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Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 2 e 3 - NO/ TORINO n° 2 anno 2013 – reg. Trib. di Catania n°19 del 5 Giugno 2012 – distribuzione gratuita

Troppe storie sembrano storie dell’altro mondo, ma lo spazio in cui accadono è qui e ora. Periodico di culture migranti e dell’accoglienza

anno 5 - N° 2 - giugno 2013

Il mondo a Perchè l’imprenditore preferisce lavoratori stranieri? Cresce il ruolo dei lavoratori stranieri nell’economia italiana.

casa nostra

im pre sa mig ran te

Forza e potenzialità dell’imprenditoria straniera

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1 Migrare, progetto di vita e di impresa anno 5 - N° 2 - giugno 2013 (sqm14)

i migranti ad aprire una nuova fase 2 Saranno dell’economia italiana?

4 L’impresa migrante in Italia 10 Perchè l’imprenditore preferisce lavoratori stranieri? Cresce il ruolo dei lavoratori stranieri nell’economia italiana

14 Migranti e cooperative

12 coop. per ripartire, il progetto FER Re-Startup

Direttore responsabile Serena Naldini direzione@storiediquestomondo.it Direttore editoriale Salvatore Ippolito Comitato scientifico Riccardo Compagnucci, Antonio Ragonesi, Salvatore Ippolito Comitato di direzione Mauro Maurino, Orazio Micalizzi Caporedattore Salvo Tomarchio

20 Testimonianze di imprenditori migranti 24 Tunisia - Italia, andata e ritorno

Il progetto Le oasi di El Oudiane e il programma Tunit

26 Press & News 27 Terza Pagina

Voglio che si balli. Talè.

Redazione Via Sciarelle, 4 95024 Acireale (CT) redazione@storiediquestomondo.it

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Progetto grafico e impaginazione Tribbù - Acireale (CT) Direttore creativo Andrea Catalano Proprietà Consorzio Connecting People Onlus Via Conte Agostino Pepoli, 68 91100 Trapani Editore Fondazione Xenagos Via Sciarelle, 4 95024 Acireale (CT) Registrazione Tribunale di Catania n°19 del 5 Giugno 2012 Stampa Fiordo srl - Galliate (No) In redazione Agrin Amedì, Claudio Praturlon, Arianna Cascelli

Hanno collaborato Maurizio Ambrosini Giuseppe Lorenti Eleonora Castagnone

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Mauro Maurino Vicepresidente Fondazione Xenagos

Migrare, progetto di vita e di impresa

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capitalizzarlo per metterlo al servizio della comunità? ella bonaccia inquietante dell’economia in crisi, La domanda non è oziosa, perché, se è vero che i successi arrivano al grande pubblico notizie inedite sui sono luoghi fecondi, non è scontato che la loro capacità migranti. Sono imprenditori, e non solo: danno di moltiplicarsi sia spontanea. E dunque è responsabilità addirittura lavoro agli italiani. Il numero delle nuove imdi chi opera aggiungere ciò che manca per passare dallo prese migranti supera quello delle “nuove nate” italiane. spontaneismo all’organizzazione delle imprese, affinché la Improvvisamente, troviamo nei media tradizionali degli ricchezza che sono capaci di produrre dia risultati visibili. alleati nel divulgare un’informazione che gli addetti ai Ma se questo fare impresa da parte dei migranti è il rilavori conoscono da tempo: i migranti rappresentano un sultato di un mix, non possiamo far altro che domandarci vantaggio per le nostre comunità. quali contenuti di innovazione porti Con l’auspicio di non essere di con sé. Innovazione che si stratifica fronte a un nuovo luogo comune è responsabilità di chi nella cultura dei nostri quartieri e che (migrante=imprenditore), buono a modifica giorno per giorno le perceziosostituire i precedenti, ma non utile a opera aggiungere ciò ni di sé e dell’altro. In questa ottica, è crescere come società integrata, proche manca per passare emblematica la figura del “kebabbaro”: viamo con questo numero della rivista dallo spontaneismo semplice esercizio o anche luogo di a esplorare l’imprenditorialità dei micomunità? Negozio o crocevia di ingranti, la loro capacità di trasformare i all’organizzazione formazioni, incontri, culture, capaci di progetti migratori in impresa che prodelle imprese cambiamento e di introdurre elementi duce ricchezza per entrambe le sponde utili all’integrazione? del viaggio. In questo numero di Storie di Questo Mondo abbiamo La prassi del fare impresa caratteristica dei migranti si cercato di dare forma al quadro introducendo riflessioni di avvicina molto a uno dei modi di intendere l’avventura imstudiosi e del nostro Comitato Scientifico al fianco di analisi prenditoriale: un progetto di vita e non un capitale in cerca e dati tratti da Camere di Commercio e Istituti di Ricerca. di una rendita. Un progetto di vita, e dunque un’attività in Abbiamo dato spazio a sguardi diversi: quello dell’imcui coinvolgere le reti di relazione, i saperi del territorio, prenditore che decide di privilegiare nella selezione del le competenze di tutti coloro che a vario titolo possono personale i lavoratori stranieri, quello della cooperazione determinare una quota di successo. Si tratta di un modo per sociale che nel suo percorso è passata dal desiderio di crescere e non solo per lavorare, di un’occasione per sé e lavorare per i migranti alla volontà di lavorare con loro. per la comunità con cui si scambia valore. Un’impresa in Coerenti con il titolo della nostra testata, abbiamo dato cui il capitale è necessario quanto il capitale sociale, che spazio alle storie degli imprenditori migranti, attraverso fornisce la reputazione indispensabile per nascere e crescere testimonianze, piccole interviste. E, infine, abbiamo getsuperando le inevitabili barriere di accesso al mercato. tato lo sguardo sui progetti che promuovono l’imprendiQuanto di questo patrimonio umano è frutto dell’inetoria, consapevoli che in questa azione c’è un pezzo del vitabile incontro tra la società di partenza e la comunità nostro futuro. Un granello d’integrazione che rotola sul italiana? Quanto di questo sapere è il fortunato esito di una fianco della montagna. contaminazione e come siamo in grado di valorizzarlo,

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Saranno i migranti ad aprire una nuova fase dell’economia italiana? Salvatore Ippolito

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movimenti migratori delle persone rappresentano una forma peculiare e importantissima di iniziativa imprenditoriale. Pianificare un viaggio, una fuga o un progetto migratorio presuppone e dimostra una notevole capacità d’intraprendere che, appropriatamente incanalata, può risultare una fantastica opportunità di cambiamento e sviluppo economico e sociale non solo per i suoi protagonisti. Nell’ultimo ventennio in Italia più di 5 milioni di stranieri hanno spontaneamente, se non caoticamente, trovato il modo di fare impresa migratoria, occupando o reinventando settori del mercato del lavoro italiani abbandonati o sottoutilizzati dagli autoctoni. Milioni di stranieri hanno visto nella nostra società delle opportunità di crescita umana, sociale ed economica. E le hanno colte.

Nel 2011 gli stranieri occupati regolarmente sono più di 2,5 milioni e rappresentano un decimo dell’occupazione totale. Il primo posto spetta ai collaboratori familiari (poco più di 750 mila regolari su un totale stimato di 1.300.000). Anche nel settore agricolo e nel lavoro stagionale la presenza dei migranti è significativa con più di 300 mila lavoratori. Seguono l’edilizia, i trasporti e, in generale, i lavori a forte manovalanza. Gli immigrati costituiscono oltre un sesto dei lavoratori nelle cooperative di pulizie e oltre un terzo in quelle che si occupano della movimentazione merci. Molti stranieri sono andati al di là dell’offerta di mano d’opera, riuscendo a penetrare uno dei settori italiani tipici, come la micro e piccola imprenditoria, dimostrando una flessibilità e una

resistenza all’alternanza delle fasi economiche. I migranti e le loro imprese si trovano esattamente là dove servono, reagendo all’abbandono dei settori vitali del mercato del lavoro da parte degli italiani. Questo è un sintomo della perversione del nostro sviluppo che dedica energie e orienta verso settori e servizi che servono una rapida rentabilità e che hanno messo da parte i settori vitali della convivenza sociale, come la produzione alimentare locale, la costruzione, riparazione e mantenimento di manufatti e edifici, l’attenzione alla persona e l’assistenza alla famiglia. Anche grazie a questo elemento, gli stranieri riescono a consolidare la loro posizione in Italia, nonostante il vento avverso e una situazione economica non favorevole. Mentre le imprese italiane sono in netto declino, le imprese degli stranieri nel 2011 crescono del

le cifre del fenomeno

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Alla fine del 2011 sono 1.373.000 i migranti provenienti da paesi UE, in prevalenza dalla Romania (997.000), dalla Polonia (112.000), dalla Bulgaria (53.000). Sono 1.171.163, invece, i migranti dell’Europa non comunitaria, con in testa gli albanesi (491.495), seguiti

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dagli ucraini (223.782), dai moldavi (147.519), dai serbi e montenegrini (101.554), dai macedoni (82.209). Dall’Africa e soprattutto dal Nord Africa i migranti sono 1.105.826: Marocco (506.369), Tunisia (122.595), Egitto (117.145), Senegal (87.311), Nigeria (57.011), Ghana (51.924).

Dall’Asia, il totale è di 924.443 migranti; in particolare, cinesi (277.570), filippini (152.382), indiani (145.164), bangladesi (106.671) e srilankesi (94.577), pakistani (90.185).

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Il livello di maturità e di integrazione in Italia è confermato anche dalla richiesta di mutui per l’acquisto della casa: nel 2012 gli stranieri hanno avuto accesso al 7% del totale dei mutui immobiliari per un importo medio di 116.656 euro. Quasi 1,8 milioni di conti correnti del nostro sistema

finanziario sono intestati a stranieri. Sono già più di 3 milioni a possedere un’auto intestata e, nonostante la crisi del settore automobilistico, nel 2012 i proprietari stranieri di un’auto aumentano del 35%.

di origine. Le rimesse partite dall’Italia nel 2011 sono pari a 7,4 miliardi di euro (un quinto rispetto al totale europeo). Nel 2012 hanno subito una flessione, attestandosi a 6,8 miliardi di euro.

Gli immigrati producono ricchezza anche per i propri paesi

Oltre 2 milioni (6,8% del totale) di contribuenti stranieri


5,8%. I migranti incidono per il 9,1%, producono il 5,7% della ricchezza nazionale e conducono quasi 480.000 imprese delle quasi 6 milioni registrate in Italia.

Gli stranieri hanno penetrato i settori della produzione primaria, le mansioni essenziali come la logistica, le costruzioni, la raccolta della frutta e della verdura, ma hanno anche supplito alle mancanze del piccolo commercio, apportando nelle vicinanze urbane prodotti essenziali di consumo a prezzi più convenienti. Lo stesso vale per la ristorazione, nell’ambito della quale gli stranieri hanno saputo, non solo sostituire l’offerta stantia e tendenzialmente ad alto costo di ristorazione tradizionale, ma anche introdurre le offerte della loro origine etnica allargando la capacità di produzione e allo stesso tempo richiamando al consumo milioni di italiani che se ne stavano allontanando. I migranti hanno scovato il bisogno esistente nella nostra società che ormai prepara i giovani per un mercato del lavoro immaginario, inconsistente e obsoleto. Caso emblematico l’assistenza alle famiglie. Gli stranieri si sono dedicati all’assistenza e alla cura della persona e della famiglia, segmento nascosto del nostro mercato, snobbato e coperto, malamente e costosamente, da un raffazzonato welfare pubblico. Come dimostra un recente studio del Censis/Ismu, il numero effettivo dei collaboratori che, con formule e modalità diverse, prestano la loro attività presso le famiglie è passato da poco più di un milione del 2001 agli attuali 1 milione 655 mila (+53%). La maggioranza dei collaboratori che lavorano presso le famiglie sono di origine immigrata: si tratta del 77,3% del totale, cioè di quasi 1.300.000 lavoratori. Il settore è ancora poco strutturato, ma con un intervento a sostegno degli stranieri specializzatisi con opportune offerte d’inquadramento in forma di imprese o cooperative, si potrebbero dare delle risposte positive al restringersi delle capacità di spesa delle famiglie, a una scarsa socializzazione dei servizi e a una eccessiva precarietà dei lavoratori. L’incontro tra l’imprenditoria sociale, sviluppatesi in forma cooperativa in Italia, e ll’imprenditoria straniera emergente appare necessario per costruire dal basso un nuovo modello di welfare e, forse, di sviluppo.

nel 2010 hanno pagato 6,2 miliardi di euro di imposta netta ovvero il 4,1% dell’imposta netta pagata complessivamente in Italia.

