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Anno 5 - Numero 1 - 2017
euro 2,90 La rivista dei prodotti tipici e tradizionali
Itinerari del gusto • DIRETTORE EDITORIALE Peppe Giuffrè
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Editoriale
I
l 2017 sarà un anno di viaggio nel cuore della Sicilia più autentica e più gustosa. Un viaggio ricco di sorprese e di novità per voi e per il nostro magazine Sapori di Sicilia. La prima sorpresa è il viaggio che quest’anno sarà più lungo: da quattro passiamo a sei uscite, diventiamo bimestrali. Questo è un risultato del 2016; un risultato che abbiamo ottenuto grazie a voi, al vostro affetto e alla vostra costanza nella scelta della nostra rivista. Un successo che vi dedichiamo, come auspicio di un 2017 davvero speciale. Anche quest’anno Peppe Giuffrè ci accompagnerà nelle sue cucine e ci regalerà le sue ricette, sempre attente alla tradizione e alla storia del territorio siciliano. In questo numero, a lui si affiancherà una figura femminile, Bonetta Dell’Oglio, donna affascinante e amante della tradizione. Come avvolte di charme e aneddoti sono le sue ricette, proposte per noi in esclusiva. Un modo per declinare l’amore che nutre e ci lega alla nostra terra. E all’amore sia sacro che profano, per dirla con De Andrè, è dedicata un’ampia parte della nostra rivista. Si parte da Catania e dal grande atto di amore che la città dedica alla sua Sant’Agata: tre giorni di culto, devozione, folklore, tradizioni. Sempre di amore e di santi si parla nello speciale dedicato a San Valentino. Noi affrontiamo il tema come meglio sappiamo fare: con gusto, regalandovi ricette e curiosità per una delle feste più romantiche che questo periodo ci riserva. E non possiamo tralasciare la festa che segna il passaggio delle stagioni e che per un po’ ci distrae dal grigiore dell’inverno: carnevale, quel periodo dell’anno che ci rende più folli e al contempo più che mai legati alla vita, declinata nelle sue mille sfaccettature. Quante storie racconta la nostra Isola, tutte storie di rara bellezza. In questo numero ci perderemo per Nicosia col suo fascino medievale e per Novara di Sicilia con le sue piccole case affastellate e la sua trama di vicoli e viuzze. E quanta storia passa per le nostre tavole. Così come ogni angolo della Sicilia è testimone di una dominazione venuta dal mare, anche i piatti raccontano di gustose “invasioni”. Ne sono esempio il baccalà e lo stoccafisso che giunsero con le navi dei Normanni. O l’uso delle spezie che ci avvicina alla cucina dei paesi arabi. Ne sa qualcosa Marco Piraino che ha portato le specialità siciliane nel Sultanato dell’Oman. Il grano, invece, lo abbiamo “inventato” noi e per secoli lo abbiamo esportato ovunque. Ora basta raccontarvi quello che leggerete. I viaggi non si raccontano, si vivono. Buona lettura, quindi! Noi siamo già a lavoro per parlarvi delle prossime avventure.
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Vuoi mangiare sano?
Rispetta la stagionalitĂ
Ecco che cosa comprare Verdure: finocchio, cipolle, patate, broccolo, sparacello, cavolo, coste, catalogna, cavolo-rapa, scalogno, carciofo, insalate varie, ravanello Frutta: mele, kiwi, mandarini, cedri, limoni, clementine, arance bionde e rosse, pere Nella dispensa: olio extravergine di oliva, caffè, zucchero, latte, burro, formaggi, pasta lunga e corta, riso, sale, spezie, uova, vino da cucina, qualche confettura, bicarbonato, lievito per dolci, farina
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Editoriale Sant’Agata, tre giorni di festa “mondiale” Minnuzze e olivette in omaggio alla Santa Ricetteria di Peppe Giuffrè Nasce sul mandorlo il primo fiore d’inverno Sui Nebrodi due eccellenze: provola e maiorchino Ma il pane più buono è sempre quello di casa! A Marsala il pane è De.Co. Carnevale festa di popolo Cuscusu di porco, specialità di Carnevale Il cardo amaro ma buono Salute e bellezza al top con il latte d’asina Cinghiale di Sicilia Fritture a go-go Pesce stocco o baccalà... è sempre merluzzo Storie e ricette di chef siciliani Ricetteria di Bonetta Dell’Oglio San Giuseppe tra vampe e tavolate Speciale San Valentino: storie, regali, drink e menù Quei dolci da viaggio delle monache di clausura La cucina siciliana alla corte del Sultano Le ricette di Marco Piraino I Borghi di Sicilia: Nicosia e Novara di Sicilia La rucola pizzica... ma fa tanto bene
RUBRICHE 26 40
L’orto e la frutta d’inverno Dalle cucine dei ristoranti siciliani
62 NICOSIA
64 NOVARA DI SICILIA
SAPORI di SICILIA MAGAZINE bimestrale 2017 anno 5 - n. 1
soc. coop. a r.l.
Via Principe di Palagonia, 100 90145 Palermo www.sapori.sicilia.it
Direttore responsabile: Alessia Boschetti Direttore editoriale: maestro chef Peppe Giuffrè Consulente editoriale: Vittorio Corradino Coordinamento redazionale: Angela Sciortino impaginazione ed elaborazione grafica: Loredana Greco
Hanno collaborato: Giulio Ambrosetti, Martina Comito, Oliva Barbara Corrao,Vanessa D’Acquisto, Omar Gelsomino, Alessandro Iannelli, Giorgia Iannelli, Nino Panicola, Paola Roccoli, Rachele Sanfilippo, Maria Grazia Sclafani, Anna Statello, Manuela Zanni Direzione, redazione: Via Principe di Palagonia, 100 - 90145 Palermo - tel. 091.7302609 email: redazione.saporisicilia@gmail.com - abbonamenti.edimed@gmail.com Concessionaria della pubblicità: EDIMED soc. coop. a r.l. Via Principe di Palagonia, 100 - 90145 Palermo - tel. 091.7302609 email: marketing.edimed@gmail.com stampa: Punto Grafica Mediterranea srl Via Z4, 18/20 - Fondo La Rosa, C.da Battaglia - 90039 Villabate (Pa) Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 18 del 05/11/2013 ISSN 2783-3242 - Iscrizione ROC n. 26415 IVA assolta dall’editore ai sensi dell’art. 74, comma 1, lettera c, del DPR 633/72, così come modificato dalla legge 30/12/91 n. 413
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Sant’agata
tre giorni di festa “mondiale” di Rachele Sanfilippo
La celebrazione della patrona viene attesa e vissuta dai devoti come l’evento dell’anno. Sono tre giorni di pathos, devozione e religiosità dedicata alla Vergine che perse i seni per non aver accettato la proposta di matrimonio del console Quinziano
foto di gabriele marletta
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ichiarata dall’Unesco “bene etnoantropologico patrimonio dell’Umanità”, terza festa religiosa più importante al mondo, per il numero di persone che coinvolge ed attrae da tutti i paesi, (piazzandosi subito dopo la festa della Settimana Santa di Siviglia e la Festa del Corpus Domini di Guzco in Perù) a Catania la festa di Sant’Agata è un vero avvenimento. La festa che dura dal 3 al 5 febbraio è intrisa di momenti importanti e suggestivi e chiunque si trovi a Catania in questi giorni, non potrà che sentire nell’aria la vibrante magia di questa tradizionale festa. Guidati dal suono di una campanella e dai cenni del Capomastro (guida del comitato cittadino), frequentemente si sente gridare: semu tutti devoti tutti? E di rimando: cittadini, cittadini, cittadini. E si inneggia rispondendo a gran voce: Viva Sant’Ajita! In concomitanza sventolano una miriade di fazzoletti bianchi in segno di purezza. Il culto religioso prevede diversi momenti nelle tre giornate, ne citeremo i più spettacolari e commuoventi. Si parte dal 3 febbraio con la lunga processione per l’Offerta della cera, a cui partecipano le più alte autorità cittadine e tutte le associazioni agatine e che viene chiusa dalle due settecentesche Carrozze del Senato che portano Sindaco e alcuni Assessori. Nel corpo della processione le dodici Candelore, strutture lignee baroc-
cheggianti con grossi cerei votivi all’interno che rappresentano le antiche corporazioni dei mestieri e dei quartieri cittadini e che in alcuni momenti topici s’annacano. La sera, invece, gli attesissimi fuochi da sira ‘o tri, cioè lo spettacolo piro-musicale in piazza Duomo, con i fuochi a ritmo di musica dal vivo e proiezione di giochi di luce ed ologrammi. Il 4 febbraio i catanesi salutano la Santa in Cattedrale all’alba, quando busto e scrigno vengono estratti dalla cameredda (la cella che li custodisce) e portati a spalla dai devoti (12 per il busto e 18 per lo scrigno), prima sull’altare centrale e poi sulla vara. Il busto ondeggia vistosamente e i fazzoletti bianchi dei devoti sventolano, misti agli applausi fragorosi che echeggiano tra le
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La storia di agata, patrona di Catania Antichissima è la storia che lega la giovanissima Agata a Catania quando, nel III sec. d.C., lei si avvicinò a Dio indossando il velo rosso, simbolo delle vergini consacrate. Quinziano, proconsole romano, si invaghì di lei e la fece rapire, con l’intento di convincerla a ripudiare la sua fede cristiana. Ma la fermezza di Agata nel rifiutarlo, fece infuriare il proconsole che la sottopose ad una serie di martiri, rinchiudendola prima in cella senza cibo e acqua, ordinando poi di mutilarla dei suoi seni ed infine, facendola bruciare sui carboni ardenti. La giovane Agata morì il 5 febbraio del 251 nella cella in cui fu condotta agonizzante. Il primo miracolo si verificò quando sul rogo il velo rosso non bruciò, ed è per questo che si conserva come reliquia miracolosa. L’anno seguente, il velo opposto alla lava di una eruzione dell’Etna che avanzava da qualche giorno minacciando Catania, salvò i cittadini proprio il 5 febbraio (primo anniversario della morte di Agata). Da allora per Catania, Agata diventò la regina della città e lo stemma cittadino con l’elefante (chiamato “Liotru”) porta una grande A in suo onore.
spesse mura del Duomo. Dopo la “Messa dell’aurora” il fercolo inizia il giro esterno o dei viddani (quelli non di nobili origini) che parte e finisce a Porta Uzeda e attraversa i quartieri più popolari e i luoghi del martirio di Sant’Agata: il Sacro Carcere, la Chiesa di Sant’Agata alla Fornace e Sant’Agata la Vetere, dove il fercolo sosta dopo una spettacolare corsa lungo la salita dei Capuccini. La sera passa per via Plebiscito, la zona del Fortino e di San Cristoforo. Qui effigie della Patrona ovunque, negozi aperti tutta la notte e strade rischiarate da intense luminarie dove abbonda lo street food. Ancora una volta Agata viene salutata con grandiosi fuochi d’artificio prima del rientro, quasi all’alba,
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in Cattedrale dopo aver affrontato la calata della marina. La mattina del 5 febbraio si celebra un Solenne Pontificale e nel pomeriggio inizia la processione più lenta delle tre giornate detta “giro interno o dei nobili” in cui il fercolo, anticipata dalle Candelore, attraversando il “salotto” cittadino, risale la via Etnea con una lentezza quasi esasperante. Colpa spesso delle donazioni degli enormi e pesantissimi cerei votivi accesi pericolosamente portati in spalla dai devoti che li offriranno poi in Piazza Cavour (per i catanesi piazza Borgo) dove la folla attende a lungo gli spettacolari fuochi d’artificio conclusivi. Il percorso non è facile. A cominciare dalla ripidissima salita di Sangiuliano, che percorsa dai devoti senza incidenti viene interpretata dai catanesi come ottimo auspicio per tutto l’anno. Poi c’è la svolta all’incrocio della stretta via Crociferi. Qui le monache di clausura, affacciandosi dietro le grate del portone (unica volta all’anno), in un silenzio surreale intonano il commovente canto dedicato alla Santa. All’alba la Santa torna nella sua cameredda in Cattedrale. Solo per una settimana però. Perché i solenni festeggiamenti agatini si concludono il 12 febbraio (chiamato l’Ottava). In questo giorno fedeli e curiosi possono vedere le reliquie della Santa che dopo la messa vanno in
processione in piazza Duomo. I cancelli della camaredda si riapriranno solo il 17 agosto in occasione dei “festeggiamenti di mezz’agosto” istituiti, nell’agosto del 1126, quando dopo 86 anni di esilio, le reliquie della santa trafugate come bottino di guerra e traslate nella chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, tornarono in patria. La leggenda narra che Sant’Agata apparve in sogno (per ben tre volte) ad un soldato bizantino a cui chiese di essere riportata a Catania. Il soldato insieme a un commilitone decise di assecondare le volontà della Santa e le riportò a Catania proprio il 17 agosto. Profondamente riconoscenti ai due, i catanesi li elessero concittadini e custodi delle reliquie in Cattedrale, dove anch’essi riposano. Secondo questo racconto leggendario l’abbigliamento tipico del devoto – saio bianco in cotone (detto saccu), cordone bianco in vita, papalina nera in velluto (la scuzzetta), guanti bianchi ed un fazzoletto bianco – è riconducibile al fatto che la notte in cui arrivò la notizia del ritorno delle spoglie della Santa, i catanesi scesero in strada così come si trovavano, ovvero in abiti da notte. Secondo la simbologia ortodossa, invece, il vestito bianco significa purezza dell’anima con cui il devoto offre il suo cuore alla Santa e le chiede una grazia.
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di Maria Teresa Di Blasi
Minnuzze e olivette
in omaggio alla Santa S
picciati, annachiti! Accatta i minnuzzi ri Sant'Ajita ca' sta passannu a santa! La signora che urla questa frase al marito è affacciata al balcone di un bel palazzo catanese prospiciente la via Etnea, da giorni risplendente per le mille luminarie colorate. Lei, padrona di casa, fedele alla tradizione, appare ben vestita e truccata, ma indossa ancora il grembiule da cucina macchiato dagli schizzi della frittura delle melenzane, dei peperoni, della cipolla e di tutto ciò che
può rendere regale la caponatina, immancabile complemento della cena della festa della patrona. Le minnuzze, una volta comprate, verranno liberate dalla carta della pasticceria, e, nello stesso vassoio dorato che le contiene, diventeranno un trionfale centrotavola insieme ai candelabri barocchi e alle olivette verdi e profumate confezionate con la pasta di mandorla e abbellite dal vessillo svolazzante di una vera foglia di ulivo. La tradizione della festa di
Sant’Agata vuole che l'attesa infinita del passaggio del fercolo (il tempietto argenteo che trasporta in giro per la città il busto della santa e le sue reliquie) venga alleggerita dall'organizzazione di splendide cene fastose con esibizioni gastronomiche degne del Gattopardo e sfilate di tavoli traboccanti di dolci legati alle varie e poetiche leggende che rimpolpano la documentazione storica, invero piuttosto scarna. Per i catanesi parlare di “minnuzze”, i piccoli seni virginali
Olivette di Sant’Agata Ingredienti per 6 persone • 500 gr di mandorle dolci spellate di Avola • 500 gr di zucchero a velo • 1 dl d'acqua • 6 gocce d'essenza di mandorle amare • 6 gocce d'essenza di cannella • 1 busta di vanillina • 2-3 cucchiai di rosolio oppure di rum • succo di spinaci crudi per dare il colore verde (oggi è sostituito da un colorante alimentare) Procedimento Triturate nel mixer le mandorle, mescolate lo zucchero con l'acqua in un tegame, scaldate a fuoco dolce, mescolando con un mestolo di legno, fino a quando lo zucchero comincerà a filare. Spegnete il fuoco e incorporate la vanillina e le gocce d'essenze e, alla fine, la farina di mandorle, rimestando energicamente e unendo il liquore stemperato con qualche goccia di colorante. Stendete l'impasto in uno strato abbastanza spesso. Staccate delle palline e date loro la forma di olive. Disponete in un vassoio e lasciate asciugare per 24 ore, infine guarnite ogni olivetta con una foglia d'olivo. Questa è la ricetta catanese, ma al di fuori del territorio ci sono 2 varianti: la prima utilizza la pasta di pistacchio di Bronte invece della pasta di mandorle, nella seconda le olive vengono intinte parzialmente in cioccolato fondente fuso.
