capita di essere allegro?

fassbinder

Sempre, adesso per esempio sono molto allegro.


xx

Un giorno è un anno è una vita

playboy

Ah, ecco. A vederla non si direbbe.

fassbinder

Non c’è bisogno che si noti. Un’allegria che si manifesti in maniera palese, nei modi consueti, il più delle volte non è allegria. Io sono allegro in un modo particolare, e lo sono per me. Non sono però in grado di darlo a vedere.

playboy

E non vuole nemmeno farlo.

fassbinder

Forse non riesco perché non voglio (ride). Quando mi capita di essere così allegro da farlo trasparire, la gente è stupefatta e dice «probabilmente è fuori» o altre cose del genere. Ormai nella mia vita voglio recitare solo il minimo indispensabile.

playboy

Perché?

fassbinder

Farlo comporta uno sforzo che finirebbe col distruggere la mia emotività.

playboy

L’emotività degli altri invece le è indifferente?

fassbinder

No. Sento la gioia degli altri proprio come sento la mia. Non c’è bisogno che me la comunichino.

playboy

Non le hanno mai detto che la sua presenza per gli altri non è proprio un incentivo ad aprirsi perché attorno a lei aleggia sempre una certa artificiosità?

fassbinder

Direi piuttosto il contrario. Le persone con cui ho rapporti di lunga data apprezzano che si possa stare semplicemente insieme. Quando però qualcuno, mentre mangia, crede di dover dire continuamente «Ah, che meraviglia questa carne», oppure «Questo sughetto ha un sapore eccellente», allora ho l’impressione che costui, per qualche misteriosa ragione, stia cercando di convincersi. Oppure si fa una passeggiata e l’altro dice di continuo che è così bello passeggiare con me guardando il tramonto, a quel punto mi viene da pensare no, gra-


Introduzione in forma d’intervista    xxi

zie, fermiamoci qui. Perché se uno ha sempre bisogno di dire quello che prova, significa che sta cercando di convincersene. playboy

Così lei si costringerebbe a non dire nulla anche in situazioni straordinarie?

fassbinder

No, non costringerei né me né altri. Bisognerebbe saper capire se il sentimento è davvero così forte da doverlo esprimere a tutti i costi. In questi casi capita spesso, però, di sentire espressioni di livello bassissimo, molto al di sotto di quel che direbbe un poeta, per esempio. La lingua è un «mezzo di trasporto fondamentale» ma non è sempre l’unico. In particolare sono molto critico quando si parla dei sentimenti.

playboy

Ma lei lo dice «ti amo», se è il caso di dirlo?

(orgoglioso e imbarazzato)  Questo sì, sono in grado di farlo. Arriva un momento in cui non si può fare a meno di dirlo. Pensi che ormai non aggiungo nemmeno più quanto lo trovi stupido. All’inizio era così, dicevo «ti amo» e poi subito facevo dell’ironia. Nel frattempo ho imparato, e quando è il momento (ride) mi limito a dirlo. Questo non significa però che io non mi osservi mentre lo faccio. Ma il dover ogni volta capire come potrai «sfruttare» la relazione, è un altro problema.

fassbinder

playboy

Ma poi lei le utilizza anche, queste scene d’amore!

(sospira)  È vero, sì, da un lato utilizzo ciò che ho vissuto, dall’altro lascio anche molta più libertà ai personaggi che non a me stesso. Per esempio, capita che dia ai personaggi dei miei film la possibilità di esprimere direttamente un sentimento molto prima di quanto farei io nella vita.

fassbinder

playboy

Allora attraverso i suoi personaggi…

fassbinder

Con i miei personaggi…


xxii

Un giorno è un anno è una vita

playboy

… attraverso e con i suoi personaggi, insomma, lei è cambiato?

fassbinder

Sì. Se si guardano i miei primi dieci film uno dietro l’altro si nota che quei personaggi avevano davvero la possibilità di reagire in modo molto diretto alle situazioni. In fondo sono molto silenziosi, no? E d’improvviso (ride)… Nei primi dieci film si sente almeno una cinquantina di volte l’espressione «pazzesco!», perché uno giudica una situazione così forte, così complessa, che non può dire altro. E quel «pazzesco» può essere tutto: terribile o meraviglioso. È una cosa che io all’epoca non mi sarei permesso di esplicitare. Oggi invece me lo permetterei.

playboy

Qual è il suo rapporto con la sessualità?

fassbinder

Hm, hm, hm (sospira)… La domanda è troppo generica.

playboy

Nei suoi film, comunque, la sessualità gioca sempre un ruolo importante. Potrebbe diventare uno scrittore-eremita e rintanarsi in una baita sperduta?

fassbinder

No, non potrei. Quando faccio un film per me il lavoro è un atto sessuale ed è molto più appagante di quello con un altro essere umano. Non vivo come un eremita nella foresta, ma i contatti sessuali più appaganti ce li ho con il mio lavoro.

playboy

Nella sua vita amore e lavoro si completano o si contraddicono?

fassbinder

Per me le cose non sono così schematiche, un giorno si vive e un altro si scrive. Magari vivo per un paio di settimane con una cosa che si concretizza nella testa e poi per un paio di giorni o un paio di settimane – dipende – c’è solo lavoro, e allora è proprio un rapporto sessuale con il processo lavorativo, mi eccita. Non a caso nella mia vita ci sono state persone più gelose di un blocco di fogli, di una macchina da scrivere, di un registratore o una cinepresa, che di un altro essere umano.


Introduzione in forma d’intervista    xxiii playboy

Lei riesce ad abbandonarsi a un’altra persona?

fassbinder

Ho avuto una volta una relazione in cui sono arrivato molto vicino a lasciarmi andare completamente. È successo una volta. Non mi succederà mai più.

playboy

Sicuro?

fassbinder  playboy

Sicurissimo.

Una forma di autoprotezione?

fassbinder

Sì, dopo quella volta ho imparato a non permettere mai più che una relazione arrivi fino a quel punto.

playboy

E una relazione paritaria tra due persone altrettanto forti?

fassbinder

Sarebbe auspicabile, naturalmente. Nella realtà (soffia), sì, si può solo sperare (ride), diciamo così.

playboy

Allora in teoria lei potrebbe anche vivere da solo.

fassbinder

Mi sta chiedendo perché non rinuncio alle mie relazioni? Ne avrò comunque bisogno, per un motivo o per l’altro (pausa). Purtroppo.

playboy

Purtroppo?

fassbinder

Sì, direi purtroppo. Ora come ora sarei molto contento di poter vivere senza relazioni fisse. Probabilmente sarei più felice. Se riuscirò mai a raggiungere questo obiettivo, è un’altra questione.

playboy

Cos’altro fa lei oltre a lavorare, amare, fumare e bere?

fassbinder

Niente. Quello che faccio mi diverte, anche gli obblighi che ogni tanto mi impongo, scadenze da rispettare e così via, tutto questo non è per me fonte di stress.


xxiv

Un giorno è un anno è una vita

playboy

A quale pubblico pensa per esempio con Berlin Alexanderplatz?

fassbinder

A tutte le persone che si trovano nelle condizioni psichiche in cui mi sono trovato io quando ho letto il libro per la prima volta. Credo che ce ne siano parecchie in giro: due o venti milioni, non saprei.