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Secondo dati della Camera di Commercio di Milano, relativi alle ditte individuali e alle imprese presenti a Milano alla fine del 2012, oltre 26 mila imprese individuali (+11,5%) erano condotte da stranieri, quasi un quarto del totale dello stesso tipo d’imprese e occupavano quasi 40

Discorso a parte - e meno positivo - merita la gestione dell’emigrazione forzata. Negli ultimi anni, a causa di conflitti e destabilizzazioni politiche ed economiche a livello mondiale, qualche centinaio di migliaia di persone è stato accolto a vario titolo sul nostro territorio. Il sistema d’accoglienza caotico messo in opera dall’autorità è riuscito a sperperare risorse pubbliche, senza offrire un piano di integrazione e sviluppo ai soggetti richiedenti di protezione. Migliaia di stranieri sbarcati in Italia sono quindi stati frustrati nel loro tentativo d’impresa migratoria e considerati solo come soggetti passivi, da assistere, con il risultato devastante di mantenere nella marginalità la maggior parte di essi, di spingerli a movimenti irregolari e fallimentari in vari paesi europei o di lanciarli nel tunnel della clandestinità e delle inconcludenti e degradanti procedure d’espulsione. Queste decine di migliaia di persone, a differenza dei migranti economici ordinari, sono state in contatto con organizzazioni italiane di assistenza e tutela che avrebbero potuto - e potrebbero fornire loro modelli organizzativi e supporto per la creazione di imprese collettive o individuali capaci di insinuarsi nel nostro mercato del lavoro, ancora deficitario di capitale umano in settori primari e di assistenza per le famiglie. In questo senso, i centri di accoglienza dovrebbero diventare dei laboratori per la creazione di iniziative d’impresa tra stranieri e italiani residenti nel territorio d’accoglienza. Al contrario, si è generalmente cercato senza alcun successo l’integrazione unilaterale degli stranieri nel nostro stagnante mercato del lavoro, sottovalutando la loro duttilità e la loro propensione a creare impresa. Non siamo riusciti a strutturare e sposare la presenza straniera in strutture di accoglienza con le esigenze temporanee del mercato, come per esempio nel lavoro stagionale, perennemente deficitario di mano d’opera e di formalizzazione. L’incontro tra offerta e domanda nel settore del lavoro stagionale è avvenuta lo stesso, in forma spontanea e informale, grazie alla intermediazione del “caporalato” spesso straniero, che approfitta della presenza irregolare degli stranieri per riempire le carenze di manodopera stagionale, creando indecenti situazioni di disagio e sfruttamento. L’intrusione migratoria nella nostra stanca e bloccata economia è un elemento necessario, salutare e di rinnovamento. Dobbiamo imparare

mila persone (1 su 5 è italiano). Ma il totale di tutte le imprese (individuali e no) condotte da stranieri superava le 34 mila, il 12% del totale milanese con un numero di occupati attorno ai 100 mila addetti. Gli imprenditori stranieri sono la maggioranza nei phone centers e internet points (485

imprese straniere su 523) nel commercio ambulante di bigiotteria (91,8%), nel commercio al dettaglio ambulante di tessuti (86,3%) o di fiori (75,1%), nell’attività di sgombero di cantine e solai (61,9%), i servizi dei centri per il benessere fisico e massaggi (67,7% del totale), le attività di traduzio-

dall’esperienza dell’immigrazione irregolare informale in Italia e guardare con curiosità alle reti di supporto createsi, come la rete d’intelligence che ha portato gli stranieri a installarsi e integrarsi, in così tanti e in così poco tempo. A parte il contatto con le imprese straniere e l’offerta di appoggio in rete, si dovrà sempre più stimolare e creare ponti con le associazioni degli stranieri e stringere patti e alleanze a livello territoriale in modo da valorizzarne i successi e contribuire a risolverne i problemi. Le istanze poste dall’integrazione dei migranti sul territorio costituiscono una dimensione a cui il mondo della cooperazione sociale e della solidarietà dovrebbe guardare con molto interesse. Per finire, consideriamo che nelle Università italiane studiano 65.437 giovani di nazionalità molto rappresentate nel nostro paese. In questa ottica, la forza immigrata diviene una categoria complessa con una capacità di sviluppo che contempla anche l’espressione di quadri e gruppi dirigenti capaci di operare e di promuovere progetti di inserimento socioeconomico di migranti sia nel mercato italiano, sia nei mercati del paese d’origine, in partenariato con altre organizzazioni che sviluppino formazione professionale e startup d’impresa.

im pre sa mig ran te ne e interpretariato (67,1%) e l’attività di pulizia degli edifici (64,6%).

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L’impresa migrante in Italia

IlMONDO acasa nostra Forza e potenzialità dell’imprenditoria straniera

Maurizio Ambrosini

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l fenomeno dell’iniziativa imprenditoriale degli immigrati continua a crescere, malgrado la recessione, al ritmo di circa 20.000 nuove aperture all’anno (dati Dossier Caritas-Migrantes). In varie realtà locali, si deve a questi nuovi attori economici se il saldo tra imprese avviate e imprese cessate si mantiene attivo. Questo fenomeno ci dice anzitutto che gli immigrati hanno capacità, risorse, aspirazioni, una tenace volontà di migliorare la loro condizione, superando i limiti di

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un contesto di svalutazione generalizzata delle loro competenze professionali e di esclusione dall’occupazione qualificata. Parlare di lavoro autonomo, e ancor più di imprenditorialità, significa porre in risalto la capacità di iniziativa degli immigrati, pur se posti a confronto con condizioni avverse: malgrado la visibilità delle situazioni di bisogno, anch’esse indubbiamente in crescita, gli immigrati hanno in molti casi una forte aspirazione a superare una condizione di dipendenza, a diventare protagonisti

del loro destino, a integrarsi nella nostra società. L’apertura di un’attività rappresenta per una parte di loro il coronamento di un sogno di emancipazione, anche se diventa l’inizio di una condizione di impegno nel lavoro ancora più duro e sacrificato di prima. L’iniziativa economica degli immigrati, se ben regolata e trasparente, come dovrebbe essere ogni attività economica in una società sviluppata, rende più ricca e varia la vita urbana delle nostre città: rivitalizza antichi mestieri (dalle bancarelle dei mer-


L’impresa migrante in Italia

cati ai forni per il pane) e introduce nuovi prodotti, propone cibi esotici, stoffe e manufatti artigianali che vengono da lontano. In un certo senso, porta il mondo a casa nostra e consente di viaggiare mediante i consumi senza muoverci da qui. È auspicabile che possa contribuire anche a stimolare interesse, comprensione e simpatia verso paesi e popolazioni vicine e lontane. Un aspetto che alimenta l’imprenditoria degli immigrati consiste nella formazione di mercati “etnici”, ossia interni alle minoranze immigrate. Data la relativa giovinezza dell’immigrazione verso l’Italia, il fenomeno è ancora agli inizi, ma i ricongiungimenti familiari procedono, tra difficoltà abitative economiche e burocratiche. Ciò significa che si sta allargando il mercato dei potenziali acquirenti di prodotti e servizi che in genere, per diverse ragioni, difficilmente possono essere forniti da imprenditori autoctoni. Negli Stati Uniti si parla in proposito di “nostalgic trade”: ossia della ricerca di prodotti che rievocano l’atmosfera, i profumi, i sapori della patria lontana. I casi di quartieri connotati etnicamente sono ancora rari, né si svilupperanno agevolmente in un paese in cui le politiche pubbliche hanno incoraggiato con innegabile successo l’acquisto dell’abitazione da parte delle famiglie, mentre l’edilizia sociale è poco sviluppata. Nelle maggiori città, tuttavia, alcune concentrazioni urbane significative si stanno costituendo, formando un ambiente favorevole per l’installazione di negozi e servizi di operatori stranieri. Anziché essere considerati e trattati come ghetti, quartieri etnici risanati, governati e abbelliti sono diventati in parecchie città del mondo delle vere e proprie attrazioni turistiche, in cui ristoranti, locali e negozi aperti da imprenditori di origine immigrata sono il principale richiamo per turisti e visitatori. Più in generale, il consolidamento delle reti migratorie e la loro stratificazione interna, che facilitano la circolazione di informazioni, il reclutamento di lavoratori, l’eventuale ricerca di finanziamenti, rappresentano un terreno di coltura per l’avvio di attività indipendenti, anche per effetto dei processi imitativi all’interno delle varie componenti nazionali della popolazione immigrata. Un altro aspetto di rilievo consiste nelle aperture transnazionali di una parte di queste esperienze; proprio in quanto commerciano prodotti che arrivano da lonta-

no, svolgono servizi di connessione tra le due sponde delle migrazioni o reinvestono in patria una parte dei ricavi. In questa prospettiva, gli operatori economici immigrati possono essere visti come protagonisti di fenomeni di “globalizzazione dal basso”, in quanto capaci di porre in relazione le società di origine con quelle di insediamento e di costruire rapporti economici (e non solo) reciprocamente vantaggiosi. Sono i fenomeni che abbiamo approfondito, a Milano, a Genova e a Torino, con la ricerca “Intraprendere tra due mondi” (ed. Il Mulino). L’imprenditoria immigrata può costruire ponti tra paesi lontani e rappresentare un fattore propulsivo dell’interscambio commerciale nelle due direzioni. In altri termini: le attività economiche degli immigrati qui possono favorire lo sviluppo di attività complementari nei loro paesi d’origine. Anche le agenzie internazionali stanno scoprendo il potenziale dei migranti come agenti di sviluppo e il possibile ruolo degli immigrati con esperienze imprenditoriali come protagonisti non solo dell’invio di rimesse, ma anche di nuove attività economiche nei luoghi di partenza. I nessi tra imprenditorialità e transnazionalismo nel caso italiano sono indubbiamente ancora da approfondire, ma si tratta certamente di una direttrice di sviluppo di notevole interesse. Un’ultima riflessione riguarda gli effetti dello sviluppo di attività indipendenti sui rapporti tra società locale e popolazioni immigrate. Il lavoro indipendente rappresenta per gli immigrati, come ho già osservato, il principale sbocco delle aspirazioni di miglioramento delle proprie condizioni. Si potrebbe definirlo come un antidoto all’integrazione subalterna, ossia al confinamento nelle posizioni svantaggiate della struttura occupazionale. Scarsa esperienza di società ricevente, problemi linguistici –particolarmente seri nel nostro paese, che non ha un grande retaggio coloniale né una lingua molto parlata nel mondo, resistenze a riconoscere i titoli di studio, accentuano l’importanza degli spazi del lavoro autonomo come alternativa alla formazione di minoranze permanentemente svantaggiate e quindi suscettibili, presto o tardi, di scatenare tensioni e dinamiche oppositive nei confronti della società ospitante. Non va trascurato, a questo proposito, l’effetto di problematizzazione degli stereotipi che può produrre la diffusione di occupazioni diverse, socialmente più

considerate, in termini di innalzamento dell’immagine complessiva della popolazione immigrata, o almeno dei gruppi di appartenenza dei lavoratori autonomi. Constatare che il negoziante, il muratore, il ristoratore, la parrucchiera che si incontrano nella vita quotidiana provengono da lontano, può contribuire a collocare gli immigrati in una luce diversa, più attenta alle specificità individuali e più consapevole della pari dignità delle persone, da qualunque parte del mondo provengano. Sappiamo peraltro che questi processi non sono univoci e lineari: a volte, proprio la penetrazione in occupazioni e settori in cui gli autoctoni sono ancora attivi suscita proteste e conflitti interetnici. A Prato, per esempio, lo sviluppo delle attività di proprietà cinese nelle produzione di confezioni per conto terzi ha sollevato le reazioni dei “terzisti” italiani, messi in difficoltà dai nuovi competitori, con un seguito di accuse di concorrenza sleale, richiesta di maggiori controlli, ripercussioni anche politiche nella società locale. Come tutti i fenomeni economici, anche l’imprenditoria degli immigrati va regolata con saggezza e lungimiranza, contrastandone le espressioni indesiderabili e valorizzandone le potenzialità positive sia per le società riceventi, sia per quelle di origine.

maurizio ambrosini Maurizio Ambrosini (Vercelli, 1956) insegna sociologia dei processi migratori e sociologia urbana all’università degli studi di Milano. Responsabile scientifico del centro studi sulle migrazioni nel mediterraneo di Genova, dove dirige la rivista “Mondi Migranti”. Alcune pubblicazioni: • L’inserimento lavorativo degli immigrati: il caso lombardo, Milano, Fondazione Cariplo per le iniziative e lo studio sulla multietnicita, 1993. • Utili invasori: l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, Milano, F. Angeli, 1999. • La fatica di integrarsi: immigrati e lavoro in Italia, Bologna, Il Mulino, 2001. • Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2005. • Un’altra globalizzazione: la sfida delle migrazioni transnazionali, Bologna, Il Mulino, 2008. • Richiesti e respinti: l’immigrazione in Italia, come e perché, Milano, Il Saggiatore, 2010.

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L’impresa migrante in Italia

Migr anti:

nuova impresa, nuova economia Agrin Amedì

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a scena economica mondiale, con il nuovo secolo, ha subito notevoli mutamenti sia produttivi che tecnologici, con inevitabili ricadute politiche e culturali. Si pensi all’economia cinese e a quella degli altri paesi appartenenti al gruppo dei “Brics” (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), alla nuova attenzione riposta sul sistema africano e al suo serbatoio di risorse, ai nessi che intercorrono tra sviluppo economico, culturale e religioso (si pensi all’Islam). Uno scenario che rende sempre

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più incalzante, per l’Italia, la necessità di riposizionarsi in modo strategico sui mercati internazionali. L’attuale sistema produttivo appare tuttora composto da grandi imprese poco internazionalizzate e da piccole e medie imprese che, quando sanno proporsi sui mercati stranieri, scontano il confronto, soprattutto finanziario, con i propri competitor stranieri. Pertanto, in assenza di una strategia nazionale, rimane indubbia la difficoltà delle piccole e medie imprese

a individuare partner esteri in grado di sostenerne lo sviluppo. A sostegno di queste esigenze imprenditoriali, negli ultimi dieci anni sono stati creati in Piemonte servizi di orientamento e supporto alle nuove imprese che ambiscono a trarre vantaggio dalle nuove tendenze globali. Tra questi servizi rintracciamo il MIP, acronimo per “mettersi in proprio”, un servizio di consulenza, accompagnamento e tutoraggio, istituito dalla Regione Piemonte e dalla Provincia


