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CASSANDRA


Is it better to speak or die?” the knight asks. “It’s better to speak,” the princess tells him, in the story. “So, does he speak?” asks Oliver, later, when Elio relays the gist of the story to Oliver. “No,” says Elio. “He fudges.” Eccomi qui, a scrivere il mio primo editoriale per Cassandra, giornalino a cui tengo profondamente e che mi ha accompagnata durante questi tre, bellissimi, anni di Sarpi. Sembra assurdo pensare a tutta la strada fatta per arrivare qui. Tra scleri per greco, risate tra i corridoi, tanti addii e tanti ciao! Sono Annalucia, sono giunta a questo momento. Provo un intenso e particolare affetto verso queste pagine, verso tutti gli articoli che ho scritto, spesso dimenticandomi le scadenze, verso Zoe, mia amica e mentore, che in questi anni ha saputo guidarmi nello strano mondo dei Sarpini. Quindi, per farla breve, vi presento il tema di questo numero: la parola. E per discuterne al meglio, ho deciso di porvi un quesito: E’ meglio parlare o morire? E’ un dubbio che spesso pervade la mia mente, soprattutto quando penso a tutte le cose che avrei potuto dire se solo avessi avuto il coraggio. Quanto è grande il potere della parola? Sono qui, siamo qui per capirlo insieme a voi. Per farlo, ho deciso di riportare alcuni passi del libro, poi diventato film acclamato dalla critica, “Chiamami col tuo nome”. In questi passi Elio, il protagonista, racconta una leggenda al suo amante, Oliver, e gli chiede appunto cosa sarebbe meglio fare in una situazione scomoda, se dichiarare all’altro cosa si prova realmente, o se sia meglio tacere e lasciare che i sentimenti si affievoliscano da soli. Ci sono stati periodi della mia vita in cui avrei prontamente risposto “Morire” se solo me lo avessero chiesto: mi vergognavo della realtà, le parole erano troppo crudeli e la mia bocca decisamente pudica. Ora, più matura e più consapevole, risponderei subito “Parlare”. Questo perché la vita è troppo breve, troppo sfuggente, per essere sprecata nel silenzio. E’ deleterio omettere sentimenti, amori, dolori, finiremmo per scoppiare, la nostra bolla di emozioni distrutta. Insomma, non avrebbe senso e sono qui per dirvelo. Questo è un elogio alla parola.

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Cosa possiamo creare, costruire, con le parole? Un loro uso cosciente ci porta alla comunicazione dei nostri bisogni primari, delle nostre esigenze, a raccontare le nostre esperienze, brutte o belle che siano. Quando siamo consapevoli di ciò di cui stiamo discutendo, possiamo manipolare la realtà a nostro piacimento, rendendola schiava del nostro tempo e dell’inclinazione della nostra voce. Le parole contano, le parole difendono, le parole hanno veramente il potere di cambiare la somma delle giornate che fa la storia (che siamo noi e quello che ci raccontiamo), le parole hanno il potere di creare e lo sa bene chi le conosce, le teme, le scova o ancora, chi le cerca nei vicoli sperduti della mente mentre si esprime solo con un banale “Mm”. Con le parole si può mentire, si può ingannare, si può fallire; tuttavia si può anche dire la verità, nient’altro che ,a verità. La forza, la potenza della parola si cela in tutte queste sfumature. Inutile aggiungere altro, la comunicazione regna sovrana nel nostro mondo, si pensi ad esempio ai social media. Mi sembra assurdo che molti la sottovalutino, la scartino o usino sempre le stesse espressioni. Mi rivolgo a voi, giovani, infervorati, studenti: siate padroni e guide di tutto ciò che pronunciate, non sprecate fiato per inutili faccende, amate, odiate, ma fatelo con consapevolezza, piangendo, ridendo ma, soprattutto, parlando. Annalucia Gelmini IIIE

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ATTUALITA’

CULTURA ­

NARRATIVA

SPORT

TERZA PAGINA

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Quello di lògos è un termine che deriva dal greco antico (dal verbo léghein) e, come ogni buon termine sensato, non ha un unico e ben determinato senso ma esprime piuttosto una molteplicità di significati: argomento, causa, concetto, discorso, definizione, enunciato, frase, parola, pensiero, proporzione, ragionamento, ragione, spiegazione ed altri ancora.Il termine ha una storia prestigiosa, usato nel vocabolario personale di diversi pensatori. Per Eraclito esso è una "legge universale" che racchiude il senso di tutte le cose del mondo e dà armonia ai contrari che in esse si trovano. Platone, distingue tre accezioni di lògos: come manifestazione del pensiero attraverso i suoni di una lingua, come espressione di una cosa tramite la descrizione degli elementi che la costituiscono e come segno di individuazione di qualcosa tramite la differenza dalle altre cose; tutti significati che fanno del lògos un qualcosa di discorsivo e descrittivo. In Aristotele il lògos rappresenta il fulcro della teoria analitica per capire la veridicità di un'asserzione. Dagli stoici è definito come lògos spermatikùs, ragione che feconda la materia. Insomma il lògos è tipico di tutta la filosofia occidentale e, nonostante le diverse sfumature che ne sono state date, esso è sempre visto come un qualcosa che rimanda ad altro, come un'apertura su qualcos'altro; infatti la parola, il discorso non esaurisce un pensiero, ma lo lascia sempre aperto ad altre vie di interpretazione. Ora, anche il logo, inteso come marchio commerciale, rimanda a qualcos'altro (cioè ai prodotti contraddistinti da quel dato marchio), e perciò è affine al lògos. La differenza però sta in ciò a cui rimandano: banalmente, il logo rimanda ad una serie di prodotti da acquistare per consumare, il lògos rimanda ad un pensiero da cui ne possono nascere infiniti altri. Il logo, allora, assomiglia ad una specie di vicolo cieco, di strada chiusa in cui l'oggetto al quale esso rimanda esauri 66