playboy

In cosa si differenziano la versione cinematografica e quella televisiva di Berlin Alexanderplatz, lunghezza a parte?

fassbinder

Sono due modi radicalmente diversi di raccontare, epico per la versione televisiva, e concentrato per il film. Per me è stato molto importante, scrivere prima di tutto le 2500 pagine di copione per la televisione.

playboy

Che cos’è che la affascinava tanto nel romanzo di Döblin? La figura di Franz Biberkopf?

fassbinder

In molti miei film ci sono citazioni da questo romanzo di Döblin. Non è tanto la figura di Franz Biberkopf in sé, quanto le circostanze in cui si trova, il modo in cui le persone si rovinano la vita. Quando vanno in pezzi perché non osano più confessare i propri desideri e i propri bisogni essenziali, e per via delle storpiature che la loro anima subisce non sono più capaci di vivere la cosiddetta vita normale. Quel romanzo, che ne fossi consapevole o no, mi ha davvero aiutato a liberarmi di parecchie cose. Per questo sento la necessità di raccontarlo ad altri, di tradurlo in altri linguaggi così che allo spettatore possa accadere almeno in parte ciò che è successo a me leggendo il libro.

playboy

Cosa succede secondo lei dopo che ci si è liberati dalle costri-

zioni? fassbinder

Non ho soluzioni, non sono un filosofo in grado di offrire allo spettatore un sistema di pensiero al quale attenersi. Non sono nemmeno un politico che propone un programma, al quale io peraltro non potrei credere.


Introduzione in forma d’intervista    xxv

Penso che se il singolo individuo riesce a liberarsi dalle costrizioni, dovrà poi essere lui a decidere cosa farsene della sua libertà. playboy

Che funzione ha quella lingua artificiale che c’è già nei suoi primi film e nelle opere teatrali – una lingua che non si parla da nessuna parte?

fassbinder

Non mi piace quando quello che si vede o si sente in un film sembra l’imitazione della realtà. Trovo orribile ogni volta che in un film qualcuno parla come nella vita reale. Questo toglie forza al pensiero, elimina l’inquietudine diffusa. Come posso dire? Sminuisce tutto. E l’artificiosità, secondo me, è l’unico modo per consentire a un pubblico allargato di entrare nel cosmo tutto particolare costituito da un’opera letteraria.

playboy

Lei ha lavorato con altri registi al film Germania in autunno. Qual è stato l’aspetto che ha privilegiato nel filmare la situazione politica nella Germania Federale dopo il caso Schleyer?

fassbinder

Niente di ciò che ho fatto finora, nessuno dei miei film è mai stato una reazione concreta a un evento politico, perché ho sempre pensato che per quello ci fosse la televisione. Ma in questo caso avevamo i mezzi per produrre un film e ci siamo ripromessi di dire quello che gli altri media non dicevano più. Io stesso ho insistito molto sul fatto che ognuno di noi dovesse raccontare in modo molto personale la propria reazione psicologica a questo tempo.

playboy

Come si definirebbe lei, se dovesse farlo? Quali sono le sue fra-

gilità? (pausa)  È difficile rispondere a questa domanda. Per come vedo io le cose e per come vivo, non ho fragilità. Ho fatto in modo di non averne, ma questo non significa che oggettivamente non ne abbia, significa solo che dal punto di vista soggettivo vivo la mia vita con la massima intensità. So che è un privilegio. Forse la mia fragilità sta proprio nel vivere in questo modo. Ma alla sua domanda risponderei co-

fassbinder


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Un giorno è un anno è una vita

sì: non ho punti deboli fintanto che continuo a lavorare sulle cose che trovo sbagliate. Le fragilità sono tali quando si consolidano e diventano qualcosa di definitivo. playboy

Quindi il suo partner ideale se lo immagina così, senza fragilità?

fassbinder  playboy

Sì?

fassbinder  playboy

Hm.

E una persona così non c’è mai stata nella sua vita?

fassbinder  playboy

Sì, per me sarebbe l’ideale.

Nooo, è difficile.

Allora le persone con le quali è stato finora erano il suo opposto?

fassbinder

Finora nella vita mi sono sempre cercato delle persone, intendo quelle con cui ho convissuto a lungo, che non comportassero delle sfide intellettuali. Piuttosto delle sfide concrete, psicologiche. Forse è un mio punto debole. Ma d’altra parte in questo modo ho fatto tante esperienze importanti che, se ci fosse stato un confronto solo intellettuale, non avrei potuto fare. Il mio desiderio naturalmente sarebbe quello di legarmi a una persona con la quale sia possibile tutto. Un rapporto in cui sesso, eros, amore, consapevolezza, tutto sia presente in uno scambio continuo. Trovare tutto questo in una sola persona sarebbe bello, solo che non ci credo più.

playboy

Negli ultimi dieci anni ha cambiato radicalmente i temi, il tono generale, dei suoi film…

fassbinder

No, il tono generale, se lo vogliamo chiamare così, non è cambiato. Il tema è rimasto, e rimarrà, sempre lo stesso: l’uso, lo sfruttamento dei sentimenti all’interno del sistema in cui viviamo, e in cui certamente dovranno vivere anche le generazioni dopo di noi. Quello


Introduzione in forma d’intervista    xxvii

che è cambiato sono gli aspetti tecnici del mestiere, la forma, in cui ogni volta cerco di superarmi, di andare oltre quello che già so. Al contrario di altri artisti ho rinunciato alla concezione puristica dell’arte che avevo un tempo, l’idea che l’arte debba essere molto diretta e molto semplice. Per me questo aspetto ha sempre avuto a che fare con il livello delle mie capacità tecniche. Sarebbe stato un errore rimanere fermo su queste teorie sviluppate allora. Per altri può essere stata la cosa giusta. playboy

Nei suoi film spesso interviene la morte. Lei stesso ha raccontato che nella sua vita ci sono stati momenti in cui ha accarezzato l’idea del suicidio. Qual è ora la sua posizione in merito? (farfuglia qualcosa)  Trovo che la morte sia la questione centrale della vita, per così dire. Solo nel momento in cui la morte viene accettata come elemento fondamentale dell’esistenza, si può davvero disporre della vita. Fintanto che la morte è un tabù, lo è anche la vita, che perde di interesse. In una società basata sullo sfruttamento dell’essere umano la morte deve essere tabuizzata.

fassbinder

playboy

Detto più concretamente?

fassbinder

Nella mia vita ci sono stati due momenti importanti. Quando mi sono reso conto razionalmente che l’uomo è mortale. E questo non è stato un problema, la cosa aveva ben poco a che fare con me. E quando invece il mio corpo ha capito improvvisamente di essere mortale. Questo è a tutt’oggi il momento più importante della mia vita. Da allora la vita per me è (molto triste) molto più divertente. Anche se (ride), come lei ha già più volte sottolineato, non sempre si direbbe. È stato quando ho avuto quei dolori al cuore. A un certo punto non riuscivo più a respirare e mi sono detto, va bene, adesso inghiotti quelle pillole, le prendi tutte. E solo dopo che il medico mi ha visitato e ha detto che da un punto di vista organico era tutto a posto, la paura se n’è andata. Nel giro di tre giorni. Il corpo è davvero una cosa mostruosa.

playboy

Perché?


