Una sola stella sfoglialibro

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Patrizia Moretti

con Francesca Avon

Una sola stella nel firmamento Io e mio figlio Federico Aldrovandi


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014­­


Una sola stella nel firmamento



Sommario

17 luglio 1987

9

La fine dell’estate

15

Via Ippodromo, una notte

18

Black Out

29

Il vuoto intorno

38

Occhi nuovi come i tuoi

54

Lo spettacolo del mare infuriato

71

Domani nella battaglia pensa a me

81

Ho visto quel ragazzo forte

94

A voce alta dentro la marea

111

Guardare dentro gli occhi

120

Il peso delle parole

142

La vita prevale, a volte

154

Il fatto non costituisce reato

165


Nell’amore e nelle lacrime

173

Federico

178

Una sola stella nel firmamento

185


17 luglio 1987

Sono qui. Mi hanno ricoverato d’urgenza, hanno già fatto tutti gli esami. I valori della pressione sono altissimi: ho la gestosi, dicono. Le pastiglie però non le posso prendere, danneggerebbero il bambino. Sono soltanto al sesto mese. Non c’erano più letti liberi, hanno trovato questa sistemazione, sto nel vecchio reparto di ginecologia. È brutto dentro questi stanzoni bui con l’intonaco che viene giù e tutte queste donne in camicia da notte che camminano con l’aria bastonata, trascinandosi dietro la flebo. È angosciante qui, mi sembra di essere finita dentro un manicomio, uno di quelli di una volta. Non è questo che mi ero immaginata. Per mesi ho fantasticato su quello che avrei provato con il mio bambino appena nato accoccolato sul mio grembo. Immaginavo la felicità, la gioia assoluta, i sorrisi di parenti e amici. E invece sono qui, spaventata. Riesco solo a piangere, piango di giorno e di notte, non riesco neanche a dormire. La caposala è


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durissima. Mi guarda infastidita. Non mi sopporta, non sopporta le mie lacrime, è evidente. Possibile che non capisca? Probabilmente dovranno far nascere il bambino molto prima del termine, per via della pressione. Dicono che ho lavorato troppo in queste ultime settimane, non mi sono risparmiata. Ma come si fa? In ufficio sono l’ultima arrivata, mi tocca quello che agli altri non va di fare. Il coraggio di dire di no non ce l’ho, e non voglio far vedere che mi pesa, non voglio dare questa soddisfazione ai colleghi. E poi fino all’altro giorno neanche il ginecologo sembrava preoccupato. Era da settimane che mi sentivo stanchissima, a pezzi: non mi era mai successo prima, mai provato una cosa del genere in ventisei anni. Ma lui continuava a ripetermi che era normale, che non dovevo preoccuparmi. E io gli credevo. Avevo pensato che fosse per il caldo, per questa estate torrida. E poi quel medico me l’avevano consigliato, è molto conosciuto a Ferrara, dicono tutti che sia bravissimo. Mi ero fidata. Gli avevo chiesto se sarebbe stato meglio smettere di lavorare, mettermi in maternità anticipata, ma lui mi aveva detto che no, non era il caso. Potevo tranquillamente continuare ad andare in ufficio perché, ripeteva, la gravidanza non è una malattia, è un fatto assolutamente naturale. Ma io ero stanchissima. Sempre di più. Poi la pressione ha iniziato a salire, mi sono spaventata e allora l’ho chiamato. Mi ha detto di venire in ospedale per i controlli. Lunedì, appena sono arrivata in reparto, ho scoperto che stava