sce completamente la funzione del logo stesso, mentre il lògos rappresenta un sentiero infinito fatto di pensieri generanti altri pensieri. Da questa prospettiva logo e lògos sono incompatibili e, forse, è proprio per questo che in una società sempre più "logotizzata" il ragionamento è sempre meno stimato e chi lo pratica è visto come un eccentrico, come un soggetto mentalmente disturbato, incapace di allinearsi alla moda della logo(lobo)tomizzazione. In quasi 30 anni di World Wide Web l’opinione pubblica si è trasformata in opinione pubblicitaria. Mi domando se tutto stia diventando cultura o se tutta la cultura stia diventando prodotto. In TV passa uno spot raggelante: famiglie truccate da Einstein con parrucca e baffi bianchi si aggirano fameliche e felici tra le corsie dei supermercati Eurospin. “C’è un solo posto dove essere intelligenti costa poco”, dice lo slogan, mentre un Einstein-bambino estrae un metro di lingua. “Il cliente che entra da Eurospin”, chiarisce l’azienda, “si “einsteinizza” man mano che, tra le corsie, fa la spesa”. E’ tutto relativo, e ci sono problemi peggiori, però la battuta geniale di Checco Zalone “della Che Guevara c’avete anche il borsello?” sta diventando realtà. Sempre più spesso le parole e i simboli della cultura diventano marchi. Come è potuto accadere? I 6 agosto di ventinove anni fa Tim Berners-Lee, informatico al Cern di Ginevra, mise online il primo sito della storia. Ci vollero diciassette giorni perché il primo utente esterno al Cern si collegasse. Oggi i siti sono un miliardo e mezzo, in gran parte inattivi. “Il World Wide Web (W3)”, scrive l’informatico, “è un’iniziativa per il recupero di informazioni con l’obiettivo di fornire accesso universale a un grande universo di documenti”. L’idea era semplice: condividere gratuitamente il sapere attraverso una rete di link. Il sito è ancora online e navigarci oggi fa tenerezza perché nella sua sobrietà – è più scarno di un comunicato stampa – dimostra tutta l’ingenuità di un nuovo inizio. In questi ventinove anni il sogno di Berners-Lee si è in parte realizzato: l’umanità ha riversato sul World Wide Web tutta la propria conoscenza, rendendola disponibile gratis per tutti. Parallelamente, però – non solo sul web – il sapere si è progressivamente mischiato alla pubblici7


tà, rendendosi indistinguibile da essa e la parola “Ricerca”, che proveniva da ambiti scientifici, si è messa presto a puntare alle merci. Il primo motore di ricerca nacque nel 1994. Allora Yahoo! Si chiamava Jerry and David’s Guide to the World Wide Web. Chi è abbastanza vecchio mi racconta che se non trovavi un risultato, dovevi arrampicarti sui rami dell’albero ancora suddivisi nelle categorie e sottocategorie che organizzavano il sapere: Scienza, Letteratura, Società, Giochi, Sport. La concezione tradizionale della conoscenza venne stravolta nel 1998 quando Larry Page e Sergey Brin fondarono Google, il cui algoritmo si basava sull’idea che le pagine più linkate, quindi lette e apprezzate dagli utenti, sarebbero state quelle di maggior valore. Si basava, cioè, sulla fiducia che gli esseri umani avrebbero spontaneamente scelto e premiato le informazioni migliori. Con Google la cultura diventò di massa, e l’egemonia culturale degli intellettuali finì perché a decretare il valore di un’informazione cominciò a essere la popolarità, e chiunque si trasformò in un testimonial. Dal Logos si passò al logo. Su Instagram – il social che funziona come quando ti costringevano a guardare per ore diapositive dei viaggi altrui - niente distingue la pubblicità di un libro da quella di uno shampoo. Su TikTok - il social che funziona come una slot machine di brevissimi spot – tutti fanno a gara per pubblicizzare gratis, anzi pagando, marchi e prodotti. E’ stato un processo lungo, passato attraverso le magliette Lacoste, la transizione dall’Eskimo al Moncler (adesso non vanno più di moda le cose, ma i marchi), le t-shirt Emporio Armani, la cultura griffata dei rapper. Sapere chi è Aristotele, oggi, è molto meno importante che saper consigliare una crema idratante o identificare i loghi con cui definire il proprio essere-nel-mondo. Quello che conosci è quello che consumi, e consumi quello che conosci. Come gli indiani d’America - scusate, nativi americani - che si agghindavano di piume e perline per definire il proprio posto nella gerarchia sociale, l’identità individuale è affidata alle cose, anzi ai marchi delle cose. L’opinione pubblica, su cui si fonda la democrazia, scompare. Quel che rimane è l’opinione pubblicitaria. Teresa Fratus IIC 8


Molto spesso si dice che qualcosa è difficile da esprimere a parole, soprattutto nel caso di forti emozioni o sentimenti, che ci lasciano davvero senza fiato, senza parole. Non riusciamo a trovare i giusti termini per descrivere ciò che proviamo, perché effettivamente il linguaggio, a volte, è insufficiente. Il nostro pensiero viaggia molto più velocemente e ci porta ad esplorare s ensazioni e immagini che realmente non possiamo descrivere a parole. Questa impossibilità, tuttavia, non stupisce ùpiù di tanto, ed è così normale, così frequente, che nemmeno le diamo importanza. Il vero problema del limite del linguaggio si pone nel momento in cui bisogna analizzare un fatto oggettivo attraverso le parole. Infatti queste, pur essendo le stesse, pur essendo condivise da chi parla una determinata lingua

e, dunque, pur sembrando chiare ed oggettive, sono in realtà altamente soggettive. Il linguaggio è un filtro tra i nostri pensieri e il mondo esterno, è il prodotto tra ciò che pensiamo e ciò che rendiamo noto al nostro interlocutore. Inoltre può facilmente essere manipolato, ma, anche qui, nulla di nuovo. Come si può però pretendere oggettività da questo tipo di comunicazione? Come si può, per esempio, in ambito giudizi rio, stabilire se qualcosa sia accaduto o meno? Naturalmente esistono le prove materiali, ma qualora fossero insufficienti sarebbe necessario ricorrere all’ascolto dei testimoni, che, tuttavia, prima di tutto, sono individui con i loro interessi personali. Capire e smascherare le menzogne sarebbe un tentativo folle, vano. Inoltre, sempre nell’ambito della giustizia, può accadere che i difensori delle controparti presen-

