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La paura più grande oggi è la solitudine
Le profondissime riflessioni del sociologo polacco Zigmunt Bauman
Le paure diffuse in terra sono più numerose dei nomi in un vocabolario.
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Eppure, secondo il sociologo Zygmunt Bauman, la paura più grande dell’uomo contemporaneo è la solitudine. Nell’era delle telecamere e dei social, nell’era in cui si dibatte sul concetto di privacy, in cui ci si sente osservati e controllati ovunque da chiunque, l’uomo teme di restare solo, di venire abbandonato, di essere escluso. Il filosofo di origine polacca, che ci ha salutato nel 2017, all’età di 91 anni, per tutta la vita ha studiato la società, il lavoro, la collettività. All’inizio del ventunesimo secolo, con la sfrontatezza di chi ha vissuto la maggior parte dei suoi giorni, ci ha messo in guardia dai pericoli e dagli errori di quella che lui definì la “modernità liquida”: un presente senza certezze, in cui tutto si può ma nulla soddisfa veramente, e ci si muove immersi in una grande libertà, che tuttavia non ha uno scopo al di là di se stessi, e dove “la solidità delle cose, così come la solidità dei rapporti umani, tende a essere considerata male, come una minaccia”.

Ci ha osservato mentre protestavamo contro il sistema esistente, senza avere però la capacità di proporne uno nuovo. Ci ha visto diventare schiavi di un lavoro in cui l’obiettivo è produrre, a prescindere da quale sia il reale bisogno. Ci ha colto insicuri, senza più autostima, avvinti dall’incertezza, che “rappresenta di gran lunga lo stru- mento di potere più incisivo, anzi, la sua essenza stessa” (“Danni collaterali: diseguaglianze sociali nell’età globale”).
E in questo oceano senza solidità a cui aggrapparsi, l’uomo è spaventato. Ha paura dell’isolamento. Del rifiuto. Eppure, secondo Bauman, proprio la solitudine indica una nuova via: “Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione. Certo, chi non ne ha mai gustato il sapore non saprà mai ciò che ha perso, ha lasciato indietro, a cosa ha rinunciato” (“Cose che abbiamo in comune”).
La paura di rimanere soli impedisce di conoscere, di scoprire, innanzitutto se stessi. Si vive come in una serie televisiva, dove non sono ammessi tempi morti, dove i silenzi devono essere sottoli- neati dalla musica, dove ogni fotogramma è pregno di colori, voci, azioni, e tutto corre verso il finale, che deve sorprendere e spiegare tutto quello che fino a un momento prima non aveva senso. Così corriamo anche noi. Per non rimanere indietro, non si sa rispetto a cosa. Convinti che dietro l’angolo ci sia la soluzione che ci cambia la vita.
Ma è sempre l’angolo successivo… Continuiamo a correre, sperando in un lieto fine sconcertante, perché non abbiamo la minima idea di dove stiamo andando.
E intanto accumuliamo: esperienze, magliette, conoscenti. Accumuliamo viaggi, soldi per comprare, tempo per riposare.
Solo le risposte non riusciamo ad accumulare.
Perché ho così paura di rimanere solo?
Forse perché non ti piaci poi tanto. E nella solitudine scopriresti molto di te, a partire dai tuoi limiti. E quando uno scopre dei limiti poi è costretto a lavorarci, per superarli.
Ed è davvero una gran fatica. Una fatica infinita. La fatica più bella del mondo, quando cominci a ottenere i primi risultati.
E tutto questo correre a cosa porta?
A niente, proprio a niente. Perché se non porta verso qualcuno, è fatica sprecata.
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