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Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 2 e 3 - NO/ TORINO n° 1 anno 2013 – reg. Trib. di Catania n°19 del 5 Giugno 2012 – distribuzione gratuita

Troppe storie sembrano storie dell’altro mondo, ma lo spazio in cui accadono è qui e ora. Periodico di culture migranti e dell’accoglienza

anno 5 - N° 1 - marzo 2013

Vicolo CIEco Dentro le pieghe del luogo simbolo della controversia sulla lotta all’immigrazione clandestina in Italia

CIE e dintorni, la speranza è frutto di fatica e coraggio Connecting People e Fondazione Xenagos presentano la proposta di riforma delle misure di contrasto all’immigrazione clandestina


1 è tempo di cambiare anno 5 - N° 1 - marzo 2013 (sqm13)

2 Da irregolare a imprenditore

Suggestioni per una nuova visione della clandestinità

4 Irregolari, sans papiers, undocumented migrants Come si comportano gli altri stati europei

6 Dai CPTA ai CIE, un excursus legislativo

Inasprire le misure non serve a diminuire l’irregolarità

10 Storie e testimonianze intorno alla clandestinità Direttore responsabile Serena Naldini direzione@storiediquestomondo.it Direttore editoriale Salvatore Ippolito Comitato scientifico Riccardo Compagnucci, Antonio Ragonesi, Salvatore Ippolito

14 I CIE visti da dentro 22

Opinioni a confronto Perchè i consorzi di cooperative hanno deciso di (non) partecipare ai bandi di gestione dei CIE

24 CIE e dintorni: la speranza è frutto di fatica e coraggio Proposta di riforma delle misure di contrasto all’irregolarità

Comitato di direzione Mauro Maurino, Orazio Micalizzi Caporedattore Salvo Tomarchio

30 Press & News

Redazione Via Sciarelle, 4 95024 Acireale (CT) redazione@storiediquestomondo.it

33 Terza Pagina

Vol Spécial di Fernand Melgar

Progetto grafico e impaginazione Tribbù - Acireale (CT) Direttore creativo Andrea Catalano Proprietà Consorzio Connecting People Onlus Via Conte Agostino Pepoli, 68 91100 Trapani Editore Fondazione Xenagos Via Sciarelle, 4 95024 Acireale (CT) Registrazione Tribunale di Catania n°19 del 5 Giugno 2012 Stampa Fiordo srl - Galliate (No) In redazione Agrin Amedì, Massimo Tornabene, Claudio Praturlon, Arianna Cascelli Foto di Salvo Tomarchio

Hanno collaborato Maria Pia Fontana Nello Pomona Piera Rossi

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Orazio Micalizzi Presidente Fondazione Xenagos

è tempo di cambiare “Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercé del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non saper cosa fare della sua libertà: nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente. In luogo della libertà aveva trovato il vuoto, perché la sua nuova essenza acquistata nella cattività se ne era andata insieme col serpente, e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita.” (Franco Basaglia, Corpo e istituzione, 1967)

A

due mesi a sei mesi. Al CIE di Gradisca d’Isonzo si riprittraverso l’associazione con questa storia orienstinano le sbarre, così come prima della Commissione De tale, Basaglia intende sottolineare la condizione Mistura. Si torna indietro. Connecting People, consorzio “istituzionale” del malato mentale. Nello stesso di cooperative sociali, sin dalla nascita ha deciso di gestiracconto sono rintracciabili forti analogie con il mire strutture come i CIE. Una scelta contestata, ma molto grante trattenuto in un centro di detenzione amministradiscussa e ragionata, compiuta nella convinzione che la tiva che, mano a mano, annette al proprio sé una parte cooperazione sociale debba andare nei luoghi di soffedistruttiva - che finisce per dominarlo, come il serpente renza e portare sollievo alle persone, della favola - e diventa un “corpo viscercando al contempo di trasformare i suto nell’istituzione, per l’istituzione, luoghi stessi e i principi da cui discentanto da essere considerato come parte ripensiamo le misure dono. In questi anni il consorzio ha laintegrante delle sue stesse strutture di contrasto vorato per verificare la possibilità che fisiche.” Nel gennaio del 2007 il Miall’immigrazione la chiusura di una storia di migrazione nistro dell’Interno Giuliano Amato rinpossa diventare in qualche modo una graziava la Commissione De Mistura clandestina ripartenza, una migrazione al contrario per il lavoro svolto e aggiungeva: “Il con speranze e possibilità nuove, e ci CPT (attuale CIE) non è il cuore del siamo scontrati con una realtà fatta di rifiuti ad accogliefenomeno migratorio, ma fa parte di un tema molto più re. è stato utilizzato ogni strumento per sottolineare alle ampio, anche se ha assunto un valore simbolico, come se autorità le condizioni dei migranti trattenuti, quando ci chiuderli facesse scomparire l’asprezza dell’immigraziosembravano poco consone a standard di accoglienza in ne clandestina. Se pensassi che questo basta a risolvere il grado di garantirne la dignità. problema li chiuderei tutti.” La Commissione proponeva Tutto questo è stato fatto “restando dentro”, tentando il “superamento” attraverso lo “svuotamento”: in primo di capire quali siano i percorsi che dall’insicurezza urbaluogo, non introducendo nei centri gli ex detenuti che, na e dalla crisi del welfare possano giustificare l’esigenza da lì in poi, dovranno essere identificati durante il pedi “servizi” dove lo spazio della speranza è oggettivariodo di carcerazione, anziché trasferiti, a fine pena, in mente ristretto. un CPTA per essere identificati ed espulsi; in secondo Adesso, i tempi sono maturi per una proposta di cambialuogo, escludendo dai centri i casi di potenziali di vittime mento - elaborata da Connecting People e Fondazione di tratta o di grave sfruttamento nel lavoro; in terzo e Xenagos e presentata su questo numero di Storie di ultimo luogo, ricorrendo alla misura del rimpatrio conQuesto Mondo - che intende aprire una dimensione di cordato e assistito. confronto, uno spazio di scambio di idee, un luogo di A maggio del 2008 cade il governo Prodi e nasce un dialogo, per comprendere come restituire senso a tante nuovo governo, con Ministro dell’Interno Roberto Mavite migranti attraverso un profondo ripensamento delle roni. “Sicurezza” è la nuova parola d’ordine. E in nome misure di contrasto all’immigrazione clandestina. della sicurezza il trattenimento nei CIE viene portato da

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migrare: un progetto d’impresa

Da irregolare a imprenditore. Suggestioni per una nuova visione della clandestinità

La

migrazione economica in Europa negli ultimi venti anni è avvenuta, per la maggior parte, attraverso canali spontanei, irregolari e clandestini. Centinaia di migliaia di donne e uomini attratti dalla possibilità di un reddito e dalla voglia d’impresa si sono riversati alle nostre frontiere richiamati da un mercato del lavoro caotico e non strutturato. Centinaia di migliaia di stranieri hanno intravisto, attraverso i loro intelligence network, la possibilità di sistemarsi nei nostri paesi. E ci sono riusciti, nonostante la retorica dei governi sulla necessità di controllo e di respingimento

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della presunta “invasione” e malgrado la valanga di risorse erogate per attuare provvedimenti repressivi e mantenere fragilissimi sistemi di controllo delle frontiere. Nel frattempo i migranti hanno scovato e occupato essenziali segmenti del mercato del lavoro abbandonati dagli italiani, dimostrando una sbalorditiva capacità di creare impresa. Di fronte al processo di cui sopra, gli stati hanno diretto la propria attenzione unicamente sulle misure di controllo e contrasto all’immigrazione clandestina che, comunque, hanno ottenuto un risultato concreto solo nei confronti di poche decine di migliaia di sfortunati. Mentre centinaia di migliaia di migranti

si sistemavano nei nostri territori, qualche migliaio di stranieri erano sottoposti a fermi, arresti, internamenti - pardon! - trattenimenti, detenzioni amministrative, espulsioni, respingimenti, fogli di via, deportazioni e perfino tentativi fallimentari di ritorni volontari assistiti. Ma tutto questo non è riuscito né a frenare, né a invertire la tendenza migratoria verso l’Europa. Gli spostamenti della popolazione tra paesi e tra diverse aree dello stesso paese è una costante nella storia umana e costituisce un fenomeno di sviluppo sociale ed economico indiscutibile. Quando non è organizzato, esso si produce ugualmente, se le condizioni lo richiedono, generando movimento di persone

migrare: un progetto d’impresa

da aree depresse o in declino verso centri di attrazione più stabili e ricchi che domandano nuova presenza produttiva. I migranti hanno riformato, sviluppato e stabilito interi settori economici, anche contro o nonostante le nostre leggi. Ad esempio, questo è accaduto con l’assistenza alle famiglie e agli anziani. Il bisogno era lì sotto gli occhi di tutti, ma nessuno avrebbe mai pensato di rispondere a questa esigenza aprendo all’immigrazione massiccia di colf e badanti. Lo hanno fatto loro, gli stranieri, fiutando con istinto imprenditoriale le necessità del mercato e occupandolo in massa. Dalla fine degli anni Settanta a

stati riammessi nel loro paese di origine. Il numero complessivo dei migranti rimpatriati attraverso i CIE nel 2012 risulta essere poco più dell’1% del totale degli immigrati in condizioni di irregolarità presenti sul territorio italiano (326 mila secondo le stime dell’ISMU al primo gennaio 2012), mentre quelli trattenuti sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne), il 2,4% del totale. Possiamo dunque affermare che i CIE non sono uno strumento efficace, ma iniziative appena simboliche che al contempo mobilizzano enormi attenzioni e polemiche sociali e politiche, ingenti risorse e costi umani altissimi.

come un progetto di impresa da mettere a valore, da trattare come una risorsa straordinaria? Lo straniero irregolare, in questa ottica, dovrebbe essere messo in condizione di ricostruire il proprio programma migratorio, la propria personale intrapresa. Sono propenso a ritenere che qualsiasi forma di contatto con un migrante irregolare possa trasformarsi in un potenziale contributo di cooperazione allo sviluppo e che, in questo orizzonte di senso, il trattenimento in centri statali di identificazione possa diventare una sorta di “scuola di impresa migratoria”, nella quale il cittadino straniero acquisisca competenze, strumenti e formazione con

oggi, il nostro paese ha collezionato ben 12 sanatorie, regolarizzando 1 milione e 800 mila immigrati. Ci accorgiamo della ricchezza del nostro paese dal fatto che i migranti vi scorgono delle opportunità e delle potenzialità. Dal momento in cui questo non accadesse più, l’Italia sarebbe una terra in declino. Partendo da questa constatazione - dal fatto che centinaia di migliaia di stranieri credono ancora nel nostro paese - sembra necessario valorizzare questi flussi migratori spontanei, irregolari e non organizzati, superando la visione che impegna i governi solo sul piano di dispendiose - quanto poco efficaci - misure di contrasto all’irregolarità. Nel 2011 più di 47 mila stranieri sono stati fermati o rintracciati in posizione irregolare sul territorio, un piccolo drappello di irregolari che in principio avrebbe dovuto essere espulso. Almeno la metà non ha ottemperato l’ordine di espulsione, mentre l’altra metà risulta respinta alla frontiera. Solo 4.500 migranti sono

Che fare con gli irregolari che hanno violato le regole dell’ingresso nel nostro paese? Le risposte obsolete e sgangherate dei poteri pubblici negli anni novanta e duemila - con il perfezionamento e l’introduzione del reato di immigrazione clandestina - hanno dato una risposta poco lungimirante al fenomeno, negando ai migranti irregolari la libertà di movimento e privandoli della possibilità di realizzare il proprio progetto migratorio, addirittura accollandosi, come stato, i costi assurdi della detenzione, della difficile identificazione e dell’espulsione. Il trattenimento amministrativo distrugge la rete informale di contatti e le opportunità del migrante, gettandolo nell’angoscia del rifiuto da parte dello stato come fosse un reietto sociale, una presenza ridondante. I casi di autolesionismo dimostrano che questo rigetto provoca dei comprensibilissimi disagi psicologici. E se ribaltassimo la questione? Se provassimo a considerare ogni straniero

l’aiuto di operatori specializzati nell’impresa transnazionale a partire dal modello cooperativo. Ecco che, così, i 47 mila migranti fermati nel 2011 dalle forze dell’ordine potrebbero diventare l’avanguardia di un intervento regolatore dei flussi migratori dal paese di origine in Italia e costituire altresì un’importante possibilità di penetrazione economica oltreconfine per gli imprenditori italiani associati con le organizzazioni di migranti in Italia. Imparare un mestiere e raffinare un progetto di impresa individuale e collettiva: i centri di trattenimento sarebbero così trasformati in istituzioni che regolano i flussi irregolari, valorizzandoli come opportunità di sviluppo e cosviluppo.

Salvatore Ippolito

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inquadramento del fenomeno

Irregolari, sans papiers, undocumented migrants. Come si comportano gli altri stati europei?

In

Europa ci sono circa 50 milioni di immigrati e circa 8 milioni di immigrati irregolari, ma, nonostante la dimensione del fenomeno, il vecchio continente arranca per trovare una linea unitaria. È con grande eterogeneità, dunque, che da decenni gli Stati membri strutturano una serie di azioni legislative, amministrative e politiche per contenere l’immigrazione irregolare. La presenza irregolare di un cittadino non comunitario può essere punita con la detenzione in Belgio, Danimarca, Regno Unito, Grecia, Francia, Germania, Irlanda, Svezia. Nei primi quattro stati, la durata massima è sei mesi, negli altri, invece, un anno. Quasi tutti, inoltre, danno la possibilità di commutare la pena in una sanzione Claudio Praturlon pecuniaria. Sono previste solo sanzioni amministrative e nessuna misura penale, in Austria, Finlandia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. Nel 2012, il Cestim ha censito circa 420 luoghi di detenzione per i migranti senza documenti, per una capienza totale di 37 mila posti. Dalle ultime rilevazioni, risalenti al 2009, la durata massima del fermo dei migranti è aumentata a dismisura rispetto al tempo necessario per l’attuazione delle espulsioni: da 40 a 60 giorni in Spagna, da 2 a 18 mesi in Italia, da 3 a 18 mesi in Grecia. In Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia, non è neppure previsto un periodo massimo di permanenza nei centri. Anche la Germania per gli irregolari prevede un tempo di trattenimento al limite delle nuove prescrizioni europee (18 mesi) e la misura della carcerazione fino a un anno, che in caso di recidiva può arrivare a un massimo di tre anni. La Francia attua una politica in parte analoga a quella tedesca, con un alternarsi del ricorso alla carcerazione o alla sanzione amministrativa. Qui però il trattenimento amministrativo non può superare i 32 giorni. Come l’Italia, anche Spagna e Grecia sono terre di approdo di flussi migratori irregolari in misura maggiore rispetto ad altri paesi. Le risposte di questi paesi alla problematica sono però differenti. In Spagna, l’immigrazione irregolare non costituisce reato. In Grecia è punibile con la reclusione fino a 3 mesi, ma nella maggior parte dei casi si adotta una procedura amministrativa di espulsione. E il governo italiano è intransigente con i migranti senza documenti di soggiorno validi? Abbiamo provato ad analizzare ciò che succede fuori dall’Italia. Le sorprese non sono mancate. Anche in contrasto con le dichiarazioni di grande tolleranza di molti governanti, la linea adottata è in realtà spesso più rigida di quella italiana, proprio riguardo ad aspetti sui quali frequentemente le critiche alla nostra politica dell’immigrazione si fanno più aspre.

glossario dei centri I centri sono pianificati dalla Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo. Sono gestiti a cura delle Prefetture-Utg tramite convenzioni con enti, associazioni o cooperative aggiudicatarie di appalti del servizio. Le prestazioni e i servizi assicurati dalle convenzioni sono: • Assistenza alla persona »» assistenza alle persone (vitto, alloggio, fornitura effetti personali ecc.); »» assistenza sanitaria; »» assistenza psico-sociale; »» mediazione linguistico culturale. • Ristorazione • Servizio di pulizia ed igiene ambientale • Manutenzione della struttura e degli impianti

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cara

I CENTRI DI ACCOGLIENZA

CENTRI ACCOGLIENZA RICHIEDENTI ASILO

(L.563/95)

(DPR 303/2004 - D.Lgs. 28/1/2008 n°25)

Sono strutture destinate a garantire un primo soccorso allo straniero irregolare rintracciato sul territorio nazionale. L’accoglienza nel centro è limitata al tempo strettamente necessario per stabilire l’identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per disporne l’allontanamento.

Sono strutture nelle quali viene inviato e ospitato per un periodo variabile di 20 o 35 giorni lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera, per consentire l’identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato. Vengono utilizzati per le finalità sia centri di accoglienza (CDA) che di centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) i centri di Ancona, Bari, Brindisi, Crotone, Foggia.

cie

Gli “undocumented migrants” inseriti nei centri di detenzione corrono l’effettivo pericolo di rimanerci per tutta la vita, poiché non esiste un termine di tempo definito per il trattenimento. Inoltre, per la legge britannica, i migranti senza documenti di soggiorno validi hanno commesso un reato che prevede una pena variabile da una semplice sanzione pecuniaria fino a 6 mesi di carcere. La pena può, in molti casi, tramutarsi in carcere a vita, se le autorità, come spesso avviene, non riescono a provvedere alle espulsioni. Infatti, spesso, i paesi di origine o di provenienza non sono disposti ad accogliere i migranti. Il Regno Unito ha introdotto una politica migratoria mirata all’ingresso dei lavoratori più qualificati, per cui le pratiche per i richiedenti asilo seguono un processo più veloce. Tutti gli altri vengono scoraggiati. Esiste un sistema a punti: secondo l’età, la situazione finanziaria, il livello di istruzione, le eventuali qualifiche e la conoscenza della lingua inglese. C’è poi l’obbligo, che decade solo per gli iperqualificati, di presentare un certificato di sponsorizzazione. Sono previsti l’arresto e sanzioni amministrative per chi ha documenti falsi, ma anche per i datori di lavoro di irregolari. Le persone fermate alla frontiera (inclusi i minorenni accompagnati) sono trattenute in appositi centri gestiti da privati per conto del BIA (Border and Immigration Agency), in attesa di espulsione.