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partendo, se ne andava in ferie, in barca. Mi avrebbe seguito un suo collega, ha detto. Un medico mai visto prima. Mi è venuto da piangere. Io che contavo sulla sua presenza, che mi rassicuravo in questi mesi pensando che lo avrei trovato qui durante il travaglio, in sala parto. Lui, che aveva monitorato la mia gravidanza. E invece mi ha lasciato sola. Sono esausta e ho paura. Mi sento come una bambina che si è persa, che è rimasta senza la mamma in un luogo sconosciuto in mezzo a tanti estranei che neanche la vedono. Ho paura, la pressione continua a salire. Stamattina il dottor Vesce è venuto in reparto per parlare con Lino e con me. Sono stata fortunata, nel cambio di medico ci ho guadagnato. Finalmente mi sono sentita seguita. Ma avevo paura lo stesso. Ha detto che il bambino è piccolo ma forte, è meglio farlo nascere, la gestosi potrebbe danneggiarlo. Poi ha aggiunto una cosa atroce: «Siete giovani, se il bambino non ce la fa ne farete un altro». Sono disperata. Sto piangendo, non riesco a fermare le lacrime. È venerdì 17 luglio. Il giorno del cesareo. Mi sono risvegliata dall’anestesia ma sono ripiombata subito in un dormiveglia ininterrotto durato ore, popolato di sogni confusi, immagini colorate che si rincorrevano.


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Un pensiero che affiorava e poi scompariva, per ritornare di nuovo. «Il bambino?» ho trovato la forza di chiedere. «Sta bene» mi hanno detto. «L’hanno portato in neonatologia, l’hanno messo nell’incubatrice.» Mia sorella Donatella è rimasta qui, sulla sedia, accanto al mio letto. Lino e i miei genitori sono appena andati via. È una sensazione molto strana dopo tutti questi mesi: siamo sempre stati insieme io e lui, una cosa sola. Per mesi l’ho immaginato, per sei intensi mesi, e adesso questo distacco violento. Senza poterlo nemmeno vedere, senza sapere com’è: gli occhi, il naso, la bocca. Senza poterlo toccare né sentirlo mentre piange. È uno strappo lacerante e fa più male del taglio che ho nella pancia. Ho dovuto aspettare qualche giorno per riuscire a salire al reparto di neonatologia. Questa mattina ero molto debole, ma non ho voluto aiuti, volevo essere da sola, era il nostro momento. L’ho visto, l’ho riconosciuto subito. È Federico. È bellissimo. E pensare che l’ho fatto io. È davvero piccolo, pesa un chilo, ma è perfetto, stupendo anche con tutti quei tubi minuscoli per l’alimentazione e quei sensori sul petto che registrano il battito del cuore, il respiro. È buffo con quel cappellino e quei calzini troppo grandi, sembrano enormi indosso a lui. Sta a pancia in giù, sembra un ranocchio. È buffo. E bellissimo.


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Lo sogno tutte le notti. Soprattutto adesso che mi hanno dimessa. Sogno di tenermelo addosso. Lo so che questa mia sensazione gli arriva, sono sicura che è quello che sogna anche lui, sentirsi appiccicato alla sua mamma. Da quando sono uscita dall’ospedale vengo a trovarlo tutti i giorni e non mi basta accarezzarlo attraverso l’oblò dell’incubatrice. Un’infermiera nel dargli il latte si è sbagliata, l’ha messo nel sondino della trachea. Il latte è finito nei polmoni, gli è venuta la broncopolmonite. Il medico viene a controllare come sta, anche fuori dal suo turno, a volte si porta dietro i figli. Si capisce che è molto preoccupato. Chissà se un affarino di due chili riuscirà a superare anche questo. Sono stati molto chiari, mi hanno dato pochissime speranze. Ma io so che ce la farà, lo sento, il mio bambino è un combattente, combatte per vivere. Una domenica ho attraversato la città in macchina per arrivare all’ospedale. Ferrara era deserta, erano già partiti tutti per le vacanze. Ho fatto la solita strada, quella di sempre, ho attraversato il giardino e passando davanti alla madonnina ho avvertito una strana sensazione. Quando sono arrivata in reparto mi sono accorta che stavo quasi correndo, ero molto agitata e anche un po’ spaventata. Non riuscivo a vedere la termoculla di Federico, era circondata dai medici e dalle infermiere. Erano tutti lì intorno. Il mio cuore ha fatto un tuffo.