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Minnuzze ri Sant’Ajita Ingredienti per 6 persone
della martire catanese, è una consuetudine ormai accreditata, piuttosto sono i turisti, italiani e stranieri, che rimangono colpiti dalle centinaia di vetrine, dai banconi delle pasticcerie, dai monumenti, dalle iscrizioni, dalle decorazioni marmoree, dalle pitture e dalle statue che ripropongono, quasi ossessivamente, le due bianche cupolette di carne bianca sormonatate da un tenero e appuntito capezzolino, realizzato, nel caso del dolce, con una rossa e succosa ciliegina candita. Ma come nasce questa consuetudine ma, soprattutto, chi era Sant’Agata, come viene festeggiata a Catania e che legami ci sono tra queste due cose e le “minnuzze” tenere e dolci della tradizione? È il 5 febbraio del 251 quando, dopo aver sopportato lo strappo dei seni ed essere gettata sui carboni ardenti, la giovane Agata muore manifestando la sua completa dedizione a Dio. Il martirio si può riassumere in quattro momenti principali: arresto, interrogatorio e consegna ad Afrodisia, donna di malaffare, affinchè con lusinghe la convincesse ad abbandonare il suo credo, interrogatorio, amputazione delle mammelle e conseguente miracolo della guarigione in carcere per opera dell’Apostolo Pietro, tortura dei carboni ardenti sui quali viene fatta rotolare a corpo nudo e trasferimento in carcere dove muore dopo aver recitato a Dio la sua ultima preghiera.
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Per quel che riguarda i dolci a forma di seni, l'episodio di riferimento è l'amputazione delle mammelle, i dolcetti, infatti, riproducono i seni tagliati della santa ma ancora integri e belli come se fossero ancora attacati al petto della giovane donna. La devozione del catanese nei confronti della figura materna, colei che ti nutre e ti accompagna per tutta la vita, mescolato alla forza seduttiva del seno virginale, costituiscono una fusione perfetta di amore casto e sensualità mediterranea che si estrinseca e prende forma edibile in un piccolo seno bianco e morbido ripieno di ricotta, richiamo immediato al latte materno e alla dolcezza dell'amore. Alcune leggende, inoltre, legano Sant’Agata ad un altro dolce: le olivette di pasta di mandorle. Mentre Agata era inseguita dai soldati di Quinziano, le si slacciò un calzare e, per impedire che essi la potessero raggiungere, spuntò dal terreno, miracolosamente, un olivastro (olivo selvatico). Un'altra leggenda narra che, mentre veniva trasferita in carcere, Agata si fosse fermata un attimo per riposarsi e, in quel preciso luogo, sarebbe nato un olivastro. L'olivo, tra l'altro, la nutrì con i suoi frutti allungando i rami dentro la finestrella del carcere in cui fu rinchiusa e, ancora oggi, nella piazzetta dinanzi al carcere di Sant’Agata, cresce un olivastro sistemato lì per ricordare queste poetiche leggende.
Per la pasta: • 500 gr farina • 150 gr zucchero • 150 gr strutto (si può sostituire col burro) • 1 uovo • 1 albume Per il ripieno: • 400 gr ricotta pecora setacciata • 50 gr zuccata a dadini • 50 gr gocce cioccolato • zucchero (andate a gusto) Per la glassa: • 250 gr zucchero a velo • 1 cucchiaio di succo di limone • 4 cucchiai di latte Procedimento Impastate la farina setacciata con lo zucchero semolato, lo strutto, l'uovo e il latte necessario per ottenere un composto omogeneo e consistente. Porre in frigo per 1 ora. Stendete la pasta in una sfoglia sottile. Ritagliare dalla pasta dei dischetti di circa 8 cm di diametro. Adagiatene metà in stampini a coppetta e riempire la cavità con la crema di ricotta che avrete preparato mescolando tutti gli ingredienti indicati e coprite con i tondini rimasti e sigillate i bordi. Capovolgete i dolcetti e trasferiteli in un placca rivestita di carta forno. Spennellate con l'albume leggermente sbattuto e infornate a 170°C per 20 minuti o fino a doratura. Stemperate lo zucchero a velo con il latte ed il limone. Sbattete il composto fino ad ottenere una crema liscia e abbastanza densa. Ricoprite le paste già fredde con la glassa preparata e dopo qualche minuto decorate con una ciliegina. Fate asciugare bene prima di servire.
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le ricette di Giuffrè1-17_4 13/01/17 12:08 Pagina 10
Passata di ceci al profumo di erbe Ingredienti per 6 persone 500 gr di ceci 1 rametto di finocchietto di montagna fresco 1 rametto di eucalipto 1 rametto di rosmarino 1 rametto di menta 1 foglie di salvia 1 cipolla 100 gr di semi di zucca 1 polpo da 700 gr circa olio extravergine d’oliva q.b.
Sono stati i Saraceni a lasciarci l’arte della cottura lenta. Un segno di ciò si trova nelle cucine del passato dove erano presenti focolare e forno, ma primeggiavano le “tannure” a carbone che costituiscono l’ottimo sistema per la cottura lenta di legumi. Come nel caso di tutte le ricette di cucina popolare, negli anni, in Sicilia, le rivisitazioni hanno portato questo piatto ad unirsi a svariate soluzioni. Una si ottiene con l’aggiunta di brodo di carne e pasta (gli insuperabili cavati a mano, gnocchi di casa o i taglierini, semplice riproduzione dei maltagliati in misura ridotta). “Filetto di manzo giovane affogato nella crema con fiori di malva croccanti”, ottenuto con l’aggiunta del bollito di manzo è poi un esempio di straordinaria raffinatezza e di ottima riuscita del riassunto della cucina di ieri in un piatto di oggi.
Procedimento Mettere i ceci in acqua per 8 ore; successivamente, cuocerli a fuoco lentissimo, possibilmente schermato, con la cipolla, l’olio e acqua aggiungendo il finocchietto e tutte le erbe. Quando i ceci saranno cotti, schiacciateli con una forchetta fino ad ottenere un crema. Bollire il polpo per 15 minuti passarlo sotto l’acqua fredda e tagliarlo a rondelle di un centimetro di spessore. Far scaldare l’olio di oliva e friggerlo. In un mortaio pestare le erbe assieme ad una parte dei semi di zucca e completare con olio extravergine di oliva. In un piatto fondo versare la crema ceci ed adagiare il polpo croccante decorare con del finocchietto di montagna e semi di zucca e versare delle gocce del pesto, quindi completare con un filo di olio extravergine.
Pasta di San Giuseppe Questa è una ricetta tipica di Campobello di Mazara che gentilmente l’associazione Raggio di Sole mi ha voluto donare con l’augurio che si tramandi alle nuove generazione non tanto come cibo, ma come espressione di una cultura gastronomica, patrimonio di un territorio ricco di grandi eccellenze.
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Ingredienti per 6 persone
Procedimento
500 gr di maccheroni 1 cavolfiore, 5 carciofi 1 mazzo di cime di rapa 500 gr di patate, 300 gr di fagioli 1 uovo, aglio rosso di Nubia mollica di pane tostata q.b.
Mettete a lessare tutte le verdure e gli ortaggi, friggete le patate a dadini e cuocete i fagioli a zuppa. Saltate il tutto in padella con uno spicchio di aglio con tutta la camicia che avrete poi la cura di toglierlo. Fate una frittata con un uovo mettendo un pizzico di zucchero e tagliala a striscioline. Cuocete i maccheroncini in un grosso tegame, scolateli al dente e amalgamateli con il resto degli ingredienti. Infine spolverizzate con la mollica di pane tostata.
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Dentice e dadol al sesamo con frammenti di piselli Consiglio il dentice praio o quello imperiale di cui il mare nostrum è molto generoso. Il primo (Pagrus pagrus) viene chiamato anche Pagro, Pagro comune; lo stesso in Sicilia diventa Pagru, Pàuru, Pauròttu, Praju, Pràu, Paguru, Prauru, Pàulu, Pàvolo. Il secondo (Dentix dentix) che gli inesperti confondono facilmente con il Pagro, ha una carne molto saporita e viene chiamato "imperatore dei pesci". Ingredienti per 6 persone 1 dentice di kg 1,5 circa, 400 gr di piselli (anche secchi) salvia, rosmarino, menta, prezzemolo 1 cipolla, olio extravergine di oliva q.b. 50 gr sesamo, 100 gr mollica di pane di rimacino Procedimento Sfilettate il dentice togliendo sia squame che pelle; ottenete sei fettine basse ed il resto tagliatelo a dadini. Con olio e cipolla tagliata molto fine mettete a cuocere i piselli aggiungendo acqua a poco a poco; mettete le erbe aromatiche e a fine cottura passate il tutto grossolanamente. Oliate degli stampini di diametro 8 cm mettere a girare le fettine di dentice, passate nella mollica avendo cura di sistemare al centro i dadini di pesce passati nel sesamo. Infornare a 180°C per dieci minuti. Servire mettendo nel piatto la passata di piselli con al centro il tortino di dentice.
Sconcione di San Giuseppe
Ingredienti per 15 sfince 1 kg di ricotta di pecora 250 gr di zucchero, 100 gr di burro 300 gr di farina 00, ½ lt di acqua 8 uova, un pizzico di sale
Non c’è San Giuseppe senza la sfincia, la frittella morbida e dalla forma irregolare, proprio come una vera e propria spugna. Dolce fritto tipico della Sicilia occidentale, ma originariamente prodotto a Palermo, è stato ufficialmente inserito nel Pat (la lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani) del Ministero delle Politiche Agricole e Alimentari. Consumato tradizionalmente il 19 marzo, col tempo ha perso il legame con la stagione primaverile e si trova in pasticceria in tutti i giorni dell'anno.
Procedimento Mettete sul fuoco un tegame dove farete sciogliere il burro nell’acqua, aggiungendo un pizzico di sale, unite la farina e fate cuocero e fuoco lento. Mescolate energicamente il composto fino a quando si compatterà e quindi si staccherà facilmente dal bordo e dal findo del tegame. Fate raffreddare l’impasto, quindi unite le uova una alla volta. Con due cucchiai prendete l’impasto e friggette in olio caldissimo. Quando gli sfincioni sono dorati metteteli su carta assorbente e fateli raffreddare. Spalmateli di ricotta (rigorosamente di pecora) lavorata con lo zucchero, spolverizzateli di zucchero a velo e decorateli con una ciliegina o con una scorza d’arancia candita.
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Nasce sul Mandorlo il primo fiore d’inverno di Alessia Boschetti
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e c’è una pianta – e in particolare un fiore – che rappresenta l’immagine della Sicilia nel mondo, questa è il mandorlo. La Valle dei Templi con i mandorli in fiore è sicuramente la fotografia simbolo dell’Isola che più campeggia su dépliant turistici. Il mandorlo, invece, come del resto i templi che gli stanno dietro, ha origini esotiche: il Prunus amygdalus, come lo chiamano i botanici, è infatti una rosacea originaria dell’Asia centrale che, giunto pri ma nella penisola ellenica, venne successivamente portato dai Greci nelle loro colonie siciliane. E in Sicilia ha trovato un ambiente ideale e, come sempre avviene in questa terra dove la natura gioca le sue carte migliori, si è messo a donare frutti tra i più buoni che si possano trovare al mondo.
Originario dell’Asia centrale, il mandorlo è giunto in Sicilia portato dai Greci. Oggi, in provincia di Agrigento, ma anche nel Siracusano e nelle aree interne del Nisseno e dell’Ennese, produce i frutti migliori del mondo
LA LEGGENDA Il mandorlo fiorisce precocemente e prima di mettere foglie; la leggenda narra che ciò avviene per colpa di un guerriero reduce da Troia, Acamante, che abbracciò disperato la pianta in cui la dea Atena aveva trasformato la sua amata Fillide, morta nell’attesa del suo ritorno. L’abbraccio fu così caloroso che l’albero, in spoglio abito invernale, si coprì di fiori. Questi fiori si trasformeranno in frutti composti da un polpa carnosa verdastra che contiene un guscio legnoso che, a sua volta, contiene uno o due semi ricchi d’olio (quasi il 50%), proteine (circa il 15%), vitamine e sali minerali preziosi come magnesio, potassio e calcio. Quest’ultimo quasi del tutto nella forma assimilabile, cosa che trasforma trenta-quaranta grammi di mandorle in una delle fonti migliori per la nostra impalcatura scheletrica, rendendole equivalenti (per il calcio) a un bicchiere di latte vaccino. Con la stessa
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quantità di questa frutta secca riusciamo ad assumere ben il 90% del fabbisogno giornaliero di Omega 3. DURE, SEMIPREMICI E PREMICI Se a dare frutti è una pianta non innestata, questi spesso contengono pure una sostanza velenosa che li rende amari. Invece le piante coltivate con innesto su mandorlo selvatico o su un incrocio di mandorlo selvatico e pesco, garantiscono frutti dolci che, secondo la varietà, sono suddivisi in mandorle dure, semipremici e premici. Alle prime con gusci molto difficili da rompere e semi di gran pregio ma dedicati alla sgusciatura industriale e alla trasformazione in semilavorati per pasticceria, appartiene la grande maggioranza di quelle coltivate in Sicilia tradizionalmente. Le mandorle semipremici con guscio meno duro e quindi adatti alla commercializzazione come frutta secca da consumare in famiglia, sono le preferite nei moderni impianti siciliani. Infine le premici, ossia con guscio che si rompe con le mani, sono spesso precoci e vendute fresche così come sono. Le varietà più apprezzate in Sicilia sono la Fasciuneddu (originaria della provincia di Siracusa), con guscio durissimo e discreta resa in seme rispetto al peso totale (22/23%); la Pizzuta d’Avola, con guscio durissimo e ottima resa in sgusciato (27%), con seme grande, bello da vedere, gustoso, perfetto per gli usi che la pretendono intera, come i confetti; tra le semipremici diffuse più recentemente, le Tuono e Supernova, con rese fino al 35% in sgusciato. IL PRODOTTO SICILIANO La grande qualità delle mandorle siciliane dipende in gran parte alla benevolenza della natura: il clima permette
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Sicilia – e hanno deciso di adottare la facilmente la producertificazione volontaria seguendo un zione in bio e di ottedisciplinare sul cui rispetto vigila l’Istinere frutti che, se ben tuto Regionale Vini e Oli. conservati, sono esenti dalle pericolose aflatosLA “MANDORLA DI SICILIA” sine (quelle sostanze Se trovate, quindi, la “Mandorla di Sicialla lunga cancerogene lia” questa apparterrà alle seguenti cultiche vengono prodotte var: Scummissa, Nerone, Don Pitrino, dai funghi microscopici Nivera, Curcupane, Vinciattutti, Castelterche attaccano le dermini, Fellamasa, (in questo caso la denorate). Ma c’è di più in minazione commerciale è P/G Palma Sicilia, ad Agrigento, (Palma-Girgenti) o ancora Pizzuta d’Avola, come ad Avola o nelRomana e Fascionello (con denominal’entroterra dell’Isola si zione commerciale è Mandorla d’Avola), o producono mandorle ancora alle cultivar Tuono, Genco, Filippo con un contenuto di oli Ceo, Ferragnes che sono presenti nell’isola essenziali superiore al da oltre un quarto di secolo. E verrà pro45%, arrivando a punte dotta in impianti radi con non più di 600 anche del 57%. piante per ettaro e in quantità non supeDecisamente più riori a 35 quintali. Oltre all’obbligo del alto del tenore medio rispetto del disciplinare regionale per la pari al 32% contenuto produzione integrata (controllo dei parasnelle mandorle prodotte in California. siti in forma “soft” e pratiche agronomiche Eppure lì si produce l’80% della produecosostenibili) la mandorla di Sicilia con il zione mondiale, mentre in Sicilia si promarchio, deve avere un contenuto in poliduce solo il 5%. Qui, poi, insiste gran parte fenoli superiore a 150 mg/100; contenuto della biodiversità della specie: 700 varietà in grassi (su semi con umidità 4-6%) magregistrate, e spesso coltivate ancora negli giore o uguale al 50% e non devono conantichi mandorleti, contro le 5-6 coltivate tenere aflatossine. in California. Poche, ma buone, verrebbe Dalle migliori mandorle siciliane da dire. Già, ma un tempo la Sicilia dete(agrigentine, siracusane o ennesi, poco neva il primato della produzione monimporta) nascono gioielli dell’inventiva diale e le mandorle venivano chiamate siciliana come la frutta martorana, i tor“ciancianedde d’oro” ad indicare la ricroncini, oltre alla migliore pralineria delle chezza che rappresentavano. più famose confetterie e cioccolaterie del Quel primato venne perso all’inizio Continente. degli anni ’50 e con esso anche gran parte dell’interesse verso la coltura. Un interesse che da qualche anno sta per fortuna rinascendo: alcuni mandorlicollatte tori si sono riuniti di mandorla nell’Apromas – Associazione produttori ingredienti: mandorla di 150 gr di mandorle pelate bio, 1,2 litri d'acqua, 1 frullatore, 1 ciotola, 1 imbuto, 1 bottiglia di vetro, 1 colino, telo da cucina o carta da filtro Procedimento: Versate le mandorle in una ciotola dopo averle pesate, ricopritele con dell'acqua a temperatura ambiente e lasciatele riposare da 30 minuti a 1 ora, in modo tale che si ammorbidiscano. Dunque scolatele e tenete da parte l'acqua dell'ammollo, a cui aggiungerete l'acqua necessaria per raggiungere la quantità di 1,2 litri. Disponete le mandorle sul fondo di un frullatore ed azionatelo versando l'acqua necessaria a poco a poco. Continuate a frullare per alcuni minuti in modo tale da tritare le mandorle il più finemente possibile. Quando avrete terminato, potrete filtrare il latte di mandorle con un colino, un telo da cucina o della carta da filtro e trasferirlo nella bottiglia di vetro con l'aiuto di un imbuto, strizzando bene la polpa di mandorle.