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Un giorno è un anno è una vita

fassbinder

Questa differenza tra il corpo, al quale in fondo siamo soggetti, e lo spirito che è immortale è proprio una discrepanza terribile. Uno spirito che dal punto di vista esistenziale può vagare liberamente nell’aria, e un corpo con gli intestini e tutto il resto, bleah…

playboy

A quanto pare lei non ha un rapporto troppo amorevole con il suo corpo. (ride)  Si sbaglia di grosso. Ho un rapporto molto amorevole con le possibilità di divertimento del mio corpo, il piacere, e tutto ciò che il corpo è in grado di produrre. Questo sì. Però (balbetta) il corpo non smette mai di essere disgustoso nel sottrarsi ai bisogni dello spirito. Lo spirito è lì, e se fosse in un altro corpo sarebbe diverso. Naturalmente lo spirito deve avere la padronanza di quel corpo specifico con il quale fa le sue esperienze. Questo non significa odiare il corpo e amare lo spirito, assolutamente no. Posso avere delle idee meravigliose in mente, meravigliose, le più belle del mondo. E poi di colpo zac – che ingiustizia (ride)!

fassbinder

playboy

Le è mai capitato di voler essere un’altra persona o è contento così com’è?

fassbinder

No, no. Ecco, tra i quindici e i vent’anni avevo un’acne fortissima. Credo che quello sia stato l’unico momento della mia vita in cui ho desiderato essere qualcun altro. Altrimenti mai. Sono fin troppo soddisfatto di me. Davvero, sono identico a me stesso al limite dell’idiozia.


un giorno è un anno è una vita



Ich möchte für das Kino sein, was Shakespeare fürs Theater, Marx für die Politik und Freud für die Psychologie war: Jemand, nach dem nichts mehr ist wie zuvor. Vorrei essere per il cinema quello che Shakespeare fu per il teatro, Marx per la politica e Freud per la psicoanalisi: uno dopo il quale nulla è più come prima. Rainer Werner Fassbinder, 1977



Premessa Life is so precious – even right now

«Fare tanti film perché la mia vita diventi un film»: secondo questo principio ha vissuto il più grande, il più eclettico, il più produttivo regista tedesco del dopoguerra. Lavoratore accanito, in soli tredici anni Rainer Werner Fassbinder, con un delirio creativo quasi senza precedenti, girò più di quaranta film, scrisse un pezzo di storia del cinema e per la prima volta dopo decenni restituì al cinema tedesco una notorietà internazionale. Mentre la maggior parte dei rappresentanti del Nuovo cinema tedesco (Neuer Deutscher Film) è da tempo dimenticata, i film di Fassbinder continuano a godere di un ampio riconoscimento. Ora come allora, è lui l’artista più rappresentativo del cinema tedesco del dopoguerra. Le grandi retrospettive a lui dedicate a Berlino, New York e Parigi sono state letteralmente prese d’assalto e la stampa lo ha celebrato con entusiasmo, come «il cineasta della Germania» o il «Balzac tedesco». Ancora oggi le sue pellicole vengono riproposte nei principali festival del cinema: Locarno, Cannes, Berlino. Rainer Werner Fassbinder ha scoperto tanti grandi attori, tra cui Hanna Schygulla e Barbara Sukowa, Kurt Raab e Günther Kaufmann, Ingrid Caven e Irm Hermann, Udo Kier e Harry Baer, Margit Carstensen e Klaus Löwitsch, Brigitte Mira e Günther Lamprecht, Armin Müller-Stahl e Rosel Zech, Barbara Valentin e Gottfried John, e ha dato in questo modo al cinema tedesco un nuovo star system, il primo dopo la fine della guerra. I suoi film e la sua vita attraversano il dopoguerra tedesco. Le opere e le discussioni controverse che scatenarono alla loro uscita possono es-


4    Un giorno è un anno è una vita

sere considerate un sismografo della storia degli anni sessanta e settanta. Fassbinder è stato di gran lunga il più importante cronista della Germania Federale da Konrad Adenauer ad Andreas Baader. Ha dedicato la sua attenzione al passato nazionalsocialista come pure alle deformità e alle zone d’ombra del miracolo economico, nonché al terrorismo della Raf nell’Autunno tedesco. Le reazioni passate e presenti alla sua opera dimostrano che i suoi film difficilmente mancano il bersaglio e sanno arrivare al cuore della sensibilità dei suoi connazionali. Pur essendosi dedicato a questioni e temi alquanto delicati, e avendolo sempre fatto con prese di posizione radicali, contrariamente a molti altri rappresentanti del Nuovo cinema tedesco, Fassbinder non dimenticò mai le esigenze del grande pubblico, consapevole che: «Le sale cinematografiche vuote non ci portano da nessuna parte». Combinando Bildungsidealismus e critica sociale, linguaggio formale e modalità narrative dei melodrammi e dei film gangster americani, riuscì, attraverso appassionanti storie individuali, a portare sullo schermo le condizioni e i problemi sociali dei tedeschi, creando così veri e propri sogni cinematografici in grado di coinvolgere e commuovere molte persone. L’estremismo che governava la vita di Fassbinder includeva anche il suo lavoro. «Un giorno è un anno è una vita» rispose una volta a chi gli chiedeva come riuscisse a produrre tanti film in così poco tempo. Sentendo che non avrebbe vissuto a lungo, era deciso a sfruttare ogni singolo giorno come se fosse tutta la vita. Droghe, alcol, eccitanti stimolavano la sua già incredibile capacità lavorativa e lo aiutavano a non cadere nel gorgo dei suoi tormenti interiori. Che quella vita sulla corsia di sorpasso prima o poi l’avrebbe ucciso, era una cosa che aveva messo in conto: «Potrò dormire quando sarò morto». Più i suoi tormenti si facevano sentire, più lui si buttava a capofitto nel lavoro. La sua tragedia personale era il suo pungolo più importante: pagava un prezzo altissimo per l’espressione artistica. Ma anche molti dei suoi collaboratori rimasero vittime di quel delirio lavorativo maniacale e sfrenato, perché Fassbinder non risparmiava nessuno nel suo furore ossessivo e spesso arrivava a sfruttare le persone senza farsi scrupoli. Era un seduttore e un sadico capace di strappare ai suoi attori tutto quello che serviva alla sua sete di vita, alla fine però le sue opere straordinarie e durature gli davano ragione.