L’impresa migrante in Italia

di Torino attraverso il Fondo sociale europeo, in un’ottica di aggancio del sistema delle piccole e medie imprese torinesi alle reti europee ed extra-europee, al fine di favorire la promozione e la vendita dei prodotti, la realizzazione di partnership permanenti e favorire lo sviluppo di adeguati servizi in materia. A tal proposito, la Regione Piemonte in accordo con la Camera di Commercio, ha istituito il CEIP Piemonte, organismo regionale con il compito di promuovere il sistema produttivo locale sui mercati esteri e favorire l’attrazione di investimenti produttivi, di servizi e di ricerca. In quest’ottica, di sicuro interesse, nonostante le difficoltà dell’attuale fase economica, appare il radicamento di iniziative imprenditoriali avviate dagli stranieri sul territorio provinciale. Gli imprenditori stranieri, infatti, continuano a crescere numericamente, confermandosi quale componente fertile del tessuto produttivo locale e candidandosi, per loro intrinseca natura, a fungere anche da volano con le economie dei propri paesi di appartenenza (dati della Camera di Commercio di Torino, dicembre 2011). Nel complesso le imprese torinesi a guida straniera registrano un saldo positivo 31 mila unità, con un incremento del +3,7% rispetto al 2010. Anche i primi dati del 2012 confermano un trend positivo (+ 5,8 %, pari a + 24 mila unità) e ben si sposano con il fatto che nella provincia di Torino opera circa il 5% del totale degli imprenditori stranieri attivi in Italia (subito dopo Milano e Roma). Dati che, come precisa Marco Manero, responsabile del MIP, fanno riferimento solo alle imprese e non considerano i liberi professionisti. A questi, prosegue Manero, “dovremmo aggiungere i liberi professionisti che aprono partita IVA ma non sono iscritti al Registro delle Imprese, come i designer, i program-

matori di software e i musicisti, oltre che gli avvocati, i commercialisti, gli architetti.” Tenendo insieme più variabili si potrebbe dire che “l’imprenditorialità etnica” - tale per i suoi prodotti e/o per la clientela di riferimento - possiede numeri ancora superiori. Nate inizialmente per rispondere a una nuova domanda (o clientela), queste imprese mostrano una certa dinamicità: colmano un vuoto di mercato, inseriscono nuovi elementi di concorrenza prima inesistenti e aumentano il tasso di occupazione. Una recente indagine della Camera di commercio di Torino e del Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione, dal titolo “Non solo braccia”, ha evidenziato che nel periodo 2008 - 2011, 15.756 ditte individuali con titolare straniero hanno impiegato, nel territorio provinciale, 15 mila lavoratori. Attività che in molti casi hanno trovato una propria solidità economica anche rivolgendosi, a livello di clientela, alla popolazione autoctona. Emblematica la presenza di kebab che, nati per rispondere all’esigenza culinaria delle comunità arabe, si è incrociata con il bisogno, ormai diffuso nelle metropoli, di consumare pranzi veloci a prezzi contenuti. “In molti casi,” prosegue Manero, “i migranti sono portatori di una serie di capacità che caratterizzano i casi di successo: hanno un’idea chiara, delle capacità tecniche - un cuoco non si improvvisa - e la voglia di ‘lavorare duro’. Così, una volta individuati il mercato, il cliente, il pezzo, affrontano il rischio con consapevolezza. Il mercato risponde e magari aprono un’impresa più grande. Vi sono poi iniziative imprenditoriali in cui l’elemento etnico appare meno evidente al consumatore. Dai dati del MIP,” conclude, “risulta infatti che vi sono delle imprese, fondate da migranti, che operano nel campo dei trasporti e della logistica: settore in cui diversi, inizial-

mente, si sono specializzati partendo dai bisogni dei connazionali che operavano nei mercati rionali”. Molte imprese che nascono oggi sono ditte di auto-impiego, alle volte sulla base della necessità di ottenere il permesso di soggiorno. Si tratta di imprese il cui problema non è l’avvio, ma la competizione sul mercato. Il MIP, tra le altre cose, aiuta i migranti a valutare la fattibilità del proprio progetto imprenditoriale. Esistono poi, sempre tra i migranti, dei percorsi di successo imprenditoriale che non necessitano di tali consulenze perché provenienti da comunità etniche già molto attrezzate al proprio interno, come ad esempio quella cinese. Il 5% di chi si rivolge al MIP è rappresentato da persone che provengono da paesi extracomunitari, l’8% da paesi Ue, tra cui molti neocomunitari (Romania, in primis). Grande motivazione e capacità ne sono l’elemento caratterizzante, ma si tratta comunque di una percentuale molto bassa, condizionata, probabilmente, dal necessario capitale iniziale e dalla mancanza di reti di garanzia familiare. Questo, nonostante gli enti locali piemontesi offrano, accanto a tradizionali piani di agevolazione finanziaria, una significativa tradizione di consulenza e informazione per chi voglia creare impresa, supportando anche la realizzazione di specifici business plan. Da diverso tempo il MIP fornisce consulenza anche a migranti intenzionati a promuovere imprese tecnologicamente avanzate (in collaborazione con l’Incubatore d’Impresa del Politecnico di Torino). La concorrenza dei nuovi paesi emergenti evidenzia come l’internazionalizzazione delle imprese sia un elemento indispensabile, inderogabile e vitale per la sopravvivenza futura di molte delle nostre aziende. E in questo i migranti stanno mostrando, al di là dei numeri, una dinamicità che merita forte attenzione.

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L’impresa migrante in Italia

Gli

stranieri: un

VALORE economico

per la società Analisi dei dati tratti dal rapporto annuale della Fondazione Leone Moressa. Giuseppe Lorenti

P

er capire e valutare i processi di integrazione degli stranieri, l’occupazione ha un peso rilevante. L’integrazione, infatti, ha a che fare anche con una politica del lavoro efficace dove il lavoro non è soltanto condizione sine qua non per rimanere in Italia, ma frutto di un percorso di istruzione, di formazione e di orientamento adeguati. E’ sufficiente soltanto un dato per capire la rilevanza delle aziende di immigrati in Italia: 454.000 imprese avviate da cittadini immigrati che

8| SQM

rappresentano il 7,4 del totale delle aziende operanti nel nostro Paese. Tutto ciò ci fa comprendere che il fenomeno immigrazione non può e non deve essere letto solo su questioni legale alla sicurezza e al contenimento o repressione. Oggi, infatti, la presenza straniera rappresenta un valore economico per la società. Gli immigrati rappresentano ormai circa il 9% del totale degli occupati e la componente femminile è ancora più importante: le donne straniere costituiscono infatti il 9,4% del totale

delle donne occupate in Italia. Rispetto agli italiani, i lavoratori stranieri sono poi relativamente giovani: il 32,6% del totale degli occupati stranieri ha tra i 25 e i 34 anni, contro il 20,9% degli italiani. Nel 2011 nonostante la crisi, le imprese straniere hanno registrato un saldo positivo di oltre 26.000 unità. Inoltre, gli immigrati preferiscono costituirle insieme a connazionali piuttosto che con italiani. Più di 156mila aziende straniere si concentrano nel settore del commercio, cui fa seguito


L’impresa migrante in Italia

quello delle costruzioni con quasi 125mila e quello dei servizi con più di 89mila unità. Ma è, soprattutto, nell’edilizia che la presenza straniera si fa più marcata: infatti su 100 imprese di questo settore, quasi 14 sono condotte da imprenditori stranieri. Nel commercio questa percentuale si abbassa al 10,1%, seguita da alberghi e ristoranti al 7,7% e dalla manifattura 6,3%. Come distribuzione geografica viene confermato il dato che è più alta la presenza di imprese straniere nel Nord Italia. Con più di 85mila imprese è la Lombardia la regione che presenta il maggior numero di aziende condotte da stranieri (18,9% del totale), seguita dal Lazio (11,2%) e dalla Toscana (10%). Le imprese straniere chiudono il 2011 con un saldo totale po-

IMMIGRATI NEL SETTORE 2012

CRESCITA DI OPERAI E PERSONALE ITALIANO RISPETTO AL 2011

CONDUTTORI IMPIANTI FABRICAZIONE CARTA 15,4

6,7

CONDUTTORI IMPIANTI PER TRASFORMAZIONE DI MINERALI 6,1

4,3

VASAI E SOFFIATORI 9,9

3,1

CONDUTTORI IMPIANTI TRATTAMENTO E ESTRAZIONE MINERALI 2,8

6,5

DATI IN PERCENTUALE

sitivo di 25.567 unità, vale a dire con un tasso di progresso del 5,9% a fronte di un tasso del -0,5% delle imprese italiane, che contano un saldo negativo di oltre 28mila unità. Anche i settori mostrano delle differenze: nei servizi, infatti, il saldo è positivo sia per le imprese italiane (+85.532) che per le imprese straniere (+14.360), mentre negli altri comparti si è registrato un bilancio positivo per le aziende condotte da stranieri e negativo per quelle condotte da italiani. Per esempio, nel commercio le aziende straniere sono aumentate di 6.600 unità, mentre quelle italiane hanno subito una perdita di oltre 40mila imprese. Stesse considerazioni valgono per il settore delle costruzioni dove l’anno si chiude con un saldo di +4.399 per le imprese straniere e

PESCATORI E CACCIATORI 7,6

2,9

di -17.561 per le imprese italiane. è evidente che la crisi economica ha avuto effetti molto forti sia sull’occupazione che sull’imprenditorialità straniera. La crisi ha colpito in misura maggiore le fasce più vulnerabili della popolazione, di cui sono parte anche molti immigrati. La diminuzione dell’occupazione straniera corrisponde anche a una significativa contrazione della domanda di manodopera straniera proveniente dalle imprese e dai servizi. La crisi, però, può diventare un’occasione per interrogarsi sulle attuali politiche migratorie in Italia e per valutare la loro effettiva capacità di includere gli stranieri nel tessuto sociale da un lato, e di valorizzarne le potenzialità e le risorse dall’altro.

NON QUALIFICATI IN MINIERE E CAVE

SPECIALIZZATI PULIZIA EDIFICI

18,5

10,2

11,5

9,0

VENDITORI AMBULANTI

CONDUTTORI IMPIANTI FABBRICAZIONE GOMMA

36,5

19,9

2,3

1,9

ASSEMBLAGGIO PRODOTTI INDUSTRIALI

MACCHINARI ARTICOLI LEGNO

NON QUALIFICATI NELLA MANIFATTURA

12,6

25,4

25,4

1,5

0,9

0,7

NON QUALIFICATI NELLA LOGISTICA

MACCHINE CONFEZIONATRICI

CONDUTTORI MACCHINE AGRICOLE

24,6

17,3

13,8

0,7

BRILLATORI, TAGLIATORI DI PIETRE COLTIVATORI DI SALINE 15,0

6,4

0,6

SPECIALISTI IN DISCIPLINE ARTISTICHE 6,3

3,8

0,5

NON QUALIFICATI CURA DEGLI ANIMALI 26,2

3,1

FONTE: FONDAZIONE LEONE MORESSA

SQM|9


migranti: da dipendenti a imprenditori di se stessi

solo alfredo,

!

per tutti testimonianza di Alfredo Rodriguez, Perù

Claudio Praturlon

Mi Per Avevo

chiamo Alfredo Rodriguez, ma per tutti sono solo Alfredo. Sono arrivato in Italia nel 1992, successivamente alla legge Martelli con tutte le difficoltà che questo ha comportato per il rilascio dei documenti.

lasciato il Perù per trovare fortuna e lavoro e la mia motivazione mi ha molto aiutato a superare le difficoltà che come immigrato dovevo quotidianamente affrontare e risolvere. Il mio desiderio era di lavorare per aiutare le persone che soffrono. Per me era importante vivere in funzione delle relazioni umane che riuscivo a creare, che volevo ricche e colme di significato. Per questo ho iniziato a interessarmi all’assistenza delle persone come badante.

In

quel periodo fu fondamentale l’aiuto ricevuto dagli Enti religiosi, che dopo avermi conosciuto, mi aiutavano segnalandomi come persona affidabile alle famiglie che necessitavano dell’aiuto di un badante per i loro cari.

10| SQM

dieci anni ho assistito persone affette dalle più diverse patologie: dal morbo di Parkinson all’Alzheimer, dalla demenza senile alla tetraparesi, e questo mi ha consentito di accumulare un’esperienza molto vasta e ricca. Mi rendevo comunque conto che sarebbe stato importantissimo valorizzarla con l’acquisizione di una qualifica professionale per formalizzare le mie competenze. Per questo, nel 2003, con grande soddisfazione ho conseguito il diploma di operatore socio sanitario, presso la clinica Cellini di Torino. L’attestato mi ha consentito di sperimentare nuove collaborazioni professionali, con varie RSA e RAF del Piemonte.

L’

esperienza che ricordo con maggiore piacere e intensità è il lavoro in una comunità per minori diversamente abili: il rapporto umano di grande spessore, il lavoro in équipe con gli educatori, l’elaborazione di progetti educativi, tutto questo non ha fatto altro che rinforzare la mia motivazione umana e professionale.

Da

più parti, con sempre maggiore frequenza, mi chiedevano se conoscessi badanti affidabili ed esperti. E mentre l’esigenza di assistenza personale stava crescendo in modo rapido e costante, molti miei connazionali avevano intenzione di intraprendere questo tipo di professione. Ero consapevole che in questo settore la motivazione e la carica umana sono fondamentali, ma avevo anche capito, grazie alla mia esperienza, che queste qualità devono essere affiancate da adeguate competenze di carattere tecnico e professionale, in modo di poter offrire un servizio di qualità alle persone che già soffrono per le loro situazioni personali. Un badante è soprattutto capacità di relazione umana e professionalità.

Da

questa situazione nasceva in me il desiderio di dare l’opportunità, specialmente ai miei connazionali, di acquisire e conoscere il bagaglio tecnico necessario per svolgere in modo ottimale il lavoro di badante.


migranti: da dipendenti a imprenditori di se stessi

In

questa ottica, nel 2008, ho proposto alla circoscrizione 2 di Torino un progetto per la realizzazione di una ONLUS, il centro interculturale Franto’s. Il nome è frutto dell’unione dei nomi delle mie adorate figlie Francesca e Antonella. Sono anche riuscito a farmi assegnare dei locali dismessi. Chiunque altro avrebbe pensato a fare un mutuo per la propria casa, io invece con un anno di lavoro, molti grattacapi, sacrifici e fatica sono riuscito a realizzare ciò che sognavo e nel 2009 finalmente Franto’s era diventata una realtà!

L’

associazione ha come scopo principale di offrire formazione empirica ai badanti e di aiutare le famiglie che hanno bisogno di assistenza. Tutto questo, senza scopo di lucro, ma esclusivamente nell’ottica di migliorare il servizio reso alle persone non autosufficienti o ammalate.

IMMIGRATI NEL SETTORE 2012 ADDESTRATORI E CUSTODI DI ANIMALI 8,1

5,4

Non

dimentico il calcio, che in Perù è molto seguito. Quindi ogni venerdì, grazie alla disponibilità del comune di Torino, ci ritroviamo ai campi di calcetto annessi alla piscina di via Gaidano e diamo vita a memorabili partite.

Sono

realmente contento e gratificato dall’aver scelto di dedicarmi alle persone. Intuivo che sarebbe stato positivo per me. Adesso, ne ho la certezza.