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Sui Nebrodi due eccellenze: provola e maiorchino di Omar Gelsomino
La storia dei due gioielli della tecnica casearia tramandata da padre in figlio, che si producono nel parco naturale più grande della Sicilia
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I
Nebrodi, una delle zone più belle della Sicilia, racchiudono tesori di natura e cultura che rendono questi luoghi straordinari. Così come straordinari sono i prodotti agroalimentari tradizionali e tipici che qui nel corso dei secoli hanno alimentato una vera collezione di eccellenze. Oltre alle apprezzate carni fresche e ai famosi insaccati fatti con il suino nero dei Nebrodi, i formaggi costituiscono un vero e proprio fiore all’occhiello. LA PROVOLA Tra questi spicca la provola dei Nebrodi, prodotta dai casari che tramandano la tradizione di padre in figlio e inserita nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali (Pat) che ogni anno viene aggiornato dal Ministero per le Politiche Agricole. Prodotta da novembre a luglio con latte vaccino crudo e caglio d'agnello o di capretto, la provola dei Nebrodi è un formaggio a pasta filata bianca, la cui forma a caciocavallo ha un peso che oscilla
da un chilo sino a 4-5 chili. Dopo aver coagulato il latte con il caglio, il casaro manipola la pasta a lungo, quasi stesse impastando il pane, (rendendola così piacevole al palato), poi la cagliata viene filata versandovi sopra dell'acqua calda. La salatura che avviene in una salamoia satura precede la stagionatura che dura 10-30 giorni per il provolone fresco, e dai tre ai quattro mesi per quello semistagionato. Procede oltre nel prodotto stagionato in cui il gusto passa gradualmente dal dolce al salato. Ha una crosta liscia e lucida, tra il giallo paglierino e l'ambrato. Alcuni usano mettere all'interno della provola un limone che al prodotto stagionato conferisce il profumo dell'agrume. La provola dei Nebrodi nacque originariamente a Floresta per poi diffondersi negli altri comuni del territorio nebroideo messinese: Alcara Li Fusi, Basilicò, Capizzi, Castel di Lucio, Castell'Umberto, Cesarò, Maniace, Montalbano Elicona, Mistretta, Patti, San Domenica Vittoria, San Fratello, San Teodoro, Tortorici, Ucria. Arrivando a interessare anche qualche comune delle province di Enna e di Catania. Diversi sono gli utilizzi che se ne possono fare: da formaggio da tavola, all'uso in diversi piatti tipici. Si sposa bene con i bianchi dell'Etna e con i rossi, come il Nerello Mascalese e il Nero d'Avola, oppure con un passito, se il prodotto è stagionato. Da anni il Presidio Slowfood "Provola dei Nebrodi" valorizza non solo questo formaggio ma anche il territorio di produzione, «poichè è il mix di vegetazione, popolazione bovina autoctona e tradizione casearia che contribuisce alla individuazione di un microsistema naturale e culturale», spiega Vincenzo Pruiti, referente del Presidio Slowfood. Adesso anche i
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Comuni in cui si produce la provola stanno impegnando organizzazione e risorse perchè il prodotto possa ottenere la Denominazione di Origine Protetta (Dop). «Il Comune di Floresta insieme a quelli di Randazzo, Tortorici, Castel Umberto, Castel di Lucio, Roccella Valdemone, Sinagra, Basicò e San Teodoro hanno costituito una Ats per valorizzare il territorio e sostenere gli allevatori e i casari nel percorso di valorizzazione del prodotto», dichiara il sindaco di Floresta, Sebastiano Marzullo. «L’Ats dei comuni nebroidei – aggiunge Marzullo – sostiene il Consorzio del formaggio provola dei Nebrodi, l’organismo deputato a richiedere la Dop, soprattutto incentivando quei progetti finalizzati al miglioramento degli standard produttivi e la tracciabilità del prodotto così come tutte le azioni propedeutiche e necessarie per ottenere la certificazione di origine». Diverse le iniziative destinate alla promozione. Tra i principali obiettivi delle at-
tività congiunte tra il consorzio e l’Ats, c’è la concentrazione, e l’organizzare dell’offerta. Ma un occhio particolare è diretto alla qualificazione: non solo adeguato confezionamento, etichettatura e porzio namento, ma anche le sfumature di sapori ed aromi collegate a diversi tipi di stagionatura. La diversificazione delle stagionature, infatti, consente di incontrare i diversi gusti dei consumatori: dal delicato al molto caratterizzato e piccante della provola sfoglia con oltre sei mesi di stagionatura. I picchi di gradimento e di eccellenza, in alcuni • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
banchi di assaggio sono risultati, proprio la provola sfoglia e la provola con il limone verdello immerso nel cuore del formaggio. IL MAIORCHINO Un altro prodotto tipico della provincia di Messina, e in particolare del comprensorio dei Peloritani è il maiorchino. Questo formaggio dal gusto piccante e deciso che varia in base alla stagionatura ha origini che risalgono al Seicento ed anch’esso rientra nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali; addirittura quello prodotto a Novara di Sicilia ha ottenuto lo stesso riconoscimento singolarmente come maiorchino di Novara di Sicilia. Questo gioiello caseario viene prodotto da febbraio a giugno con il latte di pecora a cui, una volta filtrato, viene aggiunto latte misto che viene versato in un recipiente di rame, chiamato ’a quarara, in cui si porta ad una temperatura media di 36°C. Dopo un'ora la cagliata viene rotta con un attrezzo di legno, ‘a brocca, e rimesso sul fuoco aumentando la temperatura sino a circa 60°C fino a che si deposita sul fondo della quarara. I casari la raccolgono con le mani cominciando a dare una forma sferica prima di metterla nella garbua dalla quale viene tolta dopo un giorno per poggiarla su un piano di legno detto mastrello. Qui il formaggio, per favorire lo spurgo del siero, viene bucherellato con il minacino, una sottile asta di ferro o di legno. La salatura, a differenza di molti altri formaggi tipici siciliani, avviene a secco e dura circa 20-30 giorni, mentre la stagionatura è molto laboriosa: nei primi due mesi il maiorchino viene pulito, strofinato e rivoltato; dal terzo mese in poi inizia il trattamento con l'olio di oliva. Per ottenere un formaggio davvero buono, il periodo ideale di stagionatura è di 6-8 mesi. Il maiorchino si realizza in forme che pesano dai 10 ai 18 chili, ha crosta giallo ambrato che diventa marrone con l’avanzare della stagionatura e una pasta bianca compatta tendente al paglierino. È consigliabile accompagnare il maiorchino con vini rossi come il Merlot o l'Etna Rosso o a vini dolci come la Malvasia di Lipari o il Marsala. C’è poi un altro uso del ricercato formaggio: quando è ben stagionato è il protagonista della famosa "ruzzola", l’antichissimo gioco risalente già al '600 quando gli abitanti di Novara di Sicilia lo facevano rotolare lungo le stradine del centro storico.
Calzone col maiorchino Ingredienti per 8 persone • 700 gr di pasta di pane già lievitata • 1 kg di scarola ben lavata ed asciugata • 250 gr di maiorchino • 150 gr di ricotta • 150 gr di prosciutto cotto • olio extra vergine di oliva • sale • pepe q.b. • olio per friggere Procedimento Tritate il prosciutto finemente e poi unitelo alla ricotta, aggiungete un filo d'olio, il sale e il pepe per amalgamare tutto. Impastate la pasta di pane con due cucchiai di olio, dividete la pasta in otto panetti e stendeteli su una spianatoia infarinata, formando otto dischi. Distribuite sulla metà di ciascun disco cubetti di maiorchino ed un cucchiaio di ripieno, chiudete il calzoni a mezzaluna, premendo sui bordi e inumiditeli con un po' d'acqua, così si sigillano meglio. Frig gete i calzoni in abbondante olio, fate asciugare su carta assorbente e servite subito. Per chi la frittura non la digerisce: ungete i calzoni con un filo d'olio e poneteli in forno, rivestiti di carta stagnola, per 20-25 minuti a 230°C. Serviteli caldi.
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Ma il pane è sempre
di Giulio Ambrosetti
Il grano di origine straniera è accusato di essere contaminato da micotossine e dal glifosate, un prodotto chimico usato nei campi per diserbare e disseccare. In Sicilia il prodotto è invece esente da questi contaminanti
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L
o confessiamo: dopo questa lunga chiacchierata abbiamo deciso di non acquistare più il pane dai fornai tradizionali. Già qualche cosa sulle farine, la conoscevamo. Ma le parole di Filippo Drago, uno tra i più famosi mugnai della Sicilia, ci hanno aperto ancora di più gli occhi. Con le notizie sui grani duri che arrivano da chissà dove, pieni di glifosato (gliphosate), micotossine, metalli pesanti e via continuando, la voglia mangiare di pasta e pane si riduce di parecchio. Chissà, magari l’informazione sul grano potrebbe diventare strategica nelle diete per ridurre il consumo di carboidrati… Però proprio Drago, alla fine, ci dà qualche speranza. Soprattutto quando afferma senza alcun dubbio: «Il miglior pane? Resta sempre quello fatto in casa». Insomma, il messaggio è chiaro: se in Sicilia vogliamo mangiare il vero pane, o lo acquistiamo dai fornai che lavorano solo farine siciliane derivate da grano macinato a pietra (ma si contano sulla
Filippo Drago
punta delle dita), sennò, via con l’olio di gomito, e il pane impariamo a prepararlo noi in casa. Le conclusioni di Filippo Drago possono sembrare un po’ troppo radicali: ma se ci riflettiamo, beh, ci rendiamo conto che qualche buona ragione per dire quello che dice c’è. Eccome se c’è... Intanto il personaggio: a Castelvetrano – grosso centro del Trapanese – Filippo Drago è oggi proprietario di ben dodici molini a pietra. Quelli veri, realizzati con la pietra arrivata dalla Francia. Può essere considerato, quindi, il custode di un’antica tradizione. «Che vi debbo dire? Per me il grano è sempre stato una passione. Ho resistito alle farine bianche. Ricordo ancora gli anni in cui andavo presso la Stazione sperimentale di granicoltura per la Sicilia di Caltagirone. Allora nessuno parlava di grani antichi. Solo stati loro, questi tecnici innamorati della cultura siciliana, a scongiurare la scomparsa delle varietà antiche di grano della Sicilia. In silenzio e in solitudine hanno tenuto in piedi una tradizione millenaria». Le varietà di grano, infatti, non si conservano mettendo le spighe in bacheca. Ogni anno bisogna seminare e coltivare un certo quantitativo di grano di ciascuna cultivar. E ripetere l’operazione anno dopo anno. «Quando abbiamo iniziato a proporre agli agricoltori i grani antichi della Sicilia – Tumminia, Russello, Biancolilla, Perciasacchi tanto per citare alcuni grani duri, e il Maiorca tra i grani teneri - a seguirci erano veramente in pochi», racconta Drago. Che aggiunge: «Non è facile, per un agricoltore, iniziare la coltivazione di un grano antico. • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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più buono
quello di
È un rischio. Nessuno lavora per perdere». Siamo arrivati al punto centrale di questa storia. Il nostro interlocutore lavora solo grano siciliano, compresi i grani antichi. E lavora con la molitura a pietra. Chiediamo a Filippo Drago: lo sa che il problema degli agricoltori che coltivano grani antichi è la vendita del prodotto? Le varietà di grani antichi sono meno produttive: sì e no, arrivano a 18-20 quintali di prodotto per ettaro, rispetto ai 40-45 quintali per ettaro di un grano tradizionale. Se poi debbono venderlo allo stesso prezzo degli altri grani, dov’è il guadagno? «Conosco bene la questione – risponde il mugnaio di Castelvetrano – e proprio per questo noi lavoriamo con precisi accordi. Con gli agricoltori i prezzi li fissiamo prima. E sono prezzi che non hanno nulla a che • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
casa!
vedere con la Borsa Merci delle Camere di Commercio. Con i grani antichi si lavora sulla base di accordi tra gentiluomini. Noi vantiamo rapporti consolidati e solidi con gli agricoltori che lavorano i grani antichi. E siamo tutti persone di parola. Faccio un esempio: la Tumminia noi la paghiamo agli agricoltori 40 euro al quintale per il convenzionale e 50 euro al quintale per il biologico». A questo punto la domanda è quasi d’obbligo: a che punto è la coltivazione dei grani antichi nella nostra Isola? Drago non si tira indietro: «Attual mente, in Sicilia gli ettari di terreno coltivati a grani antichi sono circa tremila, forse qualcosa in più. Ci sono perciò margini per andare avanti». Entrare nel mondo di Filippo Drago riporta ad una grande tradizione siciliana. Tuttavia non riusciamo a resistere alla voglia di sottoporlo a qualche provocazione, non fosse altro che per vedere la sua reazione: ha mai sentito parlare del grano duro canadese? «Eccome...», risponde. «Ho avuto modo, mettiamola
così, di conoscerlo. Conoscerlo sì... per poi evitarlo. Dal 2003 non acquistiamo più grano duro canadese. Glifosato, micotossine: questa non è materia nostra. Lo ammetto: nel nostro lavoro siamo radicali. Lavoriamo solo grani siciliani. Oggi produciamo farine di grano duro e semolati. E poi farina di grano tenero Maiorca. Molto del nostro prodotto lo esportiamo fuori dalla Sicilia». E qui nell’Isola? «Vendiamo ai privati. Da noi vengono da Messina, da Palermo, dall’Agrigentino». Siamo arrivati al pane: ai fornai siciliani. Che ne pensa il mugnaio Filippo Drago dei fornai siciliani? «Ma una domanda di riserva non ce l’ha?», ci risponde. Poi, sornione, aggiunge: «Lo vogliamo dire chi sono, alla fine, questi fornai siciliani? Glielo dico io: sono un categoria dove si trova un po’ di tutto, persino ex nulla facenti ed ex muratori. Ci sono bravi fornai, ma c’è anche gente che s’improvvisa. Alcuni di questi hanno ucciso diecimila anni di panificazione in Sicilia. Avete mai sentito parlare del prodotto o, come lo chiamano a Palermo, del miglioratore? Ecco, se ne avete sentito parlare avrete già capito tutto...». Poiché siamo a Castelvetrano non può mancare un’ultima domanda su un prodotto tipico di questa cittadina: il pane nero di Castelvetrano. Facciamo una domanda provocatoria: è vero che anche a Castelvetrano, sottobanco, viene aggiunta farina di grano duro canadese per dare “forza” all’impasto? «Mi auguro che non sia così», risponde Drago. E prosegue: «La ricetta del pane nero di Castelvetrano è la seguente: 30% circa di farina di Tumminia e 70% circa di farina di Simeto. Tutto macinato a pietra, anche se non sempre è così». Ultimissima domanda: dove acquista il pane Filippo Drago? «Non lo acquisto. Il migliore pane è quello che faccio a casa mia».