Regno Unito

Si tratta di uno degli stati d’Europa più esposti ai flussi migratori dal Medio Oriente e dell’Africa. La polizia ha il controllo assoluto della detenzione amministrativa. Tutti gli immigrati arrestati vengono trattenuti nelle stazioni di polizia ai confini, nelle normali prigioni e in centri che si trovano nelle isole della costa turca e ai confini con la Bulgaria. Le condizioni di vita in questi campi di raccolta - in cui il limite di permanenza, puramente teorico, è di 3 mesi - è stato aspramente criticato dalle organizzazioni umanitarie per le precarie condizioni igieniche, per il vistoso sovrappopolamento e per la quasi totale mancanza di assistenza sia legale che sanitaria. Risulta inferiore al 2% il numero domande di asilo accolte. Nonostante questo, il numero di stranieri in Grecia è molto alto, se rapportato alla popolazione.

grecia

CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE Così denominati con decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, sono gli ex ‘Centri di permanenza temporanea ed assistenza’: strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all’espulsione. Previsti dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione 286/98, come modificato dall’art. 12 della legge 189/2002, tali centri si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle Forze dell’ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari. Il Decreto-Legge n. 89 del 23 giugno 2011, convertito in legge n. 129/2011, proroga il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri dai 180 giorni ( previsti dalla legge n. 94/2009) a 18 mesi complessivi. L’operatività dei centri e la loro a capienza può essere soggetta a variazioni in relazione ad eventuali lavori di manutenzione, ordinaria o straordinaria.

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inquadramento del fenomeno

Nicolas Sarkozy, già da ministro dell’interno, aveva fatto della lotta all’immigrazione clandestina uno dei propri cavalli di battaglia. Nel 2005 aveva emanato una severa regolamentazione degli ingressi, istituendo la schedatura di tutti coloro che inoltrano richiesta di visti o permessi di soggiorno attraverso le impronte digitali e i dati biometrici. Il soggiorno irregolare è reato ed è prevista, oltre alla sanzione amministrativa, la reclusione fino a un anno. Il tempo massimo per la detenzione amministrativa, prima dell’espulsione dal paese, è di 32 giorni. Nel 2007 le espulsioni sono state circa 23 mila.

francia

In Germania, l’immigrazione irregolare costituisce reato ed è punibile sia con sanzioni pecuniarie sia con la reclusione fino a 3 anni, in caso di recidiva. I centri di identificazione si trovano in prossimità degli aeroporti. Ci sono poi 32 centri di detenzione in cui il periodo di permanenza prima dell’espulsione può essere esteso sino a 18 mesi. Lo straniero può essere detenuto per sei settimane anche mentre è in attesa della decisione sull’espulsione. L’orientamento della politica tedesca sull’immigrazione è emblematico. Fra il 1995 e il 2004, gli stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza sono stati quasi 1 milione e 300 mila, ossia l’1.5% della popolazione. La Germania è il paese europeo che conta più immigrati, quasi sette milioni, e, pur avendo instaurato delle restrizioni al diritto d’asilo nel 1993, rimane ancora il paese europeo più liberale: in Europa, alla fine del 2008, i rifugiati erano 1,6 milioni, di cui più di 580 mila ospitati nella sola Germania. Dal 2005 ha avviato una politica di incoraggiamento dell’immigrazione qualificata, che consente di ottenere la residenza e il permesso di lavoro fin dall’inizio. Requisito essenziale: avere una concreta offerta di lavoro e il permesso dall’Agenzia tedesca per l’impiego.

germania

Nel 2005 il governo Zapatero emanò una sanatoria in base alla quale, su 700 mila domande di regolarizzazione, ne furono accolte 600 mila. Nell’autunno dello stesso anno, la “grande paura” per gli assalti degli irregolari a Ceuta e Melilla comportò una netta inversione di tendenza. Le due enclave africane della Spagna furono recintate da alte barriere, nel tempo sempre più alte, di filo spinato, le coste del Nord Africa furono sottoposte a continuo e imponente monitoraggio radar esteso anche ai punti nevralgici delle coste spagnole e fu attivato un pattugliamento navale congiunto tra le Canarie e l’Africa. Con l’adozione di questi provvedimenti l’immigrazione clandestina si è più che dimezzata. Questo non ha tuttavia evitato il collasso dei campi d’accoglienza: è di pochi mesi fa la notizia di circa 900 irregolari rinchiusi nei centri a fronte di una capienza di 190 posti. Nei quattro anni della prima legislatura Zapatero, i migranti senza documenti di soggiorno validi espulsi dal paese sono stati 370 mila, il 43.4% in più di quanti ne aveva mandati via Aznar. Il governo di Madrid ha stabilito una rigida programmazione dei flussi, ha previsto sanzioni amministrative per chi favorisce l’immigrazione clandestina (compresi i datori di lavoro), oltre all’immediata espulsione degli irregolari. Per entrare nel territorio spagnolo serve la prova di avere sufficienti mezzi di sostentamento per la durata del soggiorno. I CIE (Centro de internamento extranjeros) sono limitrofi alle principali città e il limite massimo di permanenza è fissato in 60 giorni. Ma gli irregolari possono essere fermati all’uscita per prolungarne la permanenza. Alle Canarie e a Ceuta e Melilla si trovano invece i CETI (Centro de estancia temporal) dove vengono trattenuti gli immigrati che varcano il confine o arrivano via mare. Il 90% di questi viene espulso. La Spagna risulta il Paese che fa più ricorso ai rimpatri forzati, più di 40 mila ogni anno.

spagna

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inquadramento del fenomeno

Dai CPTA ai CIE, un excursus legislativo. Inasprire le misure non serve a diminuire l’irregolarità

inquadramento del fenomeno

L’

istituzione degli allora denominati Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (CPTA) è avvenuta in origine ad opera della cosiddetta legge Turco-Napolitano (art. 12, l. n. 40/1998, poi art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione). Essi rappresentavano - e rappresentano - un luogo di detenzione amministrativa in cui uno straniero, destinatario di un decreto di espulsione immediatamente eseguibile, viene trattenuto se si rivela impossibile procedere con l’espulsione stessa - in quanto si rendono necessari ulteriori accertamenti sulla sua identità - oppure in assenza del vettore o dei documenti di viaggio. Fin dalla loro istituzione, tali strutture sono state al centro di violente critiche (per tutti, si ricorderà la definizione “istituzione totale” da parte dell’etnopsichiatra Roberto Beneduce), soprattutto perché il Arianna Cascelli trattenimento rappresenta, come confermerà la stessa Corte Costituzionale, una limitazione della libertà personale. E il fatto che, negli allora CPTA, il trattenimento fosse previsto per soli cittadini stranieri, senza che essi avessero commesso alcun reato e per ragioni a loro non imputabili (mancanza dei documenti di viaggio e/o del vettore), lo rendeva sospetto di incostituzionalità, come hanno poi seppur indirettamente dimostrato, nel 2000, le questioni sollevate dal Tribunale di Milano di fronte alla Corte Costituzionale con specifico riferimento alla libertà personale (art. 13, commi 2 e 3, della Costituzione Italiana). Pur giudicando “non fondata” la questione di costituzionalità, per non avviare un aperto conflitto con il parlamento e il governo, in quell’occasione la Corte si è comunque espressa in modo molto severo e ha espressamente ricondotto il trattenimento alle “altre restrizioni della libertà personale, di cui si fa pure menzione nell’articolo 13 della Costituzione”, ricordando anche come, dato il “carattere universale della libertà personale”, le garanzie collegate alla sua tutela non devono subire nessuna attenuazione rispetto agli stranieri (Corte Cost., sent. n. 105/2001).

Posto

quindi che tali aspetti critici hanno caratterizzato l’istituto del trattenimento fin dalla nascita, va pur sempre detto che, a differenza di quanto oggi avviene, il suo utilizzo in origine era decisamente più marginale. La legge Turco-Napolitano prevedeva infatti un doppio sistema di espulsioni, coercitiva l’una (con accompagnamento coatto alla frontiera), obbligatoria l’altra (intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro 15 giorni). Solo nella prima ipotesi - che rappresentava comunque l’eccezione, poiché era prevista soltanto per i casi di particolare pericolosità sociale (espulsione per motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato, traffici illeciti o appartenenza ad associazioni di stampo mafioso) - si sarebbe proceduto con il trattenimento, in attesa dell’effettiva esecuzione dell’espulsione. Trattenimento che era altresì limitato in termini temporali, potendo protrarsi solo “per il tempo strettamente necessario” alle verifiche da effettuarsi prima di eseguire l’espulsione, e comunque non oltre “complessivi venti giorni”, prorogabili di altri dieci nel caso fosse “imminente l’eliminazione dell’impedimento all’espulsione o al respingimento” (art. 14, 5 T.U.).

Tale

logica è stata completamente capovolta dalla riforma introdotta con la legge n. 189/2002, la cosiddetta Bossi-Fini, la quale, in primo luogo, ha introdotto la possibilità di procedere con il trattenimento dei richiedenti asilo, qualora essi fossero già destinatari di un procedimento di espulsione, ipotesi non prevista affatto dalla precedente normativa. Ma soprattutto, ha generalizzato il regime di espulsioni eseguite in maniera coattiva e, di conseguenza, ha ampliato in modo notevole i casi di trattenimento degli stranieri in situazione irregolare. Invertendo il meccanismo sopra illustrato, infatti, trasforma in eccezione l’intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro quindici giorni, che si applica soltanto a coloro che non hanno provveduto a rinnovare il permesso di soggiorno entro i termini. La norma, per tutti gli altri casi, diviene la disposizione dell’espulsione con decreto immediatamente esecutivo, procedura che prevede l’applicazione del trattenimento in tutti i casi in cui sia impossibile l’immediata effettuazione dell’espulsione. Dalla riforma del 2002 usciva inoltre appesantita anche la disciplina della detenzione amministrativa nei centri, con l’innalzamento del periodo massimo di permanenza a sessanta giorni, e la possibilità che la proroga venisse concessa anche sulla base di gravi difficoltà per il reperimento dei titoli di viaggio o nelle pratiche di identificazione. Inoltre, con lo stesso intervento, anche per quanto riguarda la disciplina dello status dei soggiornanti regolari si è andati verso un allargamento degli ambiti dell’incerto, del precario, del temporaneo, a seguito ad esempio delle modifiche introdotte in merito ai termini di validità del permesso di soggiorno in caso di perdita del posto di lavoro, ridotti da un anno a sei mesi, ma anche al limite temporale entro il quale inoltrare la richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno, aumentato da trenta a novanta giorni prima della scadenza.

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Si

ricorderà peraltro come alcune delle disposizioni relative al trattenimento della riforma in questione sono state giudicate incostituzionali dalla Corte Costituzionale (sentenze n. 222 e n. 223 del 2004), tant’è che la legge è stata più volte rimaneggiata per aggirare il giudizio della Corte. Tuttavia, è significativo sottolineare il fatto che, se le modifiche in seguito introdotte hanno consentito di superare i più gravi problemi di incompatibilità con la Costituzione, anche successivamente non sono mancate forti critiche alla disciplina del trattenimento. Più recentemente, pur premettendo che non spetta alla Corte Costituzionale esprimere valutazioni sull’efficacia della risposta scelta dal legislatore per regolare alcuni aspetti del fenomeno dei flussi migratori, essa non ha potuto fare a meno di notare nella normativa molteplici “squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativa della stessa” (Corte Costituzionale, Sentt. 263/2008 e 22/2007).

La

prima stonatura che emerge da una più attenta analisi della normativa, peraltro, è l’intenzione del legislatore di costituire un circolo vizioso tra CPT e carcere, introducendo figure di reato per condotte di semplice disobbedienza, quasi nella consapevolezza dell’impossibilità di operare tutte le espulsioni ordinate, e tentando così di instaurare un altro tipo di controllo dello straniero irregolare, che per questa e per altre ragioni si trova spesso a “circolare” tra carcere e CIE. Nonostante le contraddizioni di una disciplina che rende più precarie le condizioni degli immigrati regolari, e allo stesso tempo estende i casi ai quali applicare il trattenimento, creando nuovi reati per condotte precedentemente illecite solo dal punto di vista amministrativo, ancora recentemente si è tornati a legiferare in materia di sicurezza e irregolarità, più sull’onda del sensazionalismo che a seguito di un preciso disegno. In particolare, sono stati inaspriti alcuni aspetti della disciplina del trattenimento: in primo luogo, è stata modificata la denominazione dei centri (da “centro di permanenza temporanea” o “centro di permanenza temporanea ed assistenza” a “centro di identificazione ed espulsione” (legge n. 125/2008, art. 9). Ma soprattutto, dopo un lungo periodo di gestazione è stato introdotto, mediante maxiemendamento al ddl “sicurezza” (ora, legge n. 94/2009), un ulteriore prolungamento del tempo massimo di trattenimento dei centri fino ad un totale di centottanta giorni, elemento ACCORDI DI RIAMMISSIONE DEGLI IMMIGRATI CLANDESTINI che rende ancor più intollerabile la permanenza nelle strutture, in NEI PAESI DI PROVENIENZA un crescendo di contraddizioni e “leggi manifesto” che ha portato Patti bilaterali sono stati firmati con Slovenia, Macedonia, Romania, Georgia, Ungheria, fino all’approvazione del reato di clandestinità, senza produrre le Lituania, Lettonia, Estonia, Jugoslavia, Croazia, Francia, Austria, Albania, Bulgaria, Macondizioni per l’eliminazione delle cause dell’irregolarità. rocco, Slovacchia, Tunisia, Svizzera, Grecia, Spagna, Algeria, Nigeria. Il primo è stato firmato con la Slovenia il 3 settembre 1996. L’intesa è stata raggiunta con Slovenia, Macedonia, Romania, Georgia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Estonia, Jugoslavia, Croazia, Francia, Austria, Albania, Bulgaria, Marocco, Slovacchia, Tunisia, Svizzera, Grecia, Spagna, Algeria, Nigeria. Questi Stati si sono impegnati a riammettere i propri cittadini entrati in Italia privi delle condizioni legali. Unico presupposto necessario, l’accertamento della nazionalità dell’immigrato che si vuole riconsegnare.Faranno fede documenti di viaggio, carta d’identità, certificato di nazionalità. Nei casi in cui non siano disponibili questi documenti, l’immigrato sarà sottoposto ad una audizione presso la più vicina rappresentanza diplomatica del Paese che dovrebbe riammetterlo. Lo stesso trattamento viene applicato per i cittadini di Paesi terzi.

III

PROCEDURA DI RIAMMISSIONE Art. 5

1. Le domande di riammissione presentate In applicazione dei precedenti articoli 2 e 3 sono trattate dai Ministeri dell’Interno dei due Stati contraenti. 2. La domanda di riammissione dovrà specificare i dati relativi all’identità al documenti personali eventualmente in possesso del cittadino dello Stato terzo, al suo soggiorno nel territorio della Parte richiesta ed alle circostanze del suo ingresso irregolare nel territorio della Parte richiedente. Tali dati dovranno essere sufficientemente esaurienti, in modo da soddisfare le richieste di ciascuna Autorità 3. La Parte richiesta devia comunicare per iscritto la propria decisione alla Parte richiedente, in linea di massima entro otto giorni. L’autorizzazione alla riammissione ha una validità di un mese dalla data della sua notifica. Qualora l’interessato debba rimanere a disposizione dell’Autorità giudiziaria dello Stato richiedente, iMinisteri dell’Interno stabiliranno di comune accordo una proroga di detto termine.

Che

la conseguenza della stretta sul trattenimento non abbia portato progressi in termini di lotta all’irregolarità, emerge già dai dati relativi al periodo in cui la riforma è stata applicata (rielaborazioni Caritas-Migrantes su dati del Ministero dell’Interno, Dossier Statistico Immigrazione, 2007). Difatti, eccezion fatta per l’anno stesso dell’introduzione della riforma, in cui sono state effettivamente allontanate 88.501 persone, l’impatto della nuova normativa sul numero di espulsioni eseguite è andato scemando, finché i numeri si sono assestati su valori anche più bassi di quelli registrati prima dell’entrata in vigore della nuova legge; questo, a fronte di una stima della presenza di irregolari che ormai dall’anno 2000 supera costantemente le 200.000 unità, valore che si riesce ciclicamente ad abbattere soltanto grazie all’effetto delle frequenti sanatorie. L’eredità che l’evoluzione del contrasto all’irregolarità ci lascia non è dunque un’immigrazione più regolata, una stretta sulle sanzioni per chi favoreggia o impiega irregolari, ovvero un meccanismo che garantisca l’effettiva esecuzione delle espulsioni, ma la moltiplicazione degli obblighi per l’accesso legale al territorio italiano, la precarizzazione degli stranieri in regola, l’intasamento dei centri di trattenimento. In conclusione, sembra ancora che si stia procedendo mediante una combinazione di misure che, nei fatti, produce l’effetto opposto a quello (almeno a parole) desiderato, causando cioè un aumento dell’irregolarità, anziché una sua riduzione.