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tino discordi che, al di là dell’attedibilità o meno del contenuto, siano volti (com’è naturale che sia) a smuovere l’uditorio e influenzarne l’opinione. Anche in questo caso, dunque, il linguaggio diviene uno strumento ambivalente, poco chiaro, illusorio e si dimostra inaffidabile e insufficiente proprio in circostanze dove è, invece, fondamentale. Il risultato di questa serie di limiti che il linguaggio inevitabilmente impone è una concezione della giustizia che si basa sulle opinioni e per cui ogni cosa può essere vera r falsa al tempo stesso. Una giustizia “democratica” ma nella peggior accezione che possiamo immaginare del termine o forse, più propriamente una giustizia di Schrödinger, che permette di calcolare le probabilità che qualcosa accada ma lascia il vuoto incolmabile dell’assenza di una vera conclusione. Determinare i fatti diventa una questione di opinioni, di sentimenti e perfino di sensazioni provocate dai giornali, dai media, dai difensori che influenzano l’opinione pubblica con banali trucchi, strumenti retorici e quant’altro. Questo ovviamente non accade sempre, né solo in ambito giudiziario, eppure costituisce un grande limite

anche, più banalmente, nel nostro modo di rapportarci alla realtà, di scegliere in cosa credere e cosa invece etichettare come falso o ingiusto. Paradossalmente il linguaggio, creato dall’uomo come mezzo di comunicazione, di avvicinamento reciproco in vista di una più profonda comprensione, rischia, in alcuni casi, di essere una barriera insuperabile che impedisce all’uomo stesso di distinguere il confine tra realtà e menzogna.

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Zoe Mazzucconi VA


Popolo ed élite, molti e pochi, nobilitas e plebe, δήμος e άριστοι, ricchi e poveri, colti e non, oppressori ed oppressi, chi ha il potere e chi ne è escluso: queste sono solo alcune delle parole che sono state usate, nel corso della storia, per definire la contrapposizione che viene sempre a ricrearsi nella società, in un modo o nell’altro. Definire questa dicotomia è certamente assai difficile, ma osservando le varie ipotesi di definizione che sono state date nel corso del tempo è possibile individuare tre criteri principali: popolo ed élite sono definibili secondo un criterio politico, chi ha il potere e chi ne è escluso, che è la linea, fra gli altri, di Machiavelli; secondo un criterio culturale, per cui élite sarebbe l’insieme di tutti coloro che partecipano al dialogo su tematiche culturali; secondo un criterio economico, che possiamo vedere ad esempio negli scritti di Marx, per cui sarebbero proletariato e borghesia, chi possiede proprietà e chi no. Di certo è importante tenere in conto che il passaggio dall’Ancien Regime alla società contemporanea, segnato dalle grandi Rivoluzioni a cavallo fra ‘700 e ‘800, quella Francese e quella Industriale, ha determinato, con la rottura del sistema dei ceti, un grande cambiamento. Se prima in Francia l’élite era facilmente identificabile con nobiltà e clero, con tutti i loro privilegi, ora e già dall’800 l’identificazione è più difficile. Allo stesso modo una definizione ora non può basarsi solo sul criterio di Machiavelli perché, con la scelta dei Paesi europei, o meglio di quelli aiutati dopo la guerra dal piano Marshall e dunque alleati con gli Stati Uniti, di adottare regimi democratici nel corso del’900, il potere politico appartiene teoricamente a tutti i cittadini. Inoltre è di difficile applicazione anche una definizione culturale, in quanto l’alfabetizzazione delle classi più basse e l’introduzione della scuola pubblica hanno determinato una diffusione molto più ampia della cultura. È inoltre impossibile non ricordare che la lotta all’élite, all’establishment, è spesso stata negli ultimi anni cavallo di battaglia dei movimenti populisti, con risultati assai pericolosi. La presunta corruzione dell’élite politico-culturale è stata uno degli elementi centrali della propaganda di Trump, negli Stati Uniti, ed ha portato al famoso assalto al Campidoglio; similmente in Italia la critica ad una classe dirigen 11


te colta è spesso stata, ed è ancora, un metodo usato per portare la gente dalla propria parte. Questa definizione di élite punta molto tuttavia sul criterio culturale e su quello politico, tralasciando il criterio economico, e sembra altresì essere dovuta più al bisogno di attrarre il consenso delle masse che alla volontà di costruire un vero progetto politico che aiuti il “popolo”. Come però non notare che il vero potere oggi viene prima di tutto dal predominio economico, ed è per questo saldamente nelle mani non di pochi ma di pochissimi. A confronto di capi di stato come quelli di Stati Uniti e Cina o di multimiliardari come Bezos è ridicolo pensare che un giornalista di successo o un parlamentare qualsiasi siano veramente annoverabili fra i potenti. Se si definiscono quindi popolo ed élite secondo questi parametri, i grandi della Terra e tutti gli altri, i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, è fondamentale continuare a parlare della contrapposizione fra i due. Machiavelli diceva che a Roma il punto di non ritorno, quello dopo il quale la Repubblica era condannata alla caduta, fosse rappresentato dalla legge agraria che scatenò l’odio fra Plebe e Senato. La legge agraria fu proposta dai Gracchi nel momento in cui sparirono i piccoli proprietari terrieri, i contadini-soldato, quando i grandi latifondisti cominciarono ad arricchirsi oltre misura mentre la plebe urbana moriva di fame. Così oggi è necessario costruire progetti politici che riportino in equilibrio il sistema, ponendo un limite all’accentramento del potere, e per farlo non ci si può astenere dal considerare e definire nel modo giusto la dicotomia popolo/élite. Anna Piazzalunga IVC

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Ebbene sì, ecco le (uniche) tre canzoni più votate che contengono il sostantivo “parola”: 1° Parola - Jovanotti Dal ritmo molto coinvolgente, questa canzone prende il possesso del tuo corpo e inizia a farlo ballare. Si tratta di una riflessione, quasi di un flusso di coscienza che racchiude tutte le sfaccettature delle parole e l’utilizzo delle stesse. “Parola” è uscita nel 1994 ed è contenuta appunto nell’album chiamato “Lorenzo 1994” ma, come la maggior p arte delle canzoni di Jovanotti, sembra ancora attuale. 2° Parole parole - Mina Al secondo posto troviamo il più famoso fra i tre brani; è del 1972 ma tutti noi senza dubbio lo conosciamo. In breve, è un dialogo tra Mina e l’attore Alberto Lupo, i quali interpretano due fidanzati la cui relazione è vuota e priva di passione, viene colmata solo da “parole, soltanto parole”. L’uomo cerca di attirare l’attenzione dell’amata con frasi fatte, parole melense e complimenti fuori luogo, la donna quindi prima lo rifiuta e poi cerca di far notare che preferirebbe qualche gesto concreto, non solo discorsi, ma egli non capisce. Al di là del significato, è innegabile che sia una canzone stupenda, dalle vibes molto retrò che trasportano l’ascoltatore in un mondo così diverso dal nostro. 13