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A Marsala il pane è De.Co. di Nino Panicola
Quasi cento panifici producono a Marsala il pane fatto solo con farina di grano duro, acqua e lievito naturale. Tradizione e tipicità sono valorizzati dal marchio De.Co. (Denominazione Comunale)
È
stato Giacomo Dugo, ordinario di Chimica all’Università di Messina, quando qualche anno fa fu assessore all’Agricoltura al Comune di Marsala della giunta guidata da Renzo Carini, a valorizzare il pane di Marsala con un apposito disciplinare di produzione e istituendo la De.Co., la Denominazione Comunale. Prodotto da 98 panifici sparsi nelle 107 contrade di Marsala, questo pane presenta delle caratteristiche organolettiche peculiari e da secoli viene prodotto nella stessa maniera, cioè utilizzando farina di grano duro, lievito naturale e acqua. La denominazione “Pane di Marsala” è propria del pane ottenuto mediante l’antico sistema di lavorazione con lievito naturale livateddu e dall’impiego di farina di semola di grano duro: il pane cosi ottenuto tradizionalmente si preparava una volta a settimana e durava senza alterarsi per ben sette giorni. La cottura secondo il metodo antico avviene esclusivamente in forni di pietra riscaldati o meglio camiati con legna d’ulivo e/o tralci di vite. Il pane di Marsala viene prodotto in diverse forme e peso: le più comuni sono il pistuluni da mezzo chilo o chilo, e la vastedda da un chilo, ma anche da mezzo o due chili.
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Alberto Taib
ba
LE MATERIE PRIME IMPIEGATE - farina di semola di grano duro che deve provenire preferibilmente da grano coltivato nell’ambito della Sicilia; - semi di sesamo, da aggiungere sulla superficie della forma prima che il pane venga infornato; - lievito naturale o “livateddu”; - acqua (70/80 lt per 100 Kg di farina di semola); - sale marino prodotto nelle saline della provincia di Trapani (1,2 Kg per 100 Kg di farina di semola). PREPARAZIONE DEL LIEVITO Si prende un po’ di impasto del giorno precedente, ridotto in polpette, oleate con olio extra vergine di oliva e si lascia riposare in un luogo fresco avvolte in un panno di cotone. La sera prima della panificazione si mescola l’impasto: farina di semola di grano duro con il lievito madre nella proporzione di 1Kg di quest’ultimo e 14 Kg di farina di semola. Il prodotto cosi ottenuto si chiama in siciliano livatu. PREPARAZIONE DELL’IMPASTO A 100 kg di farina si aggiungono 15 Kg di lievito (è anche possibile aggiungere la pasta da riporto, rimasta dal giorno precedente). Quindi si aggiungono 50 litri di acqua fredda (temperatura inferiore a 5°C), e si inizia ad impastare per circa 20 minuti con impastatrice a forcella, lentamente, in prima velocità, per non riscaldare la pasta. Si continua poi ad aggiungere acqua, fino alla quantità totale di 70-80 litri. L’impasto è pronto • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
quando la pasta si stacca da sola dalle pareti ed ha un aspetto liscio. Il sale (1.2 Kg) si aggiunge a metà della procedura di impasto. L’impasto così ottenuto si fa riposare per circa 30-60 minuti dopodichè si lavora spezzandolo e preparando le forme: da 1 Kg rotonda (vastedda), allungata (pistuluni), da 0.5 Kg allungata (pistuluni) e rotonda (vastedduzza), da 0.25 Kg (quartini) e da 0.1 Kg (panini). Durante la preparazione di ogni singolo pezzo si cosparge di sesamo la parte esterna che alla fine costituirà la parte superiore del preparato. RIPOSO Si lascia riposare da 1,5 a 2 ore circa, in funzione della temperatura esterna, coperto da una classica manta o dal cassetto superiore.
LA TEMPERATURA DI COTTURA
Il forno deve essere alimentato con rami secchi d’ulivo o vite. Si inforna ad una temperatura di circa 280 C°, la cottura dura circa 60 min a temperatura calante. A fiamma spenta, il forno viene ripulito con una scopa di palma nana bagnata dal lungo manico. La carbonella che rimane dopo la cottura è richiestissima per alimentare i barbecue e quindi venduta. Tra i panifici marsalesi, alcuni sono particolarmente famosi per la qualità dei loro pani: Taibba, Bica, Ingoglia, Salluzzo, solo per citarne qualcuno, sono i cognomi tra i più famosi. Naturalmente, pur con le stesse caratteristiche di produzione, il pane di questi panifici riesce ad essere diverso l’un dall’altro. Spesso in modo rilevante anche se in realtà cambiano pochissimi elementi tra i pani dei vari forni. Sarà, evidentemente, dovuto alla diversa “maestria” dei panificatori. Vero e proprio gourmet, Alberto Taibba ogni mattina non propone solo pane, ma anche pane cunzato (con sarda o tonno, olio extravergine di oliva, pomodoro, scaglie di pecorino, origano), cornetti, brioscine, pizze a taglio. Un pane di cui va fiero è il pane con olive nere.
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Carnevale di Vanessa D’Acquisto
Il termine deriva dalla locuzione latina “carnem levare”, ossia il divieto ecclesiastico di consumare carne durante il periodo della Quaresima
festa di popolo L
a libertà di comportamento a cui siamo abituati oggi ad un uomo dell’Ottocento potrebbe far apparire il nostro tempo come un continuo Carnevale. In effetti, in passato non era possibile esprimersi liberamente, fare ironia, darsi alla satira o agli scherzi. In una società segnata del controllo delle autorità, il Carnevale rappresentava perciò una valvola di sfogo per il popolo. Nella Palermo del ‘700 i nobili si riunivano in balli in maschera al Santa Cecilia, oppure nei salotti privati dei loro sfarzosi palazzi e partecipavano (anche se con riluttanza) alle celebrazioni popolari, con le sfilate dei carri allegorici, l’albero della cuccagna e altri divertimenti. Nel XIX secolo, con la nascita della media e piccola borghesia, le celebrazioni assunsero una forma più istituzionale e vennero regolamentate dalla istituzione del “Comitato e Società del Carnevale”. Le mercerie apprestavano a preparare maschere di cartapesta, berretti, coriandoli (pittiddi) e stelle filanti. L’avvio del Carnevale veniva segnato dallo squillo di tromba. E allora le strade della città, ma in generale in tutta la Sicilia, si riempivano di bambini e adulti mascherati con l’intento di divertirsi, sbeffeggiare il compagno, il vicino, il passante, anche con degli sberleffi alquanto crudeli. Accanto a loro sfilavano inoltre le maschere note a tutti: la balla-virticchi (pigmei che ballavano intrattenendo il popolo), i jardinari (i giardinieri) e la varca diffuse a Palermo; mentre nel Catanese c’erano i briganti e il cavalluccio. Ma la maschera più famosa è quella del
nannu: un vecchio ben vestito che era considerato la personificazione del Carnevale. Faceva il suo ingresso in città su una carrozza e lanciava confetti sulla folla, la quale rispondeva con i pittiddi e le stelle filanti. ‘U nannu era ed è accompagnato dalla sua sposa, ‘a nanna. In realtà questa maschera può essere considerata di recente invenzione. Il Pitrè, infatti, ci informa che ‘a nanna non ha una lunga tradizione, è stata creata solo per aumentare l’euforia delle celebrazioni. I maggiori festeggiamenti avvenivano nei giorni di martedì grasso, domenica e giovedì grasso, considerato l’ultimo dei festeggiamenti. Infatti in questo giorno ‘u nannu faceva testamento e alla fine “tirava le cuoia”, veniva bruciato. Anche il Carnevale, come quasi tutte le feste siciliane, trae le sua radici dalle feste pagane, legate alla terra e alla natura. Il rogo del nannu simboleggia la fine del tempo vecchio e consumato e doveva propiziare l’arrivo di un nuovo ciclo di fertilità e abbondanza. Nel corso del tempo, il Carnevale così raccontato perse il suo fascino nella Palermo di nuova costruzione del secondo dopoguerra, soppiantata da nuovi divertimenti. Ma il Carnevale rimase e rimane tuttora un vanto di altre città siciliane tanto che alcuni di questi sono inseriti nel Registro delle Eredità Immateriali, come identità della cultura immateriale dell’isola da salvaguardare e tramandare. Tra questi sono di particolare importanza quello di Acireale e quello di Termini Imerese. L’abbondanza di festeggiamenti era ed è tuttora corrisposta dall’abbondanza dei piatti tradizionali. Non possono mancare i dolci con le classiche chiacchere, la pignoccata, piccoli dolcetti uniti tra loro dal miele, le sfincette fritte e i teste ri turcu (le teste di turco) di cui esistono due versioni, il bignè di Scicli e la variante al cucchiaio di Castelbuono.
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Dolce tipico del Carnevale siciliano, della “testa di turco” esistono due varianti riconducibili ai luoghi di appartenenza: una a forma di bignè propria di Scicli, l’altra da mangiare a cucchiaio di Castelbuono. L’origine del nome si fa risalire con ogni probabilità al periodo in cui i Normanni sconfissero gli Arabi i cui corpi e gli scalpi che vennero disseminati nel campo di battaglia, sono oggi ricordati dalla forma del dolce (soprattutto nella versione sciclitana)
Testa di turco di Scicli Ingredienti per i bignè: 300 ml di acqua, 300 gr di farina 00, 300 gr di strutto, 9 uova, un pizzico di sale per il ripieno: 400 gr di ricotta vaccina, 200 gr di zucchero, 100 gr di gocce di cioccolato Procedimento In un tegame sciogliete lo strutto e il sale nell’acqua a fuoco lento. Ai primi bollori, versate poco per volta la farina setacciata e mescolate per circa 1015 minuti, fino a quando il composto si stacca dalle pareti del tegame. Versate l’impasto in una ciotola, quando sarà tiepido incorporate le uova intere due alla volta e mescolate fino ad ottenere un impasto morbido. Versatelo in una sac-à-poche e su una teglia unta create dei bignè dal diametro di circa 8-10 cm l’uno, distanziandoli l’uno dall’altro. Infornate in forno preriscaldato a 250°C finché non avranno un colorito dorato, avendo cura di non aprire il forno durante la cottura per evitare che i bignè si sgonfino. Appena cotti, lasciateli raffreddare per bene. Per preparare la crema fate scolare per un po’ di tempo la ricotta in frigorifero, poi setacciatela in una ciotola, unendo lo zucchero e le gocce di cioccolato. Farcite i bignè con la crema di ricotta e cospargeli con zucchero a velo.
Non manca poi il salato. A Modica viene preparato il minestrone del giovedì grasso, con le verdure e a volte con il lardo di maiale. Ed è ancora la carne suina, l’ingrediente fondamentale de i maccaruna cu sucu ri maiale, maccheroni conditi con il sugo di cotenna, costine e salsiccia di maiale. La salsiccia viene anche arrostita sulla brace e offerta ai partecipanti alle feste di piazza. CARNEVALE DI TERMINI IMERESE
Testa di turco di Castelbuono Ingredienti per la sfoglia: 100 gr di farina 00, 1 uovo, 1 cucchiaio di zucchero, un pizzico di sale, olio di semi per friggere per la crema: 500 ml di latte, 100 gr di zucchero, 50 gr di amido per dolci, scorza di un limone grattugiata, cannella in polvere Procedimento Si inizia con il preparare la sfoglia. In una ciotola mescolate insieme la farina, lo zucchero, l’uovo e il pizzico di sale, fino a quando non avrete ottenuto un composto senza grumi e omogeneo. Stendetelo sottilissimo e formate delle lasagnette. Friggete queste lasagnette in olio caldo, saranno pronte quando saranno dorate e presenteranno delle bolle. Posizionatele sulla carta assorbente da cucina per eliminare l’olio in più. Ottenute le lasagnette, preparate la crema. In un pentolino versate il latte, lasciandone da parte un bicchiere, la scorza del limone, lo zucchero e la cannella e cuocete a fiamma bassa. Nel latte lasciato a parte sciogliete l’amido che unirete poi a quello nel pentolino e mescolate con una frusta. Quando inizierà ad addensarsi, toglietelo dal fuoco. Sul fondo di una teglia posizionate una sfoglia, versate sopra la crema e spolverate con la cannella e continuate fino a quando non avrete ultimato tutti gli ingredienti. Conservate la testa di turco in frigo per un paio d’ore. Guarnite a vostro piacimento con gocce di cioccolato o zuccherini colorati.
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Entrato nel 2007 nel Rei, il Registro delle eredità immateriale della Regione Siciliana, del carnevale di Termini Imerese si hanno le prime notizie nel 1876, quando giunse al suo Comitato e Società la ricevuta di pagamento per la promozione e l’organizzazione del carnevale. La caratteristica principale del carnevale termitano è la sfilata dei carri allegorici. Il maggiore sviluppo si ebbe negli anni ’50 grazie alla maestria eccezionale dei maestri dell’arte della cartapesta. Il giorno di maggiori festeggiamenti del carnevale è il martedì grasso dove va in scena la sfilata dei carri e l’entrata ru nannu con la sua fine al rogo, intesa come purificazione dell’anno trascorso. CARNEVALE DI ACIREALE “Il più bel carnevale di Sicilia” entra nel Rei nel 2006. Le prime testimonianze sono attestate nel 1594. Nel 1880 si diede inizio alle sfilate dei carri allegorici che erano precedute dalle carrozze dei nobili, i quali gettavano sulla folla i confetti. Il popolo si divertiva con l’albero della cuccagna, il tiro alla fune e la corsa dei sacchi. • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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Maccheroni con la carne
Ingredienti 400 gr di maccheroni rigati, 600 gr di manzo, 400 gr di pomodori, una cipolla, una carota, una costa di sedano, uno spicchio d’aglio, una tazza di brodo di carne, un bicchiere di vino rosso, 100 gr di pecorino grattugiato, 100 gr di caciocavallo fresco, sale e pepe q.b. Procedimento Preparate il soffritto con la cipolla, la carota, il sedano e l’aglio, aggiungete la carne e dopo averla soffritta aggiungete il vino rosso che farete evaporare a tegame scoperto. Quando il vino sarà evaporato aggiungerete i pomodori tagliati a pezzi ed infine il brodo e quindi salate e pepate. Separate la carne dal sugo e tritatela. Nel frattempo lessate i maccheroni in abbondante acqua salata e scolateli al dente. Conditeli con il sugo e il pecorino, versateli in una teglia e ponete di sopra la carne tritata e il caciocavallo tagliato a fette. Infine infornate per 15 minuti e servite.
Pignoccata
Ingredienti 500 gr di farina 00, 300 gr di miele, 5 uova, 50 gr di zucchero, 6 cucchiai di olio di semi, scorza di limone grattugiata, cannella in polvere, zuccherini colorati, olio di semi per friggere Procedimento Impastate per primi lo zucchero con le uova, unite poi l’olio di semi, la scorza del limone e la farina. Dividete l’impasto e formate bastoncini della grandezza di 7-10 mm e tagliate dei tocchetti di circa 10-15 mm. Friggete i tocchetti in abbondante olio caldo e appena si saranno dorati posizionateli sulla carta assorbente per far colare l’olio in eccesso. In un tegame fate scioglier il miele con l’acqua e aggiungete la pignoccata e mescolate per un paio di minuti. Posizionatele su di un piatto formando una piramide o, meglio, una pigna (da qui deriva il nome) e cospargete con la cannella e i zuccherini colorati.