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inquadramento del fenomeno

Se lo scafista è un minore non accompagnato

inquadramento del fenomeno

Tra

i minori stranieri non accompagnati che entrano nel circuito penale, quello dei “piccoli scafisti” è un fenomeno emergente connesso all’allarme suscitato da qualche sbarco avvenuto recentemente anche sulle coste siciliane. Sebbene nel corso del 2012 gli arrivi di clandestini via mare siano diminuiti, le Maria Pia Fontana statistiche evidenziano un sensibile incremento dei minori stranieri non accompagnati (Caritas, Dossier statistico 2012) quasi sempre nella qualità di passeggeri dei barconi. Nelle ipotesi meno frequenti in cui a carico del ragazzo sussista l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, specie con l’aggravante dell’associazione a delinquere finalizzata all’ingresso illegale di stranieri, le possibili conseguenze sanzionatorie sono in astratto quelle molto severe previste per gli adulti (ex art. 12 D.L. 286/98, così come modificato dalle norme del cosiddetto “pacchetto sicurezza”), sebbene con la diminuente della minore età. Inoltre, complessivamente ardua appare la predisposizione di efficaci progetti di recupero e di reinserimento sociale, tesi anche a mitigare l’azione meramente repressiva.

Come

è noto, il nostro ordinamento riserva ai minori di età che infrangono la legge penale una risposta che riconosce la specificità della condizione di soggetto in età evolutiva e ciò si è concretizzato soprattutto nell’emanazione del DPR 448/’88 sul processo penale a carico di imputati minorenni. Tale norma ha, infatti, sancito il diritto dei ragazzi che hanno compiuto i 14 anni (perché prima di tale età non sono imputabili) ad avere non solo un proprio giudice specializzato ed esperto (Tribunale per i Minorenni) ma a essere sottoposti a uno specifico processo penale, calibrato su apposite norme e su sbocchi processuali di favore. Tuttavia, nonostante ciò rappresenti un’importante riconoscimento della specificità della condizione giovanile, la norma, adottata alla fine degli anni ’80, non è immune all’inevitabile obsolescenza innescata dai numerosi mutamenti intervenuti nello scenario sociale e internazionale. Essa, infatti, viene emanata in un periodo storico in cui la presenza di ragazzi stranieri non accompagnati in Italia è un fenomeno assolutamente marginale e molti dei suoi istituti e principi, come il principio di adeguatezza, di minima offensività del processo penale, di residualità della detenzione, faticano a essere applicati per questo particolare target di imputati, che non può contare su una rete parentale di sostegno e su risorse abitative. Si segnala, in particolare, il differente trattamento tra minori italiani e stranieri rispetto all’applicazione della carcerazione (sia in fase cautelare che esecutiva) proprio per la difficoltà di identificare per questi ultimi delle alternative alla detenzione. I ragazzi stranieri, inoltre, sono soggetti a un regime carcerario maggiormente afflittivo, anche perché con maggiore frequenza vanno incontro a trasferimenti di istituto penale con conseguente interruzione della continuità del trattamento e del rapporto con le figure educative, psicologiche e sociali di riferimento.

dovuto per la tratta. Oppure troviamo il caso del ragazzo che ha un ruolo più attivo nella pianificazione e nella organizzazione del viaggio da cui trae un guadagno economico pur avvalendosi della complicità di adulti, sia come membri dell’equipaggio che come componenti della rete dei basisti. Ciò lascia intendere la tendenza delle organizzazioni criminali ad avvalersi di persone più giovani e come tali meno sospette. Si comprende chiaramente come nella prima ipotesi il vissuto del ragazzo sia molto diverso. Egli spesso fatica a comprendere il disvalore sociale del fatto contestato e manifesta piuttosto un risentimento verso il coimputato maggiorenne che lo ha illuso, sfruttato e infine “incastrato”. In tale ipotesi, in cui peraltro è oggettivamente complessa l’identificazione dell’effettiva responsabilità penale del minore, diventa molto difficile per l’operatore sociale italiano costruire un rapporto di fiducia superando la cortina della diffidenza e della paura che il ragazzo nutre verso “i grandi”. Tuttavia, se sempre occorre mirare al recupero del minore, soprattutto in questa ipotesi occorre investire energie nella predisposizione di programmi di aiuto e di inserimento sociale attraverso la costruzione di legami alternativi rispetto a quelli delinquenziali. A tal riguardo, la misura della messa alla prova, quale forma di diversion processuale che precede la condanna e, in caso di esito positivo, cancella il reato, rappresenta lo strumento di elezione rispetto a tale sfida educativa, pur nelle sue difficoltà attuative, riconducibili all’assenza della rete parentale di sostegno, che impone l’attuazione della misura in un contesto comunitario, e alla scarsità di opportunità formative e lavorative.

I

Per i “piccoli scafisti” accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, specie con l’aggravante dell’associazione a delinquere finalizzata all’ingresso illegale di stranieri, le possibili conseguenze sanzionatorie sono severe come quelle previste per gli adulti.

note di approfondimento

II

Dalla fine degli anni ’80, il nostro ordinamento riserva ai minori una risposta specifica. Tuttavia, molti dei principi di questa norma faticano a essere applicati per i minori stranieri non accompagnati, fenomeno marginale quando essa è stata emanata.

Mappa dei C.I.E.

Milano Via Corelli

Gorizia Gradisca d’Isonzo

Inoltre,

l’effettiva applicazione dei suddetti principi e istituti posti alla base dell’intervento penale minorile, oltre a richiedere la disponibilità di risorse familiari, culturali e sociali, non può prescindere dalla conoscenza approfondita della personalità del ragazzo e del suo contesto ambientale di origine. Il gap di conoscenza del background familiare del minore straniero peraltro non viene colmato dalla semplice previsione di un mediatore culturale a supporto dell’azione degli operatori minorili della giustizia, così come previsto da vari documenti e indicazioni ministeriali. Tale figura, non ancora presente in modo uniforme in tutti i servizi minorili della giustizia italiani (Uffici di Servizio Sociale Minorenni, Centri di Prima Accoglienza, Istituti Penali per i Minori) nonostante la sua indispensabile funzione di facilitazione e ponte tra minore, operatore e contesto sociale, non può sostituire l’apporto conoscitivo fornito dall’indagine familiare e ambientale dell’OIM (Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) che sembra necessaria specie nei casi in cui il ragazzo è inserito in reti delinquenziali nelle terre di provenienza, ha una storia personale particolarmente travagliata o tende a omettere e a falsare dati conoscitivi rilevanti. Allo stato attuale queste indagini sono precluse per i minori di nazionalità marocchina ed egiziana, a causa del veto posto dai governi dei paesi di origine. Sussiste, quindi, il rischio concreto che il minore non accompagnato di queste nazionalità rimanga un soggetto difficile da conoscere sotto il profilo della personalità, e ciò complica la predisposizione di programmi di aiuto mirati. Aspetto di problematicità sembra anche il coinvolgimento dei tutori, rappresentanti dei minori e garanti dei loro diritti, nei programmi di recupero penale, vista da un lato la lentezza con cui gli stessi tutori vengono nominati e il persistere di modalità di collaborazione molto eterogenee, più legate a specificità individuali che a buone prassi di intervento e a visioni di sistema che prevedano l’identificazione di strategie operative condivise tra l’Autorità Giudiziaria minorile, Uffici del Giudice Tutelare e servizi minorili della Giustizia.

Bologna

Torino

All’

8| SQM

Le organizzazioni criminali tendono ad avvalersi di persone più giovani, perché meno sospette.

È difficile per l’operatore sociale costruire un rapporto di fiducia superando la cortina della diffidenza che il ragazzo nutre nei confronti degli adulti, che lo hanno illuso e sfruttato.

La messa alla prova è lo strumento d’elezione per l’inserimento sociale del minore attraverso la costruzione di legami alternativi rispetto a quelli delinquenziali.

Caserma Chiarini

C.so Brunelleschi

Modena

Bari Palese

Roma

Brindisi

Ponte Galeria

Restinico

Crotone Loc. S. Anna

Trapani interno della categoria dei minori stranieri non accompagnati scafisti rientra peraltro una tipologia di situazioni personali estremamente differenziate. Troviamo, infatti, il ragazzo che prende parte genericamente alla divisione dei compiti durante il viaggio (es. perché gli viene imposto di distribuire il cibo/acqua, controllare il motore) e che quindi rappresenta una sorta di braccio esecutivo dello scafista adulto, che talvolta è anche un parente o un conoscente del giovane e della sua famiglia senza che la fattiva collaborazione del ragazzo lo esima dal pagare al conducente l’importo

III IV V VI

La figura del mediatore culturale non può sostituire l’apporto conoscitivo fornito dall’indagine familiare e ambientale dell’OIM, necessaria nei casi in cui il ragazzo è inserito in reti delinquenziali nelle terre di provenienza.

Catanzaro

Serraino Vulpitta

Lamezia Terme

Trapani località Milo

Caltanissetta Contrada Pian del Lago

Maria Pia Fontana assistente sociale specialista e sociologo Formatore presso il Centro di cultura per lo sviluppo dell’E.A.S. di Acireale (CT) e dell’Università Cattolica di Milano; Specialista nella realizzazione di indagini sociali e sulla personalità dei minori sottoposti a procedimento penale e nell’attuazione di progetti educativi individualizzati a favore dei minori; Componente del Gruppo Piano del Distretto socio-sanitario di Giarre (CT) D17 per gli interventi previsti dalla legge n.328/2000; referente area tematica Immigrati; supervisore di tirocinio per gli studenti del corso di laurea in Servizio sociale e in Sociologia.

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storie e testimonianze intorno alla clandestinità

storie e testimonianze intorno alla clandestinità

fiotti. “L’unico nostro interesse è garantire adeguate prestazioni a qualsiasi persona si rivolga al nostro ospedale.”

a legge 94/2009 - il cosiddetto “pacchetto sicurezza” - emanata dal governo italiano nel luglio del 2009 ha sollevato un forte dibattito in molti settori. Anche tra gli operatori sanitari si è accesa una polemica in particolare attorno all’art. 1 comma 16 che introduce il reato di ingresso e soggiorno irregolare. Quando il

mo mai denunciato nessuno.” “La norma fu dapprima superata dall’atteggiamento del personale medico e paramedico” aggiunge Luca Roberti, medico chirurgo dello stesso Pronto Soccorso, “e successivamente del tutto abolita.” Insomma, nonostante il pacchetto sicurezza, le cose hanno continuato a fare il

tori pubblici. Con un solo patto implicito: tenere un comportamento adeguato. “Mi è successo,” racconta Anna Maffiotti, “di ospitare in pronto soccorso, soprattutto nelle fredde notti di inverno, le persone clandestine che non avrebbero potuto avere un rifugio per

L’art. 35 del Decreto 286 del ‘98 vieta al medico di segnalare, in caso di assistenza, un immigrato irregolare, salvo vi sia obbligo di referto. “Si tratta di un’eccezione al generale obbligo di denuncia per pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio,” spiega Enrico Chiara, medico e presidente di FO.QU.S., cooperativa torinese di medici di famiglia. “Il divieto non è compromesso nemmeno dall’art. 365 del codice penale (1),” continua il dottor Chiara. “Vi è obbligo di referto solo in caso di delitti procedibili d’ufficio,” precisa, “ma non lo è il reato di immigrazione clandestina, di natura contravvenzionale, e il comma 2 esonera il medico dall’obbligo di referto qualora la segnalazione esponga l’assistito a procedimento penale.” Di fronte al tentativo del governo, tramite il pacchetto sicurezza, di obbligare i medici alla denuncia, gli ordini si rifiutarono, minacciando la disobbedienza civile. “L’introduzione del reato di clandestinità,” continua Enrico Chiara, “ha generato una condizione di ambiguità tale

mancato possesso di documenti di soggiorno si è trasformato in un illecito penale, per un periodo sembra divenire obbligatoria la denuncia per pubblici ufficiali e incaricati al pubblico servizio. Ma Arianna Maffiotti, responsabile del Pronto Soccorso presso l’Ospedale S. Lorenzo a Carmagnola, provincia di Torino, dichiara: “Nel nostro pronto soccorso non abbiamo mai tenuto conto delle normativa sui clandestini e soprattutto non abbia-

loro corso. “L’accoglienza e le prestazioni sono rimaste nello standard abituale,” afferma Roberti. “Anzi posso tranquillamente affermare che buona parte dei codici bianchi, soggetti quindi al pagamento di ticket di 25 euro, venivano trasformati in codici verdi, totalmente esenti dal pagamento del ticket previsto.” Molto spesso capita anche che alcune zone dei presidi ospedalieri si trasformino per i senzatetto in vere alternative sussidiarie dei dormi-

la notte, garantendo loro anche un pasto caldo.” L’unico obbligo a cui sono tenuti medici e infermieri è la segnalazione alla Direzione Sanitaria per tutti quei pazienti che non posseggono il tesserino sanitario, al fine di avviare la procedura di recupero dei crediti nei confronti dei paesi di origine dei pazienti. “Non tocca a noi fare i poliziotti,” dice la dottoressa Maf-

da spingere gli ordini professionali dei medici, degli assistenti sociali, degli psicologi, i collegi degli infermieri e delle ostetriche, parte del mondo universitario, le ONG e altre organizzazioni religiose e laiche ad allinearsi in una netta e ferma opposizione sotto il segno dello slogan ‘Noi non segnaliamo’.” I medici di FO.QU.S. hanno collaborato con il consorzio Connecting People nei progetti di accoglienza dei profughi del

Migranti tra diritto (alla salute) e reato (di clandestinità). Parlano i medici L

Nord Africa. “Quando nel 2011 ci è stata chiesta la disponibilità,” ricorda Chiara, “non conoscevamo la dimensione reale della domanda. Gli 80 ospiti iniziali sono diventati quasi 500, su più centri, fra Torino e Cuneo. Limitato il budget, il modello ministeriale inadeguato per sedi decentrate, nuclei spesso piccoli, centri ora inclusi nelle realtà municipali, ora lontani.” Una realtà niente affatto scontata che richiedeva il coraggio di innovare e una capacità non comune di sperimentare strade nuove. “Abbiamo fatto rete, ‘inventato’ funzioni e procedure, integrandoci con gli operatori non sanitari. Abbiamo imparato,” continua Enrico Chiara, “a gestire budget e personale ed elaborato modelli, individuando risposte e strumenti utili per un target di migranti extraeuropei, spesso non in regola con quanto richiesto dal servizio pubblico. Senza contare, poi, il contatto con le diverse culture, e con le storie individuali. Una grande esperienza clinica e umana,” conclude il medico. E adesso che i centri di accoglienza aperti in seguito all’emergenza profughi dal Nord Africa hanno serrato i battenti, Enrico Chiara e la sua cooperativa

(1)

L’art. 365 del codice penale tratta della cosiddetta “omissione di referto”: “chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto procedibile d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità indicata nell’art. 361, è punito con la multa fino ad euro 516. Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale”.

migranti [ ] diritto reato 10| SQM

restano in prima linea nel dedicare il proprio impegno ai migranti. “Oltre ad occuparci dei vulnerabili rimasti nel progetto di accoglienza Nord Africa,” afferma Chiara, “operiamo nelle iniziative “Tutti Inclusi” e FER. Si ipotizzano altri interventi, di cui sapremo a breve.”