Premessa  5

Nel 1982 morì com’era vissuto, a soli trentasette anni, con la testa piena di progetti. Dopo la sua scomparsa il cinema tedesco perse importanza nel contesto internazionale. La sua fama invece rimase – ancora trent’anni dopo la sua morte il fenomeno Fassbinder continua a essere attuale, come hanno dimostrato ancora una volta sia il suo sessantesimo compleanno nel 2005, sia il venticinquesimo anniversario dalla morte nel 2007. Le pagine culturali l’hanno celebrato in lunghi articoli spesso a tutta pagina, molti canali televisivi hanno rimandato in onda i suoi film. Tuttavia l’entusiasmo per Fassbinder raggiunge vertici ben più alti all’estero che in patria. Tanto più sorprendente è il fatto che finora non sia stata ancora pubblicata nessuna biografia di Rainer Werner Fassbinder. I numerosi volumi a lui dedicati, quando non si rivolgono a un pubblico di nicchia con uno spiccato interesse per il cinema, sono spesso ritratti molto soggettivi di vecchi amici, collaboratori e compagni di strada. Un ritratto a tutto tondo, basato su ricerche indipendenti, che includesse la sua vita e il suo lavoro, mancava. Da anni inoltre imperversa una polemica bizzarra su chi debba detenere il primato nell’interpretazione dell’esistenza e delle opere di Fassbinder. Ingrid Caven, moglie del regista dal 1970 al 1972, ha attaccato a questo proposito Juliane Lorenz, che per diversi anni ha lavorato come montatrice per Fassbinder e dal 1992 è presidente della Rainer Werner Fassbinder Foundation, e si sente pertanto investita del compito di conservarne e diffonderne l’opera. Le critiche principali mossele da Ingrid Caven, sostenuta da numerosi compagni di strada del regista, è che falsifichi consapevolmente l’eredità di Fassbinder, che cerchi di cancellare sistematicamente dalla memoria i collaboratori di un tempo da lei malvisti, rendendosi così colpevole della «censura di una vita». In qualità di biografo ho ritenuto importante fin dall’inizio accostarmi a Rainer Werner Fassbinder superando queste polemiche, a mio avviso alquanto sterili, e lasciando parlare, piuttosto che l’impeto dei sentimenti, fatti e documenti che abbiano un riscontro nella realtà, oltre ai film di Fassbinder dall’impronta più fortemente autobiografica. Senza farmi influenzare dall’uno o dall’altro partito, mi sono impegnato a intervistare numerosi testimoni dell’epoca, molti dei quali non avevano mai condiviso pubblicamente il proprio ricordo, in modo da costruire


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un’immagine di Fassbinder che fosse solo mia. Il risultato della ricerca è il ritratto di una vita per molti aspetti indubbiamente estrema, ma è proprio questa vita che ha spinto Fassbinder a girare i film ora consegnati ai posteri, la cui visione costituisce ancora oggi un arricchimento enorme.


Un bambino raggelato 1945-1963

Rainer Werner Fassbinder venne alla luce a Bad Wörishofen, nella regione bavarese dell’Allgäu, il 31 maggio del 1945, appena tre settimane dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Da un lato si sarebbe divertito a giocare su quella vicinanza temporale tra la sua nascita e la guerra, raccontando agli amici di ricordare i bombardamenti che sentiva nella pancia della madre,1 dall’altro, dichiarando sistematicamente per anni ai giornalisti di essere nato nel 1946, avrebbe cercato di prendere le distanze da quell’evento epocale, vissuto dalla maggior parte dei tedeschi non come una liberazione, ma come una sconfitta.2 Bad Wörishofen, apprezzata località di cure idroterapiche immersa nel paesaggio idilliaco del Mittelschwaben e consegnata alla storia della letteratura da un racconto di Katherine Mansfield, 3 era stata presa dalle truppe americane tre settimane prima della nascita di Fassbinder. In quella stessa località, a fine Ottocento, il parroco Sebastian Kneipp, grazie alle sue conoscenze sul potere terapeutico dell’acqua, aveva sviluppato le cosiddette cure Kneipp. Senza dubbio gli approvvigionamenti si erano dimostrati migliori nella rurale Wörishofen che nelle grandi città tedesche, ma il caos dovuto alla fine della guerra si avvertiva anche in questo luogo tranquillo. Nella clinica della cittadina infatti si forniva assistenza agli ex internati dei campi di concentramento, che fino ad allora erano stati costretti a lavorare per l’industria bellica in un campo satellite di Dachau situato nella vicina Türkheim. Molti di loro morirono per le conseguenze della prigionia. Inoltre gli americani avevano allesti-


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to in città un’apposita area per displaced persons, dove numerosi lituani e ucraini reduci dai campi di lavoro avevano trovato riparo in attesa di tornare in patria.4 La madre di Fassbinder, Liselotte Irmgard Pempeit, era nata nel 1922 nella cittadina polacca di Kuval,5 a sud della metropoli di Włocławek sulla Vistola, ed era poi cresciuta dapprima nel villaggio di Schmiede,6 a ovest di Danzica, quindi a Zigankenberg, un sobborgo della città.7 Nel 1944, aveva lasciato Monaco per seguire il marito nell’Allgäu. Helmuth Fassbinder, una volta conclusi gli studi, era stato richiamato dalla Wehrmacht per lavorare come medico assistente nell’ospedale militare di Bad Wörishofen. L’ospedale era stato sistemato in quella che un tempo era la casa di cure termali, poiché il fiorente commercio dell’idroterapia era quasi completamente venuto meno durante la guerra. Franz Karl Helmuth Josef Fassbinder, nato nel 1918, poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, in una famiglia fortemente cattolica di preti, maestri e presidi, era già al secondo matrimonio. Dalla prima moglie, che gli aveva dato due figli, si era separato dopo essersi innamorato dall’oggi al domani della ventenne Liselotte, che chiamava teneramente «Li». Dopo la maturità e il servizio del lavoro obbligatorio a Danzica, nel 1942 Liselotte aveva intrapreso gli studi di germanistica a Monaco e lì aveva conosciuto quello che poi sarebbe diventato suo marito, di quattro anni più grande di lei. La giovane insegnante e il medico erano uniti dal comune amore per la letteratura. Helmuth infatti, figlio di un preside di scuola superiore, aveva frequentato, parallelamente agli studi di medicina, le lezioni di germanistica e coltivava il sogno, mai realizzato, di diventare scrittore. Continuò l’esercizio della professione medica fino in tarda età.8 La coppia si sposò nel 1944. Per paura di essere spedito al fronte all’ultimo minuto – benché la guerra apparisse ormai da tempo senza vie d’uscita – e di poter quindi morire, Helmuth volle a tutti i costi un figlio. Liselotte, che voleva terminare gli studi, non condivideva, almeno nell’immediato, quel suo desiderio, così lui non faceva che tormentarla: «Se mi ami davvero, il bambino lo vuoi anche tu, ora».9 La giovane donna cedette e Rainer Werner Fassbinder fu concepito nell’autunno di quello stesso anno nell’ospedale da campo di Bad Wörishofen.10 Fatte salve alcune trasferte a Monaco, Liselotte trascorse la gravidanza nell’Allgäu, regione perlopiù risparmiata dagli eventi bellici, e diede alla luce il suo unico fi-