Sugo di maiale alla siciliana
Ingredienti 800 gr di pittinicchi (costine) di maiale, 250 gr di cotenna di maiale, 2 piedini di maiale, 4 nodi si salsiccia aromatizzata al finocchio, mezza cipolla, 25 gr di estratto di pomodoro, 1 e ½ kg di pomodori (se preferite, passata di pomodoro o concentrato di pomodoro), 2 foglie di alloro, ½ bicchiere di vino rosso, 1 bicchiere di olio extravergine di oliva, sale e pepe q.b. Procedimento In un tegame soffriggete la cipolla nell’olio extravergine di oliva per 5 minuti. Unite le costine, la cotenna, i piedini e la salsiccia e fateli rosolare bene per un paio di minuti, sfumate poi con il vino rosso. In un bicchiere di acqua calda fate sciogliere l’estratto di pomodoro che unirete appena il vino sarà evaporato. Unite infine i pomodori spellati, privati dei semi e tagliati a pezzetti, l’alloro, salate e pepate. Portate a bollore, poi abbassate la fiamma e fate cuocere per due ore circa. Se è necessario aggiungete un po’ di acqua per terminare la cottura.
Successivamente si unirono i carri in cartapesta, elemento già utilizzato nelle decorazioni. Nel 1930 vennero introdotte le “macchine in fiorate”, ovvero le auto addobbate con i fiori. La manifestazione fu interrotta durante le guerre ma alla ripresa, nel 1948 ottenne il riconoscimento internazionale con la denominazione di “il più bel carnevale di Sicilia”. Tra le maschere più diffuse del carnevale acese c’era l’Abbatazzu, chiamato anche Pueta Minutizzu, un personaggio vestito in maniera stravagante, con abiti di damasco e parrucca bianca che girava portando un grosso libro,
da cui facendo finta di leggere, sentenziava battute satiriche e sfottenti. Poi c’erano i Manti, personaggi coperti da grossi mantelli neri che celavano l’identità dei mascherati; l’usanza venne in seguito bandita perché era un comodo travestimento per i malviventi. La sfilata dei carri si svolgeva a piazza Duomo ed era cadenzata da un preciso calendario: infatti il giovedì, il sabato, la domenica e il martedì sfilavano i carri di cartapesta, il lunedì e il martedì gli infiorati. Adesso, invece, le sfilate dei carri si sono unite e sfilano tutti i giorni del periodo carnascialesco.
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Cuscusu di Porco di Nino Panicola
specialità di Carnevale
I
l cous cous o meglio cuscusu, si sa è un piatto caratteristico del Trapanese, e in genere ad esso si associa il brodo di pesce. La variante al gusto di maiale ha antiche tradizioni e si usa fare nel periodo di Carnevale. Ma essendo particolarmente gustosa, si può proporre anche in altri periodi dell’anno. La ricetta ci è stata dettata da una signora di Marsala che fa la chef a casa (i più fighi la defini-
rebbero “personal chef ) e che lo prepara il giovedì grasso. Il couscous si prepara con la semola di grano duro, una particolare semola non troppo molita ed utilizzata proprio per la preparazione dei couscous in generale. La semola viene lavorata in un particolare recipiente di cotto smaltato all’interno, detto mafaradda. Anche se sembra difficile da fare, in realtà non è difficile mescolare la semola con acqua e sale, rigirandola manualmente. Si evita così di adoperare i couscous precotti che poi restano molto fini e assorbono poco e male il brodo che si aggiunge successivamente. Questa lenta lavorazione manuale della semola termina appena la si vede gonfiare e si formano piccoli grumi; quindi si mette ad asciugare un paio di ore coperta con uno strofinaccio pulito in modo che respiri. Terminato il riposo
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della semola incocciata, è il momento di preparare un pentolone di acqua che metteremo a bollire aromatizzandola con alloro, zenzero, cannella, chiodi di garofano. Sopra il pentolone andrà posizionata la cuscusera, anch’essa di coccio smaltata internamente, al cui interno si trasferisce il couscous incocciato, insieme ad un filo di olio extravergine di oliva. La cottura deve durare un’ora e tre quarti da quando comincia a intravedersi il vapore di bollitura. Per evitare sfiati, si usa sigillare il fondo della cuscusera con il bordo della pentola mediante un impasto di acqua e farina a forma di cordone che andrà posizionato tutto intorno ai punti di contatto. Dopo la cottura, il couscous ancora caldo, viene rimesso nella mafaradda e si irrora con metà del brodo bollente della carne ben filtrato. Quindi si copre con una salvietta di cotone sopra la quale va posta una coperta di lana. Dopo un quarto d’ora si versa qualche altro mestolo di brodo di carne caldo nella mafaradda: si ricopre e si mette a riposare ancora un paio d’ore. Quindi è pronto per essere servito, da condire sul piatto con zucchero e cannella a piacere. Come preparare il brodo? Si può preparare solo di maiale e si deve preferire la pancetta e il piedino. La nostra cuoca suggerisce di preparare il brodo misto aggiungendo al maiale anche un pezzo di carne di vitello con osso. Nell’acqua in cui viene cotta la carne va messo il sedano, la carota, la cipolla, una stecca di cannella, pomodoro, foglie di alloro e chiodi di garofano, cardamomo e coriandolo.
Cuscusera
Ingredienti per 6 persone • 700 gr di semola • 2,5 di acqua per il brodo • 1 testa di sedano • 2 carote • 2 cipolle • 1 kg di pancetta di maiale • 1 kg di carne vaccina con l’osso • 6 foglie di alloro • una stecca di cannella • 5 chiodi di garofano Le proporzioni del brodo devono essere 3 a 1 rispetto alla semola, cioè bisogna preparare tre litri di brodo per ogni kg di semola. Per ciascun commensale la dose consigliata da servire è di circa 100/120 grammi di semola.
Mafaradda
• MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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a cura di Alessandro Iannelli BRASSICA OLERACEA Questa denominazione scientifica indica una specie che comprende la grande "famiglia" dei cavoli e dei broccoli. Tutti nella loro grande varietà fanno parte di un'unica specie, la Brassica oleracea per l'appunto. Dal punto di vista nutritivo, la specie si caratterizza per la buona presenza di vitamina C e di ferro, di acidi grassi (omega 3 e omega 6) e di sostanze con proprietà antifiammatorie e antiossidanti (flavonoidi). In Sicilia sono potenzialmente coltivabili tutte le varietà della specie: tradizionalmente, però, più frequente è il broccolo, in quanto può tollerare temperature più basse ed è quindi ideale nella nostra regione per una coltivazione invernale, quando l'orto non si caratterizza per abbondanza di ortaggi e verdure. Idealmente la coltivazione del broccolo comincia l'inverno dell'anno prima, con la vangatura (di circa 30 cm) e la fertilizzazione del terreno, se ciò non è mai stato fatto in precedenza. La semina cade in Sicilia nel periodo di giugno-luglio, con una distanza tra i semi di circa 4050 cm, in filari distanti 80-100 cm.
L’ortoe la
L'innaffiatura dovrà essere pressoché quotidiana in estate ma con particolare cura ad evitare i ristagni, letali per il broccolo. Per lo stesso motivo, un terreno compatto e argilloso è da evitare. La maturazione dei corimbi (le "teste") sarà scalare, con una distanza di anche due mesi fra le prime e le ultime maturazioni, da inizio inverno a stagione inoltrata.
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AGRUMI Non sono molti i frutti che giungono a maturazione in inverno. Tra questi figurano innanzitutto gli agrumi, fonte preziosa di vitamina C, K, P e del gruppo B. I pompelmi vantano poi spiccate proprietà diuretiche ed antinfiammatorie. La Sicilia è ovviamente tra le più grandi produttrici italiane di questi frutti, che temono il freddo e stentano a sopravvivere quando la temperatura si avvicina allo zero. Come coltivarli. Si possono fornire indicazioni generali che valgono pressoché per tutti gli agrumi: coltivare in terreno acido, con pH idealmente fra 5 e 6.5, da fertilizzare di preferenza con concime NPK 10-5-10 (più azoto e potassio e meno fosforo rispetto agli due elementi). Si sconsiglia vivamente di partire da seme perché, molto di più che con altre piante, il rischio di ottenere un frutto diverso da quello che ci si aspetta o, peggio, una pianta sterile, è molto alto: ciò in quanto molti agrumi sono frutto di incroci. Le piante di molte specie di agrumi richiedono attenzione, in quanto temono freddo e vento (che • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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frutta d’inverno causa la caduta dei fiori) e sono spesso oggetto di attacco di afidi e cocciniglie. Fra le possibili coltivazioni, oltre a quelle più tradizionali, si consiglia il kumquat o mandarino cinese: a differenza di tutte le altre specie di agrumi sopporta temperature anche di -5°C e tollera meglio anche l'ambiente caldo e secco degli appartamenti; il frutto, dal profumo delicato, ha un sapore acidulo e si presta alla preparazione di marmellate e di canditi e si può consumare con la buccia, sottile e molto aromatica. Non è da trascurare l'altissimo valore decorativo di questa pianta, che si attesta intorno ai due metri (anche se soprattutto in piena terra può superare anche i tre metri) e si riempie di coloratissimi frutti ovali. Richiede innaffiature settimanali in primavera ed estate, evitando ristagni. La maturazione avviene in genere fra fine ottobre e tardo autunno. Altro agrume di cui si consiglia la coltivazione è il clementine, un tipo di mandarancio con un ottimo equilibrio tra il sapore dolce ed aspro, la buccia facilmente separabile e, trattandosi di un ibrido sterile, pressoché privo di semi: queste caratteristiche ne hanno fatto uno dei frutti in assoluto più consumati in Italia. Infine da
segnalare il bergamotto, un agrume scarsamente adatto al consumo (sa letteralmente di sapone) ma interessante per l'intensissimo odore che emana.
FINOCCHIO Si tratta di un ortaggio dalle innumerevoli proprietà, tra cui spiccano quelle diuretiche, antinfiammatorie e digestive (in particolare contrasta il meteorismo), nonché una blanda azione antidolorifica. Vanta la presenza in buone quantità di vitamine A e C e di diversi sali minerali come potassio e magnesio, nonché degli antiossidanti flavonoidi. Ha poche calorie dato l'altissimo volume in acqua (oltre 90%), rivelandosi così un potenziale buon alleato nelle diete. Quanto alla coltivazione, essa richiede attenzione in quanto sono necessarie operazioni di rincalzo costanti (almeno ogni 10 giorni) a partire da un mese dalla semina, che in Sicilia può avvenire anche in piena estate e anzi preferibilmente dalla seconda metà di luglio, per poi raccogliere i grumoli, cioè la parte bianca del finocchio, all'inizio dell'inverno o in inverno avanzato, a seconda della cultivar scelta (alcune
sono precoci, altre richiedono circa 6-7 mesi per la maturazione). I semi andranno posti a circa 30 cm di distanza in file di 60 cm. L'irrigazione deve essere costante quando mancano le piogge, ponendo estrema cura nell’evitare ristagni. Il rincalzo serve a tenere coperto il grumolo facendolo diventare bianco e più tenero. SPINACI Il clima siciliano permette di realizzare con buon successo in inverno piante la cui coltivazione altrove sarebbe difficile se non impossibile in questa stagione. Un esempio è sicuramente lo spinacio, la cui semina è possibile in Sicilia fino a metà novembre per poter raccogliere e consumare le piante 4-5 settimane dopo, in pieno inverno: da preferire per un periodo così avanzato le varietà a foglie scura e crespa, più resistenti al freddo, nonché un’area esposta al sole. Seminare in piena terra a 15 cm di distanza su filari di 40 cm; ma è possibile anche la coltivazione in vaso. Il terreno deve essere sufficientemente drenante, l'innaffiatura (contenuta) è necessaria solo nelle prime due settimane. Gli spinaci, molto versatili in cucina, contengono in buone quantità vitamine A, C, K1 (contribuisce a prevenire l'osteoporosi), acido folico, magnesio, potassio, calcio e, in misura minore, ferro. Gli spinaci, inoltre, si rivelano utili nel contrastare la stitichezza.
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ilamaroCardo ma buono di Alessandro Iannelli
Noto agli Egizi per le proprietĂ medicinali, ma anche ai Greci e ai Romani che lo usavano in cucina, il cardo entra a pieno titolo nella tradizione gastronomica siciliana. Ancora oggi lo troviamo bollito in alcune botteghe di frutta e verdura o fritto in pastella nelle friggitorie
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Gratin di cardi al forno Ingredienti per 4 persone 600 gr coste di cardo selvatico, 60 gr caciocavallo 60 gr parmigiano reggiano, 3 cucchiai di pangrattato, 3 cucchiai di olio extravergine d'oliva, 1 limone, 60 gr burro 200 ml di latte, 25 gr di farina 1 pizzico di noce moscata, di pepe e di sale Procedimento Tagliate le coste più lunghe in modo che non superino i 6-7 cm, mettetele tutte in acqua con il succo di un limone (che servirà ad evitarne l'annerimento), sciacquatele per bene e passatele in una pentola bollente per 20 minuti circa, poi sciacquatele e mettetele da parte. Sciogliete 30 grammi di burro in una padella e versatelo sulle coste, amalgamando per bene assieme a 2/3 del caciocavallo, del pangrattato e del parmigiano. Utilizzate il resto
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ino ad una ventina di anni fa, nelle botteghe dei fruttivendoli siciliani, non mancavano mai i “quararoni” (pentoloni di rame) dove venivano bolliti capolini di carciofi o di cardi, da consumare poi a casa con l’aggiunta di qualche goccia di limone o anche di un filo d’olio d’oliva. Così come non potevano mancare nelle tavole calde e nelle trattorie i carduna in pastella, che del resto di frequente aprivano i cenoni siciliani di Natale e Capodanno. Queste tradizioni alimentari legate al cardo, oggi in parte dimenticate (soprattutto il consumo bollito), meriterebbero di essere riscoperte non solo per il prezioso e delicato sapore amaro di questa pianta, ma anche per le sue innumerevoli proprietà benefiche, di cui consapevoli erano già gli Egizi che la usavano nella loro medicina. Secondo studi recenti, proprio l’Egitto (altri suggeriscono l’Etiopia o l’Asia) sarebbe il luogo di origine di questa pianta alimurgica a ciclo biennale, di altezza compresa fra circa 50 e i 150 centimetri. Il cardo era noto tanto ai Greci che ai Romani che ad esso si riferiscono rispettivamente con i termini κάκτος e card(u)us (latino tardo cardōnem) e sembra che la Sicilia già allora fosse l’area di maggiore diffusione. Di notevole interesse un passo dei “Sofisti a banchetto” di Ateneo (II o III sec. d.C.), che peraltro, seppur non in modo risolutivo, sembra far propendere per l’ipotesi che già nell’antichità, attraverso l’addomesticamento del cardo, fosse stata selezionata la pianta del carciofo, che appartiene alla stessa specie. Lo storico greco parla del • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
del burro, il latte, la farina e un pizzico di noce moscata, sale e pepe per preparare la besciamella (5 minuti a fuoco lento e 5 a fuoco medio in un tegame). Prendete una teglia e spargete l'olio d'oliva sulla carta forno, quindi stendete metà delle coste e metà della besciamella, indi ripetete in modo da formare due strati. Infine aggiungete quanto era rimasto di parmigiano, caciocavallo e pangrattato. Mettete in forno a 180 °C gradi per 30 minuti, poi lasciate raffreddare per qualche minuto, infine servite.
siciliano κάκτος, citato da Teofrasto, come pianta da identificarsi con quella che i Romani chiamano cardum avendone storpiato il nome greco. Ateneo la descrive come una pianta dal fusto edule che va pelato in quanto spinoso e accenna poi ad un altro tipo di κάκτος, anch’esso edule (verosimilmente il carciofo). Dal naturalista Plinio il Vecchio apprendiamo poi dell’apprezzato e ampio uso culinario del cardo tra i Romani. A partire dal XVI secolo si trovano testimonianze della tecnica dell’imbiancamento ancora oggi in uso per il cardo coltivato. Questo ci permette di stabilire che in quel periodo si era già delineata la distinzione all’interno della specie Cynara cardunculus di tre varietà: sylvestris, cioè il cardo selvatico; altilis, il cardo coltivato e con fusto meno spinoso; e scolymus, cioè il carciofo. Pianta tipicamente mediterranea (tollera a stento temperature intorno allo 0°c) ed estremamente diffusa in Sicilia, il cardo è facilmente riconoscibile: lo caratterizzano fusto eretto e foglie spinose ai bordi, di forma diversa a seconda della varietà e sempre dall’aspetto lucido e marmoreo, spesso con venature bianche, come nella nota varietà del cardo mariano. Ovviamente spicca il capolino (su cui si innestano i fiori, raccolti in una calatide rossa, blu o violacea), simile a quello del carciofo ma di forma in genere più schiacciata o affusolata. Il cardo può crescere in radure ed in campo aperto così come a margine di marciapiedi o in anfratti, rifugge comunque luoghi ombrosi. Singoli cardi talora spiccano in prossimità di rivoli d’acqua. Dopo un periodo di quiescenza che coincide con la stagione secca,
dopo le prime piogge la pianta riprende a crescere e giunge al suo apice tra novembre e febbraio, periodo in cui va raccolta, munendosi di guanti da giardinaggio. Ogni parte della pianta (radici incluse) può essere consumata, ma il fusto va colto prima che lignifichi e, ad eccezione del tenero gambo della varietà “gobbo”, il cardo selvatico va consumato previa cottura, avendo accuratamente rimosso le spine di cui peraltro ricca è a varietà cardo rosso siciliano, la più diffusa in Sicilia. Per fare ciò sul fusto, il modo più semplice è raschiarle col coltello. Secondo la tradizione popolare i cibi amari sono quelli che più giovano alla nostra salute e il cardo sembra proprio confermare questo assunto della cultura popolare: ricco di vitamine del gruppo B, di potassio, sodio, calcio e fosforo, vanta proprietà astringenti, diuretiche e antinfiammatorie, contribuisce a controllare il colesterolo ed è un ottimo alleato contro diversi problemi gastrointestinali. Le sue proprietà depurative sono arcinote, tanto che dai suoi estratti sono stati ricavati farmaci epatoprotettori; i tannini del cardo inoltre aiutano nella ricostruzione dei tessuti, mentre l’azione di fenilpropanoidi e flavonoidi conferisce a questa pianta edule prorietà antitumorali. Dall’estratto dei fiori si ricava inoltre un coagulante per il formaggio. Quanto agli usi in cucina, oltre a quelli già ricordati, le varie parti del cardo, bollite a lungo, trovano spazio in diverse zuppe e primi piatti; è inoltre diffusa la preparazione dei gambi gratinati con besciamella, ottimo piatto di contorno.