Claudio Praturlon

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storie e testimonianze intorno alla clandestinità

A

lcuni passi, di corsa, per arrivare lì col fiatone e il sorriso stampato in faccia. Un cancello in ferro, sverniciato e arrugginito, aperto per accogliere, non per trattenere. Così, nei miei pensieri d’infanzia, avevo immaginato la fuga dall’Africa. Del viaggio che mi ha portato qui, invece, ricordo il rumore sordo e costante del motore di una carcassa galleggiante, condannata ad affondare, che si trascinava in mare aperto. Ho cominciato a farci caso quando il fiato di 250 persone ha rimbombato nel silenzio. Ero sotto shock, me ne accorgo solo adesso. Respiravo affannosamente, come se tutta l’aria contenuta in quello spazio non fosse sufficiente ai miei polmoni. Man mano che cominciavo a riacquistare lucidità, vedevo allontanarsi la motovedetta maltese che aveva risposto al nostro SOS, riparando il guasto. Lo sapevamo, non tutti raggiungono la meta. Trascorsi altri due giorni di viaggio, avvistavo le coste italiane. Quando siamo stati soccorsi a Lampedusa, i militari distribuivano dell’acqua in bottigliette azzurre. La mia la gettai all’indomani, in un albergo isolato del nord d’Italia. Ci avevano spiegato che quella sarebbe stata la nostra casa per un po’ di tempo. Uscii fuori a fare una passeggiata, per capire dove mi trovavo. Non ci volle molto tempo, il sole si era mosso di poco. Mi circondavano alte montagne con un cappello bianco e pochi anziani. Per un anno continuai a sentire il rumore sordo di quel motore. Eravamo lontani da tutto. Niente si avvicinava a noi. Gli alber-

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Al mattino, b at t i le mani! Testimonianza di Romeo, profugo emergenza Nordafrica

gatori non parlavano la nostra lingua e a noi non era data possibilità di imparare la loro. Solo il cuoco, Alfredo, era disponibile. Mi insegnava un po’ di italiano mentre io mi offrivo ad aiutarlo. Ma non un corso di lingua, niente lavoro e men che meno soldi. Un giorno il disagio esplose e occupammo la strada. Finalmente qualcuno ci ascoltava. Intanto venivo diniegato dalla Commissione prefettizia. Presentai ricorso, ricevendo anche in appello un rigetto. A quel punto dovevo lasciare l’Italia. Non avevo denaro e da un mese era nata mia figlia. Fu Alfredo, il cuoco, a darmi una mano, ospitandomi con la sua famiglia per tre mesi. Sono stati giorni molto lunghi per me. Non potevo uscire. In Camerun se la polizia ti ferma senza documenti finisci dentro. E io non conoscevo nessuno. Certo, la mia compagna e mia figlia si trovavano in una comunità a Torino, non distante da me. Ma chissà dove sarei finito io.

storie e testimonianze intorno alla clandestinità

Emergenza NordAfrica e “vulnerabilità” “C

Un pomeriggio Alfredo mi raggiunse con un’espressione allegra sul viso. Mi disse: “Il governo italiano concederà un permesso umanitario a tutti gli immigrati provenienti dalla Libia”. Ne ero felice. Dovetti aspettare ancora qualche giorno per vedere mia figlia. Ma già all’indomani, svegliandomi, ripresi una vecchia abitudine camerunense: al mattino, quando sei seduto sul letto, batti le mani e dillo che è una bella giornata! Sono riuscito a entrare in un progetto di accoglienza dove mi è stata data la possibilità di svolgere un tirocinio. Si concluderà fra tre mesi e forse verrà rinnovato. Spero anche in un’assunzione, ma non ne ho certezza. In questo momento sto cercando un posto in cui dormire per andare avanti con il tirocinio. Il progetto di accoglienza terminerà tra pochi giorni. Ho trent’anni, osservo la vita attraverso lo sguardo curioso di mia figlia che porto a giocare nel cortile della comunità in cui vive insieme a sua madre. Loro continueranno a ricevere assistenza. Io nel frattempo farò ciò che posso. Quando le osservo, ripenso alle mie sorelle: donne forti e speciali che alla morte precoce dei miei hanno dato tutto pur di farmi vivere e non chiedevano altro che un po’ di freschezza per quelle gambe gonfie e stanche, e un po’ di allegria per quegli occhi che tanto dolore avevano visto. Agrin Amedì

onclusa” la cosiddetta emergenza nord-Africa proviamo a dare un ordine ai nostri pensieri che spesso affiorano in maniera disordinata, alle sensazioni e alle emozioni che ci accompagnano nel lavoro quotidiano: il senso di smarrimento, di incertezza e insicurezza che ha caratterizzato questo anno e mezzo di accoglienza e che con fatica abbiamo provato a contenere. Fermarsi a riflettere, condividere, forse ci permette di provare a dare significato a ciò che accade e a provare a generare processi culturali di produzione di senso. Dal mese di giugno 2012 abbiamo accolto in due centri dislocati sul territorio dei comuni di Giarre ed Aci S. Antonio entrambi nella provincia di Catania, ottantasei migranti in fuga dalla Libia. L’attesa ha caratterizzato il periodo dell’accoglienza. La procedura di riconoscimento di Protezione Internazionale, infatti, è perdurata per alcuni beneficiari quasi un anno e sei mesi e si è conclusa con un elevato numero di dinieghi ottenuti e successivi ricorsi avverso la decisione della Commissione Territoriale di riferimento, per poi giungere nel mese di novembre 2012 in prossimità della chiusura dell’emergenza, ad un riconoscimento di Protezione per tutti i migranti accolti, garantendo loro l’asilo in Italia. Le storie raccolte negli incontri con i migranti in accoglienza ci raccontano di uno stato di sospensione in cui non ci si sente “né in cielo né in terra”, appartenenti né a questo né ad un altro mondo, pervasi da un senso di insicurezza ed incertezza per il proprio futuro e un’impossibilità a progettare, a provare a ricostruire, nonostante le risorse personali, una nuova vita nel paese ospitante. Un tempo che non scorre vuoto, ma con fatica e grande impegno tra corsi di ap-

prendimento della lingua italiana, e per alcuni il conseguimento della licenza media ma per tutti in un’impossibilità ad avviare percorsi di inserimento lavorativo stabili e duraturi; chi negli ultimi mesi del 2012 conclude le proprie pratiche amministrative riesce ad intraprendere corsi di formazione professionale pur nell’incertezza della durata dell’accoglienza e comunque nella consapevolezza di una prossima ed imminente chiusura. E difatti, a conclusione dell’emergenza nord-Africa, si tratta di scegliere tra un contributo all’uscita anche se non si è ancora in possesso di documenti, o altrimenti di rimanere in accoglienza fino alla conclusione delle pratiche amministrative, perdendo il “benefit”. Ciò disorienta, confonde, soprattutto perché una parte di quei soldi potrebbero essere inviati alla famiglia nel paese di origine, che attende ormai da tempo un sostegno e che adesso fa fatica a credere che in Italia si aspetta anche più di un anno per il rilascio dei documenti e poi che non è così facile trovare lavoro….. La decisione disorienta ancor più chi ha una maggiore fragilità psichica, così proprio chi ha comunque diritto all’accoglienza in quanto “vulnerabile” vi rinuncia, per accettare il contributo economico. Si è concordi nel ritenere che la migrazione forzata rappresenta una particolare esperienza migratoria complessa, che per la sua molteplicità di perdite e per la condizione di sradicamento porta con sé una sua vulnerabilità psicologica. Chi migra sente fortemente a rischio tutti gli aspetti della sua identità (S. Inglese, 1996), e alle rotture e alle perdite materiali e simboliche si affiancano ulteriori cambiamenti e perdite dei ruoli sociali, in particolare del lavoro. La vulnerabilità psicologica connessa alla

migrazione (M.R. Moro,1994) deve essere però ripensata in riferimento non soltanto alla diversità culturale e all’impatto che questa ha sul migrante nonché alle storie personali di torture, violenza e trattamenti disumani, ma anche e ancor più in relazione alle logiche del nostro sistema di accoglienza. L’esperienza di chi migra è un’esperienza di frammentazione, di perdita, proprio per la profonda e complessa condizione di sradicamento; il percorso per il migrante è quello di riuscire a situarsi dentro una trama esistenziale, di trovare nuovamente un proprio “posto nel mondo”. Ecco allora che l’intera struttura istituzionale e sociale che accoglie il migrante e con cui lo stesso interagisce deve essere chiara, caratterizzata da interventi ben definiti nel tempo, meno dispersivi e confusi, non incerti né frammentati, che rischiano altrimenti di riproporre gli stessi vissuti di esclusione provati con la migrazione forzata. Una riflessione critica impone così la necessità di attivare con impegno e responsabilità una serie di strategie istituzionali e sociali volte a facilitare la possibilità di chi migra di radicarsi in un nuovo territorio sociale e culturale anziché obbligare il migrante a rimanere in una condizione di “sospensione esistenziale”; ciò si rivela generatore di vulnerabilità e pone dunque le basi dei vissuti di disagio e sofferenza psichica che incontriamo sempre più nel nostro lavoro, aprendo la strada a gravissimi processi di marginalizzazione ed esclusione sociale che caratterizzeranno, se non affrontati, gli anni a venire.

Piera Rossi Nello Pomona

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i cie visti da dentro

i cie visti da dentro

Al buio si vive senza ombra clima, regole e quotidianità del cie

S

in dalla notte dei tempi gruppi di uomini e donne, costretti in un dato luogo e sottratti allo sguardo esterno, hanno suscitato nell’ambiente circostante timore e pregiudizio.

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Questo è ciò che accade, solitamente, nelle dinamiche dominanti che si sviluppano intorno ai CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). Urbanisticamente isolati e spesso situati in vecchie caserme

riconvertite a tal scopo, si presentano - il più delle volte - con alte mura di cemento armato che delimitano un’area soggetta al controllo delle forze di Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza ed Esercito.

L’accesso di esterni ai CIE viene autorizzato dalle locali prefetture e si svolge sotto la stretta vigilanza del personale e delle forze dell’ordine impegnate nella gestione del campo; parola che evoca nell’immaginario comune più impressioni: da luoghi in cui vengono mantenuti sotto controllo dei gruppi di persone indesiderate, a zone di restrizione o di privazione dei diritti. La pratica dell’esclusione è una caratteristica che risale ai tempi antichi. Come se la storia si ripetesse - direbbe Umberto Eco - ora i migranti incarnano i nuovi esclusi, le persone di seconda classe come erano stati i lebbrosi, i folli e i tossicodipendenti: categorie che devono essere recluse in strutture e dispositivi di segregazione per evitare che “contagino” o “impauriscano” i nazionali. Il 70% dei trattenuti nei CIE ha già scontato una pena in carcere, terminata la quale non era ancora identificato in modo certo. Il restante 30% ci finisce perché non ha un documento di soggiorno valido: alcuni hanno perso un lavoro regolare o hanno sempre lavorato, ma in nero; altri ancora sono stati fermati direttamente al loro arrivo in Italia. E tra le mura che contengono questa pluralità di volti e realtà, come un brusio di sottofondo, aleggia perennemente un tintinnio di chiavi e serrature. In ogni cella, corridoio, ufficio, è riconoscibile sempre lo stesso odore: di muffa e candeggio, miscelato alle pareti che portano lo stesso colore. Assenza, controllo e attesa si traducono in una sottile tensione latente, che serpeggia lungo ogni tragitto reso possibile. In questi posti si può trovare degrado: psicologico, umano e, spesso, anche sanitario. Nonostante i servizi, anche efficienti, erogati dagli enti gestori, le competenze sviluppate dalle équipe psicosociali, l’attenzione e la cura del personale impegnato a garantire un ambiente pulito e sicuro, gli effetti di un’istituzione così pesante, inevitabilmente, saltano all’occhio: non avere cura di se stessi vuol dire anche non preoccuparsi dell’ambiente nel quale si è costretti a vivere. In alcuni CIE i migranti trascorrono 22 ore su 24 in celle da sei/otto persone, con un bagno in comune e non un tavolo per poter consumare civilmente i pasti, allungati da un operatore oltre le sbarre. In certi casi, si arriva a negare l’introduzione di libri, nelle celle, perché considerati materiale infiammabile. “Così,” confessa un cosiddetto ‘trattenuto’, “qui, al massimo puoi diventare un professionista delle carte da gioco, mentre in carcere ho conseguito un diploma.” Si tratterebbe di disposizioni preventive di sicurezza predisposte della Prefettura. La finalità è quella di ridurre il rischio di fuga e il verificarsi di possibili disordini, che poi si verificano lo stesso. Quando si contengono decine di persone contro la loro volontà - con l’obiettivo, ufficiale, di verificarne l’identità - diviene inevitabile attuare

significative limitazioni della libera espressione individuale. Il fine è quello di prevenire possibili situazioni di pericolo, anche se spesso, paradossalmente, ne diventano il motivo scatenante. Percorrendo i corridoi di un Centro di Identificazione, dove tutto sembra anonimo, impersonale e distante, può capitare di incontrare migranti diretti all’infermeria mentre è in corso la somministrazione delle terapie farmacologiche. Sono circa i due terzi dei trattenuti - accomunati dall’incapacità di comprendere i motivi della loro condizione, dal bisogno di evadere o, semplicemente, dall’esigenza umana di alzarsi in piedi e attraversare il corridoio - a chiedere un supporto medico che spesso consiste nell’assunzione di psicofarmaci. Come può capitare di incontrare un uomo che si

forze dell’ordine, assorti in una ripetizione costante e impersonale delle proprie mansioni. L’alienazione, in questi casi, diviene lo strumento per non mollare. Al buio, infatti, si vive senza ombra. È questo l’aspetto che colpisce maggiormente: la sensazione di assoluto isolamento, la voglia di scappare, di incontrare altra gente, di far sapere la tragedia di quel posto che continua a consumarsi al buio dei riflettori. “La cosa che rimprovero loro di più,” confessa l’operatore di un CIE “è, che una volta usciti, non ne fanno parola, dimenticano tutto e si vaporizzano. Invece vorrei rivederli: per strada, sui giornali, a denunciare questo loro vissuto. È l’unico mezzo per rendere consapevole quella società che preferisce non vedere.”

La rabbia dei trattenuti

sta dirigendo in un ufficio, magari dallo psicologo o dall’assistente sociale, dopo aver già esaurito la tappa dell’infermeria. “Lì c’è una finestra,” ti dice. “Quando mi è concesso ne approfitto per fare una chiamata e guardare per qualche minuto fuori. Sono qui da un anno e non ho ancora capito dove sono”. Un meccanismo perverso produce una sorta di distacco temporale: una malattia del tempo, che si dilata enormemente nel futuro mentre il passato viene a ridursi a qualche briciolo di ricordi, dai quali ti devi distaccare emotivamente per non sentire dolore. In questi luoghi non esiste il tempo come lo intendiamo normalmente - cioè una dimensione sociale e affettivorelazionale - ma esiste solo il tempo del “trattenimento”. Immobile e immutabile. Forse non si potrebbe neanche parlare di tempo, ma di un ritmo che marca giornate sempre uguali. Un clima da istituzione totale si riflette in tutto, compresa la meccanicità degli operatori o delle

In alcuni CIE i migranti trascorrono 22 ore su 24 in celle occupate da 6 o 8 persone

Agrin Amedì

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Barriere fisiche e mentali a confronto con l’equipe psicosociale del Cie di Gradisca

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i cie visti da dentro

“D

ammi una tuta nuova o mi taglio... Te l’ho detto che mi spacco la testa. Devo chiamare mia madre. Io lo so, tu lo sai chi sono?” Un giovane uomo entra urlando in infermeria. È di origine tunisina e vuole essere ascoltato. “Io ho una fidanzata, dammi una scheda, mi serve una scheda per chiamarla.” Quando si parla di identità, in un certo senso, si parla anche di possibilità. L’uomo si riconosce come un’entità a sé stante nella misura in cui riesce a esercitare un ruolo attivo in relazione a due elementi fondamentali: lo spazio e il tempo. La capacità di stabilire connessioni tra le varie rappresentazioni di sé e gli oggetti che lo circondano, di organizzare autonomamente il proprio tempo e di relazionarsi ad esso con un ruolo di potere, ha come risultato la presa di coscienza della propria identità, percepita come definita e collocata in una deteminata dimensione spazio-temporale. Alle limitazioni di questa possibilità, segue una graduale perdita della percezione di sé fino al completamento - potremmo dire - di una totale spersonalizzazione e alla produzione di meccanismi di auto-difesa. Volti, mani, schiene e gambe delle persone rinchiuse nei CIE riportano spesso cicatrici, lividi e gonfiori. Forse l’estremo tentativo di rimanere ancorati al proprio corpo. Come nelle classiche prassi carcerarie dove i detenuti tendono ad attribuirsi una personalità, attraverso la produzione di tatuaggi sul corpo, nel caso dei CIE a questa tendenza si somma una variabile culturale. Nella maggior parte dei casi incontriamo uomini di origine araba e, con essi, molti casi di autolesionismo. Come osservato dall’équipe psicosociale di Gradisca, l’autolesionismo, secondo questa cultura, è anche una dimostrazione di virilità, di un naturale istinto di auto-conservazione. Per travalicare l’orrore dello spazio senza fondo e senza uscite si devono creare dei riferimenti limitativi, immaginare nuove barriere, regole, altri codici spazio-temporali. Si cercano, insomma, disperatamente risposte; come nel caso dell’uomo sulla sedia a rotelle, che si avvicina per chiedermi: “Dove siamo? Quando usciamo? Voglio un po’ d’aria, mi manca l’aria. Adesso hanno messo la rete anche sopra la testa, io soffoco così. Voglio solo un po’ d’aria, posso avere dell’aria?” Nel medico i migranti rintracciano l’unico interlocutore in grado di offrire risposte certe sul proprio stato di salute - che è una variabile dell’essere. “Vengono qui per trovare dei riferimenti correlati al proprio stato di benessere,” afferma Antonino D’Angelo, responsabile sanitario della struttura. È un medico di esperienza consolidata con i migranti, frutto di 15 anni di collaborazione con il Consorzio Connecting People. “È fondamentale lavorare in équipe,” dichiara, “con il corpo infermieristico,

gli psicologi, i mediatori e l’assistente sociale, che costituiscono il gruppo di lavoro che opera in un CIE. Considero il placebo come disquisizione di patologie,” spiega. “Se a seguito della somministrazione, il paziente riferisce un miglioramento delle proprie condizioni, è chiaro che entrerà in gioco il lavoro dello psicologo. Qui vengono a cercare ogni tipo di risposta e, al fine di poter essere loro di aiuto, è fondamentale che comprendano la distinzione tra l’istituzione CIE (definita dallo Stato) e il nostro servizio finalizzato alla tutela e alla cura della persona.” D’Angelo considera fondamentale il mantenimento di questa distinzione nel paziente ai fini medici e psicologici. Questo, infatti, diviene l’unico terreno nel quale è possibile definirsi e definire qualcosa. In uno studio medico, il paziente può trovare la storia della sua salute - una parte di se stesso - e non tutto il complesso della sua esistenza. Una volta compreso questo, il paziente lascerà oltre la porta tutto il resto, relazionandosi con una maggiore disponibilità e aumentando la possibilità di trarne beneficio. “Sotto l’aspetto normativo,” aggiunge un ope-

seguente rischio per la salute di se stesso e degli altri.” Il medico ricorda un episodio felice della sua lunga esperienza, avvenuto nel CIE di Restinco in provincia di Brindisi, sempre sotto la direzione di Connecting People. La situazione del centro, vincolata dalla Prefettura a misure di sicurezza meno restrittive dato un numero inferiore di episodi di rivolta e tentativi di fuga, consentiva l’utilizzo giornaliero di un campetto da calcio esterno alla struttura. Venne organizzato un torneo con l’obiettivo di ridurre l’uso degli psicofarmaci da parte dei migranti trattenuti. Le squadre furono formate secondo il criterio dell’assunzione o meno di terapie farmacologiche. Questo comportò che nelle prime partite, giocate alle quattro del pomeriggio, coloro che assumevano psicofarmaci capitolarono con risultati indecorosi: 15 a 0, 10 a 0. Man, mano la voglia di vincere portò i ragazzi a non presentarsi più alla somministrazione delle tre. “Questa partita iniziarono a giocarla davvero, riuscendo perfino a vincerla. Festeggiammo anche la riuscita della scommessa: l’assunzione di psicofarmaci era stata ridotta del 70%. Fu una bella partita!”