3° Parole di ghiaccio - Emis Killa Questa canzone è stata la colonna sonora della mia infanzia, davvero. Parla della rabbia che l’autore prova dopo un litigio con la propria partner; le parole di ghiaccio sono quelle che rimangono sospese nell’aria dopo aver discusso, sono quelle che feriscono anche quando l’inverno sta finendo. Per quelli che come me sono cresciuti con le canzoni di Emis Killa, questa è e rimarrà una hit intramontabile, capace di farti a pezzi il cuore, ma anche di farti sfogare tutta la rabbia che hai in corpo e, nonostante non sia più così recente, rimane tra i brani più popolari dell’artista su Spotify. Martina Musci IIID

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Classe 1978, poetessa romagnola, di nascita e vocazione poetica, Annalisa Teodorani esordisce giovanissima con la raccolta Par sénza gnént (Rimini, Luisè, 1999). La sua opera si inserisce nel solco tracciato dai tre grandi poeti romagnoli del secondo Novecento (Pedretti - Baldini - Guerra), i primi a introdurre nel novero della grande poesia italiana tale ‘prodotto regionale’. Pennellate rapide e imperfette, metafore semplici, immagini spesso tratte dalla natura, ricondotta a una dimensione quotidiana e dunque privata della maestosità cosmica di cui l’ha tradizione l’ha insignita (dai lirici greci a Leopardi), sono caratteristiche chiave. Rispetto alla musa dei tre predecessori, caratterizzata da cruda vivacità, ricerca di un ἀπροσδόκητον finale, tenore spesso brutale e scontroso, la poesia della Teodorani si modula su toni più malinconici e soffusi, che tradiscono da un lato la nostalgia di un’intimità con la terra madre, dall’altro la necessità di combatterla attraverso il ritorno alla parola parlata. Il dialetto, in questo senso, non costituisce un mezzo espressivo o una scelta linguistica, ma è inseparabile dal contenuto. Ciò che si dice è anche (e soprattutto) come lo si dice. La parola è restituita nella sua nudità e dunque nella sua verità primigenia, non rappresentata ma incarnata. E quanto più la realtà ‘regionale’ si fa carne e poesia grazie alla voce della poetessa, tanto più si ha l’impressione di sentirla vicina, condivisa da tutti. Ecco che una poesia a prima vista preclusa alla maggioranza si rivela espressione di una sensibilità comune, il dialetto si riscopre sintomo di universalità.

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Du an Al mèni a l vuntèva di giarùl te vièl s’un vstidìn a pois. L’éra la vóita d’un pasaròt ch’e’ zùga s’una sménta, un fiòur... Pu l’à tàch a pióv la catóiva stasòun la s’à ingulè. A i’ò cmè un’òmbra t’un cantòun d’un òc u n gn’è gnént in fònd a e’ curidéur però u m tòcca sèmpra guardè.

Due anni Le mani tracimavano di sassolini nel viale con un vestitino a pois Era la vita di un passerotto che gioca con una semenza, un fiore... Poi ha cominciato a piovere la cattiva stagione ci ha ingoiati. Ho come un’ombra nell’angolo di un occhio non c’è nulla in fondo al corridoio però devo sempre guardare.

Amòur Fa còunt e’ Vajónt una muntàgna ch’la va zò tl’àqua L’amòur l’è un’invarneda ch’la giaza al tubadéu una diga senza gnénca un rubinèt.

Amore Immagina il Vajont una montagna che frana nell’acqua. L’amore è un inverno che gela le tubature una diga senza nemmeno un rubinetto.

I tu vécc i è ancòura sòta cl’arvùra à fat dal ràdghi lònghi... E te t’è la grèzia dun zarmòi sòta la guàza.

I tuoi vecchi sono ancora sotto quella quercia hanno fatto radici lunghe... E tu hai la grazia di un germoglio sotto la rugiada.

Par tott i piént, par tott i fùgh Par tótt i piént ch’i n’à tróv niséuna cunsulaziòun e par tótt i fùgh ch’i s’è smórt da par lòu ma pròima i s’è purtè via inquèl.

Per tutti i pianti, per tutti i fuochi Per tutti i pianti che non hanno trovato alcuna consolazione e per tutti i fuochi che si sono estinti da soli ma prima di sono portati via tutto

Par fè Nadèl Dal vólti par fè Nadèl e’ basta l’udòur d’un mandaròin.

Per fare Natale A volte per fare Natale basta l’odore di un mandarino.

L’éultum cécch A t’ò vést te spèc sal mèni tal bascòzi ta m’aspitìvi. A m’u n so vultè ò scambié par amòur l’éultum cécch te fònd de bicìr.

L’ultimo goccio Ti ho visto nello specchio con le mani nelle tasche mi aspettavi. Non mi sono voltata ho scambiato per amore l’ultimo goccio nel fondo del bicchiere. Francesco Giammarioli VA

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Per poter comprendere gli straordinari cambiamenti del Novecento, un secolo di crisi e, per questo, di ricerca di nuove vie, bisogna captare i segnali che già l’Ottocento ci manda, a percepire quasi le ondate distruttive che si abbatteranno sul nuovo secolo. Perché il Novecento è prima di tutto distruzione e solo dopo rinascita: la distruzione della guerra, delle prime crisi economiche mondiali del sistema capitalistico, dei regimi totalitari e degli stermini di massa. Non è difficile immaginare perché parliamo di crisi e, dunque, come mai i più grandi autori sono quelli che intercettano e analizzano questa crisi, della società e dell’essere umano. L’innovazione, la sperimentazione e la ricerca di nuovi strumenti sono le cifre tipiche del nuovo secolo e il cambiamento è tale che la visione del mezzo artistico viene stravolta. In questo articolo parleremo principalmente di letteratura, poiché il nostro interesse è la parola, il λόγος. La visione di essa come strumento artistico ma anche e soprattutto umano segue le travolgenti dinamiche sociali già in atto dal secolo precedente. Quello su cui intellettuali e critici hanno sempre riflettuto è che, sì, la Grande Guerra è stato il maggior catalizzatore di queste trasformazioni e l’esperienza più significativa del

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nuovo secolo, testimone del cambiamento in atto nella società, ma non ne è stato il punto d’inizio. Per questo si diceva all’inizio fondamentale analizzare l’Ottocento come secolo già instradato sulla via del mondo moderno. Questo è il periodo dei tumulti rivoluzionari e della formazione degli Stati nazionali: si guardi, ad esempio, all’esperienza italiana. E il fenomeno che avrà le ripercussioni forse più forti sulla storia seguente e che va a braccetto con la nascita delle Nazioni è la massificazione della società.