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Salute e bellezza al top
con il
latte d’ asina di Antonino Scalzo
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i narra che Cleopatra si immergesse nel latte d’asina per mantenere la propria pelle vellutata. Secondo la leggenda occorrevano ben settecento asine per fornire alla regina dell'antico Egitto il latte necessario. Così fecero dopo di lei anche la seconda moglie dell'imperatore Nerone, Poppea, la sorella di Napoleone, Paolina Bonaparte, e più di recente persino Valeria Marini pare abbia optato per un trattamento di bellezza antico di secoli. Il segreto di bellezza di Cleopatra e delle altre donne della storia ha un fondamento scientifico. Oggi sono gli scienziati a rivalutare questo alimento e a scoprirne nuove doti. Sembra, infatti, che quello che veniva considerato “oro bianco” da diverse figure femminili del passato, faccia miracoli per il girovita e non solo. L’elenco dei benefici dati dall’uso del latte d’asina è molto lungo: rafforza il sistema immunitario, rigenera la flora intestinale attraverso l’azione dei suoi fermenti, elimina l’acidità di stomaco, depura il fegato, favorisce la cicatrizzazione delle ferite, calma l’irritazione della laringe, cura
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la tosse ostinata, combatte l’anemia, cura le patologie della pelle quali psoriasi, acne, eczema. Il latte d’asina è universalmente riconosciuto come validissima alternativa al latte materno. Ne ha, infatti, caratteristiche simili ed è capace di fornire al neonato i principi nutritivi essenziali per favorire crescita e sviluppo. Nel caso di intolleranze alimentari e allergie alle proteine del latte vaccino, può essere considerato una possibile alternativa sia al latte vaccino che alle bevande vegetali e al latte artificiale. Il suo gusto delicato e zuccherino, poi, lo rende molto gradevole e ben accetto, sia in fase di crescita che in età adulta. E grazie alla sua composizione multifattoriale, il latte d’asina è utile nel prevenire importanti malattie dell'età pediatrica, come affezioni gastrointestinali, allergie, obesità, disturbi vari come l’anemia e persino un insufficiente sviluppo cerebrale. L'alta concentrazione di calcio presente nel latte d’asina non è utile soltanto ai piccoli, ma può aiutare i soggetti adulti a combattere l'osteoporosi ed i soggetti con carenze di vitamina D, come le donne in menopausa. Particolarmente ricco di lisozima e lattoferrina, il latte d’asina è in grado di favorire la protezione dagli attacchi infettivi, soprattutto quelli respiratori ed intestinali ed è utile nei soggetti predisposti alla comparsa di dermatiti. Il lisozima è un potente antibatterico e antivirale ed è utilissimo, se non addirittura fondamentale, per favorire la fortificazione dell'intero sistema immunitario. È sempre il lisozima che, as-
sieme a minerali, oligoelementi, vitamine e aminoacidi, esplica le straordinarie capacità di distendere la pelle con marcato effetto tensore e liftante e di nutrirla ed idratarla in profondità. L A RIVINCITA DEL “CIUCO” Oggi nel mondo vengono prodotti circa 700 mila litri di latte d’asina (pari al 10% della produzione di latte di mucca) che vengono consumati tal quali o utilizzati nella produzione di cosmetici, di integratori alimentari e di alimenti come yogurt, formaggi, cioccolata, caramelle e dolci da forno.
Il valore commerciale di questo volume produttivo è decisamente interessante tanto da determinare una maggiore attenzione e salvaguardia nei confronti degli asini che in Italia, dove sono presenti le razze più pregiate, dopo avere rischiato praticamente l’estinzione, sono arrivati a contare ben cinque mila unità. DERMOCOSMESI I componenti che caratterizzano il latte d’asina non offrono solo un vantaggio a livello nutrizionale, ma anche dermatologico e cosmetico. Gli acidi grassi essenziali sono capaci di proteggere e rinnovare le membrane delle cellule che compongono la cute, svolgendo contemporaneamente anche un’azione antiossidante, fondamentale per combattere l’invecchiamento e la formazione di rughe. Le vitamine in esso contenute (A, B, C, E) sono capaci di svolgere poi un’azione protettrice. Il lisozima è capace anche di attenuare le infiammazioni della cute e del • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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cuoio capelluto. In commercio si possono trovare numerosi prodotti, soprattutto saponi e creme, che ci permettono di beneficiare di tutte le proprietà detergenti, idratanti e curative del latte d’asina. L E AZIENDE In Italia un allevamento di asine finalizzato alla produzione di latte generalmente è composto in media da 20-25 capi. Le razze maggiormente allevate e comunque meglio indicate per la produzione di latte sono quelle più pesanti, come la razza Martina Franca e la Ragusana, che sono considerate le più idonee semplicemente per una questione di rendimento. L’asino è di per sé un animale rustico, poco esigente, di facile adattabilità che si presta nella maggior parte dei casi ad un allevamento semi-brado, pesando quindi poco sui costi di gestione dell’azienda. La Sicilia è la regione che più di ogni altra ha saputo conservare la tradizione dell’asino e del suo allevamento tant’è che attualmente si trova proprio nell’Isola il maggior numero di allevamenti asinini, molti dei quali sono dediti alla produzione del latte. Ce ne sono una decina sparsi nella nostra regione, dal Palermitano al Catanese fino al Ragusano: piccole e medie aziende che grazie al coraggio e alla caparbietà di giovani imprenditori si sono distinte in pochi anni fino a diventare delle realtà degne di nota. Una di queste è Asinalat nel territorio di Villafrati, in provincia di Palermo, azienda giovane e in forte crescita che è andata ben oltre la semplice produzione di latte. Grazie all’inventiva del suo fondatore, infatti, l’azienda offre un vastissimo assortimento di prodotti creati con il latte d’asina, come yogurt specifici per
la crescita, bevande a base di latte con gusti che vanno dal cioccolato alla fragola, oltre a prodotti cosmetici innovativi per viso e corpo che uniscono i benefici del latte all’efficacia dell’acido ialuronico. Alle pendici dell’Etna e più precisamente a Milo, invece, in un meraviglioso contesto naturale, si trova Asilat, un’azien da agricola fortemente voluta da una delle fondatrici, Ketty Torrisi, proprio per forti motivazioni personali. A seguito della sua esperienza di mamma con un neonato affetto da allergia alle proteine del latte vaccino, ha avuto modo di verificare l’efficacia del latte d’asina proprio in questa circostanza. Da qui è nata Asilat, che, oltre alla produzione di latte e prodotti cosmetici, propone il progetto Asilandia, un insieme di percorsi ludici ed educativi, seminari, visite guidate per le scuole e percorsi degustativi, con l’intento di far riscoprire questo antico e utilissimo compagno dell’uomo. ALCUNE PROBLEMATICHE Nonostante questo latte sia in grado di apportare numerosi benefici, il suo uso è poco diffuso. Come mai? Ancora oggi non sono molto propagandate le qualità e le proprietà di questo alimento; è difficile da reperire, ma soprattutto viene venduto ad un prezzo elevato che si aggira tra i 10 e i 15 euro al litro, costo giustificato dalla bassa quantità prodotta dall’animale. La valorizzazione delle proprietà e dei benefici di questo latte, ma anche l’emanazione di leggi che ne tutelino la produzione e la vendita, potrebbero sicuramente favorire una maggiore diffusione di questo prezioso alimento, aumentando così i consensi anche tra i consumatori. Per questo bisogna ancora aspettare. D’altronde, com’è ben noto, la pazienza è la virtù dell’asino!
Il latte d’asIna nella storIa Il latte d’asina è un prodotto di antichissime tradizioni e utilizzato da tempo immemorabile. Già Erodoto nel V secolo a.C. lo cita come bevanda nutriente, ma fu Ippocrate (460-370 a.C.), il padre della medicina, il primo a descriverne le proprietà. Nell'epoca romana, poi, era ben noto, visto che anche Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella sua opera enciclopedica, Naturalis Historia, ne descrisse le caratteristiche. Bisognerà comunque attendere il Rinascimento per una prima vera considerazione scientifica del latte d’asina da parte dei saggi del tempo: Francesco I, in Francia, infatti, su consiglio dei suoi medici lo utilizzò per guarire da una lunga malattia. Nel XIX secolo, sempre in Francia, a opera del dottor D’Arval, si diffuse la pratica di avvicinare i neonati orfani di madre direttamente al capezzolo dell’asina per essere allattati. Nel XX secolo, poi, nelle grandi città europee, era facile imbattersi in commercianti che vendevano direttamente il prodotto. La società elegante dell’epoca consumava regolarmente questa preziosa bevanda, mentre le famiglie povere la riservavano solo ai bambini malati o agli anziani stanchi e deboli. È per questa ragione che in Italia, in Francia, in Belgio, in Svizzera, in Germania, videro la luce un certo numero di allevamenti. Il successo di cui oggi godono gli allevamenti che producono latte d’asina, conferma la notorietà secolare del prodotto e la vasta portata delle sue proprietà.
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Maschera di latte e argilla Occorrente tre cucchiai di argilla in polvere tre cucchiai di latte d’asina fresco un cucchiaio di miele Procedimento Miscelare bene gli ingredienti fino ad ottenere una pasta cremosa e uniforme. Applicare la maschera sul viso ben deterso per 20 minuti. Sciacquare con altro latte fresco e poi con acqua tiepida. L’effetto ottenuto sarà di un'epidermide liscia, tersa, morbida e idratata.
Budino di latte d’asina Ingredienti • 1 litro di latte d’asina • 200 gr di zucchero • 4 tuorli d'uovo • 1 buccia d'arancia • 5 fogli di gelatina Procedimento Sbattere i tuorli d’uovo con lo zucchero e aggiungere la scorza di arancia grattugiata. In un pentolino versare il latte e scaldare a 50°C. Aggiungere i tuorli d’uovo con lo zucchero e mescolare continuamente sul fuoco senza arrivare a bollitura. Aggiungere la gelatina precedentemente ammorbidita in acqua fredda. Mescolare bene e mettere negli stampini in frigo per 2 ore. Servire il budino con salsa di gelsi, fragole o caramello.
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Cinghiale imp._14 13/01/17 12:16 Pagina 32
di Alessandro Iannelli
Cinghiale di SICILIA I
l cinghiale, temibilissimo lottatore, abitante dei boschi che non disdegna sconfinamenti nelle zone abitate, è presente alla mente dei Siciliani soprattutto per i recenti e numerosi attacchi a persone e coltivazioni. Attacchi ripetuti e difficili da fronteggiare e che nell'estate del 2015 hanno indotto il Parlamento siciliano a votare una legge che consentisse l'abbattimento di un bel numero (fino a diecimila) di capi di questo suide che è diventato un vero pericolo. Il cinghiale in Sicilia si era estinto intorno alla fine del XIX secolo. Solo di recente, e in particolare negli ultimi 25 anni circa, è stato reintrodotto in un programma di arricchimento biologico che non ha però considerato le mutate condizioni degli ecosistemi naturali in cui sono venuti a mancare anche i suoi antagonisti naturali. Così i cinghiali, liberi di riprodursi e protetti dal divieto di caccia sono aumentati a dismisura, creando una situazione che sa di paradossale. E che si potrà superare contenendo il problema con l’abbattimento selettivo e riscoprendo, con la necessaria consapevolezza, proprio quell'uso alimentare che aveva determinato in Sicilia (così come in Gran Bretagna) l'estinzione di questa specie invasiva, presente in passato sull'Isola almeno dalla metà del primo
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millennio a.C., così come testimoniano raffigurazioni di monete di Messana e Abàcano. Il cinghiale, Sus scrofa, è un onnivoro originario dell'area eurasiatica ed appartenente alla stessa specie del maiale comune (Sus scrofa domesticus) che è del resto frutto della domesticazione del cinghiale. Ha una dieta principalmente vegetariana (di cui le ghiande costituiscono parte rilevante) arricchita occasionalmente da insetti e piccoli mammiferi. Si caratterizza per un fortissimo dimorfismo tra le sottospecie, con esemplari dai 50-60 chilogrammi circa, comunemente detti porcastri (mentre il "nero" è il cinghiale che pesa da vivo più di 60 chili), fino ad arrivare ai 3 quintali. In Italia dominano due sottospecie, entrambe dalle dimensioni ridotte, lunghe intorno ai 100120 centimetri e generalmente pesanti meno di un quintale: la majori, tipica della penisola, e la meridionalis, diffusa in Sar degna. A queste, poi, si aggiungono gli innumerevoli ibridi derivanti dall'accoppiamento frequente fra le sottospecie e con maiali allo stato brado, ibridi che rappresentano gran parte della popolazione siciliana. Una popolazione piuttosto nutrita che si trova concentrata nelle aree collinari in quanto il cin-
ghiale teme il caldo eccessivo e non si allontana mai troppo dalle risorse idriche. Le cronache ci testimoniano della predilezione dei nobili siciliani per la caccia a questo ungulato, attività che veniva considerata una prova di coraggio. Tanto che, secondo il racconto di Romualdo II Guarna, il re Ruggero II, proprio al fine venatorio, ne fece introdurre alcuni esemplari in una zona collinare presso Palermo; ma è testimoniata anche la pericolosità dell'animale, cui è legato, ad esempio, l'episodio di Guglielmo di Noto l'eremita, che fece scudo del proprio corpo per proteggere Federico II dall'attacco di un cinghiale
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colesterolo (mg)
calorie
proteine
grassi
grassi saturi
cinghiale
55
150
26
5
3
maiale
70
270
16.5
22.5
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valori nutrizionali medi (per 100 grammi)
che lo ridusse in fin di vita, salvo poi guarire grazie all'intervento di Sant'Agata. Ad attaccare l'uomo (due morti in Sicilia nel 2015) e minacciarne le coltivazioni, sono soprattutto i maschi, detti verri, che vivono da soli e si spingono occasionalmente in zone abitate alla ricerca di cibo; mentre le scrofe, che vivono in comunità con i cinghialetti – che rimangono con la madre in genere fino al sesto mese di vita o anche fino a un anno – più raramente si allontanano dall'habitat. Esse
da cacciagione – e "da pelo". I tagli sono gli stessi del maiale, con qualche differenza nell'uso dovuto a tradizione (in Toscana si mangia la testa in umido tagliata in medaglioni) e alle diverse caratteristiche: la carne del cinghiale è assai fibrosa e ciò fa preferire in genere tagli più morbidi, in particolare costolette e cosciotti, spesso dopo marinatura o lardellatura. Proprio per la sua fibrosità – e dunque resistenza alla lunga cottura – la carne del cinghiale è ottima per gli stufati e si fa apprezzare in vari
La carne del cinghiale è perfetta per ricette che prevedono lunghi tempi di preparazione, come appunto lo stufato. Possiamo sbizzarrirci con le combinazioni e arricchire un semplice stufato con ingredienti preziosi di origine siciliana, in questo caso funghi pleurotus (di ferla o "panicauru"), vino Nero d'Avola per sfumare e la dolce cipolla di Giarratana per far da contraltare al sapore di selvaggina. Useremo anche dei peperoni per arricchire ulteriormente la gamma di sapori.