Antonino D’Angelo, medico di grande esperienza nel campo dell’accoglienza ai migranti

ratore, “si tratta di pura follia. Il CIE è un luogo di reclusione in cui, paradossalmente, l’internato viene definito ‘ospite’. Ma un ospite che non può andarsene non è un ospite!” Per garantire un equilibrio psico-fisico, D’Angelo considera fondamentale che la maggior parte del tempo che i migranti trascorrono in un CIE non sia caratterizzato da tempi morti. “L’uomo è un contenitore di stress e il vuoto può esserne paradossalmente una causa: il nostro compito è di evitare che il paziente superi una certa soglia di sopportazione, oltre la quale è inevitabile un’esplosione improvvisa dell’energia accumulata, con un con-

è fondamentale che comprendano la distinzione tra l’istituzione CIE e il nostro servizio Agrin Amedì

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i cie visti da dentro

i cie visti da dentro

Felicità e tristezza del clown

La terra dà frutto, la pietra no

testimonianza di un trattenuto

M

i ero chiuso in un appartamento alla periferia di San Salvador per godermi l’ultimo riposo prima del viaggio. Avevo atteso oltre due mesi quella partenza. Guardai l’orologio e aprii un flacone di quel liquido amaro che serve per anestetizzare la gola e impedire di vomitare. Poi, ho ingoiato mezzo chilo di cocaina. Capsule di polvere bianca, ciascuna grande come una noce. Ne mandai giù una dopo l’altra, fino ad arrivare a 70. Presi un taxi per raggiungere l’aeroporto dove avrei preso il volo 960 dell’American Airlines verso Miami. Lì avrei incontrato gli altri corrieri e compagni di viaggio. Il taxi aveva quasi raggiunto l’aeroporto quando Raminez mi telefonò con voce terrorizzata: “Scappa Diego, scappa! Miguel ha perso il carico e ora ci fanno fuori tutti.” Mi affrettai a comprare un biglietto per Roma, dove mia zia viveva ormai da anni, imbarcandomi in tutta fretta sul primo volo disponibile. Fu proprio un gran colpo di fortuna, nei pressi di Brescia, trovare subito lavoro come magazziniere. Il signore per il quale io e altri dieci stranieri lavoravamo era molto anziano. Ogni mese tratteneva dal nostro stipendio una somma di denaro, destinata a metterci in regola con i documenti. Ma per un caso del destino, prima del documento, sopraggiunse la sua morte. Mentre osservavo quell’occasione svanire, compresa la somma accantonata nel corso dei due anni che mi si spiegò essere indispensabile per l’ottenimento di un Permesso di Soggiorno, caddi in un profondo sconforto. Chiusi per alcuni giorni le finestre di casa con me dentro, negandomi la luce. Ero così triste, e la dolce Isabelle continuava a starmi accanto, nonostante lo stato in cui versavo. La conobbi dopo qualche mese dal mio arrivo in Italia e mi innamorai subito dei suoi modi di fare, tipici di Cuba. Man, mano i cambiamenti positivi a cui andai incontro conferivano alla mia vita una fisionomia totalmente nuova e diversa, che solo fino a qualche anno prima non avrei potuto immaginare. Cominciai a convincermi anch’io che, in fondo, una vita diversa e più felice fosse possibile. Andai avanti per un po’ di tempo con dei lavoretti in nero finché non fui fermato dalla polizia che, verificando la mia situazione, mi concesse 10 giorni per lasciare il territorio. Rafael sarebbe nato dopo due mesi, decisi di non rispettare l’or-

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incontro con un trattenuto in attesa del riconoscimento di apolidia

“S

dine. Rimasi con Isabelle e il suo pancione, finché non venni ripescato di nuovo. Quando accadde, mi ritrovai subito in un CIE. Ogni tanto penso che con gli errori commessi a San Salvador, questa condizione un po’ me la meriti. Forse mi trovo a scontarli adesso e, stupidamente, questa volta non sono l’unico. Ora ho una famiglia che si dispera insieme a me. Purtroppo da quando sono qui soffro di una forte insonnia che non mi fa dormire anche per giorni. Uno dei miei compagni di stanza è completamente pazzo: brucia sempre qualcosa, urla tutto il giorno e se non si taglia lui, prova a tagliare gli altri. È un continuo sfogo di paranoia e deliri... L’unica cosa che posso fare è ascoltare mp3, ma alle volte evito anche quello. Mi sento in pericolo quando le mie orecchie non sono sufficientemente vigili. È da un anno che sono in questo posto e non so quanto tempo ancora dovrò passarci. Non so cosa sarà il domani. Fisso il mio tatuaggio per non pensare. Il clown da noi indica la faccia triste e felice che risiede, forse, in ognuno di noi.

È da un anno che sono in questo posto e non so quanto tempo ancora dovrò passarci. Non so cosa sarà il domani.

Agrin Amedì

ono figlio di una famiglia di mamma araba e papà spagnolo, ho perso mia madre in Algeria dopo il terremoto. Sono un apolide, ho vissuto la mia vita da solo, sono cresciuto insieme agli zingari, ad Almeria. Adesso, però, non sono solo. Ho trovato l’amore e mi sono fermato qui. Ho trovato l’amore di una donna italiana e così ho ritrovato una mamma, una sorella, tutto.” Felpa e pantaloni neri, cappellino in testa e volto da gitano. Enrico si presenta con un sorriso educato e ci riassume così, in poche parole, i suoi primi 46 anni di vita, il percorso difficile e contorto che l’ha portato in Italia e dentro il CIE di Gradisca da ormai oltre dieci mesi. Circa 15 anni di carcere per i motivi più vari in diversi paesi europei, eppure davanti ai nostri occhi ci si presenta una persona apparentemente mite e piuttosto lucida. Una traccia di rassegnazione emerge dalle sue parole, ma gli occhi tradiscono una speranza che non è ancora sconfitta. Enrico giunge in Italia 15 anni fa. Si stabilisce a Rimini, dove per sopravvivere fa mille lavori, tutti imparati in carcere: “So montare i pannelli solari, ho fatto l’elettricista, il carpentiere e l’aiutante in cucina. Sempre in nero. Ho imparato tutto in carcere. Ho anche vinto una borsa di studio, una volta.” Enrico un giorno sbaglia treno: in uno dei suoi tragitti quotidiani, va in direzione Milano invece di Venezia. Viene fermato e non ha documenti. Dieci mesi di carcere e poi trasferimento al CIE. C’è un dettaglio, però: Enrico, i documenti, non può averli, perché non li ha mai avuti. “Sono un apolide, non ho mai avuto documenti. Ho fatto domanda, ma il percorso è lungo. Sono già passati 10 mesi. Nel frattempo la mia compagna si è ammalata e non riesce più a lavorare. Devo aspettare il mio momento. Io ho una casa, un avvocato, sono sempre rintracciabile. Uscirò di qui, prima o poi, non ha senso rimanerci. Voglio fare l’agricoltore

e stare tranquillo, invece non si può fare nulla.” Enrico sorride quando gli chiediamo un giudizio sui giorni passati al CIE, un sorriso amaro e con-

Lui ci risponde con una massima: “Qui dentro ci sono persone di pietra e persone di terra. E, come in tutto il mondo, la terra dà frutto, la pietra no.”

sapevole: “Peggio del carcere, non ci sono attività. Neanche un libro si può leggere. Io cerco solo di uscire sano da qui”. Finiti i 18 mesi di attesa al CIE, se non sarà stato possibile riconoscere la sua cittadinanza, Enrico otterrà un foglio di via e verrà invitato a lasciare l’Italia: “Voglio svegliarmi al mattino, vedere sempre lo stesso panorama e rimanere a casa per aiutare la mia compagna. Non desidero più nient’altro. Questo è il mio unico obiettivo. Se fossi costretto a partire dall’Italia, venderei tutto e andrei in Messico, più lontano possibile. Aprirei una pizzeria e mi metterei a cucinare.” Salutandoci, Enrico butta un occhio alla finestra. Qui, la primavera stenta ad arrivare. Noi gli chiediamo se almeno è riuscito a farsi qualche amico.

Ma gli occhi tradiscono una speranza che non è ancora sconfitta.

Salvo Tomarchio

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i cie visti da dentro

i cie visti da dentro

Oltre la TV, gli mp3 e le carte da gioco A tu per tu con Gianni Scardina, direttore del CIE di Gradisca d’Isonzo

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ncontriamo Gianni Scardina, il direttore del CIE di Gradisca d’Isonzo mentre parla con un paio di ospiti nel corridoio della direzione. Ci saluta con un sorriso gentile e ci fa segno di aspettare. Barba incolta, modi affabili ma sguardo fermo che ti scruta da dietro gli occhiali. Ci invita a seguirlo in una stanza vicina “per avere un po’ di calma in più”. Si siede insieme a noi con l’aria di chi vuole raccontare anche per liberarsi un po’. Qual è la giornata tipo dell’ospite di un CIE? Molto semplice. Dalle 8 alle 9 viene somministrata la colazione in stanza. Dalle 9 alle 13 a turni di un’ora si esce e si sta dentro il cortile dove si può giocare a calcetto. Alcuni vanno a prendere la propria terapia, altri a parlare con l’assistente sociale e lo psicologo, a farsi visitare o a telefonare. Dalle 14 alle 20 ricomincia il turno per l’ora d’aria. Dalle 20 inizia la distribuzione della cena. Dalle 21 alle 23, stanza per stanza, escono per la somministrazione della terapia. Dalle 23 alle 9 non si può uscire dalle stanze. Così per 365 giorni all’anno. Cosa hanno a disposizione gli ospiti dentro le stanze? Hanno la televisione, un lettore mp3 e le carte da gioco. Con qualche difficoltà accedono anche a qualche libro. Per regolamento c’è una piccola biblioteca, ma tutto il materiale infiammabile è al momento vietato, compresi i libri, per disposizione della Prefettura. Il regolamento è stato concepito per un tempo massimo di trattenimento di 2 mesi, come era all’inizio. In seguito, i mesi sono diventati 3, poi 6, poi 12 e infine gli attuali 18. Non è previsto nessun altro spazio ricreativo se non una moschea a

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cui si accede il venerdì, in gruppi di 15 persone. Ritieni possibile delineare il profilo di un ospite-tipo all’interno di un CIE? No, non è possibile. Qui dentro si crea un mix letale tra persone che hanno lavorato vent’anni nei campi in Sicilia, hanno perso il lavoro, non hanno più il permesso di soggiorno e non possono nemmeno riscuotere i contributi regolarmente versati e persone che, invece, si trovano in Italia da anni e hanno solo spacciato droga. Nel CIE arrivano migranti trovati sprovvisti di documenti di soggiorno, indipendentemente da quale tipo di vita abbiano condotto nel nostro paese fino a quel momento. Ma per chi ha lavorato in Italia per vent’anni, l’identificazione non dovrebbe essere facile e veloce? Bisogna comunque inoltrare una richiesta al consolato per provvedere al rimpatrio. Arriva da lì il nulla osta per l’accompagnamento alla frontiera. Ci sono consolati che rispondono in fretta, altri che, invece, non danno quasi mai riscontro o con tempi lunghissimi. Se alla fine dei 18 mesi non vi è stata alcuna risposta, il migrante viene accompagnato fuori dal CIE e, per ordine del questore, ha sette giorni per lasciare il territorio nazionale. E come fa a lasciare l’Italia? Non è chiaro. Ci troviamo davanti a tanti paradossi. Anche chi ha lavorato per anni in Italia e, per esempio, è in possesso di un libretto postale, spesso ha enormi difficoltà a recuperare i propri risparmi prima di tornare nel proprio paese d’origine. La burocrazia uccide noi italiani a volte, figuriamoci cosa può succedere a uno straniero in queste condizioni. Noi cerchiamo di aiutarli an-

che dopo l’uscita dal CIE, chiaramente con tutti gli oneri del caso. A volte capita che alcune ONG se ne occupino, per altri invece non c’è nulla da fare.

ce solo problemi e sprechi. A volte sembra quasi che l’intero sistema non sia progettato per essere efficiente. Se i tempi di permanenza fossero più corti, per ogni CIE passerebbero più persone. Questo porterebbe a un processo di identificazione più efficiente e veloce. Il rischio di rimanere per 18 mesi in un CIE non ha funzionato come deterrente per l’immigrazione irregolare. Se un consolato non risponde nei primi 6 mesi, difficilmente risponderà nei successivi 12. L’identificazione, ad esempio, potrebbe avvenire già in carcere, smaltendo il lavoro dei CIE, in cui spesso i casi più difficili sono quelli degli ex detenuti. Come si esce da questa situazione? Il sistema deve essere profondamente rivisto. Si riesce a provvedere al rimpatrio solo del 50% degli ospiti trattenuti nei CIE, che rappresentano poco più dell’1% dei clandestini in Italia, con costi economici e umani altissimi. Quanto è difficile restare lucidi e impassibili? Noi lavoriamo per i migranti, li aiutiamo nelle pratiche legali, agevoliamo i contatti con l’ester-

no. Curiamo i loro problemi di salute, che, fortunatamente, gravi non sono quasi mai. Ma anche farsi curare per un mal di denti significa andarsene dalla propria stanza e avere qualcuno che ti tratta come una persona, prendendosi in carico il tuo disagio. Alcuni non vedono l’ora di uscire per una visita medica specialistica, solo per sapere o ricordare come è fatto il mondo fuori. La stessa richiesta di psicofarmaci spesso è solo la conseguenza della forte assunzione di stupefacenti a cui molti degli ospiti erano assuefatti prima di accedere al CIE. L’équipe psicosociale lavora proprio per ridurre al minimo queste situazioni. Il paragone con il carcere mi viene spontaneo. Negli istituti penitenziari, esiste un sistema di regole condivise e stabili e sono previste delle attività volte a riabilitare la persona. Nei CIE, invece, non esistono spazi formativi: il tempo sembra sospeso e l’incertezza e l’instabilità regnano su ogni aspetto della vita quotidiana. In carcere le regole sono chiare: ad ogni azione corrisponde una reazione, ad ogni scelta, una conseguenza. Qui, al contrario, se un migrante

danneggia qualcosa, viene denunciato. E poi? Niente, continua a restare nel CIE. E i migranti che si comportano bene, ottengono qualche agevolazione? No, nessuna. Non c’è alcuna differenza di trattamento tra chi non crea mai problemi e chi invece si comporta come se non avesse nulla da perdere. Che bilancio riesci a fare del tuo lavoro qua dentro? Quando ho accettato di diventare direttore di questo CIE, provenivo da un’esperienza di assistente sociale. Pensavo di riuscire a cambiare qualcosa, anche all’interno di un quadro così restrittivo. Dopo due anni e mezzo di direzione, mi rendo conto di non avere ancora raggiunto la distanza giusta per osservare le cose. Ci sono costantemente decisioni da prendere - e scomode - perché hanno grandi conseguenze sulle vite già infragilite delle persone costrette a vivere qui. Fin quando le norme resteranno queste, ho seri dubbi che l’esistenza dei trattenuti in un CIE possa avere qualche miglioramento.

Come si è configurato il rapporto con il territorio di Gradisca? Per quanto traspare all’esterno, ci si ferma al “NO CIE” senza aggiungere a questo pensiero una fase costruttiva e progettuale. Di base c’è un’ignoranza di fondo anche sulla differenza tra il CIE e il CARA. La gente non distingue i motivi per cui i migranti sono alloggiati in questi centri. Gli stranieri, però, fanno parte del contesto italiano, partecipano da tempo alla nostra economia. I migranti possono essere una risorsa, ma sono usati solo come perfetti capri espiatori. Fuori dal CIE qual è la presenza dei migranti sul territorio? Si esce da qui solo per essere rimpatriati, trasferiti o con in mano un decreto di espulsione, che prevede l’accompagnamento fuori dal cancello. Usciti dal CIE, dunque, si vaporizzano. A volte li rimprovero che fuori da qui non dedicano nemmeno un minuto a far conoscere all’esterno quello che succede tra queste mura. Ma credo che sia una reazione normale e comprensibile. Ci sono casi di ospiti che attualmente vivono sul territorio di Gradisca, si sono sposati e hanno messo su famiglia. Ma non si riesce assolutamente a costruire nessun legame, con il territorio o chi rimane dentro. Mi sembra di notare un’assenza di prospettiva. Un’ottusità di fondo nel modo in cui viene trattata l’intera questione dei CIE, che produ-

Il “centralino telefonico” è l’unico strumento per avere un contatto con l’esterno

Salvo Tomarchio

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?

Perché (non) gestire servizi alla persona all’interno dei CIE?