La dinamica delle masse, non più la volontà dell’individuo, è destinata a controllare gli aspetti principali della vità in società: politica, economia e anche arte. I protagonisti dell’orizzonte intellettuale tra Ottocento e Novecento risentono profondamente di questa nuova condizione sociale e ne sono anche i maggiori critici. Ma la crisi si intravede già da lontano: Leopardi, emblema della letteratura di inizio Ottocento e uno dei capisaldi della storia artistica italiana, è detto più volte essere il primo dei moderni. Questo è sicuramente da ricondurre alla sua esperienza tormentata e alla crisi interiore, che proviene da una società profondamente mutata che incontra una personalità particolarmente sensibile a questi mutamenti. Il dissidio interiore, il rapporto con la civiltà moderna e quella che verrà chiamata la crisi dell’io sono incarnate nella persona, artistica e biografica, di Leopardi. E la visione che lui ha di poesia segue passo passo questa sua problematica dimensione interna, subendo necessariamente vari stravolgimenti: all’inizio è legame indissolubile con il passato nobile degli antichi e con la natura, benigna produttrice di illusioni, e quindi prettamente classica. In seguito, al mutare del pensiero leopardiano, in coincidenza con l’opera filosofica delle Operette morali, fortemente critica del pensiero dominante nella nuova società borghese, la poesia diventa poesia-pensiero ed è quindi legata alla riflessione filosofica e

voce diretta dell’intellettuale e delle sue idee. Leopardi, per certi versi, è ancora considerato un classico della letteratura italiana e quindi rientra in quella “lista” di autori tradizionali che costituiscono i Grandi del nostro Paese, a partire da Petrarca. Ma il cambiamento è evidente: la crisi è quella di un intellettuale che inizia a faticare per trovare un posto in società. Questo tema avrà fortuna in tutta la letteratura seguente, anche europea. Il Decadentismo inglese e il Simbolismo francese sono i primi, prorompenti esempi di rottura con la tradizione: emblematica in questo senso è la poesia di Baudelaire ed è interessante notare come sia l’unico autore straniero antologizzato e affrontato completamente nei cinque anni che studiamo letteratura italiana. Perché il modo di interpretare la nuova società e il ruolo che riveste l’intellettuale in essa adottato da Baudelaire nella sua poesia è lucido e sofferto. Celeberrima è Perdita d’aureola, nella quale il poeta riflette sulla sempre più drammatica mercificazione dell’arte, trattata alla stregua di un mezzo di consumo. Perciò l’intellettuale non è solo svestito della sua aura sacra, della sua aureola appunto, ma è integrato nella società come un commerciante. Oppure emarginato. E la poesia di Baudelaire segue drammaticamente questo disagio, assumendo toni dissacranti, a volte perfino crudi. “Non sapranno mai, queste bellezze

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da vignette, questi prodotti avariati, nati da un secolo cialtrone, questi piedi da stivaletti, queste dita da nacchere, soddisfare un cuore come il mio.” L’ideale da I fiori del male, C. Baudelaire La poesia è d’altronde l’unico mezzo che può dare sollievo e consolazione all’artista nella società moderna, un’arte fine a se stessa, che non dà più al suo creatore alcun riconoscimento in società. L’arte diventa dunque veicolo solo e soltanto di bellezza e l’artista si incarna nella figura dell’esteta, un outsider consapevole però del proprio messaggio sublime e del proprio ruolo tanto fondamentale quanto sconosciuto. Oscar Wilde ne è il più grande esponente, nonché iniziatore del movimento decadente, e trova, per certi versi, il suo corrispettivo italiano in d’Annunzio. La parola per lui è tutto e il letterato, quale conoscitore supremo di essa, è l’unico in grado di conoscere la realtà: quasi un vero e proprio scienziato. Infatti parlerà di "scienza della parola” come scienza suprema per indagare la natura. Dirà d’Annunzio ne Le stirpi canore “Le mie parole sono profonde come le radici terrene, altre serene come i firmamenti, fervide come le vene degli adolescenti, ispide come i dumi, confuse come i fumi” eccetera eccetera. Il legame tra parola e natura è indissolubile e la serie di immagini naturali va a confermare l’ampiezza espressiva della parola, pari solo a quella della natura.

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Quello di d’Annunzio è un chiaro calco del maestro Baudelaire, che esprime il concetto nel sonetto Correspondances. Non sono ovviamente le sole esperienze ottocentesche degne di nota quelle fin qui riportate ma sicuramente sono funzionali a comprendere il disagio dell’intellettuale in una società sempre più di massa e la ricerca, sentita come necessaria, di nuovi orizzonti, che meglio interpretino le nuove esigenze della modernità. Nel Novecento sono veramente tanti gli autori che indagano con la loro opera il nuovo ruolo dell'individuo nella società e, più in generale, le innovazioni che il moderno apporta e che sconvolgono dalle fondamenta le certezze dell’essere umano.


C’è chi le accoglie e, anzi, le cavalca, come futuristi e vociani, e chi invece ne capta le profonde contraddizioni, come la poesia dei crepuscolari o la prosa di Pirandello, Svevo, Joyce, Musil, Kafka e altri. E parlare di una crisi identitaria dell’individuo (e dell’intellettuale), come fin qui si è fatto, è necessario per comprendere la crisi della letteratura (e della lettera) che ne segue. Come sopra si diceva, il mezzo artistico, che è in questo caso la parola, subisce cambiamenti profondi, a volte distruttivi, che sono espressione della transizione in atto. Non c’è bisogno di arrivare agli estremi del Futurismo per capire che il Novecento è il secolo dell’irrazionale, della perdita dei valori e delle certezze. “Dio è morto” è la frase trita e ritrita del maestro Nietzsche, ma è anche il riassunto in tre parole della condizione dell’uomo moderno: il nichilismo. Perché con Dio sono morti i valori a Lui collegati e l’individuo si annienta, diventa maschera del denaro, che è ciò che rappresenta nella nuova società di mercato. In poche parole, tu sei ciò che puoi offrire al mercato. E questo pare pazzia a tutti coloro che hanno la sensibilità per accorgersi di questi mutamenti. La denuncia parte sempre e comunque dal mezzo espressivo, dal linguaggio, dalla parola: è la ricerca del nuovo o il rifugio nel tradizionale, così sicuro e razionale. Da una parte abbiamo le avanguar-

die, il paroliberismo (parole in libertà) dei futuristi, la poesia di Rebora prima e Ungaretti poi sugli orrori della guerra e, nell’orizzonte internazionale, dei War Poets inglesi, lo stream of consciousness di Joyce. Dall’altra il classicismo di Montale, l’illuminismo inquieto di Calvino, l'antinovecentismo di Saba. Prendiamo, ad esempio, Ungaretti: la guerra l’ha toccato nel profondo e la consapevolezza che niente è più come prima sorge spontanea. Soppressa la punteggiatura, verso completamente libero, parole orrende paurosamente accostate ai termini dolci e consueti. “Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore Non sono mai stato tanto attaccato alla vita” Veglia, G. Ungaretti