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Un’infermiera si è girata e mi ha visto: ha sorriso facendomi segno di entrare. Federico si era strappato il tubicino che gli serviva per respirare e piangeva urlando con tutte le sue forze. Non si riusciva a rimetterglielo a posto. Da quel momento è stato benissimo.


La fine dell’estate

Durante l’estate abbiamo trascorso molto tempo insieme, più di quanto succedeva negli ultimi anni. Ormai non voleva più fare le vacanze al mare con noi, preferiva rimanere a Ferrara, con gli amici. Appena ha compiuto diciott’anni, neanche due mesi fa, si è messo in testa di prendere la patente. Mi sono offerta di insegnargli a guidare, facevamo lunghi percorsi nella campagna intorno a Ferrara io e lui, quando il caldo della pianura cedeva un po’. Andavamo piano lungo le strade dritte. Era un’occasione per stare un po’ insieme, senza la fretta di sempre. Erano piccoli viaggi, pause nelle corse di tutti i giorni. A Federico piaceva girare senza una meta precisa, a me anche. E ormai lui aveva imparato a guidare – grazie a Leo, il suo istruttore, a dire il vero. Parlavamo molto in quei pomeriggi, di tutto. Per mio figlio era un periodo sereno. Gli anni difficili della scuola erano ormai alle spalle. In prima superiore era stato bocciato. Gli sembrava di aver sbagliato indirizzo scegliendo un


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istituto tecnico e alla fine del primo quadrimestre aveva deciso di cambiare scuola. Poi ha recuperato, ha cominciato a prendere voti altissimi, si è rincuorato ed è tornato sui suoi passi, di nuovo all’Itis. Nelle materie tecniche però non brillava, paradossalmente erano quelle con i risultati peggiori: elettrotecnica, per esempio. Riusciva bene in matematica e gli piacevano le ore di italiano. Una navigazione tranquilla la sua, senza infamia e senza lode. Le cose che gli stavano a cuore erano altre. La patente, certo. Non vedeva l’ora. Mancava solo una settimana all’esame. E poi la musica, la sua passione. Aveva tanti progetti per la testa, Federico. Voleva mettere su una band con gli amici, ci stavano pensando. Amava leggere: lui e Burro, il suo migliore amico, si scambiavano i libri, si davano consigli a vicenda. Sta per cominciare la scuola, mancano soltanto pochi giorni. Siamo venuti in centro, Federico, Stefano e io, per comperare le ultime cose. Quaderni, zaini, squadre. Poi c’è il diario da scegliere, è una faccenda complicata, che richiede tempo e attenzione. Ti accompagnerà per nove mesi, definirà la tua identità con i compagni, davanti alla classe. Non si può sbagliare. Chiudo la macchina e li guardo, sono davanti a me che chiacchierano e scherzano tra loro. È un’emozione fortissima. È meraviglioso vederli crescere, avere due figli così. Non c’è fortuna più grande al mondo. Sono una donna felice. Anche il giorno prima, quel sabato, è stato un giorno allegro, sereno.


La fine dell’estate  17

Quando i ragazzi sono tornati da scuola, abbiamo pranzato tutti e quattro insieme. Federico è uscito per portare a spasso il cane. Ha visto gli amici della compagnia, hanno giocato a calcio e poi è andato a consegnare le pizze. Si era trovato quel lavoretto per avere qualche soldo in tasca, ci teneva molto. Un po’ prima delle undici è tornato a casa per cambiarsi le scarpe, se le era rotte giocando a calcio. Lui e i suoi amici andavano spesso a Bologna il sabato, lì c’erano i locali, la buona musica. Quella sera sarebbero andati al Link, un centro sociale. Era la prima volta, doveva esserci un concerto di musica reggae. Era contento Federico quando è uscito. Si vedeva. Stava crescendo. Mio Dio, com’era bello.