OPINIONI CONFRONTO

Serena Naldini

OPINIONI CONFRONTO Nome Cognome Organizzazione

Nome

Antonio

Cognome

Calvano

Gian Giacomo Parigini ARCI Torino

Organizzazione

Croce Rossa Italiana - Piemonte

Torino

C

he cosa replica a coloro che forniscono servizi alla persona all’interno dei CIE, ritenendo che qualsiasi persona - soprattutto se costretta in un luogo che non ha scelto - abbia diritto al sostegno di operatori sociali? I CIE sono luoghi di reclusione per persone che non hanno commesso reati. Si può rimanere rinchiusi per 18 mesi, un periodo lunghissimo per una persona che ha commesso solo un illecito amministrativo, che ha l’unica colpa di non avere documenti in regola. In Italia 18 mesi di detenzione sono normalmente frutto di un reato grave. I reati leggeri si traducono - giustamente a nostro parere - in pene alternative al carcere. Mentre nelle prigioni ci sono procedure consolidate per la tutela dei diritti delle persone, pur con molti limiti e contraddizioni e i detenuti possono accedere, almeno in teoria, a una serie di percorsi che ne attenuano la durezza, i CIE sono al di fuori dal controllo della società e del territorio. Sono luoghi in cui viene messa in atto una vera e propria persecuzione e un trattamento disumano e degradante. Sul piano giuridico nei CIE le persone dovrebbero essere trattenute per il tempo necessario a organizzare il loro rimpatrio. I dati dimostrano che il rimpatrio, se non si attua nei primi 20 giorni, diventa pressoché impossibile. Peraltro negli ultimi anni i rimpatri forzati sono diminuiti, nonostante il prolungamento del periodo di trattenimento, e forse anche in ragione di questo. Infatti, i posti a disposizione sono 1200 circa in tutta Italia: se sono occupati dalle stesse persone per un periodo superiore, l’aritmetica spiega che vi sono meno possibilità di prima di rimandarne a casa un numero maggiore. Il costo sociale è altissimo perché spesso si tratta di quella che i francesi chiamano“doppia pena”. La maggioranza di coloro che vengono trattenuti nei CIE sono persone che hanno scontato una pena in carcere. Se lo stato non è riuscito a definire la loro nazionalità nel periodo del carcere o a concordare il rimpatrio con il paese d’origine, non si capisce perché debba riuscire a farlo nei 18 mesi della detenzione nei CIE. Questo periodo viene quindi a configurarsi come una proroga

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C

he cosa replica a coloro che sostengono che operare all’interno dei CIE significa legittimare l’esistenza di luoghi nei quali non vengono rispettati i più elementari diritti umani o, come sostiene Giuliano Amato in una recente intervista a La Repubblica, di una “prigione per reietti, nella quale non valgono le garanzie”? Credo che la domanda possa essere assolta a partire dalla natura e dagli scopi di ogni associazione. E in questo senso parlo per la CRI, di cui faccio parte. Esiste una questione sempre aperta, che costituisce un punto di forza per la CRI e per i vulnerabili da essa assistiti, ma che ha lo svantaggio di appannare spesso la sua immagine presso il largo pubblico. È la questione, ammetto, delicata della neutralità. Secondo questo principio la CRI deve astenersi dal prendere posizione in conflitti, o anche solo contrasti, di tipo ideologico, politico o di altra natura, sempre avendo quale unico riferimento la salvaguardia dell’uomo e la tutela della sua dignità. Occorre denunciare, sollecitare interventi, chiedere cambiamenti di norme, ma nel frattempo, occorre essere accanto a chi si trova, in quell’istante, in difficoltà. Alla CRI, spetta questo secondo compito. Essa lascia il primo, altrettanto importante, ad altre organizzazioni. Questa lunga premessa per venire al tema dei CIE. Operarvi significa legittimarli? No, con tutta evidenza. La CRI si deve astenere per statuto sulla questione, ideologica e politica, se i centri di questo tipo debbano o meno avere legittimazione sul piano normativo. Gli operatori della CRI hanno ovviamente una loro opinione sul punto, ma essi sono tenuti ad atteggiarsi nel rispetto del principio di neutralità. Ecco il punto delicato, che spesso richiede sforzi importanti a ciascuno di noi. È sempre difficile far tacere la propria opinione. Ma appartenere alla CRI significa anche questo. La CRI non è nuova a contestazioni di questo tipo. Nel corso degli anni Sessanta si propose una questione analoga, che mise il Sodalizio in qualche difficoltà, al punto che esso dovette trarre la forza per darsi quelli che oggi si chiamano i “sette princìpi”, dei quali ho citato la neutralità. Si disse allora che, poiché la CRI organizzava persone e strutture per intervenire nei conflitti armati a so-

della pena, in un luogo in cui si hanno meno diritti. La presenza di questi luoghi di detenzione speciale produce una rappresentazione negativa dell’immigrazione: la necessità e la presenza di carceri speciali rafforza infatti l’idea, purtroppo molto diffusa, che gli stranieri devono essere più controllati degli italiani, che sono strutturalmente pericolosi. Per queste ragioni, noi pensiamo che i CIE vadano chiusi e che questa possa essere una scelta in coerenza con il principio di uguaglianza contenuto nell’art.3 della nostra Costituzione. Ancora più rilevante in questo senso è il principio contenuto nell’art.13 della Costituzione, la cosiddetta riserva giurisdizionale, laddove si dice che “la libertà personale è inviolabile”. La si può limitare solo attraverso “l’intervento dell’autorità giudiziaria nei casi previsti dalla legge”. In questo caso non c’è alcuna condanna di alcun tribunale, ma solo una convalida del giudice di pace, autorità che non interviene in nessun altro caso sulla libertà delle persone. La Corte Costituzionale ha convalidato la coerenza di queste strutture con la nostra Costituzione, ribadendo tuttavia che il ricorso ad esse deve essere limitato a casi eccezionali e limitati nel tempo. Queste caratteristiche sono oramai chiaramente superate e - ancor più dopo l’approvazione della cosiddetta Bossi Fini - i CIE sono luoghi fuori legge, e comunque al di sotto di qualsiasi standard accettabile per una democrazia. Quali sono le azioni che l’ARCI sta portando avanti dirette alla chiusura dei CIE? L’ARCI denuncia l’assoluta insostenibilità di questi luoghi fin dalla loro nascita, nel 1998, con l’approvazione della legge Turco-Napolitano, sia sul piano giuridico, del diritto, che su quello culturale e sociale. Abbiamo promosso campagne nazionali e internazionali per la chiusura dei centri di detenzione. Siamo intervenuti molte volte anche promuovendo azioni giudiziarie sulla gestione dei centri e sulla loro strutturale mancanza di garanzie. Il nostro numero verde SOS Diritti riceve tante telefonate di denuncia dei soprusi che subiscono i detenuti, che si traducono in interventi dei nostri operatori e/o avvocati. Abbiamo realizzato pubblicazioni e analisi molto dettagliate su quanto succede in questi luoghi di negazione del diritto (ricordiamo un numero monotematico della rivista Carta dal titolo “CPT: Chiuderli Presto Tutti!”). Attualmente stiamo preparando un’azione giudiziaria per provare a dimostrare ancora una volta l’incostituzionalità dei CIE partendo da un’analisi diversa da quella usata finora sul piano giuridico. Infine, anche quest’anno, partecipiamo alla campagna europea Open Access per chiedere l’accesso alle organizzazioni indipendenti. Per evitare l’uso dei CIE, vi sono a suo avviso delle strutture o servizi alternativi che andrebbero creati o rinforzati? I CIE dovrebbero essere chiusi e la loro esistenza non può essere giustificata con l’assenza di un’alternativa. Sarebbe come dire che, in assenza di una soluzione per eliminare gli omicidi, non si può cancellare la pena di morte. La cosiddetta direttiva rimpatri - che abbiamo contrastato perché per la prima volta introduceva in una legge europea la possibilità di detenzione ai fini dell’espulsione fino a 18 mesi – prevede, sì, il ricorso alla detenzione amministrativa, ma solo come soluzione limite. In tutti gli altri casi suggerisce soluzioni alternative, commisurate alle diverse condizioni delle persone oggetto dei provvedimenti. Prevede innanzitutto il rimpatrio volontario, ossia una forma di collaborazione da parte dello straniero irregolare che deve ovviamente prevedere una contropartita in termini di possibilità di rientro nel paese di arrivo o di contributi per il rientro nel paese d’origine. Si può poi passare a forme di controllo meno pesanti e progressive, come, ad esempio, l’obbligo di rimanere in una determinata area. Prima dell’entrata in vigore della Bossi-Fini, la previsione di allontanamento senza divieto di reingresso, molto usata dai questori, ha consentito il rimpatrio di migliaia di persone: più del 60% delle persone che hanno ricevuto l’ordine di allontanamento del questore, hanno risposto positivamente, tornando nel paese d’origine. A ciò dovrebbe anche corrispondere una riforma della legislazione sull’immigrazione che introduca il permesso di soggiorno per ricerca di lavoro e la possibilità di convertire i permessi di soggiorno brevi in permessi per lavoro, qualora ce ne siano le condizioni. Ciò abbatterebbe drasticamente il numero di persone senza permesso e quindi renderebbe ancor più inutili - di quanto non siano già in questa condizione - i CIE.

stegno dei feriti e delle popolazioni coinvolte, essa, così comportandosi, legittimasse la guerra. È sempre lo stesso tema: farsi coinvolgere equivale a legittimare? Ma chi non vede, oggi, gli evidenti limiti di una simile conclusione? Come qualsiasi organizzazione umanitaria, la CRI ha in massimo spregio qualsiasi condizione suscettibile di sottoporre l’uomo alla sofferenza. La guerra, prima di ogni altra cosa. E poi la malattia, la povertà, la discriminazione, l’assoggettamento e ogni altra condizione che veda l’uomo piegato. Quanto alle leggi, la CRI si astiene dal giudicarle, nella misura in cui questa astensione le consente di operare a favore di chi soffre. L’idea che astenendosi dalla gestione dei CIE si superino i CIE ha qualcosa di simile a quella, di molti anni fa, secondo la quale la CRI, inviando contingenti umanitari in caso di guerra, ostacolava il superamento della guerra. In entrambe le situazioni - questo è il solo elemento accomunante - vi sono persone vulnerabili ed è compito della CRI prendersi cura di loro. La gestione dei CIE è una via per raggiungere tale scopo, senza che ciò legittimi alcunché. Quanto all’osservazione di Amato, come non condividerla? Che il CIE sia un luogo di restrizione della libertà di movimento è appena evidente. Che coloro che vi si trovano siano assai spesso dei reietti, in senso etimologico, è altrettanto amaramente vero. Quanto alle garanzie, occorre capire a quali si fa riferimento. Non vale per Amato, che è persona rispettabile, ma occorre dire in generale che la crudezza dei termini non vale molto se non è associata a un’effettiva azione volta al cambiamento. La politica e le istituzioni hanno deciso i CIE e potranno deciderne la chiusura. Finché ci saranno, la CRI e le altre organizzazioni che vi operano non sono lì a nobilitare i CIE, bensì a lavorare affinché i servizi alla persona siano gestiti secondo principi di dignità e umanità. Certo che è molto difficile farlo in un contesto in cui, oltre alle contestazioni ideologiche, vi è anche l’ostilità delle persone accolte, che vivono la legge come profondamente ingiusta o assurda. Ma che sia molto difficile non è un buon motivo per sfilarsi. Come descriverebbe le attività della Croce Rossa all’interno dei CIE? La CRI si occupa dei servizi alla persona con la professionalità che le deriva dalla lunga esperienza conseguita in contesti difficili, in applicazione dei principi che le sono propri, in una situazione resa complessa dalle obiettive condizioni di difficoltà in cui si trovano le persone accolte. Gli operatori e le operatrici sono preparati, ma non infallibili. Essi possono compiere errori, come tutti, piccoli e grandi, ogni giorno. Ma l’appartenenza a un Sodalizio con valori identitari così forti e radicati, pur non potendo costituire una garanzia assoluta di corretto operato, è una forte tutela contro comportamenti e atteggiamenti censurabili. Deve essere chiaro che quanto vale per la CRI, vale per altri operatori altrettanto capaci e attenti al dato umanitario. Nessuno in questo campo deve ritenere di avere la palma del migliore. Ritiene che l’ente gestore possa avere un ruolo per migliorare le condizioni di vita delle persone nei centri? Se sì, a suo avviso, in che direzione andrebbe diretta l’azione di riforma e con quali strumenti? L’ente gestore è al centro di questa possibilità. Ma deve tenere presenti due punti essenziali. Da un lato, non deve mai smettere di pensare a iniziative finalizzate a rendere meno difficile la vita delle persone nei CIE. Dall’altro, deve evitare la tentazione di convincerle che la loro rabbia sia immotivata. Da molto tempo ormai non mi occupo più del CIE, ma ricordo bene come in tante occasioni all’entusiasmo di aver creato qualcosa di importante, in termini di attività e partecipazione, subentra la frustazione di verificare che una fase di protesta, o di rivolta, ha spento tutto e occorre ricominciare per tentare di ricreare quel minimo di rapporti essenziale per una gestione accettabile delle strutture. Bene, la chiave non sta solo nelle attività. Non si può pretendere che le persone siano felici della loro condizione. Molte si trovano in un CIE con la consapevolezza di aver ricevuto un rifiuto da parte di uno Stato dal quale speravano di ricevere accoglienza. Provano il dolore, acuto, che può dare la sensazione del fallimento di un progetto di vita. L’atteggiamento del personale può e deve far passare il seguente concetto in tanti modi, senza necessariamente esplicitarlo letteralmente: “io non so se è giusto o no che Tu sia qui dentro, ma sono qua a fare la mia parte perché Tu non sia e non Ti senta solo e perché i Tuoi diritti fondamentali, pur in una condizione di restrizione prevista dalle leggi, siano conservati e rispettati.

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2011

Proposta

manifesto per un pacchetto integrazione

DI RIFORMA DELLE MISURE DICONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ

Premessa

Il futuro passa da qui

N

ell’immaginario collettivo i Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) sembrano essere gli unici luoghi in cui si pratica la lotta alla clandestinità. Questo vale sia per coloro che li vorrebbero abbattere, sia per coloro che invece continuano a chiedere con decisione politiche di ordine e rigore contro i migranti irregolari. Questa visione, però, non corrisponde alla realtà. In effetti, dei circa 544 mila stranieri irregolari presenti in Italia nel 2010 (Rapporto Caritas 2011) - di cui circa 47 mila sono stati fermati dalle forze dell’ordine (European Migration Network) - solo 7039 (pari all’1,2% del totale degli irregolari) sono transitati dai CIE (Rapporto Caritas 2011). La lotta alla clandestinità, inoltre, non si fa solo utilizzando lo strumento del rimpatrio: fanno parte di questo impegno anche le politiche volte a rendere meno precaria la situazione degli stranieri in Italia affinché un numero sempre inferiore di essi entri o semplicemente lambisca la sfera dell’irregolarità.

2012

Proposta DI RIFORMA DELLE MISURE DICONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ

CIE dintorni la speranza è frutto di

fatica e coraggio Mauro Maurino Antonio Ragonesi

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In ogni caso, la situazione attuale dei CIE in Italia non è più sostenibile. Nel 2012 la Commissione Diritti Umani del Senato ha pubblicato un rapporto in cui definisce le condizioni di internamento nei CIE “peggiori di quelle delle carceri”. Pur essendo stato introdotto nel 2008 uno schema di capitolato di appalto comune per la gestione dei centri, in realtà la Commissione ha rilevato ancora molta disomogeneità nella qualità dei servizi erogati, determinata nel dettaglio “dal tipo di convenzione stipulata tra le singole Prefetture e gli enti gestori del servizio, sulla base delle risorse disponibili e della capienza del centro.” Una delle criticità più evidenti è la convivenza nei CIE di persone con storie molto diverse alle spalle: vittime di tratta, ex detenuti, individui in fuga dalla povertà, lavoratori in nero, migranti che hanno perso un lavoro regolare, persone con una famiglia e una vita in Italia, persone appena arrivate. Come denunciato, tra gli altri, da Medici senza Frontiere, sono

luoghi dove “si intrecciano in condizioni di detenzione storie di fragilità estremamente eterogenee tra loro da un punto di vista sanitario, giuridico, sociale e umano, a cui corrispondono esigenze molto diversificate”. A fianco di queste considerazioni, occorre ricordare che per essere strutture, come specificato sul sito del Ministero dell’Interno, finalizzate ad “evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle Forze dell’Ordine, dei provvedimenti di espulsioni emessi nei confronti degli irregolari”, la loro efficacia è tutta da dimostrare: dei 7039 migranti transitati dai CIE nel 2010 solo circa il 50% è stato effettivamente espulso, una cifra pari allo 0,6% degli irregolari (Rapporto Caritas 2011). Nel 2011, il numero dei migranti rimpatriati attraverso i CIE rappresenta l’1,2% del totale degli immigrati in condizioni di irregolarità presenti sul territorio italiano (326 mila, dato ISMU al 01/01/2012). Nel 2012, si confermano dati analoghi, con rimpatri effettuati per poco più dell’1% degli irregolari. A fronte di questa scarsissima efficacia materiale, i costi anche economici - oltre che umani - sono molto elevati. Secondo il rapporto della Commissione Diritti Umani del Senato, l’Italia negli ultimi cinque anni ha speso oltre cento milioni di euro per rimpatriare poche migliaia di cittadini stranieri. Per ogni cittadino straniero rimpatriato, vengono pagati 5 biglietti aerei: quello dello straniero e quelli di andata e ritorno per i due agenti che lo scortano, che devono anche ricevere una formazione specifica e continui aggiornamenti. A questa spesa, si vanno a sommare i costi di costruzione e gestione dei servizi nei CIE. Da uno studio sul CIE di Torino effettuato nel 2011 da alcuni ricercatori dell’International University College of Turin, emerge che l’ampliamento del 2009 ha avuto un costo di 14 milioni (78 mila euro a posto letto). Elevati anche i costi di gestione dei servizi all’interno dei centri: lo stesso studio rileva che per ogni migrante trattenuto nel 2011 è stata spesa una somma di

40/45 euro al giorno, oltre 1.200 al mese, escluse i costi per la sorveglianza delle forze dell’ordine. In un anno, in Italia, si sono spesi 18 milioni e 607mila euro (dati aggiornati a febbraio 2012). E certamente la chiave per risparmiare non è quella delle gare al massimo ribasso, deleterie per la qualità dei servizi all’interno dei CIE, già non sempre di standard elevato. Tutto ciò premesso, riteniamo urgente un cambiamento radicale basato principalmente su tre assi d’intervento: LEGITTIMARE LA DISCUSSIONE La prima riguarda la dimensione culturale. Deve essere innanzitutto legittimata la discussione intorno a questi luoghi e alle ragioni che li hanno determinati e trasformati nel tempo. DIMINUIRE GLI INGRESSI NEI CIE La seconda concerne un sistema di riforme delle politiche migratorie destinate ad aumentare per i migranti le occasioni di condurre una vita regolare, nella legalità, in Italia e limitare nettamente gli ingressi nei CIE, molto spesso legati a tortuose procedure amministrative. MODIFICARE LA GESTIONE La terza è direttamente relativa ai CIE e prende in esame una serie di modifiche alla gestione di queste vere e proprie carceri amministrative.