CRESCITA DI OPERAI E PERSONALE STRANIERO RISPETTO AL 2011 OPERAI SPECIALIZZATI ALLA PITTURAZIONE

BADANTI NON QUALIFICATO

QUALIFICATI NEI SERVIZI DOMESTICI

20,8

70,9

57,9

NON QUALIFICATO NELL’AGRICOLTURA

CUSTODI

27,0

17,4

3,1

Nel

corso del tempo, è emersa anche l’esigenza di mantenere unita la comunità peruviana di Torino e agevolarne l’integrazione. Nella consapevolezza di possedere un grande contributo di cultura e tradizione nazionale da offrire, abbiamo fondato l’associazione Immaculata Virgen de La Puerta, con l’intenzione di perpetuare la tradizionale e antica processione che si tiene ogni anno nella seconda settimana di dicembre, così toccante per noi peruviani - e non solo - e da sempre occasione di incontro per tutti i miei connazionali e per le loro famiglie. Ogni mese la comunità si ritrova per celebrare la preghiera liturgica, ma ai peruviani piace anche stare insieme per cantare, ridere, ballare e spesso l’associazione diventa luogo di festa.

3,5 2,9

3,3

3,1

NON QUALIFICATO SERVIZI DI PULIZIA

MACCHINARI FISSI AGRICOLTURA

23,1

19,2

2,7

2,6

OPERAI MACCHINE LAVORAZIONE METALLI

SPECIALIZZATI NELLA LAVORAZIONE DEL CUOIO

OPERAI SPECIALIZZATI NELLE COSTRUZIONI

FONDITORI, SALDATORI, LATTONIERI

19,4

16,6

32,5

20,4

2,1

DATI IN PERCENTUALE

1,7

1,4

0,7

FONTE: FONDAZIONE LEONE MORESSA

SQM|11


migranti: da dipendenti a imprenditori di se stessi

?

Perchè l’imprenditore preferisce lavoratori stranieri Il

ricorso al lavoro immigrato da parte delle imprese italiane è un fenomeno di proporzioni e caratteristiche ormai strutturali, divenuto un elemento irrinunciabile per il funzionamento del tessuto economico italiano. Il peso della componente straniera sul totale dei lavoratori in Italia è aumentato costantemente in particolare nell’ultimo decennio, raggiungendo a fine 2011 i 2,5 milioni, cioè un decimo dell’occupazione totale.

Perché

gli immigrati sono diventati sempre più numerosi e decisivi nei diversi settori dell’economia italiana? E più nello specifico, quali fattori hanno indotto le aziende italiane a rivolgersi sempre più ai lavoratori stranieri? La ricerca “Non solo braccia” condotta da FIERI in col-

12| SQM

laborazione con la Camera di Commercio di Torino nel corso del 2012, ha interrogato il fenomeno del crescente ruolo del lavoro straniero nell’economia italiana dalla prospettiva degli imprenditori stessi.

Il

declino demografico fornisce infatti una spiegazione solo parziale all’insufficiente offerta di lavoratori nazionali. Ancor prima che non reperibili sul mercato del lavoro, i lavoratori italiani si dimostrano sempre meno propensi ad accettare le condizioni di lavoro imposte da certi impieghi, e in particolare a svolgere lavori poco retribuiti, che richiedano sacrifici in termini di condizioni, orari e di tempi di lavoro faticosi, affatto o poco qualificati, umili o ritenuti socialmente poco prestigiosi o simbolicamente de-valorizzati. Tuttavia, pur in presenza di un evidente fenomeno strutturale di sostituzione (cioè di un deficit di offerta nativa, alla quale ne subentra una immigrata) la forza lavoro

Eleonora Castagnone

straniera sembra offrire in molti casi anche vantaggi competitivi, almeno di tre tipi.

Il

primo è relativo al livello educativo e alle qualifiche di cui gli stranieri sono in possesso, che spesso risultano superiori alle mansioni effettivamente ricoperte, concentrate principalmente in settori a bassa produttività, a ridotto valore tecnologico, in imprese piccole o molto piccole, ancora largamente basate su sistemi produttivi tradizionali. In altre parole quello stesso posto di lavoro che avrebbe potuto essere ricoperto da un lavoratore italiano poco o per nulla qualificato, o che magari sarebbe addirittura rimasto vacante, finisce in molti casi per essere accettato da un lavoratore straniero con un livello di istruzione medio-alto. Grazie a un bacino di lavoratori disponibili ad accettare posti di lavoro inferiori ai propri titoli di studio, le aziende italiane arrivano così a disporre di personale con un capitale umano qualifica-


migranti: da dipendenti a imprenditori di se stessi

to, che, sebbene a costo di forti esternalità negative, può generare un valore aggiunto specifico e immediato sotto forma di capacità di apprendimento e performance sul lavoro.

Il

secondo valore aggiunto specifico della manodopera straniera risiede in specifiche competenze tecnico-professionali, che i migranti hanno assunto attraverso precedenti esperienze lavorative, come nel caso degli egiziani nei ponteggi dei cantieri dei Paesi del Golfo. Si tratta anche delle cosiddette ‘specializzazioni etniche’ determinate dalla concentrazione di certi gruppi nazionali in certi settori o occupazioni in Italia, da cui deriva un vero e proprio capitale umano collettivo, effettivo o socialmente costruito, come i sikh nell’allevamento, o come i romeni nell’edilizia.

La

concentrazione significativa di alcuni gruppi nazionali in determinate nicchie del mercato del lavoro, tuttavia, non è sempre il risultato di scelte, mentalità, forme di socializzazione, esperienze pregresse, che li inducono a inserirsi con particolare interesse proprio in quei lavori. Ad agire sulla specializzazione professionale di alcuni gruppi, più che “culture” originarie, sono soprattutto i legami e le reti sociali che favoriscono l’incontro fra domanda e offerta in certi settori, grazie al ruolo dei network e del passaparola. Le “immagini collettivizzate” e le “reputazioni etniche” cioè l’apprezzamento – positivo o negativo – dei lavoratori di certe nazionalità in determinate mansioni o settori, frutto dell’esperienza condivisa fra la comunità degli imprenditori, contribuiscono a loro volta a rendere preferibili determinati gruppi di lavoratori e a contribuire alla riproduzione delle enclave etniche.

Il

terzo punto di forza dei lavoratori stranieri fa leva su doti psicologicoculturali, e in particolare su un vero e proprio “capitale motivazionale” di cui gli immigrati sarebbero dotati in misura maggiore rispetto alla maggioranza dei nativi, che deriva dalle condizioni socio-economiche da cui provengono e da una determinazione forgiata dall’esperienza migratoria. Questo capitale si concretizza nella disponibilità ad accettare lavori e mansioni anche lontani dalle competenze possedute e dal livello di istruzione ottenuto, oltre che dalle aspettative iniziali; si traduce in elasticità e capacità di

adattamento anche in situazioni di pressione, come quelle imposte dalla crisi economica in corso. L’adattabilità e la disciplina esaltate dagli interlocutori intervistati si fondano anche su un differenziale - questa volta in negativo – in termini di diritti, condizioni di lavoro, misure di sicurezza, livelli di retribuzione rispetto alle precedenti situazioni lavorative nei paesi origine. Flessibilità e resilienza sono così doti attribuite agli stranieri, associate alla capacità di reperire strategie alternative e di adattarsi alle difficoltà, che si sono messe in evidenza ad esempio in situazione di perdita del lavoro o in tempi di crisi, come quelli che stiamo attraversando. In quest’ottica i lavoratori migranti sembrano diventare non solo sempre più irrinunciabili, in quanto sostituti inevitabili degli italiani, ma anche preferibili e competitivi.

dure. La crisi potrebbe frenare questa spinta emancipativa e questa domanda di mobilità socio-lavorativa ascendente, ma difficilmente la bloccherà. Per evitare conflitti etno-generazionali, è bene assecondare questa legittima spinta, anziché contrastarla difendendo, più o meno esplicitamente, la rigida segmentazione su base etnica e nazionale del nostro mercato del lavoro.

Tuttavia

,

dal punto di vista della produttività complessiva, un modello di integrazione economica subalterna degli stranieri in Italia pone seri problemi di sostenibilità sul medio-lungo termine. Fino ad ora le aziende hanno puntato sul lavoro (immigrato) a basso costo come sistema alternativo agli investimenti in modernizzazione e innovazione dei processi produttivi, in tecnologie, in ricerca e sviluppo. Questo sistema produttivo è tuttavia destinato a diventare sempre più obsoleto e sempre meno competitivo per le aziende italiane, da un lato, e sempre meno sostenibile per i migranti stessi, dall’altro. Le aspettative professionali di questi ultimi tendono infatti sempre più a convergere nel tempo con quelle dei locali, allontanandoli dai posti di lavoro più faticosi, meno pagati, con minori prospettive di miglioramento (Luciano, 2006). La disponibilità illimitata alla dequalificazione e alla segregazione occupazionale viene meno, l’asticella delle aspettative occupazionali si alza. Alla massimizzazione immediata del reddito, si antepongono strategie di miglioramento più ampio della qualità del lavoro e delle condizioni di vita. Ancor più impensabile è che ad accettare le condizioni e i posti di lavoro offerti attualmente agli stranieri, siano i figli di questi stessi stranieri, nati, cresciuti e socializzati in Italia, dunque sprovvisti in partenza di quella dose di “fame” - per citare una delle interviste della ricerca - che ha reso i padri disposti a sacrifici e resilienti alle condizioni più

eleonora castagnone è ricercatrice senior presso FIERI, Forum Internazionale ed Europeo di Ricerca sull’Immigrazione (www.fieri.it). Ha conseguito nel 2011 il Dottorato di ricerca in Sociologia presso il Dipartimento di Studi Sociali e Politici dell’Università degli Studi di Milano e nel 2007 ha svolto un Master in Management of Development presso l’ITC-ILO (International Training Center of the International Labour Office). Fra i suoi temi di lavoro, vi sono l’integrazione socio-economica dei migranti in Italia, il lavoro nel settore della cura, l’associazionismo dei migranti, le forme di transnazionalismo sociale, economico e culturale. Alcune pubblicazioni: • Castagnone E., 2012, Il lavoro immigrato: la prospettiva delle imprese, in FIERI-CCIAA, “NON SOLO BRACCIA. Un’indagine sull’impiego di lavoro immigrato nelle imprese del torinese”, Camera di Commercio di Torino. • Castagnone E., 2008, “Migranti e consumi: il versante dell’offerta. Strategie di imprenditoria straniera nel settore del commercio alimentare al dettaglio”, in Mondi Migranti, n° 3/2008, F. Angeli. • Castagnone E. (con Ferro A., Mezzetti P.), 2008, “Migranti e associazionismo transnazionale”, in Quaderni Rassegna Sindacale Lavori, n° 2/2008, Migranti e cittadinanza, EDIESSE, Roma. • Castagnone E., 2010, “Il caso di Torino: imprenditori marocchini nel settore del “food””, in Chiesi A. (a cura di), Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori, CNEL

SQM|13


Migranti e cooperative

Rifugiati e vulnerabili: 12 cooperative per ripartire, il progetto FER Re-Startup. Intervista a Valentina Fabbri, presidente Programma Integra

T

ra i progetti finanziati dal FER (Fondo Europeo per i Rifugiati) attivi in questa annualità, c’è Re-Startup, finalizzato a supportare la nascita di cooperative promosse da rifugiati. All’iniziativa partecipa Programma Integra di Roma, di cui abbiamo intervistato la presidente, Valentina Fabbri.

Com’è strutturato Re-Startup e chi sono i beneficiari? Si tratta di un progetto FER di due annualità rivolto a soggetti vulnerabili. Avviato il 1 settembre 2012, alla fine di giugno si chiude il primo anno di lavoro. Vi sono molti partner attivi nel progetto, ognuno agisce su uno specifico territorio, per sei aree in tutto. Il capofila è la coop. Camelot di Ferrara, ma ci sono anche Parma, Trieste, Brescia, Copertino (LE) e Roma, appunto. L’obiettivo del progetto è la promozione dell’integrazione socio-economica dei titolari di protezione internazionale vulnerabili, con particolare attenzione alle donne, attraverso lo svolgimento di corsi di formazione imprenditoriale e l’accompagnamento allo start-up di cooperative. Per ognuno dei territori coinvolti si prevede di supportare, per ogni annualità di progetto, la creazione di una impresa cooperativa, per un totale di dodici imprese avviate al termine del progetto. Per la creazione di una cooperativa è necessario che vi siano almeno tre persone, ma il numero di destinatari da raggiungere alla fine dell’intervento è molto più alto, per un totale di 245 persone, divise tra i vari territori. Su Roma, dobbiamo raggiungerne 60.

14| SQM

Quali tipologie di cooperative stanno nascendo e con quali modalità? La tipologia è molto varia, e dipende unicamente dalle idee imprenditoriali che aveva già le persone coinvolte. I destinatari hanno aderito spontaneamente dopo essere stati raggiunti soprattutto dalla pubblicità svolta per l’iniziativa nei luoghi di interesse per migranti e rifugiati. Sulla base delle aspirazioni dei partecipanti, stanno nascendo varie tipologie di cooperative in questo primo anno di progetto: a Brescia e Parma due ciclofficine, in Puglia una cooperativa per la rivendita di mobili usati, a Ferrara un’impresa di servizi per la sicurezza nei locali, a Trieste una rivendita di cibo etnico. A Roma sono in gioco circa cinque buone idee. Stiamo cercando di capire se si può dividere il contributo per finanziarle tutte e cinque entro i due anni previsti. Si tratta di due cooperative multi-servizi (pulizie e altro), una di cucina etnica, una di traslochi, una per un banco frutta. A Roma, le nazionalità sono le più varie: Afghanistan, Togo, Costa d’Avorio, Camerun...