Un bambino raggelato  9

glio in una clinica ostetrica che fino a poco tempo prima era ancora gestita dall’Hilfswerk Mutter und Kind (opera di soccorso nazionalsocialista «Mamma e bambino»).11 Si diceva che proprio lì il piccolo Rainer Werner12 fosse stato scambiato in culla, e pare che solo i tipici zigomi mongoli, eredità di una bisnonna lituana, abbiano chiarito il malinteso.13 Poco dopo la nascita del figlio, Helmuth e Liselotte tornarono a Monaco, che distava ottanta chilometri da Bad Wörishofen ed era stata invece distrutta dalle bombe. Negli innumerevoli e in buona parte devastanti attacchi delle forze aeree britanniche e americane ampie zone della «capitale del movimento»14 erano state ridotte in macerie. Molti degli emblemi di Monaco erano stati distrutti o gravemente danneggiati e oltre la metà delle abitazioni era inagibile. Tra le rovine vagavano persone rimaste senza casa alla ricerca dei parenti. Quasi nessuno riusciva a immaginare come da quei mucchi di macerie sarebbe potuta un giorno risorgere una città. Klaus Mann, tornato nella sua città di origine con indosso l’uniforme delle forze speciali dell’esercito americano, scrisse sconvolto nel maggio del 1945 le sue impressioni: «Mi ero immaginato qualcosa di assai brutto; ma è ancora peggio. Monaco non c’è più».15 Per garantire il sostentamento della sua famiglia, Helmuth Fassbinder decise di aprire non appena possibile uno studio medico. A questo scopo prese in affitto un grande appartamento di cinque stanze in Sendliger Straße,16 una via commerciale molto frequentata nel cuore di Monaco, dove poté sistemare sia l’ambulatorio che i familiari. Nell’immediato dopoguerra le condizioni di vita nella città bavarese erano tutt’altro che semplici. «Alle finestre non c’erano i vetri. Il combustibile non bastava» raccontò in seguito la madre di Fassbinder.17 A fronte delle misere condizioni abitative e della catastrofica situazione degli approvvigionamenti alimentari, Helmuth Fassbinder, in quanto medico, non poteva ignorare che in quelle circostanze sarebbe stato estremamente difficile far superare l’inverno al figlio che avevano messo al mondo. Senza consultare la moglie, decise che in autunno il piccolo Rainer, di soli quattro mesi, sarebbe stato portato da suo fratello gemello e dalla sua famiglia nella Foresta Nera. Anche sua cognata, che aveva uno studio medico di campagna nel piccolo comune di Kippenheim, nel Baden-Württemberg, aveva avuto, alla fine di luglio, un figlio: Egmont, il cugino di Rainer.18


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Così Rainer trascorse i primi mesi di vita, decisivi per lo sviluppo di un bambino, senza padre né madre. Per Liselotte, come lei stessa ebbe a dire, non era stato facile consegnare il figlio nelle mani della cognata, ma alla fine si era piegata alla decisione del marito, dettata dal buon senso: «Ho accettato la cosa nonostante le mie grandi resistenze. Si figuri cosa può significare per una madre vedersi togliere il figlio quattro mesi dopo la nascita. È stato terribile».19 Forse fu proprio questa precoce separazione, che non deve essere stata semplice per nessuno, a impedirle di costruire un normale rapporto madre-figlio. Soltanto nell’estate del 1946, poco dopo il suo primo compleanno, Fassbinder fu nuovamente accolto in famiglia a Monaco, dove le condizioni di vita si erano un po’ stabilizzate. Nel frattempo, in mancanza di altro alloggio, nello spazioso appartamento di cinque stanze vivevano anche la madre di Liselotte, fuggita da Danzica, e il fratello con la moglie. In Germania, subito dopo la guerra, questo genere di convivenza forzata era usuale. Accanto allo studio medico del padre, nella parte posteriore dell’appartamento, c’erano altre stanze, date in subaffitto, in cui vivevano «ospiti occasionali», come ebbe a raccontare lo stesso Rainer Werner Fassbinder descrivendo le condizioni di vita in quella casa: «Così da bambino avevo a che fare più con quegli ospiti che con i miei genitori. Alla fine per me era difficile distinguere: chi sono a quel punto i tuoi genitori?».20 Per un bambino della sua età il caos di quell’abitazione doveva essere sconcertante: nella «famiglia allargata», messa insieme alla rinfusa, mancavano una struttura familiare chiara e delle gerarchie ben riconoscibili, così Rainer non riuscì a costruire con nessuno una relazione stabile, basata sulla fiducia reciproca. Il frequente alternarsi dei subaffittuari, nonché l’andirivieni dei pazienti del padre accrescevano l’instabilità e l’inquietudine di Rainer, segnandone ulteriormente lo sviluppo: «Credo di non aver mai avuto nessuno su cui poter davvero contare».21 I genitori erano troppo presi dalla loro vita per occuparsi in modo adeguato del figlio. Mentre il padre era perennemente occupato nell’ambulatorio, la madre lavorava come traduttrice. Nella sua inesperienza giovanile, nel 1940, prima ancora di aver compiuto i diciotto anni, era diventata membro dell’Nsdap (Partito nazionalsocialista dei lavoratori),22 e una volta finita la guerra, con suo grande rammarico, non le era stato permesso di insegnare; volendo quindi esercitare una


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professione e guadagnare qualcosa, non le era rimasto che accettare incarichi di traduzione.23 Anche quando ebbe ripreso Rainer con sé, dopo mesi di separazione, Liselotte Fassbinder non si sentiva in grado di dedicarsi affettuosamente al figlio. Fin da molto piccolo dunque Rainer si abituò al fatto che sua madre si ritirava per ore alla scrivania e lì, immersa nel lavoro, non doveva essere disturbata. Liselotte affidava le cure del figlio principalmente alla nonna, la quale, oltre a occuparsi di tutte le faccende domestiche per quella grande famiglia, badava al nipote non potendo però sostituire il ruolo materno. Il riserbo e la freddezza di Liselotte nei confronti di Rainer erano dovuti a diverse ragioni. Lei stessa ha dichiarato che a ventitré anni si sentiva ancora troppo «poco matura» per poter crescere un bambino,24 tanto più che era rimasta incinta solo perché si era lasciata convincere dal marito. Inoltre era stata a sua volta una figlia a cui la madre «avrebbe voluto rinunciare. Mi ha dato via quando avevo tre anni. Sono cresciuta con dei parenti. Odiavo mia madre».25 In seguito Liselotte cercò di spiegare quel suo disorientamento di fondo, quella sensazione di non riuscire ad allevare un bambino, con il fatto di aver dovuto sperimentare sulla propria pelle, prima da scolara e poi da ragazza del Bdm (Bund Deutscher Mädel, Lega delle ragazze tedesche, divisione femminile della Gioventù hitleriana), l’indottrinamento nazionalsocialista. E tuttavia in quell’occasione tacque la sua adesione all’Nsdap, che tenne segreta fino alla morte: «Quando nel 1945 compresi che tutti noi eravamo stati strumentalizzati e che era stato tutto un errore, mi resi conto anche di quanti problemi potessero sorgere nei processi educativi, al punto che mi parve di non essere in grado di educare e rifiutai quel compito».26 Quella motivazione data a posteriori è certamente riduttiva. Non c’erano soltanto le carenze non rielaborate della sua infanzia, Liselotte e suo marito avevano un’idea davvero insolita di come dovesse crescere un bambino. Giocattoli e libri per bambini erano malvisti in casa Fassbinder, anche la lettura dei fumetti era vietata, e al figlio non rimaneva che immergersi nei libri d’arte dei genitori: «I miei libri illustrati erano i volumi di Dürer, Altdorfer o Michelangelo che si trovavano in casa».27 Se i genitori leggevano delle pièce teatrali spartendosi i ruoli, il piccolo Rainer doveva sedersi ad ascoltare anche se non aveva l’età per capire. L’ambiente in cui cresceva non era adatto a un bambino. A Monaco poi i