Stufato di cinghiale Ingredienti per 4 persone • 1 kg di carne disossata e tagliata di cinghiale • 1 peperone giallo • 1 peperone rosso • 1 peperone verde • 1 cipolla di Giarratana • 150 ml di Nero d'Avola • 300 gr di funghi pleurotus • 4 cucchiai di olio extravergine d'oliva • 10 gr di sale • 15 gr di pepe Procedimento sono comunque altrettanto pericolose se percepiscono un attacco alla prole. Ad oggi, i metodi di contenimento sono costituiti da recinzioni e chiusine ("trappole" recintate), mentre la diffusa braccata (caccia coi cani) causa spesso la dispersione degli esemplari quando ad essere attaccate sono le scrofe. Ma il cinghiale, piuttosto che una pericolosa minaccia deve essere riscoperto quale pregiata risorsa alimentare, come sta già gradualmente accadendo nelle aree di diffusione e cioè i Monti Sicani, i Nebrodi, i Peloritani, le Madonie, gli Iblei. Qui le pietanze tradizionali sono rivisitate aggiungendo come opzione l'uso di questa carne, classificata come nera – cioè
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preparati (il più diffuso il ragù) perché combina il sapore di maiale a quello di selvaggina, peraltro presentando proprietà nutritive medie molto interessanti, soprattutto se paragonate a quelle del suo parente prossimo. Per passare dalla teoria alla pratica, proponiamo la preparazione dello stufato in cui il cinghiale viene combinato con ingredienti tipici siciliani. Un’ultima doverosa raccomandazione riguarda la sicurezza alimentare. La carne di cinghiale può provenire da allevamento o da caccia: in quest'ultimo caso è opportuno verificare che sia stata sottoposta ai test di laboratorio del caso, in particolare all'esame trichinoscopico per verificare l’assenza del parassita responsabile della trichinellosi (circa 200 casi accertati in Italia dal 1980 a causa del consumo di cinghiali provenienti da caccia), una malattia che comporta disturbi nervosi e muscolari anche a carico del cuore.
Tagliate preliminarmente la carne in bocconi: i tagli da preferire per questa ricetta sono lombo e spalla. Poiché quest'operazione è ovviamente difficile a crudo, è meglio chiedere al macellaio di farlo ove possibile. A taglio avvenuto, riversate in un contenitore capiente e condite con solo sale e pepe, dopo di che fate riposare per alcune ore (almeno 5, 10-12 sarebbe ideale). Al termine di questo periodo affettate i peperoni, i funghi e la cipolla, soffriggeteli a fuoco medio per 10 minuti, quindi unite il soffritto ai bocconi di carne aggiungendo mezzo litro d'acqua; mescolate per bene e riponete in una pentola nella quale avrete precedentemente versato gli altri due cucchiai d'olio, fate cuocere a fuoco medio per 2 ore circa per poi sfumare gradualmente con il Nero d'Avola continuando a cuocere per un'altra ora.
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Fritture a go imp_15 13/01/17 12:17 Pagina 34
Fritture di Anna Statello
N
on c’è stagione per la frittura, una delle grandi protagoniste della cucina siciliana. Su questo metodo di cottura, parte della nostra tradizione da secoli, esiste oggi una maggiore consapevolezza sia sulla sua pericolosità per la salute che sugli accorgimenti da adottare per una corretta e quanto più sana possibile realizzazione. È ormai risaputo che per la migliore riuscita della frittura la scelta del tipo di olio da utilizzare è fondamentale; è necessario quindi imparare a conoscere le proprietà chimico-fisiche degli oli e l’importanza del loro punto di fumo, ossia la
a Pastell i birra d o t vi con lie ola
a go-go
temperatura in cui, una volta riscaldati, inizieranno a bruciare, decomporsi e produrre fumo in modo continuo. L’intervallo ideale per friggere è compreso tra 160°180°C, dato che queste temperature permettono di ottenere la migliore cottura dei cibi, evitando però che si liberino sostanze tossiche dannose per il fegato; è proprio perciò che l’utilizzo del termometro da cucina diventa indispensabile per realizzare una buona frittura. Per quanto riguarda la scelta del miglior tipo di olio da utilizzare per friggere, invece, il dibattito è ancora piuttosto acceso: c’è chi sostiene che il candidato
a ciot te in un hero Mescola irra e lo zucc ete fatto b i od he av il lievit poca acqua c idire. i ngetev nti e intiep e aggiu cedentement uesti ingredie q i pre mat etaccio amalga a passata al s a lt o v Una farin gete la ’acqua aggiun e il resto dell rgicamente. e e ndo asto n e l’imp are aggiunge t a r o v r o to e la s v a la p a e l’im uate Contin ino a ch orbido, s le a s anche il omogeneo e m vitare e non sia é lasciate a li ore, h ic ue d d o r dop o pe o tiepid e non sia g o lu in il volum to. finché pia raddop
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ideale sia l’olio extravergine di oliva, in quanto contiene una percentuale di grassi monoinsaturi (i più stabili) che arriva al 75% e un punto di fumo molto elevato (210°C); ma ad alte temperature l’aroma e le sostanze che lo rendono pregiato si degradano molto, per cui è consigliabile solo nel caso di fritture a basse temperature (come ad esempio nei soffritti). Un’altra scuola di pensiero invece individua, tra gli oli di semi, quello di arachidi come il più stabile: ha il suo punto di fumo a 180°C, una percentuale di grassi monoinsaturi del 50% (secondo solo all’olio extravergine di oliva) e di con-
P con lie astella vito na turale Qu
est e più te o procedime n mpo, c onvien to utiliz Anche se richie zarlo circa 12 e prepararlo ed ore dop de uno della p astella sforzo o. è più s aporita in più, questa conserv e perm version Ponete e a e 200 gr di lievit zione del pro tte una miglio dotto. r o e n a t e u lasciate r Sciogli lo a rip ale già matur etelo o in un oso per aggiun quindi con l’ acqua a circa tre ore. a ciotola gete, n ell e la far t ina pas ’ordine, lo zu emperatura a sata al m cchero, finché s etaccio il lievit biente ed l’impas . o I t m di b o p n sale, co a ntinua on abbia pres state energic irra ndo a la amente o form a v un com orare ancora ; aggiungete il posto o f Ponete mogen ino a ottenere quin eo. tiepido di a lievitare in un lu fino a non ab quando l’imp ogo bia rad asto il suo v doppiato olume. richied
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Fritture a go imp_15 13/01/17 12:17 Pagina 35
seguenza una buona resistenza all’ossidazione e al calore. Naturalmente, a prescindere da tutto, ci sono anche delle raccomandazioni e degli accorgimenti fondamentali da seguire quando si frigge: bisogna evitare di salare i cibi durante la frittura stessa, in quanto la presenza di sale accelera l’alterazione dell’olio; non bisogna mai superare i 180°C di temperatura e mai procedere alla ricolmatura, ossia l’aggiunta di nuovo olio a quello già usato; è piuttosto buona norma sostituirlo quando ci si accorge del suo imbrunimento e procedere all’ eliminazione di ogni residuo del vecchio olio e di briciole carbonizzate, poiché la presenza di queste rimanenze accelera il deterioramento del nuovo olio immesso. Infine per ottenere una cottura omogenea è bene friggere in una adeguata quantità di olio pochi cibi alla volta, perché diversamente si corre il rischio di un inevitabile calo della temperatura dell’olio, il che provoca il suo assorbimento negli alimenti senza che si completi la frittura. Un altro annoso problema, che non riguarda solo i ristoratori, è quello dello smaltimento dell’olio di frittura esausto. La consuetudine di gettarlo negli scarichi domestici, com’è ormai noto, è pericolosissima: questo prodotto non è un rifiuto biodegradabile e crea grande danno sia infiltrandosi nelle falde acquifere che attraversando la rete fognaria ed i depuratori (di cui può compromettere il funzionamento). In ogni caso se smaltito scorrettamente va a finire in mare. Qui, l’olio, non essendo idrosolubile, forma una patina che impedisce ai raggi solari di penetrarlo, nuocendo gravemente all’ecosistema marino. Il corretto smaltimento dell’olio di frittura esausto va fatto seguendo precise e • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
semplici indicazioni: va fatto raffreddare e quindi posto in un contenitore che, una volta riempito, va portato nelle apposite isole ecologiche. In Italia dal 2001 il Conoe (Consorzio Obbligatorio Nazionale di raccolta e trattamento oli e grassi vegetali e animali esausti), promuove i progetti per il corretto smaltimento di oli e grassi animali nel rispetto delle attuali normative in materia di inquinamento e cerca di sensibilizzare il pubblico sul tema della raccolta e del recupero, laddove possibile, di questi prodotti di scarto. Una volta preso atto di tutti questi accorgimenti, va detto che una frittura ben eseguita e assunta sporadicamente non va demonizzata. La tradizione siciliana è ricca di ricette che hanno come protagonista la frittura; alcune sono rinomate a livello internazionale, come gli arancini o (le arancine), orgoglio dello street food isolano e reperibili in qualsiasi periodo dell’anno; altre mantengono ancora un carattere fortemente locale e la loro realizzazione è decisamente legata ai periodi di festa, come ad esempio le crispelle con l’acciuga e con la ricotta (crispeddi c’angiova e ca ricotta), praticamente obbligatorie sulle tavole natalizie di tutta la provincia di Catania, o le zeppole di riso, dolce ufficiale e del giorno di San Giuseppe e quindi della festa del papà. Infine ci sono le fritture legate alla stagionalità di alcuni prodotti, come ad esempio tutte le varianti di verdure in pastella, che hanno per protagoniste cardi, broccoli e carciofi. In ogni caso, nella memoria di ogni famiglia siciliana, la frittura è legata a momenti di condivisione e al piacere di preparare una ricetta sfiziosa da consumare sul momento, insieme.
Cavolfiore e cardi in pastella Ingredienti • cime di cavolfiore • cardi • limone • olio di semi di arachidi Per la pastella con lievito di birra • 500 gr di farina 00 • 15 gr di lievito di birra • 2 cucchiaini rasi (da caffè) di zucchero • 10 gr di sale • 325 ml di acqua Per la pastella con lievito naturale • 500 gr di farina 00 • 3 - 4 gr lievito di birra • 200 gr di lievito naturale • 2 cucchiaini rasi (da caffè) di zucchero • 5 gr di sale • 600 ml acqua Procedimento Lavate le cime dei cavolfiori sbollentateli in acqua salata. Scolateli bene e lasciateli da parte a raffreddare. Pulite i cardi e immergeteli in acqua e limone per evitare che si ossidino e diventino troppo scuri (eventualmente lo stesso procedimento di può seguire anche per i cuori di carciofo). Sciacquateli e sbollentateli in acqua salata; come per i cavolfiori, scolateli quando saranno al dente e lasciateli da parte a raffreddare. Riscaldate abbondante olio di semi di arachidi a 170°-180°C e quando sarà giunto a temperatura immergete le verdure nella pastella e procedete alla frittura un pezzo per volta. Alla completa ed omogenea doratura della pastella, scolate su un panno carta l’olio in eccesso e servite ancora tiepidi.
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Merluzzo imp._16 13/01/17 12:19 Pagina 36
Pesce stocco o baccalà... di Maria Grazia Sclafani
G
adus morhua, nome da manuale, merluzzo, il nome d’uso comune. Di ricette per preparare questo pesce ne è pieno il mondo: bollito, fritto, in umido o assemblato in deliziose polpette. È un alimento ricco di proteine e sali minerali, povero di grassi saturi e con un buon contenuto di omega3. Un cibo prezioso per la nostra salute e per questo motivo consigliato nelle diete ipocaloriche se consumato al naturale. Ma non si può parlare di merluzzo senza occuparsi anche dei suoi derivati più famosi, il baccalà e lo stoccafisso, conservato mediante salagione il primo, mediante essiccazione il secondo. La storia di questi metodi di conservazione si intreccia con quella delle grandi esplorazioni. Primi pescatori di merluzzo furono i Vichinghi. I mari norvegesi, ricchissimi, fornivano ai navigatori un alimento perfetto per le loro esigenze: nutriente, leggero e a lunga conservazione. Una volta pescato, il pesce veniva fatto essiccare all’aria aperta e così, disidratato, era adatto ad essere consumato durante i lunghi viaggi in mare. Nacque in questo modo lo stoccafisso, da stock, legno e fish, pesce. Per il baccalà dobbiamo invece ringraziare i navigatori baschi, i quali giunsero nei mari del Nord andando a caccia di balene. Inseguiti, i grandi cetacei guidarono involontariamente i loro aguzzini nel bel mezzo dei Grand Banks, dove trovarono fitti banchi di merluzzo che conservarono utilizzando, però, un metodo diverso: lo misero sotto sale. In Italia invece il baccalà arrivò grazie ad un caso fortuito: nel 1432 il veneziano Pietro Querini naufragò in Norvegia, nelle isole Lofoten, dove ebbe modo di osservare la pesca del merluzzo e apprenderne le varie tecniche di conserva-
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è sempre merluzzo zione. Al suo ritorno in patria portò con sé le preziose scoperte: neanche a dirlo, fu un successone. In Sicilia il suo arrivo risale alla metà del XVIII secolo. Palermo e Messina, avendo empori come città marinare, preferivano scambiare questo alimento con altra merce locale. Ancora oggi il baccalà nella parte occidentale dell’Isola e a Palermo è importato da Norvegia e Danimarca e considerato come prodotto di scambio con il sale trapanese. Il pesce stocco è retaggio delle navi norvegesi che facevano sosta nel porto di Messina per rifornimento ed operazioni di dogana. Qui i marinai scambiavano con la popolazione locale il merluzzo pescato in navigazione e appeso sui pennoni delle vele perché seccasse al vento e al sole. I cuochi francesi fecero il resto, insegnando ai Messinesi a cucinarlo, loro grandi estimatori e in parte anche produttori di merluzzo salato. Gli abitanti
dello Stretto, quindi, vanno matti per lo stoccafisso, i Palermitani per il baccalà. Sia che il baccalà che il pesce stocco hanno un forte e tipico odore che scompare quasi del tutto con l’ammollo: ecco perché è importante farlo prima dell’utilizzo in cucina. In più lo stare in acqua e il continuo ricambio di quest’ultima fa perdere il sale, nel caso del baccalà, e fa sì che il pesce idratandosi si rigonfi divenendo più morbido, nel caso dello stoccafisso. Ancora oggi, nell’antico mercato palermitano del Capo, è particolare vedere il pesce salato in acqua: questa sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza di stagno, dove i grossi pezzi bianchi si ammollano e dove, in base alla stagione, il “saliaturi” o il pescivendolo è solito
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Sono due i metodi di conservazione per lo stesso pesce: sotto sale secondo il sistema usato dai navigatori baschi ed essiccato come facevano i Vichinghi
spezzare quel biancore con la presenza di un grosso pomodoro oppure da un ravanello. Si tratta di un piccolo espediente messo in atto per attirare l’attenzione delle massaie. Una chicca: annessa alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno al Capo, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso da un magazzino, nel periodo bellico era utilizzato per conservare il baccalà che poi veniva rivenduto nel vicino mercato. Al suo posto, oggi, sorge una fio-
rente pescheria, punto di riferimento per i palermitani doc che cercano i sapori di un tempo. Riconoscere il baccalà migliore sul banco della pescheria non è una cosa semplice. A seconda delle stagioni e delle zone in cui viene pescato il merluzzo possiede infatti diverse qualità. Aguzzando la vista però, è possibile ridurre il margine d’errore. Il pesce non dev’essere mai più corto di 40 cm e deve avere uno spessore di almeno 3 cm nella parte centrale. Badate che la pelle sia chiara, la polpa traslucida, morbida, elastica e di colore bianco, mai giallastro. Attenzione però che il bianco non sia troppo “candido”, questo potrebbe essere indice di un trattamento sbiancante a base di calce e quindi pericoloso per la salute. Il baccalà è considerato il pesce della vigilia dell’Immacolata e di Natale, anche se, grazie alle sue proprietà nutritive, soprattutto a Palermo, il baccalà si mangia tutto l’anno, spesso in sostituzione della carne. La ricetta più popolare e maggiormente diffusa tra i palermitani rimane certamente quella più semplice, oltre che più economica: il baccalà “vugghiutu” (lessato), in bianco, con olio e limone ed una spolverata di prezzemolo. A conferma che i siciliani a tutto possono rinunciare, ma non al buongusto. Almeno a tavola.