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La riflessione si fa un po’ da sé di qui in poi e le testimonianze di questi mutamenti repentini e violenti sarebbero ancora innumerevoli. Ma credo di dover chiudere se no mezzo Cassandra è mio a sto giro. Spero di aver reso giustizia a questi grandi autori che hanno saputo cercare le risposte nei posti giusti: è per questo che leggere gli autori del ‘900 aiuta a dare un senso a questi tempi crudeli. Grazie. Irene Fiocca, 5G

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Guarda intorno a sé gli sguardi sconosciuti e le luci della stanza restando così per alcuni minuti. Offrendogli una mano lo invitano a uscire ma lui la delusione cerca di coprire. In realtà fuori gli piace quando ogni cosa tace, ma oggi nei prati luminosi i bambini sono fin troppo numerosi. Cerca di conversare perchè gli altri gli chiedono: “tu cosa fai fare?” La risposta si blocca nella sua gola forse è per me che stanno ridendo, come fanno a scuola. Per la sua mente riappare il ricordo delle smorfie sulle loro bocche, anche se dalla sua non esce nient'altro che un respiro profondo. Per un bambino a volte è difficile relazionarsi con gli altri quando non si riesce a usare la parola come i propri coetanei.Non tutti sono in grado di capire che forse è meglio utilizzare di meno la bocca e di più le orecchie. Sarebbe più facile parlare se si sa di essere ascoltati, che è essenzialmente lo scopo del suono. Federica Crapanzano IIE

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Erano le tre di notte e il sogno di mezza estate stava svanendo: l’aria si faceva più fredda, il sole più raro, la frenesia della vita più silenziosa. Dalla piccola finestra della casa sull’albero si poteva intravedere la luna, che con quel suo scintillio tremante sembrava angosciare anche le stelle. Stesa ad osservarla, ripensava alle poesie che il nonno le leggeva da piccola e che accuratamente aveva raccolto in un piccolo libretto. Sì, proprio quei notturni, quei versi di cui inesplicabilmente amava l’inquietudine. Era così che l’aveva imparato, che nell’ombra si soffoca e nel buio il sonno tormenta. L’aveva imparato, eppure mai vissuto, almeno fino a quella sera, fino a quell’istante in cui aveva deciso che le parole sono più di inchiostro su carta. E così, tra i sospiri del vento e i sussurri del silenzio, cercava conforto, cercava armonia. Ma aveva nostalgia, e amarezza; aveva l’aspro sapore della libertà appena sfuggita, dell’amore sfumato, della spensieratezza perduta: della disillusione. La mente, incantata, vagava tra i ricordi, intrappolata nel tagliente passato, dove il cuore gioiva e

poi sentiva malinconia. Assolta in quel languore ineffabile percepiva solo il vuoto, di una contemplazione passiva e di un’esistenza malata. Fu lì che chiuse gli occhi: buio nel buio, paura nella paura. Fu lì che scelse la luce, quella luce che scaldava e che temeva non avrebbe mai raggiunto: ma forse era proprio quello il punto, godersi il calore. Presa da un irrefrenabile entusiasmo corse giù dalle scale, così, con il pigiama e senza calze, con i sogni e senza pensieri. Era una gara la sua, una sfida alla luna: una corsa alla conquista del potere, che, chissà, forse avevano entrambi e nessuno. Arrivare prima alla città, sopprimere l’apparente solitudine, riscattare la vita. D’altra parte, si diceva, il nonno aveva promesso che c’erano case in fondo alla strada. Non aveva detto, però, come vederle: la luce pareva scappare. Erano solo illusioni, ombre di una città invisibile. Stesa a immaginarla, ripensava a quei notturni: chissà se poetico è chi guarda la luna o chi dalla luna viene guardato.

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Ma lì, in quella gara per l’aversi, Era quella la vera natura di poetico c’era solo il vento: un dell’umanità? Con le lacrime agli soffio di seduzione, un soffio di occhi, sola e al freddo, sentiva solo il sussurro di un mondo spiemagia. In quel frangente riaffiorarono tato. Difficile quantificarlo, il immagini di una vita passata, o dolore del fallimento. Capì che la forse semplicemente dimentica- gentilezza non ha peso in una ta. Se la ricordava bene la bambi- realtà preclusa al confronto; capì na dolce e sensibile che era, così che il dono di se stessi non è un come ricordava l’esatto istante in servizio d’amore, ma un sacrificui quella bambina aveva perso cio; capì che avrebbe potuto la voce. Era tutta questione di riscattarsi, ma che la sua anima spazio, come quando nella folla sarebbe sempre rimasta sola, ci si sente più soli che in un confinata in una bolla di autenticiangolo buio. Le avevano detto di tà. Fu conscia la rinuncia alla farsi trovare sul ciglio della ribellione, conscia la decisione di strada, che poi sarebbero andati adeguamento. Aveva deciso che nel bosco a costruire un mondo di le lacrime sono da femminuccia, favole e utopie. Anche i nemici e che felicità è sinonimo di forza. possono sorridere, pensava, e Avrebbe solo dovuto nascondersi anche i fantasmi possono vivere. dietro la Erin cortese e accondiCosì si lasciò ingannare, acceca- scendente: godersi la quiete della ta da quella speranza che nutre banalità. l’entusiasmo. In quella nebbia Una cosa sola, però, avrebbe d’autunno lei cercava solo un fatto prima di tornare a casa dopo sorriso. Non un abbraccio o una quelle due ore di vana attesa: carezza, tanto meno l’amore, costruire una casa sull’albero, solo un semplice sorriso che non sigillo della sua intimità. Non somigliasse più a ipocrisia o com- doveva neanche essere una vera patimento. Ed era disposta a casa sull’albero, bastava un vagare in quella nebbia, era piccolo rifugio che le ricordasse disposta a lottare, e a credere. chi era. Pensava davvero di averlo trova- Passarono vent’anni da quel to, quell’attimo di tenero affetto, giorno, e di quella Erin non era di puro piacere. E non fu l’illusi- rimasto che un vago sogno. one, ma l’abbandono a farle Dopo la morte del padre aveva deciso di partire e di conoscere l’apatia. 24