Qual è stato il processo che ha portato alla selezione dei beneficiari e delle idee? Tra i criteri di selezione dei beneficiari vi era, oltre alla titolarità di un permesso di protezione vulnerabili, anche una buona conoscenza dell’italiano e l’esistenza di un’idea imprenditoriale. Così, i partecipanti sono per lo più persone già da tempo presenti sul territorio. Si è deciso di coin-

Arianna Cascelli

volgere almeno il 25% di donne, soprattutto madri sole (a Roma per il momento partecipano in 13) e vittime di violenza, essendo le categorie di anziani e disabili, tra quelle potenzialmente da coinvolgere, relativamente più rare. Trattandosi di un progetto particolare e con criteri di selezione piuttosto stretti, la selezione c’è stata già in origine e non abbiamo dovuto lasciare fuori molti candidati: abbiamo ricevuto 70 candidature e ne abbiamo selezionate 60, escludendo solo le idee poco strutturate. Dopo la fase di selezione, tutti i beneficiari sono stati inseriti nella formazione, organizzata in 3 edizioni, cioè 3 classi da 20 persone. La formazione è tenuta da Lazioform, l’ente formativo di Confcooperative. Alla formazione sulla creazione di impresa abbiamo affiancato un corso di italiano specialistico e un laboratorio di empowerment tenuto da una psicologa.

C’è anche Legacoop tra i partner, siete riusciti a far partecipare entrambi gli enti al progetto? Sì, abbiamo coinvolto entrambe le realtà, nei diversi territori, anche nella speranza di far nascere le cooperative dentro reti già molto strutturate, che possano supportarle un po’ durante i primi passi.

Il format formazione-sostegno psicologico si ripete allo stesso modo in tutti i territori? Sì, ci sono linee guida comuni che preve-


migranti e cooperative

dono per tutti la formazione, l’assistenza psicologica e lo start-up di impresa, ma ogni partner è libero di aggiungere qualcosa. A Roma abbiamo aggiunto il servizio di empowerment per supportare la creazione del gruppo, trattandosi anche di una realtà molto vasta rispetto alle altre città coinvolte, in cui le persone si conoscono di meno.

Poi, come avete proceduto? La prima fase del progetto è stata dedicata alla formazione di tutti i partecipanti e alla strutturazione e selezione delle idee progettuali, da finanziare poi per metà nella prima annualità e per metà nella seconda. Le classi della formazione sono state l’occasione per consentire alle persone di conoscersi, unire le idee, creare gruppi di lavoro e individuare i futuri soci. È stata la fase più complessa, quella della costruzione della fiducia reciproca, e vi sono state anche alcune defezioni da parte dei partecipanti, in favore di altri progetti che supportavano la creazione di imprese individuali. Ma chi è rimasto si sta impegnando. Al termine del percorso formativo i partecipanti hanno lavorato autonomamente in gruppo e presentato i propri

budget plan. In questi giorni stiamo concretamente organizzando lo start-up per le cooperative che nasceranno nel primo anno. Lazioform cura la parte pratica della costituzione dell’impresa, poi collaboreremo nella fase di start-up vera e propria. Incrociamo le dita!

punto di forza. È sembrata a tutti un’idea molto romantica, quella di abituare piccoli gruppi di migranti forzati a lavorare insieme, a produrre per un utile da suddividere, a prendere le decisioni secondo il principio “una testa, un voto”, in maniera democratica. Inoltre, per la costituzione di imprese cooperative non c’è bisogno di un investimento iniziale molto alto. Come dicevamo, il processo di costruzione della fiducia è stata anche la maggiore sfida che abbiamo affrontato, ma nell’andare avanti, speriamo che venga sempre più percepita la differenza tra un’impresa individuale e una realtà in cui il gruppo lavora, a parità di diritti, per il bene di tutti.

Quali sono state le principali difficoltà che avete incontrato e quale invece il punto di forza della scelta dell’impresa sociale? La prima grande difficoltà è stata quella di creare i gruppi di lavoro, di abituare le persone a fidarsi l’una dell’altra. Non è stato facile, il sostegno psicologico e l’empowerment in quella fase sono stati essenziali. Poi, dopo qualche defezione di chi ha preferito altre realtà, o il lavoro in autonomia, il lavoro è andato avanti. I partecipanti hanno espresso grande creatività e in alcuni casi dei buoni piani imprenditoriali, anche se è presto per sapere se e come si svilupperanno le cooperative che stanno nascendo nel progetto. La scelta dell’impresa cooperativa è stata dettata in primo luogo dal capofila, che viene da un territorio in cui la forma cooperativa è molto radicata e ne fa il proprio

Supporteresti la riproposizione di bandi e progetti con un focus sulla creazione di impresa? Sì. Rimane una grande sfida quella di verificare, con il tempo, la tenuta delle imprese e l’affidabilità delle persone, ma è un canale importante, perché sono proprio i momenti in cui il lavoro diminuisce quelli in cui c’è maggiore bisogno di creare impresa. E i migranti, in questo, sono molto fantasiosi e proattivi.

TASSO DI OCCUPAZIONE  I SEM. 2008  I SEM. 2012 70

68,9

68,2

68

67,9

66,5 66

65,1 65,6

63,7

64 62 60

61

60,8

58,7

58,9 57,7

58

56,9

57,0

56,8

56,4

56,4

56,4

I sem. 2010

I sem. 2011

I sem. 2012

58,3 57,1

56 54 52 50 I sem. 2008 Italiani

I sem. 2009 UE

Non UE

totale

fonti: elaborazione Ires su dati RCFL Istat 2012

SQM|15


migranti e cooperative

Una cooperativa sociale, tante donne.Tutte straniere. Intervista telefonica ad Anna Marin, presidente coop. Risvolti, Roma

Q

uando sei partita dalla Romania, e perché l’Italia?

È difficile da dire adesso. Quando sono partita ero molto giovane, avevo poco più di vent’anni. E a quell’età ci si lancia più facilmente. Non me ne sono andata per motivi economici. C’era invece la delusione per come stava peggiorando la situazione della Romania dopo le grandi speranze nate durante la rivoluzione. C’era un amore da seguire, mio marito, che voleva andare. E c’erano i progetti su dove far crescere i nostri figli, che allora erano piccoli. Siamo partiti senza troppi calcoli, con grandi speranze e aspettative. E tanta voglia di cambiare.

Come mai una volta in Italia hai scelto la cooperazione sociale? Eravamo in Italia ormai da 4-5 anni, avevo superato il periodo delle difficoltà linguistiche e di adattamento, mio marito aveva ottenuto il riconoscimento della laurea e trovato un lavoro, quindi mi sono messa in gioco anche io. Ho partecipato a un corso per donne straniere, con focus sulla mediazione culturale e la creazione dell’impresa sociale. Erano i primi anni in cui si parlava di mediazione culturale, era di moda, ma si trattava dei primi corsi e forse anche per questo motivo il programma era vario. Oltre a offrire una professionalità nell’ambito della mediazione culturale alle 16 donne partecipanti, il corso ha fornito strumenti nell’ambito della creazione di imprese sociali, in particolare una consulenza per l’elaborazione di un progetto dettagliato di impresa sociale, compreso il piano finanziario. Il resto, lo abbiamo creato noi: abbiamo avuto la fortuna

16| SQM

di trovare, subito dopo il corso, un bando del Comune di Roma per finanziamenti a fondo perduto per la creazione di imprese sociali. E l’abbiamo sfruttata bene.

Com’è strutturata la cooperativa e di cosa si occupa? Le fondatrici (e attuali componenti del consiglio direttivo) della cooperativa sono tutte donne straniere - o, meglio, di origine straniera - di paesi diversissimi, tutte della stessa fascia di età, spesso con figli. E molta tenacia. Quasi tutte sono le partecipanti al corso e provengono da Perù, Albania, Camerun, Romania, Iraq, Filippine, Nigeria, Ucraina. Il nome è “Risvolti”, dove “ris” sta per Rete Informativa per Stranieri, “volti” per la varietà di volti di cui si compone. È nata ufficialmente nel 2001 e inizialmente si occupava prevalentemente di servizi per stranieri. Oggi si occupa spesso di mediazione interculturale nelle scuole, collabora con vari enti pubblici, è un ente fornitore di servizi per il Comune di Roma e, dal 2002, è specializzata anche nell’assistenza ad anziani, offrendo spesso lavoro in questo settore a donne straniere.

Quale può essere secondo te il valore aggiunto della forma cooperativa per l’inserimento lavorativo di cittadini stranieri e per la promozione dell’impresa migrante? Innanzitutto, la costruzione di un’impresa sociale è qualcosa che è alla portata di molti, perché l’avvio dell’attività non ha costi esorbitanti. Molti stranieri, poi, sono dei buoni imprenditori e questo è un ottimo elemento per la creazione di occupazione. Si può quindi iniziare con poco,

Arianna Cascelli

e fondare un contesto nuovo per creare e offrire lavoro, anche perché quello dell’impresa sociale è un settore che assorbe anche molta manodopera straniera. La gestione però non è cosa facile e, soprattutto all’inizio, queste imprese hanno bisogno di essere sostenute. Per quanto riguarda noi, posso dire che siamo state fortunate, perché non ci siamo mai sentite abbandonate. Abbiamo creato la cooperativa in un momento in cui il supporto pubblico era più forte, ma abbiamo anche avuto la capacità di far fruttare ogni sostegno ricevuto. Oggi la situazione è diversa e le difficoltà maggiori, ma dandosi ancor più da fare non è detto che non si possa avere successo. Ad ogni modo, credo che esperienze come la nostra siano abbastanza rare e mi fa piacere offrirne testimonianza, sperando possano essere di incoraggiamento per altri.


migranti e cooperative

Presenza % degli stranieri per settore (I sem. 2008 - I sem. 2012) 40

37,0

35 30 23,9

25 19,2

20 15

9,7 8,3

10 5 0

15,0 12,7

14,0

13,0

10,1 7,0

7,06,5

6,0

5,8 4,0

5,1

11,7

0,10,3 Agricoltura

Industria

Costruzioni

Commercio

Alberghi e Trasporto e Attività fin. ristoranti comunicazioni Imm. servizi alle imprese

2008

Amm. pubblica

2,23,3 Istruzione, sanità

Altri servizi collettivi e personali

TOTALE

2012

Presenza % nei settori per cittadinanza (I sem. 2012) 100 90

90 87

90

90

90

90

80 70 60 50 40 30 20 10

5,3 7,6

90

90

90

90 90

90

90

90

90

90

0

Agricoltura

Industria in senso stretto

Costruzioni Ita

Commercio UE

Altre attività dei servizi

TOTALE

non UE

FONTE: ISTAT 2012 RIVELAZIONE SULLE FORZE DI LAVORO SQM|17


Etnika III

School on migration studies

12-15

SIAMO TUTTI IRREGOLARI

SETTEMBRE 2013

TRE GIORNATE DI APPROFONDIMENTO PER GUARDARE OLTRE IL PRESENTE E MUOVERSI VERSO ORIZZONTI PIÙ AMPI PER AFFRONTARE L’IMMIGRAZIONE BISOGNA RIPARTIRE DALLA REALTÀ DEL NOSTRO PAESE E DEI PAESI DI ORIGINE MIGRATORIA. PER AFFRONTARE L’IMMIGRAZIONE BISOGNA DIRSI LE VERITÀ. Posti disponibili, bando e info sull'iscrizione sul sito www.fondazionexenagos.it


bando di selezione Requisiti di ammissione Sono disponibili 30 posti. Sono ammessi alla selezione i cittadini italiani e stranieri, laureati o studenti universitari i quali non abbiano compiuto il 40° anno di età alla data di scadenza del presente bando. La domanda dovrà pervenire tramite raccomandata compilando il modulo in allegato al bando entro il 28 agosto 2013, termine ultimo di ricezione, e dovrà essere corredata dai seguenti documenti: • Fotocopia di un documento di identità; • Fotocopia del titolo universitario, se conseguito; • Curriculum vitae; La domanda, da anticipare contestualmente via email all’indirizzo segreteria@fondazionexenagos.it, dovrà pervenire in busta chiusa, riportante sull’esterno la seguente dicitura “Etnika – School On Migration Studies Ed. 2013”, al seguente indirizzo: Fondazione Xenagos – Via Sciarelle, 4 95024 – Acireale (CT) ITALIA

Graduatoria Ai fini della partecipazione a Etnika – School On Migration Studies Ed. 2013, su parere del Comitato Scientifico verranno assegnate 5 borse di studio a giovani italiani e stranieri. La borsa di studio coprirà interamente la quota di partecipazione. L’eventuale assegnazione della borsa o l’autorizzazione a partecipare a Etnika verrà comunicata agli interessati tramite email, nonché, resa pubblica sul sito www.fondazionexenagos.it non appena la Commissione avrà deliberato, comunque entro e non oltre il 3 settembre 2013. La commissione di valutazione sarà composta dai seguenti membri: dott. Orazio Micalizzi – Presidente Fondazione Xenagos dott. Salvatore Ippolito – Presidente Comitato Scientifico Fondazione Xenagos dott. Antonio Ragonesi – Comitato Scientifico Fondazione Xenagos dott. Riccardo Compagnucci – Comitato Scientifico Fondazione Xenagos

Quota d’iscrizione Gli ammessi al corso sono tenuti a perfezionare la procedura d’iscrizione versando la quota di euro 350,00 (trecentocinquanta) – che comprende formazione, vitto, alloggio per le 2 notti del 12 e 13 settembre, materiale didattico - tramite bonifico bancario intestato a: Fondazione Xenagos IBAN IT 44N0335901600100000013405 Causale: “Etnika – School On Migration Studies Ed. 2013” *Copia del bonifico bancario attestante il pagamento dovrà essere inviata (via email a segreteria@fondazionexenagos.it) entro e non oltre la data del 7 settembre 2013. Si rende noto che in caso di rinuncia alla partecipazione la quota d’iscrizione non verrà rimborsata. Su richiesta, aggiungendo all’atto dell’iscrizione una quota supplementare da definire, è possibile pernottare anche la notte del 14 settembre e/o partecipare ad un’escursione naturalistica domenica 15 settembre. Chi volesse semplicemente partecipare alla formazione, non usufruendo dell’alloggio presso la struttura, potrà versare soltanto la quota di euro 200.