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Fassbinder abitavano nei pressi del quartiere a luci rosse, e tra le pazienti del padre c’erano molte prostitute che andavano e venivano dall’appartamento, il che era motivo di frequenti scontri con gli altri inquilini dello stabile. Le prostitute divennero la compagnia abituale del piccolo Rainer, e ciò contribuì sicuramente a far sì che un giorno lui stesso non avesse alcun problema a prostituirsi e che il mondo delle puttane, dei marchettari e dei magnaccia fosse così presente nei suoi film. Era molto raro che Helmuth e Liselotte riflettessero sul loro ruolo di genitori e sui doveri che ne conseguivano: «Non mi capitava spesso d’incontrare i miei genitori da bambino, ma quando li incontravo era sempre un evento eccezionale. Succedeva sempre qualcosa di speciale». A posteriori Fassbinder avrebbe interpretato questi «intermezzi euforici» come proiezioni di desideri che attribuiva ai genitori in relazione a se stesso. «Prima di mettermi al mondo avevano idee davvero grandiose, pensavano che sarebbero diventati dei genitori meravigliosi, genitori che avrebbero aiutato il loro piccolo a cavarsela nella vita.»28 Ma quegli intervalli armoniosi, grazie ai quali i Fassbinder cercavano evidentemente di riguadagnare a tutta velocità il tempo perduto, nel bambino suscitavano soltanto degli scompensi affettivi che lo rendevano ancora più insicuro. Infatti quei brevi momenti gioiosi in cui godeva della presenza del padre e della madre gli dimostravano tanto più chiaramente che perlopiù doveva cavarsela senza il loro sostegno: «C’erano giornate intere in cui mi ritrovavo completamente solo, ed ero un bambino».29 Così, per necessità, Rainer manifestò molto presto una innaturale autonomia. La madre sviluppò una certa diffidenza nei confronti di quel figlio precoce e impertinente: «Ho notato quasi subito che non era possibile educarlo. Non appena cominciò a parlare, fu una sfida continua. A quattro anni mi disse: “Quel vestito non lo dovresti mettere, non ti sta bene, e i capelli dovresti farli crescere, i capelli corti sono brutti”». Questi rimproveri non facevano che aumentare il rifiuto di Liselotte Fassbinder nei confronti del figlio: «A volte pensavo, se le cose stanno così, se i figli demoliscono a quel modo le loro madri, allora dovremmo rifiutarci di metterli al mondo».30 Una volta, quando Rainer aveva cinque anni, si arrabbiò talmente con lui che gettò la sua amatissima tartaruga in strada, dove fu schiacciata da un’automobile sotto i suoi occhi inorriditi. Lo sgomento per la crudeltà della madre s’annidò profondamente nell’ani-


Un bambino raggelato  13

mo di Fassbinder, tanto che ancora venticinque anni dopo, quando una ragazzina ignara dell’accaduto volle presentargli la sua tartaruga, lui ebbe un attacco di panico.31 Man mano che Rainer cresceva, non solo peggiorava il suo rapporto con la madre, ma aumentavano anche le tensioni fra i genitori. A Liselotte pesava molto che suo marito le rinfacciasse in continuazione le proprie origini modeste. Come se non bastasse, le era palesemente infedele e aveva una storia con l’infermiera dell’ambulatorio.32 Inoltre si verificarono due eventi tragici, destinati ad avere pesanti conseguenze per tutta la famiglia e legati al fatto che Helmuth praticava sempre più spesso aborti clandestini sulle prostitute e subaffittava le stanze dell’appartamento a donne disperate di quell’ambiente. Dopo il suicidio di una di loro nell’appartamento dei Fassbinder e il tentato suicidio di un’altra, che si gettò dalla finestra dello studio, gli altri inquilini fecero in modo che i Fassbinder ricevessero lo sfratto.33 Così la famiglia, nel 1950, si stabilì in un nuovo alloggio nella Stielerstraße, nei pressi della Theresienwiese.34 Anche qui Helmuth sistemò lo studio accanto all’abitazione della famiglia. Poco dopo tuttavia dovette rinunciare alla professione perché, essendo stato denunciato per via degli aborti, gli fu revocata l’abilitazione.35 La perdita della sicurezza materiale sembra aver dato il colpo di grazia al matrimonio di Helmuth e Liselotte Fassbinder, che nel 1951 si separarono, mandando definitivamente in pezzi il piccolo mondo del figlio. Helmuth Fassbinder a quel punto lasciò Monaco e si trasferì prima a Bad Godesberg, nei pressi di Bonn, e più tardi a Colonia, dove viveva una delle sue sorelle. Negli anni successivi andò a trovare il figlio solo raramente. Con il divorzio dei genitori Rainer non perse soltanto il padre, perse tutta la famiglia allargata nella quale era cresciuto nei primi sei anni di vita. La nonna e lo zio materno con la moglie si cercarono una nuova sistemazione, mentre Liselotte prese in affitto un appartamentino di due stanze nella vicina Lindenwurmstraße, dove si sistemò con il bambino. La separazione fu un duro colpo per Rainer: quando per la prima volta festeggiò il Natale da solo con la madre, per lui il mondo era ormai incomprensibile, come ricordò più tardi Liselotte Fassbinder: «Ho decorato l’albero di Natale, ho sistemato i regali e Rainer si è limitato a dire: “Ma come? Noi due soli?”».36 Dopo la separazione la madre di Rainer, che continuava a guadagnarsi da vivere facendo la traduttrice, si


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sentiva più sopraffatta di prima, cosa che del resto non stentava ad ammettere: «Dopo la guerra e dopo la separazione probabilmente non riuscivo a dare a Rainer neanche un po’ di amore».37 Certo non era una donna che in quelle circostanze potesse crescere il figlio con sensibilità e offrirgli consolazione. Sempre più spesso riversava su di lui l’amarezza nei confronti di Helmuth, che prima l’aveva convinta ad avere un figlio e poi l’aveva piantata in asso, lasciandola con un matrimonio fallito e i sogni infranti. Se ai suoi occhi Rainer era stato maleducato, poteva non parlargli per giorni interi, e negandogli l’amore in quel modo crudele non faceva che riproporre inconsapevolmente ciò che lei stessa aveva patito da bambina.38 Anche se più tardi Fassbinder cercò di nobilitare la cosa dicendo che non aver avuto una famiglia normale lo aveva arricchito, la mancanza di un ambiente protetto e di affetti sicuri, e le tante esperienze dolorose dell’infanzia lasciarono in lui segni profondi. Avrebbe poi ammesso infatti che «già da bambino ero quello che si definisce un maniaco depressivo»,39 condizione che rendeva molto difficili i suoi rapporti con gli amici e i compagni di giochi. Da un momento all’altro il bambino allegro che giocava con gli altri si poteva trasformare in un guastafeste imbronciato e poco socievole, il che lo rese ben presto un emarginato. «A volte ero felice, allegro e giocavo molto volentieri con i miei compagni, poi d’improvviso non ne avevo più nessuna voglia. Allora mi sedevo da qualche parte e gli altri non riuscivano a capire. Pensavano che fossi matto.»40 La conseguenza di questo atteggiamento fu che sempre più spesso gli altri bambini lo evitavano e lui se ne stava in disparte. I vicini più tardi lo avrebbero ricordato come un bambino introverso, «timido e riservato».41 Mentre un compagno di giochi dell’epoca lo avrebbe definito come il «bambino più infelice e triste» che avesse mai conosciuto.