affrontare quel mondo in cui, pensava, avrebbe trovato almeno l’ombra della felicità. E le aspettative non furono affatto deluse, anzi superate. Aveva tutto, un’esistenza perfetta, chiunque avrebbe pagato per quel suo entusiasmo di vivere. Pensavano di conoscerla, ma non si accorgevano proprio che i suoi occhi non erano più verdi, e che non sorridevano più: la nebbia di quel pomeriggio non se n’era mai andata. Ma neanche lei, d’altronde, se ne era resa conto, che quella casa non era un nido, che le amicizie erano relative, e le soddisfazioni parziali. Perché in fondo stava soffocando, ma la mancanza d’aria non è percepibile quando ci si dimentica della sua esistenza. E quel settembre, allora, si rivelò salvifico: la madre l’aveva chiamata qualche giorno prima, sarebbero tutti tornati in città e lei non poteva sottrarsi. A quelle persone che tanto l’avevano disprezzata sapeva rivolgere solo sguardi di vergogna, vergogna per il potere che gli aveva concesso, vergogna di se stessa. E a quei complimenti, che poi forse erano parole d’invidia, sapeva rispondere solo con la casa sull’albero.

Fu così che poi incontrò la luna: le diceva di guardarsi negli occhi, di ascoltare il suo dolore. Terrore e pietà: purificazione. “Non permettere a nessuno di toglierti il sorriso”, le aveva detto una volta il padre; ebbene, non voleva più un’anima in bianco e nero: eterna sarebbe stata quella corsa alla città invisibile. Erano le tre di notte e il sogno di mezza estate era finito: era il momento di capire il tempo e provare a viverlo. Vittoria Castelli VG

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Al giorno d’oggi il sempre più diffuso utilizzo dei social in qualsiasi ambito della nostra quotidianità ha portato ad un alto incremento dell’influenza dei grandi atleti nella vita dei loro tifosi. Ciò significa che ogni post che leggiamo, ogni foto e ogni tipologia di condivisione rappresentano di per sé una dichiarazione ufficiale, soggetta al giudizio e alla valutazione di esperti e ammiratori, e dunque indispensabile per la costruzione di una determinata reputazione, inaspettatamente complice anche delle prestazioni in campo. È da qui che se può ben notare come l’immagine di una qualsiasi star dello sport debba essere studiata e programmata in ogni dettaglio, benchè questo generi spesso come effetto collaterale il soffocamento dell’individualità dell’atleta, il quale viene sovrastato da ciò che è meglio mostrare al pubblico. Oltre alla reputazione personale che un atleta deve mantenere, sono infatti da considerare anche gli interessi della società e degli sponsor che lo finanziano, e in questo caso l’apparenza è ancora più fondamentale: un’azienda decide di investire su un atleta in base all’immagine che questo trasmette, ai valori che incarna e al pubblico a cui si rivolge con i suoi discorsi. Anche la preparazione di contenuti rilevanti per i giornalisti ed esperti del settore, da esporre per esempio durante una conferenza stampa, fa parte del management di una squadra o di uno sportivo, e ciò può mascherare la vera personalità di questi ultimi. Le parole, dunque, sono fondamentali per un atleta non solo per “costruirsi un personaggio”, bensì perfino ( e forse soprattutto) per farsi strada nella sua carriera. Prendendo l’esempio del calcio, qualora un giocatore si lasciasse sfuggire dichiarazioni inappropriate, rischia di sbaragliare una trattativa tra club e a rimetterci, oltre al calciatore stesso, sarebbero perfino le società coinvolte che vedrebbero andare in fumo tutti i loro programmi. Analizzando poi il linguaggio con cui un atleta descrive sé stesso e i propri obiettivi sportivi e da come si pone nel corso di una gara, possiamo altresì avere un’idea di come si rappresenta in riferimento alla performan 26


ce, alle sue intenzioni, a ciò che è disposto o non è disposto a fare, a quello che crede possibile o impossibile realizzare. Guardando una qualsiasi competizione, per l’appunto, è estremamente evidente chi in campo, soprattutto nei momenti di maggior sofferenza (per la squadra o per il singolo), riesca a prendere in mano la situazione tentando per lo meno di salvarsi da una sconfitta sdegnosa; in egual modo, dalle parole con cui un giocatore sprona, incoraggia o attacca i compagni e gli avversari, viene dipinta un’immagine pubblica dell’individuo difficile da sfatare in secondo luogo. Per concludere, possiamo allora sottolineare come nello sport le parole acquisiscono un’importanza immane: diventano mediatrici tra l’atleta e la sua figura, l’economia e la tifoseria, ma sono estremamente indispensabili, quasi al pari delle prestazioni in campo, anche per costruirsi una nomea. Niccolò Zitelli IIID

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2A Beretta: metti via quel telefono Gabriele: è una calcolatrice Beretta: ma che calcolatrice è Gabriele: ma è bellissima, fa rumore quando schiacci i tasti Emanuele: guardi che lui è esperto, investe in crypto Jacopo: avevo fatto 3 possibili traduzioni, 3 traduzioni sbagliate

Enrico: *leggendo la traduzione della versione* M Cato Spadaro: M Cato non si può sentire Enrico: Marco Catone Spadaro: grazie Martina Emanuele: in realtà ho suggerito io Enrico: *leggendo la traduzione della versione* andò nelle sabine Spadaro: semmai presso i sabini, altrimenti sarebbe una versione a luci rosse Mazzeo: perchè non hai risposto alla domanda? Roberto: non c'era abbastanza tempo Mazzeo: diamo la colpa al tempo Enrico: è giusto tradurre "della trasportazione dell'esercito"?