testimonianze di imprenditori migranti

Il fiume e la polvere testimonianza di Omar Gadir, Kurdistan Agrin Amedì

Il partito baath di Saddam era come un virus iniettato sin dalla nascita nelle vene di ogni iracheno. Chi viveva in Iraq era dominato dalla sensazione che si trattasse di un potere esistito da sempre, eterno e immutabile. Nel loro immaginario, infatti, era impensabile considerare l’ipotesi di raggiungere le “montagne che nessuno conosce” - come è definita, in un’antica iscrizione assira, la catena dei monti del Kurdistan - per unirsi ai partigiani nella battaglia combattuta a difesa della libertà e contro un regime brutale e dittatoriale. L’esercito dei peshmerga tutt’oggi continua a battersi contro il terrorismo, a farsi saltare in aria per rimuovere le mine lasciate da Saddam e per l’indipendenza del Kurdistan dagli Stati nei quali venne diviso dal Trattato di Losanna del 1923. Servire il paese, anche se alla guida vi era un criminale, era l’unico metro di valore inculcato dal regime iracheno nella testa dei suoi abitanti. Per noi curdi era impossibile non viverne la contraddizione rispetto alla nostra cultura, caratterizzata da un radicato sentimento di libertà che trova le sue origini negli insegnamenti del Profeta Zarathustra (Mazdeismo). La storia del Kurdistan, poco nota per via delle ragioni economiche dovute alla presenza del petrolio, inizia a conoscere una maggiore diffusione solo negli ultimi anni. Il Kurdistan vanta una storia culturale, letteraria e scientifica millenaria: quando venne costruita la prima piramide d’Egitto, il Kurdistan esisteva già da duemila anni. Il mio popolo, nel tempo, è stato costretto alla fuga e alla difesa della propria identità su un territorio - o, meglio, un paradiso negato - dalla forma di una mezza luna e grande cinque volte e mezzo l’Italia. È stato dilaniante doverlo lasciare. E lo sarebbe stato anche se fosse stato solo per poco, come speravo. Mi appassionava lo studio, in particolare amavo le materie scientifiche e appena terminato il liceo, non riuscivo ad accettare l’idea

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di non potermi iscrivere all’Università: ero un curdo, e a me non spettava. Ciò che invece mi competeva era un posto in prima linea nella guerra Iraq-Iran che si accingeva a scoppiare proprio in quell’anno. Così a diciannove anni lasciai Arbil grazie all’aiuto di un mio parente che, dinanzi alle difficoltà di ottenere un passaporto, si fece garante del mio ritorno entro un mese dalla partenza. Da quel momento lui si sarebbe unito alla resistenza: bagnandosi i piedi per attraversare il Tigri in un caldo pomeriggio e poi passando le notti sulle montagne insieme ai compagni con cui aveva sposato totalmente la causa curda. Nella mia mente si tracciava il progetto di fuga e immaginando dove realizzare i miei desideri, dapprima pensai all’Olanda, poi la Svezia e infine l’Inghilterra: ma non ottenni il visto per nessuno di questi paesi. Non potevo immaginare che trascorsi appena due giorni mi sarei trovato in Italia. Insieme alla Iugoslavia, infatti, fu il solo paese a rilasciarmi un visto turistico. L’aereo era decollato da un po’ quando realizzai di non poter tornare più indietro. Mi era totalmente estranea la terra che da lì a poco avrei raggiunto: non conoscevo nulla di lei, dei suoi abitanti. La verità è che mi sembrava di essere nato allora e di dover apprendere tutto da capo. Nei primi otto mesi a Perugia frequentai un istituto per imparare la lingua e conseguendo un attestato di idoneità alle università italiane. Ricordo che i primi tempi incontrare un passante che rompeva il silenzio con un “ciao”, suscitava in me uno stato di malessere: portavo le mani al viso come mosso da sentimento di vergogna (nella nostra lingua “ciao” significa “occhi”), credendo si trattasse di un’offesa. Ottenuto l’attestato di idoneità per accedere all’Università, mi candidai per frequentare gli studi a Milano, Siena o Torino. La Facoltà di Architettura di Torino accettò la mia domanda e a quel punto conoscere bene la lingua divenne fondamentale. Ricordo che su cento parole presenti nell’unico dizionario arabo-italiano all’epoca in circolazione, ottanta erano sbagliate. Così, a furia di scrivere e annotare ciò che non capivo, ne composi uno personale. Fortunatamente, fino alla laurea riuscii a dedicarmi interamente allo studio grazie al sostegno dei miei genitori. Finché, nell’87, i curdi all’estero vennero convocati dall’ambasciata irachena per ricevere comunicazioni. Mi offrirono due alternative: iscrivermi al partito baath e fare la spia, o “disertare” e rimanere squattrinato, perché in quel caso sarebbe stato impedito ai miei familiari di sostenermi. Fu così che divenni un tuttofare, cimentandomi nei lavori più disparati e dimostrando una certa bravura nei lavoretti come decoratore. Nei primi anni ‘90 non si era ancora diffuso l’uso dei cellulari, e amici, parenti, conoscenti dei miei clienti, entusiasti del mio lavoro, cominciarono a ingaggiarmi attraverso il passaparola. Dopo un po’ le richieste aumentarono e comprai una segreteria telefonica. Ascoltavo i messaggi rincasando alla sera e organizzando così la mia giornata seguente. Finché nel ‘97 mi decisi ad aprire un’impresa di decorazioni. Sin da subito, come tutt’oggi, l’idea ebbe un buon esito: lavoravano con me otto dipendenti di diversa nazionalità. Ma l’umore era sempre condizionato dal desiderio di rientrare in Kurdistan. Per la stessa ragione non intrapresi nessuna relazione sentimentale: non volevo ferire i sentimenti di una donna conosciuta qui, quando le mie prospettive si affacciavano su un’altra terra, sulla mia terra. Un giorno, come se me lo aspettassi, rimasi a casa da lavoro. Il


testimonianze di imprenditori migranti

telefono squillò e questa volta alzai la cornetta. La voce di mio padre, nonostante la gioia di sentirmi, tradiva una certa tensione. Mi disse: “Omar non tornare mai più.” Le cose peggioravano di giorno in giorno. Oltre alle deportazioni, alle fucilazioni di massa e agli attacchi chimici di Saddam, dopo il ritiro delle truppe NATO al termine della prima guerra del Golfo, il territorio curdo iracheno fu interamente minato (si stimano approssimativamente quattro mine per ogni abitante, vale a dire circa venti milioni di mine). Mentre la voce di mio padre scandiva lentamente gli eventi, chiusi gli occhi per guardare il prato che ha ospitato la mia infanzia e la terra che comincia dalle quattro direzioni dal punto in cui ho posato i piedi. Sono pochi ettari arati e, in fondo, un fiumiciattolo largo due piedi che scorre verso sud. Ci sono forme di terra rossa e quando le tempeste fini di polvere si innalzano, copro gli occhi con la mano e guardo più in là dell’orizzonte, dove non si vedono né colline, né ombre, né verde. Lo sguardo finisce in un gruppo di case e, ad est, in una collina arida ricoperta di tombe. Dopo quella chiamata cambiò qualcosa in me. Capii di non dovere più chiedermi perché quel fiumiciattolo scorreva su quella piana. Avrei dovuto invece guardare in lontananza, oltre la polvere, fin dove l’occhio può arrivare. Oggi ho una famiglia qui in Italia, un lavoro che ci permette una vita più che dignitosa e tanti anni trascorsi, più di quanti siano stati quelli in Kurdistan. Quando sento nostalgia torno nel mio paese, raggiungo le montagne e raccolgo un mazzo di narcisi che porto con me al rientro in Italia. Si trovano solo sulle alture, dove il sole è alto, nitido e raggiante. Qui la sua luce, durata tutti i miei anni, continua a scaldare i pensieri.

spezie e cultura testimonianza di Fouad Rahman, Kurdistan Agrin Amedì

Le case, le montagne e i volti di Kirkuk si dispiegano alla luce del sole come uno stormo di tortore stagliate contro il cielo. È dal ‘78 che posso ritrovare tutto questo solo a occhi chiusi: melograni, querce, sicomori e cipressi. Kirkuk, come un kilim, è una città dai mille intrecci culturali, composta da turkmeni, arabi, assiri, caldei e, in maggioranza, curdi, come me. I volti di Kirkuk parlano di pirati

arabi e saraceni, di algebra e poesia. I suoi rumori raccontano le carovane di mercanti di spezie, cacao, the, caffè che movimentavano la sua vita. Ogni incontro, ogni scontro, ogni intreccio della storia si è riflesso nei gesti quotidiani delle nostre vite, in uno scambio reciproco, non sempre pacifico, comunque imprevedibile. Quando i datteri maturavano nell’estate, mi inoltravo per i suoi vicoli alla ricerca di uno sguardo che potesse mutare l’angoscia di sentirmi diverso in quanto curdo. Con gli occhi inconsapevoli di un bambino, non capivo molte cose. All’apparenza la mia era una vita normale: giocavo, andavo a scuola e non avvertivo grosse difficoltà. Rendersi conto della propria condizione, e di tutte le limitazioni che ne derivavano, è stato un processo graduale. Amavo il tennis e a Kirkuk lo praticavo in modo agonistico. Un giorno, io e altri quattro atleti curdi di altre discipline ci stavamo recando al torneo dei Paesi Arabi in Libia, ma all’ultimo minuto, la nostra delegazione venne esclusa. Man mano, crescendo, mi accorgevo che il ragazzino iracheno con cui avevo trascorso la mia infanzia cominciava a guardarmi come un nemico... Ai curdi era vietato ricoprire cariche pubbliche, accedere ad alcune Facoltà, parlare la propria lingua. Una volta giunta la chiamata di leva - che mi avrebbe condotto a morte certa in prima linea - mi diressi all’ambasciata per richiedere un visto turistico. Dopo alcune settimane giunsi in Jugoslavia. Lì scoprii che il regime di Saddam Hussein aveva dato avvio alla campagna militare, denominata Al Anfal, che portò alla morte di 182 mila persone a causa dei bombardamenti chimici, dei raid nei villaggi, delle fucilazioni di massa. Molti curdi vennero deportati in campi di concentramento posti nelle aree desertiche del sud. L’epurazione, che presto assunse i toni della pulizia etnica, colpì particolarmente i bambini e ancora oggi li colpisce, a seguito degli effetti devastanti dei bombardamenti. Grazie a una fortunata circostanza, riuscii a fuggire da tutto ciò. A Sarajevo mi iscrissi alla facoltà di geologia, ma anche qui, il clima politico e sociale non era favorevole. Così, nel 1980, raggiunsi Siena, dove imparai l’italiano e, quando provai a iscrivermi all’università, la Facoltà di Scienza dell’Informazione di Torino accettò la mia domanda. Finché il governo iracheno non interruppe i flussi di denaro in uscita dal Paese, grazie all’aiuto dei miei familiari potei condurre una vita da studente. La mia fuga non era avvenuta per motivi economici ma politici, e quando l’ambasciata irachena cominciò a non rinnovare i passaporti, le nostre pressioni al Ministero degli Interni italiano, sostenute da appoggi politici, portarono a un riconoscimento dello status di Rifugiato politico per i curdi. Ultimai gli studi lavorando come manovale, decoratore, pasticcere e in lavori stagionali come le raccolte di uva, pomodori. Spesso gli amici chiamavano me per allestire i menù delle nostre feste, sia per la mia passione per la cucina - ereditata da mio padre che possedeva un ristorante in pieno centro città -, sia perché andavo spesso in Svizzera e Germania alla ricerca, nei negozi gestiti da arabi e turchi, di spezie particolari da portare qui. Cominciai così ad aggirarmi per la città, alla ricerca di un luogo particolare. Lo trovai nel cuore di Torino, e grazie al sostegno della mia compagna e di alcuni amici sono riuscito ad aprire il Kirkuk Kaffé. Qui ho raccolto sia parti di me che del mio paese d’origine: le pareti azzurre e i soffitti dorati sono decorazioni di mio fratello; i libri, il vasellame, i tappeti sono pezzi del Kurdistan turco, iraniano, iracheno, siriano, che ho acquistato nei miei viaggi per il mondo. Ho aperto questo caffè-ristorante per far conoscere, anche in questa città, la cultura curda e mediorientale: dalla musica alla SQM|21


testimonianze di imprenditori migranti

letteratura, all’artigianato. Un’esperienza che mi ha portato a promuovere molte iniziative, tra cui, forse, la prima monografia sulla storia dell’alimentazione e sulla cucina curda pubblicata in Europa. Tanti hanno imparato molte cose sulla mia terra grazie a questo locale e numerosi sono coloro che continuano a farlo. Una terra che continuo a portarmi nel cuore, anche perché, a mio giudizio, le condizioni politiche e sociali non permettono, ancora, di tornarci. Qui a Torino, con il Kirkuk Kaffé ho trovato la mia dimensione. Non è solo un lavoro, è la mia vita. Mi impegna dalle otto del mattino fino all’una di notte. Lo faccio per passione, non mi interessa il denaro. Pur avendone la possibilità, ho scelto di non aprire altre attività. Sono le parole di Omar Khayyam, che continuano a vivere in me, a ispirare le mie decisioni: “Ah, prendiamo il meglio di ciò che rimane prima d’essere polvere nella polvere sotto la polvere, e giacere là, senza vino, senza musica, senza cantante e senza fine.”

una lenta cottura testimonianza di Maksim Qanaj

Agrin Amedì

Mi chiedo ancora se, una volta addentata la carne, i tempi di cottura mi avrebbero soddisfatto. E sarebbe bastata per tutti e quattro? In quel momento Bacy era prossimo a diventare un disertore. Se la grigliata avesse tardato ancora cuocersi, non avrebbe fatto in tempo a rientrare in caserma per riprendere servizio. Le stavo dando il primo giro, per evitare che si attaccasse alla griglia, quando fummo investiti dal caos: masse di bambini, uomini e donne, circondati dai proiettili vaganti dei soldati - vano tentativo di contenere la folla - correvano all’impazzata verso il porto di Durazzo, assaltando le navi in sosta. A più di vent’anni di distanza, ancora non mi spiego quale legge fisica impedì alla gente di cadere dal pontile! Convinzione, compattezza: la scia di duemila persone ri-