I

Legittimare la discussione

Oggi in Italia la discussione sui CIE si limita al tutto o nulla. Le notizie hanno il sapore dello scandalo oppure del silenzio omertoso. Viviamo in un dibattito surreale tra denuncia e reticenza e, nel mezzo, il vuoto. I CIE sono strutture da abbattere o, al contrario, da moltiplicare e diffondere? Devono mantenere i cancelli aperti o addirittura prevedere recinzioni elettrificaSQM|25


Proposta

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te? Le posizioni polarizzate e diametralmente opposte sul tema non permettono una riflessione ponderata indispensabile per rendere fertile la discussione. Ma è più che mai necessario aprire uno spazio per il confronto, uno spazio per la costruzione. I paesi di provenienza vengono interpellati per chiedere la loro collaborazione nell’identificazione del malcapitato? Forse oggi, dopo la primavera araba, è arrivato il momento di interrogare i diversi governi sulle proprie responsabilità e l’Italia deve favorire questo processo, tenendo sempre conto del supremo interesse che esprime la persona umana. I CIE non sono fabbriche di “espulsi” dalla società, reietti che non hanno né patria, né futuro. Chi entra in un CIE per essere identificato deve avere la possibilità di scegliere quale strada intenda intraprendere. Deve quindi essere possibile uscire da un CIE anche senza l’espulsione in tasca. Diventa urgente una riforma copernicana della gestione di questi centri che permetta innanzitutto ai Prefetti e ai Questori di utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione per consentire il riavvio di progetti migratori spezzati dopo l’ingresso nel sistema della detenzione amministrativa. Se, al contrario, i CIE continuassero a essere identificati come l’ultimo miglio prima della fine, l’anello conclusivo di un girone infernale, questo significherebbe la sconfitta culturale, civile e morale di un grande paese, impotente di fronte a qualcosa che non riesce a gestire. Tutti gli attori che partecipano all’istituzione, alla direzione, alla gestione di questo sistema di detenzione amministrativa sono certamente in possesso di una parte di soluzione all’impasse, ma nelle condizioni attuali della discussione sembra più prudente tacere che rischiare di enunciare una qualsivoglia affermazione, esponendosi così ad attacchi da più fronti in qualità di temibili aguzzìni oppure di impenitenti buonisti. Gli enti gestori dei CIE, additati in alcuni ambienti - anche istituzionali - come coloro che fanno business sulla pelle dei migranti, possono spesso esprimere più di un’idea su questi luoghi nei quali, non di rado, oltre a gestire un appalto afferente alla loro mission aziendale, si

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DI RIFORMA DELLE MISURE DICONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ

sere organizzata una cassa mutua in cui conferire contributi capaci di dare un reddito per un certo periodo di tempo riconosciuto dallo stato italiano ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno - a chi perde il lavoro per ragioni indipendenti da se stesso. La costruzione di tratti di welfare dedicato agli stranieri è una delle conquiste di civiltà capaci di portare ricchezza agli italiani. L’attrattività esercitata dall’Italia sugli studenti universitari rappresenta un investimento sul futuro delle relazioni con altri paesi, sulla possibile costruzione di reti commerciali e apertura di nuovi mercati.

interrogano ed elaborano proposte che vanno oltre la mera erogazione del servizio richiesta dalla convenzione con la Prefettura di turno.

ii

Diminuire gli ingressi nei CIE

A) Proteggere la regolarità

In Italia, troppe persone avviano in modo regolare il loro progetto migratorio di studio o di lavoro, per poi scivolare nell’area dell’irregolarità. Già nel 2007 la commissione De Mistura, voluta dall’allora ministro dell’interno Amato, annotava nel proprio rapporto “la presenza rilevante nei CPTA [attuali CIE] di stranieri che erano stati regolari e il cui permesso di soggiorno non è stato più rinnovato in mancanza degli stringenti requisiti reddituali ed abitativi previsti dalla legge (irregolari di ritorno/overstayers); colpisce in particolare che sovente trattasi di persone aventi alle spalle periodi anche molto lunghi (superiori al decennio) di presenza continuativa in Italia.” Nel biennio 2008-2010, per gli effetti della crisi economica, il tasso di disoccupazione degli stranieri è cresciuto del 73% contro il 32% degli italiani (dati Dossier Statistico Immigrazione 2012).

Gli effetti della crisi, seppur riguardino tutti, per un migrante in possesso di un permesso di soggiorno legato a un contratto di lavoro, sono più complessi, perché investono l’intero progetto di vita. Inoltre, i migranti sono inevitabilmente più fragili, poiché impiegati in settori più esposti alle fluttuazioni economiche, spesso assunti con contratti a termine e meno protetti da ammortizzatori sociali e familiari. Per intervenire sulle cause di questo circolo vizioso, occorre ipotizzare una serie di interventi nell’ambito di un sistema di politiche di welfare ad hoc rivolte a queste categorie di persone, teso a evitare il fallimento dei progetti migratori e a permettere un accompagnamento a fronte di un temporaneo insuccesso. Alcuni esempi. - Se oggi vi è un discreto numero di studenti stranieri che nel corso del primo anno di studi non riescono a inserirsi e a superare l’ostacolo del primo esame in italiano, potrebbe essere utile e conveniente strutturare servizi di supporto agli studenti del primo anno finanziati attraverso una piccola quota aggiuntiva sulle tasse universitarie. Considerando che gli studenti universitari stranieri sono circa 64.000, con un contributo di 10 euro al mese sarebbe possibile mettere a disposizione degli studenti servizi di supporto per un totale di oltre 7,5 milioni di euro. - Per i lavoratori migranti potrebbe es-

presenza di ex detenuti nei centri di trattenimento amministrativo finisce per penalizzare - come osservava nel 2007 la sopracitata Commissione De Mistura - “gli stranieri a cui carico sussistono solo provvedimenti di allontanamento conseguenti alla perdita di regolarità di soggiorno, nonché persone più deboli e vulnerabili che sono esposte ad un clima di costante tensione e potenziale intimidazione interna ai centri.” Nello stesso anno, Amato e Mastella, ministri dell’Interno e della Giustizia del governo Prodi, hanno emanato una circolare secondo la quale l’identificazione degli stranieri detenuti dovrebbe avvenire durante la loro permanenza in

ficare radicalmente l’attuale situazione e inaugurare una diversa gestione dei centri stessi, liberati dalle tensioni generate da un simile paradosso.

III

Modificare la gestione

A. Dare speranza

Nei CIE non sono previste attività formative o lavorative che facciano riferimento a un “fuori”, a un “dopo”, come se le persone, una volta uscite dall’Italia - se espulse - non continuassero ad ave-

B. Moltiplicare le opportunità di emersione dall’irregolarità È necessario identificare canali strutturali che permettano l’emersione dall’irregolarità, andando oltre lo strumento della sanatoria. Citiamo, ad esempio, la regolarizzazione del migrante in presenza di un’azienda o di una famiglia che esprima l’intenzione di avviare un contratto di lavoro con il migrante stesso oppure di fronte al progetto di avviare un’impresa autonoma, la cui fattibilità sia dimostrabile e giustifichi l’apertura di una attività presso la Camera di Commercio.

C. Avviare l’identificazione dei detenuti in carcere Gli ex carcerati vivono assieme a categorie di persone molto differenti: lavoratori stranieri che hanno perso l’impiego, migranti che hanno un impiego irregolare, migranti senza fissa dimora, migranti appena giunti sul territorio italiano. Circa il 60% dei migranti detenuti nei CIE provengono dalle carceri italiane. Questo dato finisce per qualificare la permanenza nel CIE come una sorta di pena supplementare - che può durare fino ad un anno e mezzo - inflitta a persone che hanno già pagato il proprio conto con la giustizia. Inoltre, l’elevata

La barberia è uno dei pochi spazi autogestiti dai trattenuti

carcere e l’espulsione deve seguire la fine della pena, senza passaggio dal CPT (attuale CIE). Dopo sei anni la direttiva è rimasta inapplicata e l’identificazione comincia da zero al momento del rilascio, momento nel quale lo Stato Italiano dichiara che una persona già condannata e detenuta risulta ancora da identificare. Appare evidente che, se nelle carceri non viene attuata l’identificazione nonostante la circolare Amato, esistono degli impedimenti. Appare altrettanto evidente, però, che poco o nulla sembra essere stato tentato sino ad ora per rimuoverli. Riuscire a intervenire su questo aspetto della questione consentirebbe di modi-

re una vita. Il giurista Paleologo definisce il trattenimento nei CIE una forma di detenzione “afflittiva”, scollegata da un reato, da finalità riabilitative e dallo scopo che esplicitamente si propone: l’espulsione. Su questo ultimo punto, la legge italiana non si è adeguata alla Direttiva Europea Rimpatri, che prevede il trattenimento amministrativo solo se è finalizzato al rimpatrio. La Commissione De Mistura, già citata sopra, nel 2007 aveva segnalato l’urgenza di modificare l’approccio normativo, “riconducendo l’espulsione alla sua natura di provvedimento necessario da applicarsi come ultima ratio, laddove tutte le altre posSQM|27


Proposta

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DI RIFORMA DELLE MISURE DICONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ

sibilità di regolarizzare si siano rivelate in concreto non possibili.” E proseguiva: “L’efficacia dell’esecuzione coattiva degli allontanamenti (e pertanto la credibilità complessiva del sistema) risulta infatti fortemente legata alla necessità di ridurre tali provvedimenti ad un numero contenuto.” Oggi, entrare in un CIE rappresenta il punto di non ritorno di un progetto migratorio. L’espulsione è quasi certa: in alcuni casi si concretizza con il rimpatrio, in altri con la raccomandazione a lasciare il paese e con l’avvio di una vita precaria, priva di possibilità di regolarizzazione. È importante smontare questo meccanismo, definendo una via d’uscita legittimata e condivisa che dia all’ente gestore dei servizi alla persona all’interno dei CIE il potere di segnalare al Questore o al Prefetto le situazioni che potrebbero avere una seconda opportunità, evitando di restare incastrati nel limbo della espulsione amministrativa.

B. Dare un senso al tempo costretto attraverso attività Un tempo vuoto, scandito soltanto dai pasti, dalle visite mediche e da poco altro caratterizza spesso il CIE. Un tempo sospeso, un limbo in attesa del nulla. È questa la caratteristica forse più triste di questi luoghi in cui si fa fatica a dare senso al tempo che passa, poiché quasi nulla

DI RIFORMA DELLE MISURE DICONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ

è possibile fare. Investire in attività formative e lavorative esattamente come avviene nella maggior parte delle carceri italiane agevolerebbe per le persone i processi di elaborazione di quanto sta loro accadendo e consentirebbe di dare un’orizzonte al qui e ora, altrimenti difficile da scorgere. Questa impostazione permetterebbe inoltre alle persone di imparare e di lavorare, fornendo loro strumenti utili a un possibile rimpatrio come a un, più probabile, rilascio con espulsione. O, ancora, a un rilascio con un permesso straordinario del Prefetto in presenza, ad esempio, di un percorso di apprendimento e reperimento di una risorsa lavorativa. Il cambiamento radicale dell’approccio comporta una rivisitazione dell’organizzazione quotidiana dei centri, che preveda maggiore libertà di movimento per gli enti gestori e una relativa apertura delle strutture verso l’esterno. Tale trasformazione per le Prefetture significa certamente un’assunzione di rischio sin qui inedita, ma non più di quanto lo siano le restrizioni alle libertà personali degli “ospiti” in nome della sicurezza. Il tempo vuoto, per citare nuovamente De Mistura, determina infatti “una situazione di totale passività e inattività nella vita quotidiana e [contribuisce] in modo significativo ad innalzare la tensione interna al centro. Tale tensione costituisce spesso un motivo addotto per l’adozione di ulteriori e maggiori restrizioni all’agibilità interna, producendo un circuito negativo che si autoalimenta.”

C. Gli enti gestori devono avere più coraggio Le organizzazioni che gestiscono i servizi alla persona all’interno dei CIE non di rado si fanno carico di restituire brandelli di senso al tempo che scorre nei centri. L’azione è poco visibile, ma spesso efficace. La stagione dei miglioramenti sembra essersi arrestata dopo l’allungamento a 18 mesi del tempo massimo di detenzione. Da quel momento il lavoro di promozione di un relativo agio è stato sostituito da una silenziosa difesa di alcuni principi di rispetto dei diritti umani. È arrivato il momento per riprendere a lavorare sul miglioramento delle condizioni e, a tal fine, è necessario che gli enti gestori mostrino più coraggio per affrontare il livello del confronto con le istituzioni locali e nazionali, uscendo dai limiti del cliché che li vede preparati solo a mantenere lo status quo per contribuire, invece, a proporre una radicale riforma della detenzione amministrativa anche grazie all’immenso bagaglio di esperienza e di originale attività di gestione quotidiana a contatto con i migranti. La speranza, così come il senso del futuro in questi luoghi, non nascerà spontaneamente ma sarà il frutto della fatica quotidiana, del coraggio di contraddire, della sapienza dei piccoli passi che aprono un nuovo cammino.

Non forniamo più le difese di ufficio. La petizione degli avvocati del Foro di Roma Nello scorso mese di febbraio, in seguito a una rivolta nel CIE di Ponte Galeria (RM) che ha portato a nove arresti, gli avvocati del Foro di Roma sono intervenuti con una petizione da presentare dinanzi al Consiglio dell’Ordine degli avvocati allo scopo di ritirare la disponibilità a fornire difese di ufficio per le convalide degli arresti nei CIE. Così, senza un legale, tali arresti rischiano di non essere confermati. Il tono della lettera è durissimo: “La drammatica situazione dei centri di identicazione ed espulsione di Ponte

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Galeria pone a noi difensori la scelta di portare un contributo sostanziale. L’invito ai colleghi è quello di “non prestare il loro nome e la loro attività al procrastinarsi indecoroso della violazione della dignità umana.” I penalisti sottolineano come questo dramma riguardi persone già toccate da grandi difficoltà che vengono rinchiuse, in condizioni ancora peggiori di quelle delle carceri, senza nulla da scontare, se non la propria condizione di migranti sprovvisti di un valido permesso di soggiorno.