Via Ippodromo, una notte

È il 24 settembre 2005, è sabato sera. Federico Aldrovandi è al Link, a Bologna, per un concerto. Non ci sarà alcun concerto. Il concerto è stato annullato. Federico e i suoi amici decidono di rimanere comunque. Qualche birra, un po’ di balli in pista. Una serata qualsiasi. Federico si allontana per rimediare qualcosa. Trova due «francobolli». E poi quattro chiacchiere, due risate, guarda che bella ragazza. È notte fonda. Sono le quattro del mattino quando salgono in macchina. Tornano a casa, a Ferrara. Si chiacchiera, si ride, si parla di politica. Federico sceglie la musica. Quando gli altri scendono all’autogrill lui rimane in auto a riposare. È stanco. Ha bevuto. Decide di farsi lasciare lontano da casa. Lo fa spesso quando vuole smaltire un po’, prima di rientrare. Non vuole farsi vedere dai suoi in quello stato. Scende in piazza Tumiati, poco distante da via Ippodromo, nello stesso punto da cui erano partiti la sera prima. Scende


Via Ippodromo, una notte  19

dalla macchina cantando. È di buonumore. Sono le cinque circa. Per strada c’è silenzio. S’incammina a passi svelti. È ormai la mattina di domenica 25 settembre. A quell’ora il mondo dorme. Ma sempre alcune anime stanche vagano nelle notti bianche. Un uomo, per esempio. Massimiliano Solmi. Arriva in macchina al deposito delle ambulanze dove lavora, in via Ippodromo, a cinquanta metri dalla stazione dei carabinieri. È ancora buio. C’è un po’ di foschia. Mentre apre il capannone sente delle urla provenire dal parco. Sembrano appartenere a un giovane. Ce l’ha con qualcuno ma non si sentono risposte. Arrivano dei colpi, rumori di macchina fracassata, come se qualcuno spaccasse i vetri. Pensa a una colluttazione. Cerca di capire cosa sta succedendo ma c’è troppo buio, non riesce a vedere nulla. Solmi entra nel capannone per cambiarsi: è preoccupato. Quando esce un’auto della Polizia passa a velocità sostenuta e con il lampeggiante acceso. Sente delle voci: «Apri il baule, presto, presto!». Sono più o meno le 5.45. A quell’ora anche Cristina Chiarelli è già in piedi. Lavora in un hotel in centro. Deve alzarsi molto presto. Inizia alle sei, anche di domenica. Sta aspettando che arrivi la madre per occuparsi dei suoi due figli, troppo piccoli per restare da soli. È allarmata. Sa che a breve dovrà uscire, ma fuori c’è qualcuno che urla come un pazzo. «Stato di merda!», «gente di merda!». Le grida non si


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fermano. Nell’oscurità riesce a vedere qualcosa. C’è un ragazzo. Agitato, nervoso. Cammina avanti e indietro. Teme possa diventare violento. Chiama il 112. Sono le 5.45 e 57 secondi: «Carabinieri!» «Eh, buongiorno! Scusi, senta: io abito qui in via Ippodromo, al numero 24.» «Sì.» «Proprio davanti al parco c’è uno che sta dando in escandescenze, sta urlando come un matto e sbatte dappertutto. Me ne sono accorta adesso, perché io sto andando a lavorare; però, voglio dire, dovrei anche uscire.» «Mh.» «È lì che sta urlando come un matto, sta dando in escandescenze; non ho capito se sono uno o due, perché è nascosto dagli alberi.» «Qui, in via Ippodromo, qui, questa qui, qui di fianco a noi insomma?» «Sì, sì, esatto, proprio lì, di fianco a voi.» «Mh.» «Eh, proprio in fondo a via Ippodromo, dove c è il parco urbano.» «Mh.» «Dove c è il parco sulla sinistra, dove giocano i bambini; le voci vengono da lì.» «Ho capito. Vabbè, adesso mandiamo qualcuno a vedere.» «Eh, va bene, eh, la ringrazio, anche perché io devo andare a lavorare: adesso uscirò dall’altra parte.»