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empiva rapidamente la nave, e senza pensarci troppo, anche noi ci ritrovammo a bordo. Cinque, sei, sette ore, e la nave era sempre al punto di partenza. Mentre i guasti apparivano irrisolvibili, negli occhi di Bacy si addensava il rimorso di esporre la sua famiglia a possibili persecuzioni, trattamento che il regime riservava ai parenti dei “traditori della patria”. Così, quel tentativo fallito lo riportò a casa. Io, Albano e Aghim, invece, cavalcammo l’onda che, in pochissimo tempo, invase un’altra nave, questa volta pronta a partire. Il ragazzo più abile a impugnare il timone e, sfortunatamente, meno incline a seguire una rotta, trasformò il tempo di percorrenza da sei a trentasei ore. Furono ore ticchettanti di una lentezza cattiva che ci graffiava la gola, le gambe, lo stomaco e i ricordi più profondi. Duemila persone erano troppe per poter pensare di sdraiarsi. “Guarda quelle travi,” disse Albano. Stendemmo sopra la schiena, mentre le gambe restavano penzoloni. Nella notte la luna sembrò abbagliarci quando, d’un tratto, la nave s’illuminò. “Una mano dal cielo!” pensai. Proprio così. Era il faro di un elicottero italiano a puntarci, indicando la rotta da seguire. Lo ricordo come un lampo, qualcosa di inspiegabile in quello stato di incoscienza. Ci guidò fino a Brindisi dove, messo piede sulla terraferma, divorai un sacchetto di cibo alla rinfusa, senza far caso se addentassi una mela o un panino. Più riprendevo coscienza, più mi sentivo furioso all’idea del rischio appena corso. In un balzo di follia decisi - come tanti altri invece fecero per davvero - di tornare subito indietro. Ero nero dalla rabbia! Il tentativo di migliorare la propria esistenza comportava davvero un rischio così alto? Ne valeva proprio la pena? Mi sentivo stupido, non avevo saputo attribuire il giusto valore alle cose. “Hai fatto il primo passo perché sai di poter camminare,” sentenziò Albano. Le sue parole distolsero la mia attenzione dal delirio del momento, spingendomi a continuare il viaggio. Così fui accolto in un campeggio di Taranto e, trascorsi appena venti giorni, ero il cameriere di un ristorante della zona, sul mare. Mi offrivano vitto, alloggio e uno stipendio ridotto, che svolsi imparando l’italiano e presentando richiesta per un Permesso di Soggiorno che, da ormai ventidue anni, rinnovo annualmente. Sono cresciuto da spettatore: guardavo film e programmi italiani, credendo così di conoscere la lingua. Mi bastò arrivare in Italia per capire, in realtà, quanto mi sbagliassi. Solo tre anni dopo, nel giugno del ‘94, trasferendomi a Torre Pellice, nel torinese, ho capito di conoscere tre lingue: l’albanese, il dialetto tarantino e l’italiano. Qui un imprenditore siciliano mi prese a cuore. Possedeva una ditta di costruzioni, per la quale svolsi numerosi lavori in tutta la regione, dal Regio di Torino alla ferrovia di Torino-Modane. Successivamente, costruitomi una rete di relazioni sul territorio, con un socio aprii un’impresa di pulizie, operante su tutta la Val di Susa. Sono stati tre anni molto impegnativi per via dei turni massacranti ai quali si era disposti, pur di non chiudere. Ero solito impegnare le pause da lavoro recandomi in una caffetteria di Bussoleno. Qui lavorava una bellissima ragazza albanese che divenne presto mia moglie: Keida. Mi incantava osservare la sua gestualità intessuta di delicatezza, solarità e sicurezza, che si animava dietro un bancone nel lavoro che aveva trovato, ma non sognato. Eppure la crema dei suoi cappuccini, ne son sicuro, avrebbe fatto impazzire anche Cavour. Allungava la mano, lasciando cadere la tazzina sul bancone in un gesto che parlava di qualcosa scontato, di normale o dovuto, incurante del valore che in realtà questo rappresentava. Quando si presentò l’occasione di


testimonianze di imprenditori migranti

gestire il bar in cui lavorava, senza pensarci troppo, mi avventurai con lei. Sin da subito ci dimostrammo in gamba nel nostro lavoro: in breve tempo aumentò il numero di clienti e, una volta nato il piccolo Alex, decisi di cedere l’impresa di pulizie al mio socio. Ma a quel punto, furbamente, il proprietario si riprese la gestione del bar, tenendo Keida come dipendente, e lasciando me a casa con il cucciolo. Per due lunghissimi anni rimasi senza lavoro, oppresso dalle difficoltà economiche che gravavano sulla nostra vita. Solo accompagnare la crescita di Alex mi strappava qualche sorriso. Un giorno venni a conoscenza che la famosa pasticceria di Bussoleno con un bar annesso cedeva l’attività e mi precipitai dalla proprietaria. Solo una settimana più tardi firmavo il passaggio dal notaio. Fino all’ultimo momento non volevo crederci! Keida ne sorrideva, e io le dissi “Se è tutto vero, giuro che lavorerò 24 ore su 24”. Per ironia della sorte, nella crisi in cui ci ritroviamo oggi in Italia, sta andando proprio così. Ma siamo ancora aperti e mia moglie ha ritrovato un sogno da inseguire: lavorare il cioccolato!

A Zhejiang correvo dietro agli scoiattoli testimonianza di J.H., Cina Claudio Praturlon

Sono nato nel 1981 a Zhejiang, in Cina, e a cinque anni, nel mese di dicembre del 1986, con mia madre, le mie tre sorelle di 16, 14, 8 anni e mio fratello di 11 anni, sono partito per raggiungere mio padre e l’altra mia sorella, la maggiore, che erano già in Italia a Torino. Mio padre lavorava come aiuto cuoco nel ristorante di mio zio in corso Racconigi, che era in attività sin dagli anni ’70. Anche mia sorella lavorava nello stesso ristorante e anche altri miei famigliari, ad esempio mia zia, svolgevano un’attività di ristoratori. Fino ad allora avevo abitato solo in campagna e i miei pochi anni erano trascorsi tra la pesca di granchi al fiume e le rincorse dietro agli scoiattoli sulla collina, in mezzo ad altri bambini. Inizialmente

mi sembrò tutto bellissimo. Ero in una grande città, ogni cosa era una sorprendente novità. Mi appariva tutto così grande: le case, le auto, le strade. Poi, l’entusiasmo passò e cominciai a sentirmi solo, molto solo. Il mio tempo si consumava in casa, davanti alla televisione. Mi annoiavo tantissimo. Ho frequentato le scuole in Italia. Per me fu molto difficile imparare la lingua italiana. Ero piccolo e non conoscevo bene nemmeno il cinese, il mandarino, perciò non riuscivo a tradurre dal cinese all’italiano e a casa nessuno poteva aiutarmi. Sono andato a scuola fino al terzo anno di ragioneria. Ma nel weekend, da quando ho compiuto 15 anni, ho sempre aiutato la mia famiglia nel ristorante che abbiamo aperto nell’89. Maturai la consapevolezza che se anche avessi conseguito il diploma di ragioneria, avrei avuto enormi difficoltà a inserirmi nel mondo del lavoro come impiegato. Quindi, considerando che l’attività dei miei genitori era ben avviata, decisi di diventare a mia volta imprenditore. E a 20 anni, nel 2001, aprii il mio ristorante in corso Brunelleschi. Ero già pratico del lavoro, sono cresciuto tra pentole e coperti. Inoltre potevo sempre contare sull’aiuto di mio fratello che era proprietario, a sua volta, di un ristorante, e questo aumentava la mia sicurezza nell’impresa che stavo iniziando. Ero entusiasta e soddisfatto di quello che stavo facendo ma le preoccupazioni non mancavano. Non è semplice avviare e mantenere fiorente un’attività incrementandone il volume di affari. Ricordo che inizialmente il rapporto con il personale mi sembrò l’aspetto più difficile. I miei pochi anni e l’infanzia trascorsa davanti alla televisione non mi conferivano sicurezza. Non sentivo di possedere un grande carisma e spesso i miei collaboratori, più vecchi di me, tentavano di mettermi in difficoltà. Ho dovuto cambiare alcuni aspetti del mio carattere, diventare ogni giorno più concreto e attento alle reali esigenze del lavoro, rendendomi conto, mio malgrado, che non potevo accontentare tutti: sicuramente dovevo rispettare i diritti dei lavoratori ma, allo stesso tempo, come imprenditore avevo dei diritti e anche questi dovevano essere rispettati. Non è stato facile. Ho dovuto confrontarmi, in funzione della tipologia di attività, con la diffidenza dei clienti italiani. Dovevo offrire un’alta qualità per attrarre la clientela e mantenerla costantemente: non c’è di meglio che il tam-tam dei clienti stessi come veicolo promozionale. Il mio lavoro è fatto anche da una parte burocratica. Un vero incubo: commercialista, banca, posta, bollettini di tutti i generi, norme che cambiano continuamente. Io faccio il ristoratore e mi piace, non il burocrate... Mi auguro che si giunga alla semplificazione legislativa. Credo che le leggi debbano essere redatte con la collaborazione di chi ha un’esperienza specifica e reale nei vari settori merceologici. Tutela e snellezza dovrebbero andare di pari passo. Trovo che attualmente, invece, ci troviamo di fronte a una serie eccessiva di norme, spesso in contraddizione tra loro. Inoltre, la pressione fiscale è troppo alta. Molti imprenditori stanno pensando di delocalizzare le loro imprese. L’Italia è un grande paese, all’avanguardia in molti settori: la tecnologia, il design, la moda, il turismo. Purtroppo le scelte politiche e legislative ne stanno impedendo lo sviluppo. A volte mi sembra di dover rispettare leggi analoghe a quelle emanate in passato dal P.C.C. Sono molto soddisfatto di quanto ho realizzato con il mio lavoro. La fatica è stata tanta ma ho costruito una solida realtà, sia economica che sociale, per me e la mia famiglia. SQM|23


tunisia-italia, andata e ritorno

Far bene all’ambiente fa bene al sociale

Serena Naldini

progetto Le Oasi di El Oudiane a Degueche (Tunisia)

“C

on il progetto Le Oasi di El Oudiane”, spiega Orazio Micalizzi, presidente di Fondazione Xenagos, promotrice del programma Tunit, “abbiamo puntato sull’ambiente come settore innovativo che può rappresentare un potenziale mercato di lavoro per i giovani tunisini.” Il progetto si svolge a Degueche, città tunisina sempre più inclusa nei circuiti sahariani turistici del sud tunisino, situata nei pressi di Tozeur, nella regione del Jerid. Tra gli abitanti, circa 10 mila persone, la gran parte sono giovani sotto i 25 anni. “L’impegno alla salvaguardia dell’ambiente,” continua Micalizzi, “è anche una grande occasione per promuovere un dialogo tra istituzioni e cittadini, rinforzando le nascenti strutture democratiche nel paese maghrebino.” Il terzo aspetto che rende Le Oasi di Degueche un progetto fortemente orientato al sociale è l’attenzione ai tunisini costretti ai cosiddetti rimpatri forzati. “Gli ‘espulsi’,” afferma Micalizzi, “rischiano di avere poche chances di reintegrarsi. Il danno può essere ridotto dall’esistenza di un percorso che orienti i destinatari, sin prima della loro partenza dall’Italia, a un’opportunità di effettivo sostegno al reinserimento a casa propria. Opportunità che da Degueche,” conclude, “può replicarsi anche in altre aree del paese.” Per anni Degueche ha sofferto di problematiche legate alla forte presenza di corruzione e clientelismo, alla disoccupazione giovanile e alla conseguente difficoltà, so-

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prattutto per i giovani, di intravedere opportunità per il proprio futuro, concependo la migrazione come unica via d’uscita. Come altri paesi emergenti, la Tunisia presenta, poi, importanti problemi ambientali dovuti soprattutto al fatto che il modello occidentale di consumismo invade il territorio di residui (plastica, vetro, alluminio) incompatibili con il ciclo tradizionale di smaltimento dei rifiuti legato a prodotti biodegradabili. Il progetto, finanziato parzialmente con l’otto per mille del Tavolo valdese, è gestito dal punto di vista tecnico dalla cooperativa Erica e dal punto di vista sociale e istituzionale dal consorzio Connecting People e da Fondazione Xenagos. “L’economia della città è dominata dallo sfruttamento di un palmeto per la produzione dei datteri Deglet Nour,” racconta Roberto Cavallo, direttore esecutivo del progetto per la cooperativa Erica. “Inoltre,” aggiunge, “la maggior parte dei rifiuti è costituita da scarti di cucina. Dalla considerazione di questi dati di fatto è nata l’idea di trasformare i rifiuti organici in compost unendoli alle foglie di palma per una corretta miscela di sostanza umida e secca. Certamente,” conclude Cavallo, “questo produrrà un grande beneficio per l’agricoltura in un’area arida e a rischio desertificazione come quella di Degueche.” L’iniziativa ha un carattere innovativo non solo a livello locale, ma anche livello nazionale. Sarà pertanto seguito con attenzione

dal Ministero e dalle autorità competenti, in quanto la sostanza organica diventa uno strumento di lotta contro la desertificazione. “Nel mese di marzo,” riferisce Giulia Micciché, coordinatrice del progetto per Connecting People, “il programma è stato condiviso con gli stakeholders locali e con i ragazzi delle associazioni che si stanno attualmente occupando della campagna informativa di sensibilizzazione, andando porta a porta a consegnare i mastelli alle trecento famiglie coinvolte residenti in un quartiere di Degueche.” La zona di conferimento dell’umido è stata allestita con 32 compostiere. La prima produzione di compost è prevista per il mese di dicembre. “La partecipazione è stata entusiasta,” dichiara Mourad Aissa, responsabile del progetto “e speriamo che l’attenzione e la disponibilità del Sindaco e del Comune consentano davvero di fare di Degueche un modello per tutto il paese nella gestione dei rifiuti.” “Ci siamo affezionati alle persone di Degueche,” aggiunge Emanuela Rosio, esperta di comunicazione ambientale per la cooperativa Erica, “e vorremmo davvero che Degueche divenisse un modello, magari la prima città Africana che aderisce alla strategia Rifiuti Zero. Un piccolo primato,” conclude, “ma un grande orgoglio per noi operatori e per i cittadini di questo angolo remoto di mondo.”