Colpito da una pubertà quasi assassina All’infanzia difficile seguirono un’adolescenza e una giovinezza altrettanto problematiche: nemmeno la scuola riuscì a dare un sostegno a Rainer. Già alle elementari della Stielerstraße, dove cominciò nel 1951 all’età di sei anni, ebbe serie difficoltà perché non riusciva a integrarsi nella classe


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secondo le aspettative degli insegnanti. Il giorno in cui, dopo aver ricevuto uno schiaffo da una maestra, si gettò a terra e, isterico, invocò la polizia, per la direzione della scuola la misura fu colma: «Hanno detto che il bambino non può rimanere qui, deve andare in una scuola speciale».42 Liselotte Fassbinder riuscì a impedire che si mandasse suo figlio in una scuola o addirittura in un istituto per ragazzi difficili; anzi, fece in modo che Rainer passasse alla Rudolf-Steiner-Schule della Leopoldstraße, nella speranza che in una struttura privata a gestione autonoma e con classi decisamente più piccole potesse trovarsi meglio. In quella scuola fondata nel 1947 e che negli anni cinquanta era ancora ospitata nelle baracche provvisorie, vigevano la Waldorfpädagogik 43 e la visione antroposofica di Rudolf Steiner. Lì non si inculcava un sapere nozionistico, ma si stimolavano negli allievi l’intelligenza emotiva, la competenza sociale e le capacità pratiche: «Il pensare, il sentire e il volere dei ragazzi vanno sollecitati e stimolati allo stesso modo».44 Se si prescinde dalla tesi, che a quanto pare veniva spesso sostenuta a lezione, secondo cui i bambini alla scuola Steiner sarebbero cresciuti «spensierati come fiorellini», l’istituto non deve avere impressionato particolarmente Rainer, o, perlomeno, in seguito lui non sembra aver conservato particolari ricordi della scuola Steiner e degli anni trascorsi lì. Dal momento che la nuova scuola si trovava nel centro del quartiere di Schwabing, per raggiungerla Rainer doveva percorrere venti minuti di strada con il tram. In un primo tempo la madre si preoccupò che il figlio frequentasse regolarmente. Nel 1953, tuttavia, quando Rainer aveva cominciato da poco la seconda, Liselotte Fassbinder si ammalò di tubercolosi e dovette sottoporsi a cure molto impegnative.45 Poiché il suo stato di salute non migliorava, il dispensario locale sollecitò un soggiorno in sanatorio, ma, allevando suo figlio da sola, Liselotte si oppose a quella soluzione con le unghie e con i denti, finché non la minacciarono in presenza di Rainer: «Con questa tubercolosi aperta, se non ci andrà spontaneamente, verrà portata in sanatorio di forza»,46 e così dovette adeguarsi alle misure stabilite dalla sanità pubblica. Mentre la madre trascorreva nove mesi a Kempfenhausen, sul lago di Starnberg,47 il piccolo Rainer, di soli otto anni, rimase a casa, più o meno abbandonato a se stesso. Di tanto in tanto veniva tenuto d’occhio da vicini, parenti o amici, e il cibo se lo andava a prendere perlopiù al baracchino dei würstel. Non c’era nessuno che ba-


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dasse davvero a lui o che si informasse se andava regolarmente a scuola: «Dipendeva solo da me decidere di andarci oppure no».48 E sempre più spesso non ci andava, perché ormai una passione s’era impossessata di lui e non lo avrebbe più abbandonato: il cinema, dove da solo, nel buio della sala, poteva abbandonarsi ai propri sogni. Già sua nonna, quando lui aveva cinque anni, lo portava spesso con sé al cinema, accendendo così il suo entusiasmo per il grande schermo. Sua madre invece desiderava che il figlio si occupasse di arte o di letteratura, e si oppose fin dall’inizio a quella passione: «Il cinema per me non era arte, era divertimento. Pensavo, cosa ne sarà di questo bambino se cerca sempre soltanto il divertimento?». In un primo momento dunque Liselotte aveva cercato di dirottare l’interesse di Rainer su altre cose, gli aveva comprato il meccano della Märklin o le scarpe per giocare a pallone. Ma i suoi sforzi furono inutili, neppure i divieti sortirono alcunché: il figlio era ormai inguaribilmente contagiato dal cinema.49 Mentre sua madre era in sanatorio, Rainer intensificò ancora di più la sua frequentazione dei cinema, che poteva permettersi grazie alla paghetta relativamente generosa che Liselotte gli dava per scaricarsi la coscienza. I film divennero la sua medicina e il punto di riferimento principale della sua infanzia e della sua adolescenza. Solo nel momento in cui si faceva buio in sala e si apriva il sipario, cominciava la sua vera vita: «Era l’unica cosa in cui trovassi un minimo di divertimento».50 Rainer divenne addirittura succube di quel mondo: fuggire negli universi paralleli del cinema, perdersi in film per i quali spesso era ancora troppo giovane e che lo avrebbero segnato per sempre. «Tutti i miei sentimenti li ho imparati al cinema» ammise una volta.51 Le storie del grande schermo lo consolavano quand’era triste e gli raccontavano le cose della vita che fino a quel momento nessuno gli aveva spiegato. I problemi di salute di Liselotte Fassbinder non finirono però con il suo ritorno da Kempfenhausen, si resero infatti necessari altri soggiorni in ospedale e in sanatorio, cosa che contribuì ad aumentare le tensioni tra madre e figlio. La nonna di Rainer peggiorava ulteriormente la situazione ripetendogli che il suo atteggiamento riottoso e le preoccupazioni che dava alla madre erano la ragione delle sue ricadute – una prospettiva che lo opprimeva, «perché io, nel mio egocentrismo, […] mi convincevo di essere la causa della sua malattia, e questo scatenava in me altra aggres-