Via Ippodromo, una notte  21

«Va bene.» «Grazie, buongiorno.» Sono ormai le 5.48. Le urla che ha sentito Cristina Chiarelli sono di Federico Aldrovandi. Ma non è da solo. Ce l’ha con qualcuno, con due poliziotti. Sul posto c’è già l’unità Alfa 3, con i lampeggianti spenti. Avevano chiesto l’intervento di un altro equipaggio. Alfa 2 è appena arrivata. Un altro uomo. La notte non è più bianca. Cristian Fogli. Viene svegliato bruscamente dal trambusto. Sono le 5.58. Anche lui sente Federico gridare. La camera da letto e la cucina del suo appartamento danno su via Ippodromo. Saranno un centinaio di metri dal parchetto. Le urla non cessano. Sono eterne. Lui ha paura che la figlia di otto mesi si svegli. Sente distintamente la frase: «La vita è una merda, tutto è una merda, polizia di merda!». Sente delle voci, gemiti, parole indistinguibili, la sgommata di una macchina, il fascio di luce dei fari, di nuovo una sgommata e poi un rumore di lamiere accartocciate. La voce di un uomo. La voce di una donna. E dopo, due parole soltanto: «Basta, basta». Il tono è soffocato. È un’invocazione, una richiesta di aiuto. Lui fa l’autista soccorritore nei servizi di assistenza pubblica. Sa


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riconoscere una richiesta disperata d’aiuto. Chi ha pronunciato quelle parole sta soffrendo. Al 113 qualcuno risponde subito alla sua chiamata. «Eh, buongiorno! Le segnalo, non so se vi compete… in via Ippodromo, in fondo, in via Ippodromo, c’è un ragazzo che insomma è in stato di semiubriachezza, non è che… continua a urlare.» «Mh. Stiamo già… Sì, ci stiamo già portando lì. […] E cos’è: in fondo al parchino lì, di via Ippodromo?» «Esatto, perché io… io abito in via Poletti, solo che c’ho le finestre che danno…» «Mh. Questo è da solo o sono in due?» «Mah, io sento questa persona qua che urla così e… e presumo ci sia anche un’altra, perché sembra che parli con questa persona qua, ha capito? Solo che il modo di dedurre che…» «Ma va bene, adesso… adesso andiamo a vedere dai.» «Va bene, grazie.» «Ascolti: lei si chiama?» «Io mi chiamo Fogli.» «Fogli, mi lascia un numero di telefono per favore?» «Allora: tre, quattro, sette…» «Sì. Va bene, adesso noi stiamo già arrivando lì.» «Grazie.» «Prego.» «Arrivederci.» Ancora uno sguardo. Lucia Bassi dorme con la finestra aperta. Adesso è sveglia. Qual-


Via Ippodromo, una notte  23

cuno sta gridando in strada. Pensa a un ubriaco di passaggio. Poi però si alza di scatto. Qualcuno prende a calci le lamiere di un’auto. Si preoccupa per la sua macchina che è parcheggiata proprio lì davanti. Va in soggiorno, tira su la tapparella. Trattiene il fiato. Qualcuno in strada viene pestato selvaggiamente. È un ragazzo. I poliziotti lo hanno circondato. Anne Marie Tsagueu chiama anche suo figlio Chanel, ha più o meno l’età di Federico. Vuole che veda anche lui, che si renda conto di cosa può succedere a stare in giro di notte e a fare certe cose. È preoccupata per lui, per come si sta comportando ultimamente. Adesso però stanno assistendo a un pestaggio. Lasciano la finestra. Tornano a dormire. Alle 6.12, da via Ippodromo parte una chiamata alla centrale operativa dal cellulare di un agente. Risponde l’addetto del turno che va dalla mezzanotte alle sette, Marcello Bulgarelli. «… Sì?» «Eh, Bulga, la Tre.» «Sì, ma che è successo?» «Ah, niente. Qui abbiamo a che fare con un pazzo di cento chili che ci è saltato addosso…» «Eh, ma state be… state bene voi?» «No: siamo tutti da refertare. Adesso te lo dico, abbiamo…» la voce dell’agente si sovrappone ad altre voci, diventa incomprensibile. «No, no, no, vabbè! Io voglio sapere se… se state be’… Vabbè, dopo la…»