tunisia-italia, andata e ritorno

Duemila metri di tela di jeans intervista a Mourad Aissa, responsabile programma Tunit di Fondazione Xenagos

“D

i fronte agli sbarchi del 2011 sulle nostre coste, abbiamo interpretato gli eventi come fossero un’esortazione ad agire” esordisce Mourad Aissa, responsabile del programma Tunit di Fondazione Xenagos. “Io, Orazio e Mauro (NdR Maurino e Micalizzi, rispettivamente presidente e vicepresidente di Fondazione Xenagos), durante l’accoglienza di quei trentamila migranti rigettati dal Nord Africa a Manduria e nei centri sparsi in tutta Italia, ci siamo detti che forse era arrivato il momento di non aspettare più i barconi sulla costa. Di andare a cercare, oltre il mare, l’inizio dei progetti migratori.” Ed è così che Fondazione Xenagos, in collaborazione con il consorzio Connecting People, da oltre un decennio impegnato sul fronte dell’accoglienza dei migranti, cominciano a dare forma a Tunit, un programma coordinato di azioni volto a sostenere lo sviluppo socioeconomico della Tunisia. “I migranti non sono solo i destinatari dei nostri interventi,” continua Aissa. “Sono anche fortemente presenti nella base sociale delle organizzazioni, tra i lavoratori. Ci sembra ovvio che debbano assumere un ruolo di protagonisti nel promuovere progetti di sviluppo del proprio paese di origine. Io, per primo”. Mourad Aissa, tunisino di nascita, italiano di adozione, ha una lunga esperienza nel mondo della cooperazione sociale, iniziata con il nuovo millennio in territorio trapanese. Lavorare e vivere l’Italia all’interno di una cooperativa l’ha aiutato a dare un esito positivo al proprio percorso di integrazione. Quando è partito dalla Tunisia, infatti, non ha lasciato solo una terra, ma anche delle persone di riferimento per la propria crescita professionale e umana. Che nella dimensione cooperativa ha ritrovato.

“Fare qualcosa per il mio paese,” dichiara Aissa. “Questo pensiero mi ha sorpreso per la sua semplicità e, al contempo, per la sua potenza.” È stato un suggerimento dei colleghi, un’idea nata da continui confronti sui temi delle migrazioni e dell’impresa sociale. Da quel momento in poi, per Mourad Aissa, questo obiettivo diventa il faro del proprio lavoro. Comincia quindi a riprendere i rapporti interrotti con alcuni connazionali e a intesserne di nuovi. Il programma Tunit prende avvio tra Torino e Catania. È infatti a Torino che, alla fine del 2012, nasce Tunit, un’associazione di promozione sociale fondata da cooperatori sociali italiani e rappresentanti della comunità tunisina torinese. “I miei connazionali residenti a Torino, si sono assunti una responsabilità,” spiega Aissa. “Tunit li porta, da un lato, a divenire parte integrante della società torinese, abbandonando il ruolo di ospiti. In poche parole,” precisa, “a smettere di chiedere per cominciare a fare. Dall’altro lato,” conclude, “il loro coinvolgimento si traduce in una messa a disposizione delle proprie conoscenze per la realizzazione di programmi di sviluppo in Tunisia”. Come, ad esempio, il progetto Le Oasi di El Oudiane, a Degache, nel sud del paese. L’esperienza territoriale dell’associazione Tunit aspira a una diffusione nazionale con la creazione di filiali in altre città italiane dove opera Xenagos. Per dare gambe al programma Tunit, si è lavorato inoltre sulla costruzione di rapporti istituzionali. In questo senso, Catania, sede italiana di Fondazione Xenagos, costituisce il secondo polo del programma impegnato a curare il canale istituzionale. Sono già molti gli incontri di questo tipo, che hanno coinvolto Karim Azzouz, inviato

Serena Naldini

dal sottosegretario per l’immigrazione e tunisini all’estero - adesso console generale a Parigi, Imen Ben Mohamed, deputata dell’assemblea costituente, rappresentante dei tunisini in Italia, Mondher Ammar, consigliere del Segretario di Stato Tunisino per l’immigrazione all’estero, e Osama Al Saghir, deputato nell’Assemblea Costituente Tunisina. L’ultimo risultato raggiunto è del maggio di quest’anno. “Si tratta di un accordo di collaborazione,” spiega il responsabile del programma Tunit, “tra Fondazione Xenagos, da un lato, e l’OTE, l’Office des Tunisiens a l’Etranger, dall’altro. La convenzione è finalizzata,” conclude, “alla realizzazione di progetti di formazione e di sostegno rivolti agli immigrati residenti sul territorio italiano.” Il terzo polo di Tunit è a Tunisi, dove Fondazione Xenagos ha aperto una sede operativa. “Ho aumentato la frequenza con cui ritorno nel mio paese,” afferma Aissa. “Sto provando a offrire la mia esperienza come esempio di successo per altri tunisini, sia migranti, sia autoctoni. Affinché sia utile e feconda per altre persone, per altre storie”. In una di queste occasioni, in una moschea, Mourad Aissa incontra Adel. “Con lui, prima di partire per l’Italia, gestivo un negozio di abbigliamento,” racconta. “Adel è sempre stato molto più portato di me per il commercio,” confessa con un sorriso. L’attività è cresciuta e adesso Adel sta pensando di importare dall’estero. Mourad lo prende come un segno. Un piccolo passo da cui partire per riallacciare un legame. “Mi ha chiesto se conoscevo qualcuno che potesse esportare della tela di jeans,” afferma Aissa. “Duemila metri di tela di jeans.”

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P re s s & news

7 Maggio 2013 (Flore Murard-Yovanovitch)

l’unità Cie: per gli stranieri un “diritto” speciale La gravissima crisi istituzionale ha risvolti ancora più bui di quelli ben noti. Il governo “tecnico” dimissionario ha lasciato in eredità alla nuova legislatura un “Documento programmatico” sui Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie), che raccoglie le conclusioni, finora non smentite, di una “task-force” ministeriale istituita nel giugno 2012, dalla ministra Annamaria Cancellieri. Non è la prima volta che un governo decide di disporre di un’indagine sui CIE italiani.Lo fece il Governo Prodi, istituendo la “Commissione De Mistura” nel 2006. Tuttavia il metodo fu diverso: composta da esponenti dell’Esecutivo ed esperti indipendenti che, dopo un lungo lavoro di indagine e di analisi e decine di incontri con associazioni, regioni, enti locali, la Commissione del 2006 aveva rilevato le maggiori criticità dei CIE, concludendo per il “superamento” degli allora Cpta attraverso il loro svuotamento.L’attuale “task-force”, composta esclusivamente da funzionari dell’Interno, ha lavorato in assoluta segretezza, [...]

26 Novembre 2012 (www.teatromigrante.org)

teatro migrante Quando la malattia è legata al permesso di soggiorno Gli anni passano e lasciano la loro impronta sulla nostra salute come i canali scavati dalle gomme di un SUV su una strada fangosa. Oggi sono pessimista e ho un buon motivo: sono tre notti che non dormo per colpa della mia sinusite stagionale. Mi sveglio a notte fonda perché non riesco a respirare. Non solo, il mio naso fa più rumore di una teiera in ebollizione. Detta così sembrerebbe un problemino da niente. Vai dal dottore e fatti dare qualcosa, direte. Infatti sono andato allo studio della mia dottoressa e in sala d’attesa ho spiegato che sono il tipo con la sinusite e l’asma, quello che ha bisogno dello spray e le pilloline, che non c’è bisogno di chiedere un appuntamento, tanto la dottoressa sa chi sono e mi manda la ricetta direttamente nella farmacia qui vicino, dove io andrò a prendere le mie medicine al più presto. La signorina della reception, educata e gentilissima, prende nota e mi dice di passare dalla farmacia nel tardo pomeriggio. [...]

Quick Link Storica visita di Papa Francesco a Lampedusa: una preghiera per migranti e rifugiati - Unhcr http://bit.ly/papa_lampedusa

La Kyenge rilancia sullo ius soli, ma ‘temperato’, per i figli degli immigrati http://bit.ly/ius_soli_temperato

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3 luglio 2013 (Anna D’Agostino)

la repubblica Noi, partite Iva quasi italiane Chi arriva da terre lontane spesso ci ricorda le nostre radici, l’ energia dei nostri nonni, che hanno vissuto la guerra e il dopoguerra, o quella dei padri giunti al Nord seguendo il sogno di un’ esistenza migliore o dei tanti che non si sono mai arresi. Ci hanno cresciuto nella speranza di un’ Italia, dove tutto sarebbe stato possibile. E oggi che si vola all’ estero per affermarsi, sembra incredibile che siano proprio gli immigrati stranieri a credere nelle potenzialità del nostro Paese. Così, mentre il numero delle imprese costituite da italiani decresce, aumenta costantemente il numero di quelle di immigrati, ne dà testimonianza il libro di Romano Benini «Quasi italiani. Storie di immigrati imprenditori» recentemente uscito per la Donzelli. L’ autore, saggista, giornalista e docente di politiche del lavoro, all’ università La Sapienza di Roma, cerca di comprendere il fenomeno attraverso ventiquattro racconti di vita selezionati tra i tanti giunti da tutt’ Italia nelle sedi della Cna, Confederazione [...]

[...] La lettura non finisce qui! Consulta gli articoli completi su: www.storiediquestomondo.it/press


Voglio che si balli.

Talè

LABEL: EmArcy artist: Salif Keita DATE: nov 2012 COUNTRY: Stati Uniti FORMAT: CD, 11 tracks

nserite nello shaker questo desiderio di Salif Keita, mixato con la collaborazione con artisti del calibro di Manu Dibango, Bobby McFerrin, Esperanza Spalding e Roots Manuva, arricchiti dalla magica produzione di Philiippe Cohen Solal (Gotan Project) e servite ad alto volume “Talè” l’ultimo cocktail discografico del vocalist maliano. L’album nasce dall’idea di innovare ed esplorare nuove possibilità per la musica tradizionale mandinka, in un continuo rincorrersi di passato e futuro dove le sonorità primitive africane e l’elettronica si fondono per creare un affresco multicolore e affascinante in cui le radici africane vengono proiettate nel futuro in modo ironico e irresistibile. L’utilizzo di antichi strumenti come il il guembri (una sorta di chitarra), le qaraqebs gnauoas (specie di nacchere) e il calabash (strumento a corda assi complesso, tipico della cultura africana e molto usato anche nell’afrobeat), la semplice bellezza della voce, tipicamente Griot*, e della chitarra producono melodie colme di fascino e, grazie alla ritmica incalzante, conducono l’ascoltatore sempre più nella “world music”, terra in cui le contaminazioni elettropop trovano il terreno ideale per svilupparsi e diventare floride. L’album “Talè” ne è la prova: la presenza costante dei fiati possenti della session di Manu Dibango, ma specialmente in “Après Domain”; il contrabbasso e la voce, stupenda, di Esperanza Spalding in “Cherie s’en va”, un brano colmo di struggente malinconia dedicato alle donne che lasciano la casa per sposarsi; il graffiante contributo del rapper inglese Roots Manuva che rende “C’est bon c’est bon” una miscela straordinaria di rock e armonie vocali in sottofondo; le esecuzioni, inimitabili e ancestrali, di Bobby McFerrin in “Sinby”; le scarne ed essenziali esecuzioni dei musicisti locali che abbattono ogni barriera musicale rendendo straordinario il risultato. Il disco è frutto di lunghi anni di ricerca. Sono evidenti le atmosfere già esplorate da Brian Eno e dai Talking Heads, le melodie caraibiche, lo zouk (Antille), il tutto abilmente modellato e rarefatto da Philippe Cohen che, in studio, è riuscito a interpretare egregiamente la richiesta di Salif Keita: voglio che si balli.

I

Oggi Salif Keita è ambasciatore della cultura maliana nel mondo. Imperdibile l’ascolto del concerto per i 50 anni d’indipendenza del Mali del 2010 a Bamako, consigliato vivamente, facilmente reperibile su YouTube. Per una approfondita biografia e una discografia completa di Salif Keita www.music-on-tnt-com

Claudio Praturlon

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foto Dario Leonardi

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“HO SOFFERTO MOLTO MA NON AVEVO SCELTA, HO LASCIATO I MIEI FIGLI E SONO PARTITA” Lumi è in Italia da 4 anni. È partita dalla Romania per cercare lavoro e per regalare ai suoi figli un futuro di speranza.

Stay with mum è un progetto della Fondazione Xenagos che punta ad offrire un tetto, servizi dell'emigrazion In Ucraina sono circa 200.000 i e assistenza per riunire le famiglie separate a causa dell'emigrazione. minori con entrambi i genitori all'estero. In Romania i "children left behind" sono 350.000.

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Serena Naldini Farhad Bitani

co n ia b lo o u z n le o im lt u L’ ano lio la testimonianza del fig

di un generale afgh

o ivono libri perché il lor Ci sono persone che scr o son n No sì. co è Per me non lavoro è scrivere libri. un è dre pa o mi e re un milita uno scrittore. Io sono giche in studiato scienze strate Ho . no ha generale afg l mio ilitare di Modena. E ne Italia, all’Accademia M ti. Ho da sol i a, come fanno tutti paese ho fatto la guerr o il tat fiu mo dei nemici, abbia incontrato gli sguardi suto vis Ho ti. zzi i battiti impa terrore l’uno dell’altro, Ho e. ion raz pe dis gio della la paura, la fuga, il corag traccia spalla sinistra porto la lla Su o. cis sparato, ho uc quelli hnikov. Gli altri segni, della ferita di un kalas lla testa, o rimasti nel cuore, ne invisibili agli occhi, son ardare la vita. nel modo che ho di gu

verno n i o ssim ria o r p il re in lib EDITRICE

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Ahmad Farhad Bitani 27 anni ex-capitano dell’esercito afgano oggi rifugiato politico


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