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sività».52 Nei brevi intervalli in cui madre e figlio si ritrovavano insieme, la conflittualità, sempre latente, si rafforzava, soprattutto se nella vita di Liselotte comparivano altri uomini ai quali Rainer opponeva sempre un rifiuto. Quando aveva nove anni, sua madre ebbe una relazione con un uomo decisamente più giovane di lei. Il fatto che la donna, allora trentenne, avesse un amante di diciannove anni gli pareva già di per sé una cosa inaccettabile, che poi l’amante, poco più grande di lui, volesse fargli da padre, era follia pura.53 Alla fine reagiva con gelosia nei confronti di tutti coloro a cui la madre dimostrava il proprio affetto, e nessun uomo ebbe la fortuna di essere accettato da lui. In seguito a un’ulteriore ricaduta, che richiese un ricovero in ospedale più lungo dei precedenti, Liselotte decise di non lasciare da solo suo figlio e di mandarlo in collegio a Ravensburg, a duecento chilometri da Monaco, dove ancora una volta il ragazzino dovette abituarsi a nuovi insegnanti e a nuovi compagni. Nel 1955, dopo il ritorno di Liselotte, Rainer cambiò nuovamente scuola quindi, terminate le elementari e superato l’esame di ammissione, fu iscritto al Theresiengymnasium. Fondato nel 1895, questo liceo a indirizzo umanistico si trovava in un imponente edificio antico non lontano dalla Theresienwiese, in Kaiser Ludwig Platz. Il fatto che Liselotte Fassbinder, nonostante le manifeste difficoltà scolastiche di suo figlio, avesse optato per quella scuola, considerata uno degli istituti migliori della capitale bavarese, dimostra che lei continuava ad avere grandi progetti per Rainer: «Volevo che facesse la maturità, che studiasse, che imparasse un mestiere e conducesse una vita ordinata».54 Ma ben presto fu evidente che anche qui Rainer non si trovava bene. Dopo un solo anno dovette lasciare l’istituto. L’ennesima ricaduta di sua madre, che trascorse i successivi due anni in un sanatorio per malattie polmonari, costrinse Fassbinder a passare nel 1956 all’Annakolleg, un liceo umanistico con convitto di Augsburg. Anche durante il periodo trascorso in collegio Rainer continuò a fuggire nel mondo dei film; i suoi istitutori non potevano impedirglielo, come non l’aveva potuto impedire sua madre, che vedeva quel suo «andare al cinema in modo incontrollato» come un «pericolo per l’anima del bambino».55 Ma Rainer Werner Fassbinder si era ormai dato anima e corpo al cinema: a dodici anni prese la decisione di diventare un regista importante. In seguito avrebbe indicato Zéro de conduite (Zero in condotta) del


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francese Jean Vigo (un film del 1933 al quale facevano riferimento molti dei registi della Nouvelle Vague) come la più significativa esperienza cinematografica della sua infanzia. Non era in grado di dire però quale fosse esattamente l’aspetto della pellicola che lo aveva più affascinato, se il contenuto (il film si svolge in un collegio e racconta la ribellione dei ragazzi contro il regime autoritario del direttore), che doveva per forza averlo coinvolto visto che lui stesso era stato un collegiale ribelle, o l’atmosfera onirica, molto vicina al surrealismo. Certo è che da quando l’aveva visto aveva capito che un giorno avrebbe girato dei film.56 «Il problema non si poneva nemmeno. Era solo una questione di tempo.»57 Ma la vita non era fatta soltanto dei sogni che il cinema alimentava. La scuola chiedeva i suoi tributi, Rainer invece continuava a non mostrare interesse per le lezioni e il suo rendimento lasciava molto a desiderare in quasi tutte le materie. In una pagella del 1958 viene giudicato insufficiente in tedesco e latino e sufficiente in geografia, biologia e musica. Il giudizio migliore è «discreto», che compare per matematica, religione, educazione fisica e arte. Alla luce di questi voti più che modesti, la sua promozione era ancora una volta a rischio.58 Anche se la madre lontana scriveva parole incoraggianti al «caro piccolo Rainer», assicurandogli che certo non gli mancava «l’intelligenza per studiare al liceo»,59 il suo rendimento scolastico, entro la fine dell’anno, non migliorò, e il figlio, che non aveva evidentemente nessuna voglia di studiare, nell’estate del 1958 fu costretto a lasciare il liceo e, dopo le vacanze estive, passò al Realgymnasium, a indirizzo tecnico-scientifico. Contrariamente al liceo, che metteva l’accento sulle lingue antiche e sulla cultura umanistica, qui il corso di studi era focalizzato sulle lingue moderne e le materie scientifiche. Anche in questa scuola, però, Fassbinder rimase solo un anno. Nel 1959, dopo l’ennesima bocciatura, rientrò per la prima volta a Monaco dopo i tre anni trascorsi ad Augsburg, e da quel momento in poi frequentò il Neues Realgymnasium München, la sua settima scuola. Liselotte, che lo aveva portato invano da uno psicologo60 per via dei suoi problemi scolastici, vedeva suo figlio, ora quattordicenne, come una personalità molto autonoma: un ragazzo che ormai da tempo prendeva per conto suo decisioni di vitale importanza. Non solo le aveva annunciato di voler fare un giorno dei film, ma le aveva anche confessato in piena consapevolezza – non da ultimo perché in collegio aveva avuto qualche


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esperienza in questo senso61 – di essere omosessuale. Avendo cominciato la sua vita sociale nel Terzo Reich ed essendo cresciuta con l’ostilità del nazionalsocialismo nei confronti degli omosessuali, Liselotte, come ci si poteva aspettare, reagì con orrore al coming out, peraltro piuttosto precoce, del figlio. «A quattordici anni venne da me in cucina e mi annunciò con un sorriso radioso: mammina, sono gay. A quel punto pensai, ora ci vuole lo psichiatra. Qualcosa era evidentemente andato storto.»62 Le sedute dallo psichiatra, che all’epoca erano considerate da molti genitori la strada migliore in questi casi, a Rainer furono risparmiate. Sebbene gli mancassero ancora ben sette anni per giungere alla maggiore età,63 era già troppo autonomo perché sua madre potesse decidere per lui. Rainer non permetteva più a nessuno di imporgli dei limiti o di prendere decisioni prevaricanti. Il fatto che Liselotte, nonostante l’isteria iniziale, non avesse poi impedito al ragazzo di cercare da sé la propria identità sessuale, non voleva dire che lei ne avesse compreso o addirittura ne avesse accettato l’omosessualità. Per tutta la vita continuò a sperare che Rainer potesse essersi sbagliato in merito al proprio orientamento sessuale e che prima o poi tornasse sulla «retta via». Ancora dieci anni dopo la morte del figlio, in un’intervista ebbe a dire che «con le donne non aveva semplicemente avuto fortuna».64 Da parte sua Fassbinder non ha invece mai fatto mistero della propria omosessualità e l’ha sempre vissuta con grande naturalezza e disinvoltura. Rientrare a Monaco non significò per Rainer tornare ad abitare con sua madre, per la quale lui continuava a essere soltanto un fattore di disturbo. Liselotte, dichiarata definitivamente guarita in seguito a un’operazione al polmone destro, aveva conosciuto il giornalista cinquantaquattrenne Wolff Eder, che a posteriori, e travisando lei stessa i fatti, tentò di presentare come un «socialista affidabile» e un «socialdemocratico convinto».65 In realtà, proprio come lei, Eder era stato iscritto all’Nsdap a cui aveva aderito già nel 1937.66 Eder, originario di Oranienstein in Renania, aveva fatto rapidamente carriera nel Terzo Reich ed era considerato un giornalista fedele alla linea.67 Dal 1930 era collaboratore e redattore delle Münchner Neuesten Nachrichten dove aveva continuato a svolgere la sua attività anche dopo il 1933, quando tutti i giornalisti considerati politicamente inaffidabili erano stati licenziati su pressione dei nazisti.68


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