Toffetti: *smette di interrogare e guarda Alessandro* cosa fai con quelle dita? Attenzione ragazze Toffetti: *interrogando Gabriele* avevo un compagno di classe con il tuo stesso cognome, Osvaldo Ghilardi. Vediamo un po' chi altro c'è... Gabriel Garko Gabriele: non so chi sia Toffetti: è un attore un po' porno Mazzeo: *spiegando genetica* per esempio, come è fatta una tigre? Enrico: è zebrata Mazzeo: ...e poi ci sono i gemelli eterozigoti Enrico: *alza entrambe le mani* SONO IO Beretta: come si chiama un angolo maggiore di 90°? Alessandro: 180 Enrico: Prof posso andre dietro con Rebecca? Mazzeo: Rebecca è d'accordo? Rebecca: Sì prof, sono consenziente. Enrico: Io le cose le faccio solo se l'altra persona è consenziente.

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4C Gervasoni: a venezia il cibo costa tantissimo...tranne lo spritz, quello costa solo 2,50€ classe: _ride_ gervasoni: sisi ridete pure, voglio vedervi io a fare gli scalini di quei maledetti ponticelli dopo gli spritz

Giorgio: “ Eschilo introdusse la legge del tagliere”+

(lezione di motoria all’aperto, iniziano a volare dei piccioni) profe: (_scappando_)NOOOO! I PICCIONI NOOOO

Nardone: “come venivano chiamati i turchi? Non mi viene in mente” Forno: “Saraceni?” Elisa: “Pagani?” Silvano: “Kebabbari”

4F Rappresentanti (ale e gio): * si fanno cenni con gli occhi e con il capo da lati opposti della classe * Nardone (urlando): scusate, a me sembra di essere in una classe di massoni.

Silvano: “ la prova del cuoco” Beretta: “si vede quando uno studente sta usando il telefono perché è molto più concentrato”

Lilli provando il battito cardiaco al polso Lilli: “in realtà io non lo sento molto” Fede : “ No profe le facciamo la manovra”

Beretta: cos'è sto foglio? "Gentile docente..." non è diretta a me. Matteo taglia i fili della sua giacca Bosio: “Oggi si è anche sistemato Bosio: signor Silvestri, vada a il look” sedersi Matteo: “Ne ho altri?” Matteo: intanto mi dia del Voi e non Bosio: “No sei perfetto!” del Lei Bosio: * guarda Matteo * Nardone: “Ricordati di me quando sarai grande” Nardone: noi spenderemo in libre- Gio: “La renderò famosa” ria quello che avremmo dovuto spendere in psichiatria. Questo è il mio motto.

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Profe accede a google con il proiettore acceso Profe: eh ma vedete la password così? Gio: *copre la password con l mano sulla lim nonostante ci sia il proiettore acceso*

durante religione con don Pasini: “un prete dovrebbe avere la possibilità di sposarsi?” cami: “ma chi si sposerebbe con un prete” Pasini: “buono a sapersi, Camilla 4G Venerdì, VI ora Federico:"Quest'ora è talmente pesante che dovrebbero darcela come pcto"

Mazzeo: avete capito? Elisa: sì Giorgia: ma non mentire. Toffetti: interrogando Enrico davanti a θε la dentale diventa ς, come si chiama questo fenomeno? Enrico: ehm... legge di Istoff? Toffetti: non siamo in un lager nazista

Zappoli:"Perchè l'appetizione è una facoltà pratica e non teoretica?" Kikka:"Perché l'appetito vien mangiando"

Mazzeo: proietta la classificazione dei felini Enrico: dov'è la pantera rosa? Gabriele: entra in classe con 2 caffè Spadaro: Fai il servizio bar? Gabriele: No sono per me 2E ** Salvi sta leggendo Familia Romana** Salvi: sursum corda, quindi, vorrà dire cosa? Cesare: salta la corda! Salvi: no, in alto i cuori 30 2

MFrancesca:"Chi fa da sé prende 3" Greta:"Messi, ma come fai a scrivere con la R moscia?" Zappoli:"[...] come dice Montaigne...l'abbiamo fatto Montaigne, giusto? É importante" Classe:"No, solo in italiano" Zappoli:"Ah, non in filosofia?" Classe:"No" Zappoli:"...eh vabbè, non si può fare tutto"


Linda:"Profe ma che brutto che è Marchesi: Però adesso vi rendete Gesù in questo quadro! Sembra un conto che quattro ore di italiano non sono abbastanza in un liceo classikoala" co? Nico: ma grazie a dio 5A Gervasoni: [parlando della gita] magari c’è qualche deficiente che si Nico: (leggendo il proprio flusso di affaccia dal burrone per cercare il coscienza) mi è venuto in mente il grandissimo sublime fondoschiena di una mia amica di Nico: Profe, posso chiederle una Noto, poi Elisa che è la mia ragazza cosa, lei da dove viene? Possibile dalla trinacria? Marchesi: Avete capito Riki: Mia tát Mazzeo: Non sono valdostana 5H Marchesi: con "costruire in modo voluttuoso" volete forse intendere che uno, costruendo casa, crei una stanza dei giochi come la collana di Toffetti: [guarda il quadro “Ritratto libri best-sellers dalle sfumature a ¾ di donna romana] A voi sembra grigie, nere e rosse presenta? un ritratto di donna romana? A me sembra un ritratto di travestito Marchesi: a voi non capita di spaventarvi vedendovi senza mascheromano rina? No a voi non capita, siete belli Giaconia: La borghesia esiste e giovani! ancora oggi? Said: Sì Giaconia: No Said: Come no? Giaconia: E invece sì Betta: [in Dad alle 9:00] scusi profe, non ho sentito la sveglia e mi sono appena alzata Giaconia: ooh, fatti vedere!

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: Annalucia Gelmini IIIE, Teresa Fratus IIC, Zoe Mazzucconi VA, Anna Piazzalunga IVC, Martina Musci IID, Francesco Giammarioli VA, Irene Fiocca VG, Federica Crapanzano IIE, Vittoria Castelli VG, Niccolò Zitelli IIID

­ : Irene Fiocca VG Viola Corti IIE Federica Crapanzano ­ : Zoe Mazzuconi VA : Zoe Mazzucconi VA : Annalucia Gelmini IIIE, Anna Piazzalunga IVC : Ginevra Sansoni IIC : :Martina Musci IIID, Anna Piazzalunga IVC :Francesco Giammarioli VA, Irene Fiocca VG :Vittoria Castelli VG :Chiara Inzaghi IIC

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