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«No, no. Ma guarda che non sto scherzando, siamo tutti sbucciati eh! Questo è un pazzo duro. Ci ha spaccato anche la macchina. Ha spaccato una portiera, un vetro, tutto…» «Mh, mh, mh… Va bene, va bene…» «Abbiamo avuto una lotta di mezz’ora con questo!» «Eh, eh… Ouh! Va bene.» «È proprio matto! Cioè l’abbiamo bastonato di brutto perché…» la voce dell’agente torna a essere incomprensibile. «No, be’, l’importa… No, l’importante è che…» «Adesso, solo che adesso è svenuto, non so, è mezzo morto, è svenuto, non lo so io… Qualche cosa è…» «Eh, sì.» Una voce, che potrebbe essere maschile o femminile parla in sottofondo. Alle sue parole, che Marcello Bulgarelli non riesce a decifrare, segue una breve pausa. «Pronto?…» Risponde l’agente, lontano dalla trasmittente: «Sì, sì… Eh, oh, sto tirando un po’ il fiato, perché sai, dopo una mezz’ora così…!». «Va bene.» «Niente. Il fatto è questo. Adesso arriva l’ambulanza, vediamo un po’.» «Sì, l’ambulanza l’ho già chiamata. Ascolta: lui è svenuto? E va bene…» «Sì, sì, sì.» «Dovrebbe arrivare quella con il medico comunque, eh.» «Okay.» «Va bene?» «Va bene.»


Via Ippodromo, una notte  25

In quel momento Federico è schiacciato a terra, prono e ammanettato, trattenuto da due poliziotti: un uomo e una donna. Così lo trova Nicola Ricci, uno dei due carabinieri della pattuglia che arriva sul posto tra le 6.05 e le 6.10. Chiamano l’ambulanza del 118 e l’auto medicalizzata, che arrivano alle 6.15. Federico non è cosciente, non respira. Fino a quel momento è sempre stato trattenuto a terra dai poliziotti. Gli operatori chiedono e ottengono che gli siano tolte le manette. Alle 6.16 viene constatato l’arresto circolatorio. Federico Aldrovandi è morto. Alle sette gli agenti delle volanti del turno che va fino alle due del pomeriggio arrivano alla spicciolata in via Ippodromo. Due poliziotti in divisa bussano alle porte degli appartamenti che danno sulla strada. Hanno ricevuto ordini precisi dai dirigenti della Questura: constatare se ci sono possibili testimoni. Lucia Bassi e Anne Marie Tsagueu negano di aver visto qualcosa. Glissano, rispondono in modo evasivo. Tacciono. Spostano lo sguardo. Il permesso di soggiorno di Anne Marie scade tra qualche settimana. Ha molta paura, potrebbero negarle il rinnovo e lei non può permetterselo, sola com’è a tirar su due figli. Lo spettacolo di quelle divise sulla porta le chiude la bocca. A lei e alla sua vicina di pianerottolo, la signora Bassi. Ci sarà una donna, Carla Fioresi, a ricordare, tempo dopo, davanti a un giudice. Una conoscente di Lucia Bassi:


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«Era il martedì successivo al 25 settembre, quindi il 27 settembre, la signora Bassi venne in negozio da me per fare degli acquisti, mentre sceglieva un biglietto d’auguri gli ho detto: “Lucia hai sentito?”, perché sapevo che abitava lì, perché frequentava mia sorella in riunioni buddhiste […]. Le chiesi se aveva sentito quello che era successo, se aveva visto e lei mi ha detto: “Ah sì, guarda” si avvicinò con enfasi “è stata una tragedia. Perché sai io ho visto”. Al che sono rimasta sconvolta di questa cosa, e ho detto: “Ma cos’hai visto?”, dice: “Mah, guarda, era verso le sei, ho sentito un trambusto, e siccome ci sono sempre dei ragazzi che fanno confusione, avevo paura per la mia macchina, ho alzato la tapparella e ho sbirciato fuori. Lì sono rimasta un po’ interdetta perché ho visto un poliziotto sopra a un ragazzo che si dimenava e poi,” fa, “c’era una poliziotta, una donna, con accento veneto che chiedeva al ragazzo come si chiamasse, gli ha chiesto: ‘Come ti chiami?’, e lui ha detto: ‘Federico’ e la poliziotta ha detto: ‘Ma figurati se questo si chiama Federico’. Poi diceva al poliziotto di mettergli le manette e lui diceva che non ci riusciva, che lui scalciava troppo e la poliziotta diceva: ‘Sì, ho preso anche un calcio nella pancia, anch’io ho preso un calcio’. Poi la poliziotta diceva: ‘Ma quando arrivano gli altri’”. Io continuavo a guardare la signora Lucia con aria stravolta […] perché non riuscivo a capire queste cose, leggendo i giornali avevo letto tutta un’altra storia, e poi ha detto: “Ma guarda che a un certo punto il ragazzo ha cominciato ad ansimare, respirava malissimo”.» Il giudice chiede un chiarimento: «Questo l’ha detto la signora?» «La signora Lucia. “Sentivo da casa mia, e ha detto diverse volte: ‘Aiutatemi’ e la poliziotta ha detto: ‘Sì, sì, adesso ti aiu-


Via Ippodromo, una notte  27

tiamo noi’”, ma il tono che mi ha riferito la signora Lucia era un tono un po’ sbrigativo […] Io ero rimasta allibita, ho detto: “Ma ascolta Lucia ma questa cosa l’hai detta a qualcuno?”. “Ma no, ma per carità ma scherzi, no, non voglio mica passare dalla parte del torto, non l’ho neanche detta ai poliziotti che sono venuti il giorno dopo porta per porta a chiederci che cosa avevamo visto”, “Lucia guarda che è una cosa allucinante quella che mi hai detto”, “Sì, sì sono venuti a sentire. Allora mi è venuta la cosa di dire: ‘Ma sono venuti a pararsi il culo?’”, “Sì, sono venuti a pararsi il culo” […].» «È sicura?» «Sicurissima, guardi questo racconto mi ha sconvolto a tal punto che io non riuscivo più a servire i miei clienti, […] lei mi ha detto: “Mi raccomando ma anche tu non farne parola con nessuno, perché è una confidenza che ti faccio”, ho detto: “Lucia non si può dire una cosa del genere”, ero allucinata ed era quasi l’ora di chiusura, la mezza, mezzogiorno e venti, telefonai a una amica che lavora in Comune e gli ho detto: “Franca, per favore, all’una quando io chiudo vieni giù un attimo in piazza Municipale che ti devo dire una cosa che per me è gravissima” […], a questa mia amica che era affiancata da una sua amica, che è un avvocato, le racconto a fiume tutta questa cosa, perché per me era un’angoscia talmente grande, che era inconcepibile. Io ho detto: “Io adesso cosa faccio? Cosa devo fare?”, e questa sua amica mi disse: “Io ti consiglierei di aspettare, perché adesso ci saranno le indagini” […] Loro mi hanno consigliato di aspettare, però per tre mesi non ho vissuto, perché sono stati tre mesi di angoscia.»


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Le notti sono bianche. Le anime sono disperate. La violenza. La dignitĂ . Federico che vai.


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