Non rispettano i diritti umani e sono inefficaci. I CIE vanno superati. Intervista telefonica ad Alberto Barbieri, Medici per i diritti umani onlus (MEDU)

Di che cosa si occupa MEDU e perché avete scelto di monitorare i CIE? Medici per i diritti umani è organizzazione un’umanitaria il cui obiettivo è portare aiuto sanitario alle popolazioni vulnerabili. Nel fare questo, MEDU cerca anche di testimoniare i diritti umani e, nello specifico, di denunciare gli ostacoli nell’accesso alle cure. A questo aspetto è collegato il tema più ampio del rispetto dei diritti umani, che sono indivisibili. In riferimento alla situazione italiana, c’è un’attenzione particolare verso i CPT, prima, i CIE adesso, perché rappresentano un buco nero nell’ambito del rispetto dei diritti umani. È dal 2004 che, per queste ragioni, abbiamo avviato un osservatorio sui CIE per monitorare la tutela dei diritti umani nelle strutture. Quest’anno il monitoraggio è stato svolto su ampia scala e verso la fine del mese di aprile è prevista l’uscita del rapporto nazionale. Quali criticità comporta per la garanzia del diritto alla salute l’istituto del trattenimento e la permanenza nelle strutture a ciò dedicate? I problemi sono moltissimi e collegati tra loro. Tra i principali c’è sicuramente “l’extraterritorialita sanitaria” di cui soffrono i CIE. Le ASL non hanno accesso all’interno delle strutture e l’assistenza medica è offerta dal personale sanitario dell’ente gestore, che però offre soltanto l’assistenza di base. Anche l’accompagnamento ai servizi del territorio per eventuali visite specialistiche è raro e spesso difficoltoso a causa della necessità di reperire la scorta per ogni uscita. Inoltre, le condizioni degradanti di permanenza inducono spesso gravi disagi psichici, che vengono esternalizzati mediante atti violenti contro la struttura e contro se stessi. Molti dei migranti trattenuti fanno uso di ansiolitici e moltissimi provengono dal carcere dove già ne facevano uso. La mancanza di figure specialistiche incide quindi molto, soprattutto nel caso degli psichiatri per queste tipologie di disagio. Un’altra caratteristica problematica tipica dei CIE è legata al fatto che lì “salta” il rapporto medico-paziente: i medici partono sempre dal presupposto che il paziente stia fingendo, i migranti lamentano di non essere mai presi sul serio nel loro disagio. Il rapporto medicopaziente è basato sulla fiducia, che in quei contesti viene meno. Che cosa dovrebbe cambiare? Le nostre conclusioni definitive emergeranno dal rapporto che stiamo elaborando, ma sostanzialmente crediamo che l’unica soluzione possibile sia una profonda riforma del sistema che porti al superamento dei CIE. Per migliorare la tutela del diritto alla salute si potrebbe, sin da ora, rafforzare il servizio psichiatrico all’interno dei centri e garantire l’accesso alle ASL, migliorare il servizio di as-

sistenza legale, etc. Ma sono le strutture stesse a essere inadatte alla tutela del diritti umani delle persone. L’unica vera soluzione è il cambiamento radicale del sistema e il loro superamento. In una recente dichiarazione, avete affermato che i CIE, oltre a non garantire il rispetto dei diritti umani, sono istituti inutili. Può fornirci dei dati in merito? Ad esempio, nel 2012 in Italia c’erano circa 320.000 irregolari, di cui nei CIE circa 8.000;. Di essi, solo la metà sono stati espulsi. Si tratta di poco più dell’1%, a testimonianza del fatto che il sistema attuale costringe a costi umani altissimi, a fronte di una profonda inefficienza materiale.

il sistema? inefficace e costoso 2010 544 mila stranieri irregolari 47 mila fermati dalle forze dell’ordine 7039 di essi transitati dai CIE (pari all’1,2% del totale degli irregolari) circa il 50% di questi è stato espulso (0,6% degli irregolari) 2011 326 mila stranieri irregolari circa l’1,2% di questi è stato espulso attraverso i CIE 2012 320 mila stranieri irregolari poco più dell’1% di questi è stato espulso attraverso i CIE

Nel quinquennio 2007-2012, l’Italia ha speso oltre 100 milioni di euro per rimpatriare poche migliaia di cittadini stranieri. 1 rimpatrio costa allo stato italiano 5 biglietti aerei (1 per il migrante, 2 di andata/ritorno per i 2 agenti di scorta). Gestione dei servizi in un anno si sono spesi 18 milioni e 607mila euro (dati aggiornati a febbraio 2012), escluse le spese per la sorveglianza delle forze dell’ordine, quelle di gestione della struttura e quelle per costruirla. fonti: dossier statistico immigrazione 2011 - 2012, European Migration Network, ISMU

Arianna Cascelli

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Emergenza conclusa? A poco più di un mese dalla chiusura i dubbi restano. “L’emergenza Nordafrica si è conclusa con un editto da parte del Governo, insomma nel peggiore dei modi possibile”. Così dichiara Orazio Micalizzi, presidente della Fondazione Xenagos, commentando la circolare del ministero dell’Interno che dichiara chiusa l’emergenza dei profughi arrivati in Italia dopo la ‘primavera araba’. “Durante questi mesi – continua Micalizzi – il Governo è sempre intervenuto in ritardo, scaricando sui Comuni e sugli enti gestori la responsabilità di affrontare una situazione emergenziale senza strumenti adeguati”. “Purtroppo – aggiunge Salvatore Ippolito, presidente del Comitato Scientifico di Xenagos - il ministero ha ignorato gli appelli a creare dei tavoli regionali coordinando istituzioni locali ed enti gestori, capaci di fornire un supporto e un avvio all’integrazione. Il tavolo di coordinamento istituzionale nazionale ha prodotto solo dichiarazioni d’intenti, ritardando la formulazione di un piano di azione concreto’.

“L’esperienza di accoglienza portata avanti con la concertazione della Protezione civile è di gran lunga la più costosa di tutta la storia del nostro Paese - spiega Ippolito - con una spesa di oltre un miliardo di euro che nella gran parte dei casi è servita solo per la fornitura di vitto e alloggio, secondo un modello di accoglienza senza alcuna prospettiva di integrazione. Adesso “nel giro di pochi giorni, si è chiesto agli enti gestori di chiudere l’emergenza Nordafrica e di mettere fuori dalla porta oltre 15.000 persone. Con una circolare il Dipartimento per l’Immigrazione ha ordinato alle Prefetture di approntare, entro il 28 febbraio, i titoli di viaggio per i profughi, cioè il documento che, in assenza di passaporto, può consentire la libera circolazione in Italia, e soprattutto quelle che vengono definite ‘misure per favorire percorsi di uscita’. E dunque rimpatri volontari e assistiti e una buonuscita di 500 euro a testa”. “Migliaia di persone sono uscite dall’accoglienza, senza prospettive. Non è difficile prevedere i problemi di ordine pubblico e le negative ricadute sociali che gli enti locali saranno chiamati ad

affrontare. I percorsi formativi, di inserimento lavorativo e di integrazione sono stati bruscamente interrotti, in molti casi a poche settimane dal conseguimento del l’obiettivo del titolo di studio.” “Mentre non e’ chiaro cosa accadrà ai vulnerabili e’ nota la gravita’ della situazione in cui si troveranno i soggetti ‘fragili’: i tanti individui non formalmente riconosciuti come vulnerabili ma che si trovano in situazione di oggettiva difficoltà, come nel caso dei minori, di bambini, spesso neonati, con entrambi i genitori che si troveranno espulsi dall’accoglienza. ‘Facciamo appello – conclude Mauro Maurino, del

Cda della Fondazione Xenagos - agli enti gestori più radicati

sul territorio e soprattutto alle reti delle cooperative sociali di sperimentare modelli alternativi di uscita dall’emergenza, richiamiamo alla loro responsabilità le amministrazioni locali e regionali e pretendendiamo una rettifica alla direttiva ministeriale”.

a cura di Salvo Tomarchio

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2012

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- Con DPCM del 12 febbraio 2011 è stato dichiarato lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale per l’eccezionale afflusso di cittadini provenienti dal Nord Africa (lo stesso verrà poi prorogato al 31 dicembre 2012, con DPCM del 6 ottobre 2011) - Con DPCM del 7 aprile 2011 viene dichiarato lo stato di emergenza umanitaria nel territorio del Nord Africa per consentire un efficace contrasto all’eccezionale afflusso di cittadini extracomunitari nel territorio nazionale. Il 3 agosto un nuovo DPCM estende la dichiarazione dello stato di emergenza ad altri Paesi del continente africano. - Il 12 aprile 2011 un Piano per l’accoglienza dei migranti e con Ordinanza n. 3933 del Presidente del Consiglio dei Ministri, si affidava l’attuazione dello stesso alla Protezione civile. Le misure di accoglienza predisposte dalla Protezione civile sono coordinate a livello regionale. Con l’OPCM 3933 del 13 aprile, il Governo, effettuava una prima assegnazione al Fondo della Protezione Civile - Il 3 agosto un nuovo DPCM estende la dichiarazione dello stato di emergenza ad altri Paesi del continente africano; Con DPCM del 6 ottobre 2011 viene prorogato al 31 dicembre 2012 lo stato di emergenza in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti al Nord Africa

- Con il DPCM del 15 maggio 2012 , sono prorogati i permessi di soggiorno per motivi umanitari a favore di cittadini nordafricani. Il termine di sei mesi, di cui al D.P.C.M. 5 aprile 2011, come prorogato dal D.P.C.M. 6 ottobre 2011, relativo alla durata dei permessi di soggiorno rilasciati per motivi umanitari, è prorogato di ulteriori sei mesi, alle medesime condizioni di cui ai predetti D.P.C.M. e agli oneri derivanti dalla sua attuazione si provvede a carico del Fondo nazionale di Protezione Civile. - L’ODPC n. 33 del 28 dicembre 2012 è finalizzata a regolare la chiusura dello stato di emergenza umanitaria e il rientro nella gestione ordinaria. Il soggetto attuatore diventano le prefetture territoriali, che sono i soggetti responsabili per la gestione della fase di uscita dall’emergenza e prosecuzione in regime ordinario delle iniziative finalizzate all’accoglienza e a favorire i percorsi di uscita dal territorio nazionale. Si decide inoltre che le commissioni territoriali lavoreranno fino al 30 giugno 2013 per espletare le pratiche in corso.

- Il 18 febbraio 2013 la circolare n. 1424 a firma del capo dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione Angela Pria, dispone la chiusura dell’emergenza Nordafrica. Tra le misure presenti spicca all’ultimo punto l’argomento “misure per favorire i percorsi di uscita”. Citando l’ODPC n. 33 del 28 dicembre 2012 il ministero ribadisce che in relazione alle risorse disponibili la fase ordinaria si concluderà il 28 febbraio, e prevede di “utilizzare quale misura di uscita la corresponsione di € 500,00 pro capite” per ogni ospite nei centri.

[...] La lettura non finisce qui! Consulta la rassegna stampa su: www.storiediquestomondo.it/press

Quick Link Gli stranieri Down non possono diventare italiani. Lo dice la legge http://bit.ly/WyqzYY

(Linkiesta)

”Una detenzione peggiore del carcere” Giuliano Amato boccia i Cie http://bit.ly/Zib9IH

(Repubblica.it)

Ripensare il desolante sistema dei Centri di identificazione e espulsione http://huff.to/16ICxE8

(Huffington Post Italia)

foto: repubblica.it

P re s s

Breve cronistoria dell’Emergenza Nordafrica

Salvo Tomarchio

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Bibliografia ragionata sui CIE e sull’immigrazione illegale Giuristi ed esponenti politici, medici e letterati. Il tema dei CIE, toccando i nervi scoperti della nostra società, ha attratto le più diverse attenzioni e sensibilità, sia scientifiche sia letterarie. In ambito accademico, la sociologia è la disciplina che ha meglio connesso il tema dei migranti irregolari con quello del resto della comunità nazionale. Rilevante è la ricerca pubblicata nel 2008 da Sonia Paone incentrata sul tema degli spazi e dei luoghi di vita. Nel suo Città in frantumi. Sicurezza, emergenza e produzione dello spazio, (edizioni Franco Angeli), la Paone inserisce i CIE all’interno delle evoluzioni avvenute negli ultimi decenni nelle nostre città: luoghi in cui le polarizzazioni sociali e spaziali hanno portato gruppi privilegiati a rinchiudersi, in nome della sicurezza, in quartieri sempre più blindati e sorvegliati e relegato i gruppi in declino sociale nelle periferie più estreme. In questo contesto le risposte spaziali date per arginare l’aumento della pressione migratoria si sono concretizzate nei CIE che, materialmente quanto simbolicamente, hanno contribuito a ridurre ulteriormente lo “spazio pubblico”, inteso come luogo di relazioni democratiche e di rappresentazione di istanze valoriali. Del 2004, ma ancora di stringente attualità, è il lavoro cura-

to da Luigi Maria Solivetti, Immigrazione, integrazione e crimine in Europa (edizioni Il Mulino), nel quale, utilizzando dati e statistiche ufficiali, si traccia un quadro esaustivo delle relazioni che intercorrono tra immigrazione, integrazione e criminalità, elementi centrali nel dibattito che sottende la necessità (o meno) nel nostro ordinamento dei CIE. La conclusione cui giunge Solivetti è che “l’attuale espansione della criminalità dei non-nazionali sembra potere essere riportata a un quadro caratterizzato non solo e non tanto da disuguaglianza e deprivazione relativa ma soprattutto da illegalità” e che “la generosità economica verso i più deboli e più in generale il rispetto dei diritti, un clima di legalità diffusa, la fiducia e l’apertura da parte della società ospitante, sembrano aspetti rilevanti per il contenimento della criminalità dei non-nazionali”. Una scrupolosa analisi della qualità e della dinamica della produzione legislativa in materia d’immigrazione nel contesto italiano è quella realizzata da Andrea Villa nel 2008 nel suo Immigrazione: legislazione italiana tra fonti del diritto e rappresentazione sociale (edizioni Kimerik) in cui emergono in tutta evidenza le difficoltà incontrate dal potere legislativo nel fornire “risposte giuridiche” a un fenomeno estremamente complesso e che necessita, per essere compreso, di un approccio quanto meno multifocale. Accanto a questi lavori, vanno

Massimo Tornabene

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segnalati gli studi e le inchieste che dall’introduzione dei CPT prima (1998) e dei CIE dopo (2008) ne hanno descritto, nel concreto, il funzionamento. Ancora utile, per un primo orientamento, appare il rapporto curato da Luca Leone per Medici senza frontiere nel 2005 (edizioni Sinnos), Centri di permanenza temporanea e assistenza, anatomia di un fallimento, in cui in modo analitico sono analizzate le condizioni strutturali dei Centri allora presenti e delle “deficienze estremamente gravi e rilevanti” che ne caratterizzano il funzionamento. Del marzo 2012 è invece il Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia a cura della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, che per le restrizioni subite accomuna implicitamente i migranti trattenuti nei Cie a quelli detenuti in carcere (reperibile su http:// bit.ly/YdGvFz). Infine appare utile per dare volti, nomi e storie agli uomini trattenuti nei Cie la raccolta di testimonianze curata dallo scrittore Marco Rovelli e pubblicata da Bur nel 2006: il titolo, Lager italiani, al momento della pubblicazione suscitò vivaci polemiche ma ebbe il merito di riaprire il dibattito sul problema della chiusura dei centri nonché la questione dei diritti umani nel loro nesso con i diritti di cittadinanza.

Vol Spécial

Durata: 100’ Anno di produzione: 2011 Produzione: climage Regia: FERNAND MELGAR

gni anno, in Svizzera, migliaia di persone vengono incarcerate perché senza permesso di soggiorno. Possono essere private della libertà per un periodo di due anni in attesa dell’espulsione. Dopo il film La Forteresse (Pardo d’oro al Festival internazionale del film Locarno), il regista Fernand Melgar ha trascorso nove mesi nel centro di detenzione amministrativa di Frambois, a Ginevra, uno dei 28 centri di espulsione per irregolari in Svizzera. Nel film Vol Spécial - vincitore di numerosi premi e menzioni speciali - Melgar ha raccontato la sua esperienza. Storie di Questo Mondo l’ha intervistato.

O

Come è nata l’idea di Vol Spécial? Durante il dibattito suscitato da La Forteresse, sono stato colpito da quanto il pubblico ignori le conseguenze drammatiche dell’irrigidimento delle leggi sull’asilo e sugli stranieri. Il termine “richiedente asilo” rappresentava un sinonimo di “delinquente” e l’asilo consisteva in una forma di abuso del bene sociale. Mi è sembrato urgente realizzare un film per mostrare la realtà misconosciuta della detenzione amministrativa e dei rimpatri forzati. 150 mila sans papiers vivono in Svizzera. La grande maggioranza lavora, paga le tasse e i contributi di previdenza sociale. Si occupa dei nostri anziani, guarda i nostri bambini, pulisce appartamenti e ospedali. Senza di loro, numerosi alberghi e cantieri chiuderebbero, privati di manodopera a buon mercato. Ma vivono con una spada di Damocle sulla testa: in ogni momento, possono essere arrestati, detenuti e espulsi dalla Svizzera senza processo. Quindi ho proseguito la riflessione avviata a Vallorbe, per chiudere il cerchio aperto da La Forteresse. Per tentare di cogliere meglio questo movimento oscillatorio tra speranza e disperazione che caratterizza tanti destini migranti.

Ha conosciuto storie particolari di migranti durante le riprese del film? Mi piacerebbe piuttosto raccontarle di un incontro che mi ha condotto a girare Vol Spécial. Durante le riprese de La Forteresse, ho fatto amicizia con un giovane traduttore iracheno minacciato di morte. Subito dopo il diniego della domanda di asilo, è stato arrestato per essere espulso. Facendogli visita nel centro di detenzione di Frambois, ho scoperto la più profonda angoscia umana che mi sia stato concesso di vedere in questo paese. Fahad mi ha parlato dei suoi compagni di sventura: uomini innocenti annientati dalla loro incarcerazione, padri strappati ai propri figli, clandestini sfruttati per lavoro o giovani sull’orlo del suicidio, interrotti nella loro ricerca di una vita migliore. Tutti erano trattati come dei criminali, ma la loro unica colpa era di non possedere un permesso di soggiorno. Alcuni restavano rinchiusi per mesi poiché non c’era alcun accordo di riammissione con il paese di origine. Qualche tempo dopo, l’espulsione brutale di Fahad tramite volo speciale mi ha scioccato. Una notte sei poliziotti di Zurigo hanno fatto irruzione nella sua cella per prenderlo e portarlo via. Che cosa le ha lasciato Vol Spécial come scoperta? Dopo ogni partenza tramite volo speciale, abbiamo chiamato i rimpatriati per sapere com’era andato il viaggio. Ogni volta, le testimonianze erano angoscianti. Non soltanto si sentivano buttati via dalla Svizzera come sacchi della spazzatura, ma erano tutti profondamente segnati da strascichi fisici e psicologici legati alla deportazione. Alcuni si sono fatti arrestare o depredare al loro arrivo dai poliziotti del loro paese, talvolta sotto il naso dei rappresentanti delle autorità svizzere. Abbiamo quindi deciso di continuare a seguirli e raccontare le loro vite dopo l’espulsione. Questi ritratti costituiscono l’oggetto di un documentario web co-prodotto da RTS e ARTE disponibile a questo link: http://www.volspecial.ch/fr/webdoc/ Serena Naldini

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studiotribbu.it

.it www.fondazionexenagos.it


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