Polpettine di baccalà Ingredienti • 600 gr di baccalà dissalato • 200 ml di latte, 25 gr di burro • 50 gr di pinoli, 1 spicchio d’aglio • 2 cucchiai di pangrattato • farina q.b. • 1ciuffetto di prezzemolo • 2 uova, 200 ml di olio per friggere Procedimento Lavate il baccalà e fatelo cuocere in 2 litri di acqua per circa 30 minuti; scolatelo e poi sminuzzatelo togliendo pelle e spine. Preparate il purè mettendo 200 ml di latte e un pò dell'acqua di cottura del baccalà, unite il burro e poi anche il baccalà sminuzzato, i pinoli, il pangrattato, l'aglio tritato, il prezzemolo tritato e le uova sbattute a parte; impastate, aggiungete il sale e formate delle polpettine, infarinatele una per una scrollando la farina in eccesso. Scaldate l'olio per friggere in una padella dai bordi alti e, poche per volta, friggete le polpette di baccalà, rigirandole per circa 5 minuti. Scolate le polpette sulla carta da cucina e servitele.
Pesce stocco alla ghiotta Ingredienti • 1 kg di stoccafisso già dissalato e diliscato • 1 kg di patate, 3 cucchiai di capperi sotto sale ben dissalati • 1 cuore di sedano, 1 cipolla grande • 20 olive verdi in salamoia ben sciacquate, denocciolate e tagliate a metà • 750 ml di passata di pomodoro • 6 cucchiai da tavola di olio extravergine d'oliva • sale e pepe nero q.b. Procedimento Versate l'olio extravergine d'oliva in una pentola, meglio sarebbe una pentola leggera in alluminio, unite la cipolla affettata finemente, le olive, il sedano a tocchetti ed i capperi. Fate soffriggere il tutto a fuoco medio evitando di far bruciare la cipolla. Quando gli ingredienti in pentola inizieranno appena a prendere colore, aggiungete la passata di pomodoro, quindi salate e pepate. Aggiungete, a questo punto, le patate tagliate a pezzettoni, aggiungete un po' di acqua fino ad arrivare al filo delle patate, coprite la pentola con un coperchio e lasciate cuocere a fuoco basso per 40-45 minuti o fino a cottura delle patate. Qualora il sugo si dovesse restringere troppo, diluitelo con un mestolino d'acqua calda. Non mescolate mai la preparazione, ma scuotete la pentola di tanto in tanto. Servite il baccalà alla messinese ancora ben caldo.
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Chef Graziano Barrale imp_17 13/01/17 12:20 Pagina 38
Storie e ricette di chef siciliani C
hef che dalla Sicilia sono partiti e che qui, appena possono, ritornano per ritrovare le proprie radici. Nessun luogo è migliore, per incontrare personaggi e storie da raccontare, del palcoscenico di Cibo Nostrum, nella location più nota della Sicilia, Taormina e l’Etna, che in un week d’inizio estate è stata in-
vasa da “cappelli bianchi” provenienti da tutta Italia. Sotto la regia dello chef taorminese stellato Pietro D’Agostino, tra un trionfale pesce spada tagliato in piazza dalle abili mani degli addetti ai lavori, immancabili dolci alla frutta secca a km0, il ritorno alle focacce mediterranee e ad antichi grani. Nella folla di volti, tra chef
di Maria Laura Crescimanno
di fama e giovani promesse, abbiamo scelto due proposte culinarie legate al pesce azzurro, due chef che con la semplicità e l’alto profilo dei piatti proposti, ci hanno lasciato un messaggio sul futuro di questa professione in ascesa, legata al messaggio dell’eccellenza della cucina siciliana nel mondo.
Chef Pino Graziano Uscito dalla scena mediatica ormai da anni, partecipa solo a manifestazioni a scopo benefico. Questo nuovo modo di svolgere la professione, di stupire a tutti i costi anziché curarsi di mantenere le tradizioni, non tralasciando l'innovazione, finirà con il globalizzare il tutto. “La cucina non appartiene al quotidiano soltanto, alla storia di breve durata – spiega a Sapori di Sicilia Pino Graziano – ma è fatto storico di lungo periodo, è un marchio che gli individui si portano dentro non solo dalla culla alla morte ma nel susseguirsi di generazioni. Da qui il valore di identificazione e della propria identità etnica. Il modo di mangiare è quello che gli uomini scelgono più frequentemente, per affermare la propria originalità di fronte agli altri. Stiamo attenti a non distruggere cultura ed identità”. Quella cultura e identità che si sentono a perfezione nella sua insalata dai contrasti delicati tra il formaggio ed il pesce salato, un piatto completo e di personalità al tempo stesso.
Chef Paolo Barrale Paolo, sorriso aperto, origini siciliane, ha una grande scuola alle spalle. La sua cucina è essenziale, senza banalità, moderna senza fuochi d’artificio. I suoi piatti sono espressione, sunto e, insieme, ricordo di tanti momenti della sua vita, dell’infanzia in Sicilia, di cui è rimasto emblematico il profumo del brociolone al sugo di sua madre, alle esperienze a Roma in una brigata internazionale. Adesso Paolo, da anni in Campania, continua a lavorare con i prodotti del Mediterraneo, e dirige un elegante locale di design con vista sull’Irpinia, il Marennà. Un luogo che diventa anche occasione di incontro e confronto, dove i profumi i colori intensi e i sapori autentici sono i protagonisti e dove un attento showcooking svela agli ospiti i gesti e le tecniche della brigata di cucina. Incontrato a Taormina, nel bel mezzo della festa di Cibo Nostrum, lì ha portato la leggerezza e l’antico sapore della sua “nuvola”. Non può che attirare l’attenzione questa leggera e appena saporita suggestione di mare e terra che annuncia la primavera e la cultura mediterranea, sia essa di Sicilia o di Campania. Un meridione dove forti si sentono ancora le comuni radici.
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Misticanza di stagione
“Nuvola” di pecora al pesto di erbe
Chef Pino Graziano
Chef Paolo Barrale
Ingredienti per 4 persone
Ingredienti per 4 persone
• 300 gr insalatine miste • 400 gr ventresca di tonno • 4 mozzarelle di bufala • 4 pomodori secchi • 1 cucchiaino di sfere di acciughe salate o tagliate a cubetti • 2 cucchiai di bottarga di tonno • 1 cucchiaino di pinoli • 1 cucchiaino di mandorle tritate • la scorza di un limone, solo la parte gialla. • olio extravergine di oliva • 200 gr sale grosso • 200 gr zucchero • 10 foglie di menta • 1 cucchiaino di grani di pepe nero
Per la nuvola: • 180 gr di ricotta di pecora asciutta • 20 gr di panna • 60 gr albume • sale e pepe q.b. • 50 gr finocchietto • 50 gr borragine • 50 gr scaroletta • 50 gr papavero selvatico • 10 gr cipollotto, • olio extravergine di oliva, • tartufo estivo o in alternativa bottarga grattugiata
Procedimento
Procedimento
Mettete a marinare la ventresca con il sale e lo zucchero in egual misura, il pepe nero e le foglie di menta per 12 ore. Passate le 12 ore, lavate ed asciugate. Per la polvere di pomodoro: mettete i pomodori al forno a 80°C per 3 ore, frullate e passate al setaccio.
Passate al cutter i vari ingredienti della nuvola regolate di sale e formate dei palloncini da 50 gr con la pellicola alimentare. Cuocete al forno a vapore per 10 minuti circa a 85°C. Per la crema, rosolate il cipollotto con un goccio di olio nuovo, unite uno spicchio d’aglio e le verdure precedentemente sbollentate, ripassate velocemente e passate tutto al cutter, eliminando l’aglio, passate a conetto cinese e poi regolate di sale. Velate il fondo di una ciotola con la crema di erbe sormontate con la ricotta, grattugiate il pecorino, il tartufo o la bottarga ed infine regolate con olio e le erbe fresche.
Pesto di bottarga: mettete nel frullatore i pinoli, le mandorle, le scorze di limone e olio quanto basta, frullate il tutto. Deve risultare una crema liscia, omogenea. Presentazione: mettete l'insalatina da un lato del piatto. Con un coltello affilato tagliate 2 fettine di tonno e adagiatele sull'insalata. Tagliate la mozzarella a metà, mettete sopra qualche pezzetto di acciuga e polvere di pomodoro. Ai lati fare un giro di pesto di bottarga. Condite il tutto con dell'olio di extravergine di oliva.
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Per guarnire: • Fiori di cipollina, finocchietto, cerfoglio
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Dalle cucine dei ristoranti siciliani ristorante
ristorante
Contrada raviola Capri leone (Me) tel. 0941 919704
Via principe umberto, 46 noto (Sr) tel. 0931 571151
Crocifisso
Antica Filanda
Chef Nuccia Triscari
r i C e t ta
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CappuCCino di funghi porCini Con panna di robiola, dadolata di porCini trifolati e pane toStato
Cuore di baCCalà Con patata ai Capperi, datterino e porro CroCCante
Ingredienti per 4 persone 400 gr di funghi porcini 100 gr di patate 50 gr di porri sale, pepe nero, olio extravergine di oliva rosmarino, robiola fresca, latte fresco, pane tostato Procedimento Mettete in un tegame le patate, il porro e 300 grammi di funghi porcini (lasciandone quindi da parte 100 grammi per preparare la dadolata). Aggiungete l'olio extravergine di oliva e fate soffriggere, quindi salate e pepate gli ingredienti. Aromatizzate con il rosmarino e cuocete il tutto per circa 30 minuti a fuoco basso. Nel frattempo preparate la panna di robiola montandola con il latte fresco e, appena pronta, inseritela in una sac a poche. In un'altra padella scaldare l'olio extravergine di oliva con uno spicchio d'aglio e trifolate i funghi porcini tagliati a dadini, che serviranno per ultimare il piatto. Appena è pronto il primo composto, frullarlo con il mixer ad immersione fino ad ottenere una vellutata liscia ed omogenea. Quindi mettere il composto in una tazza come se fosse un cappuccino. Decorare infine con il pane tostato e la dadolata di porcini trifolati.
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Chef Marco Baglieri
Ingredienti per 4 persone 4 filetti di cuore di baccalà varietà Morro, 250 gr patate a pasta gialla, 50 gr capperi di Salina, polvere di olive nere (olive disidratate mix con pane in frullatore), 10 pomodori datterini, timo, olio extravergine di oliva, sale, aglio, prezzemolo un cipollotto, un porro, farina grano duro, olio di semi di girasole per friggere Procedimento Marinate i filetti di Morro (baccalà) con uno spicchio d’aglio, timo e olio extravergine di oliva. Cucinate a bassa temperatura (circa 52°C) per 40/45 minuti. Lessate le patate, schiacciatele e conditele con un’emulsione di capperi ed olio extravergine di oliva. Aggiustate di sale e tenete in caldo. Sbollentate i pomodori in acqua bollente, freddarli in acqua e ghiaccio e spellateli. Dividete a metà, private dei semi e tagliate a losanghe i filetti ottenuti. Nel frattempo scaldate in un pentolino l’olio d’oliva, il cipollotto a rondelle, l’aglio e il prezzemolo, aggiungete i filetti di pomodoro e cucinate bagnando con poco brodo vegetale. Regolate di sale ed infine aggiungete un pizzico di polvere di olive nere. A questo punto pulite i porri privandoli delle parti più dure e tagliateli a julienne. Sbollentate i porri in acqua leggermente salata per pochi secondi e freddateli in acqua e ghiaccio. Asciugate ed infarinate con la semola di grano duro. Friggete in olio a 170°C aiutandosi con delle pinze da cucina in modo da formare un nido. Asciugate su carta assorbente. Salate. Per la composizione del piatto adagiate una quenelle di patate ai capperi, a fianco mettete un cucchiaio di pomodorino ed adagiarvi sopra il filetto di baccalà sgocciolato. Completate con un nido di porri croccanti ed un giro di olio evo.
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ristorante
ristorante
Corso dei Mille, 105 alcamo (tp) tel. 0924 507979
Via rammacca, 22 bagheria (pa) tel. 091 932115
La Giara
Chef Dario Ciccia & Francesco Perna
Saperi e Sapori
Chef Salvatore Lipari
r i C e t ta
r i C e t ta
tortelli ai CaVuliCeddi ai profuMi di SiCilia
tartelletta Con Mele al roSMarino e gelato al CalVadoS
Ingredienti per 4 persone Per la pasta: 200 gr farina 00, 2 uova Per il ripieno: 250 gr di cavuliceddi, 200 gr ricotta di pecora, sale e pepe q.b. Per la fonduta: 100 gr vastedda del Belìce, 1 dl latte, due cucchiai di panna, pomodorino Pachino essiccato, patè di olive nere, riduzione di erbette di campo Procedimento Pulite i cavuliceddi dalle foglie esterne e lavateli in acqua fredda, portateli ad ebollizione in abbondante acqua e fate cucinare per circa 30 minuti. Scolate la verdura e lasciatela raffreddare, quindi strizzatela ed amalgamatela con la ricotta, sale e pepe a piacere. Ponete in frigo l’impasto così ottenuto. Nel frattempo formate una fontana con la farina, creando al centro lo spazio necessario per accogliere le uova. Versate all’interno della fontana le uova ed eventualmente l’acqua. Mescolate bene le uova al centro con una forchetta sino ad amalgamarle completamente aggiungendo gradualmente la farina dal bordo della fontana e continuando a mescolare con un movimento circolare. Quando la maggior parte della farina sarà stata incorporata nella massa, cominciate a lavorare con le mani per ottenere un composto omogeneo. A questo punto formate una palla con l’impasto e fatela riposare 20 minuti, ben coperta da pellicola per alimenti. Trascorso il tempo di riposo, lavorate l’impasto con il mattarello fino ad ottenere una sfoglia di 2 mm di spessore, tagliare la pasta con la rotella tagliapasta fino a formare delle strisce larghe 6 cm. Disporre un cucchiaino di ripieno nella parte destra della striscia ripiegate la sinistra sull’ impasto e chiudete. Con il dito schiacciate bene tra un mucchietto di ripieno e l'altro e con la rotella tagliapasta eliminate la pasta in eccesso ricavando dei tortelli con la rotella che porrete sopra ad un piano infarinato. Per ottenere la fonduta ponete il latte, la vastedda tagliata a dadini e la panna in una casseruola e sciogliete a fuoco lento lavorando il composto con una frusta fino a quando si otterrà una consistenza cremosa. Cuocete i tortelli in acqua salata per circa 4 minuti, quindi scolateli e passateli in padella insieme alla fonduta. Saltateli per un paio di minuti e impiattate. Tagliate a striscioline 5 pomodorini e decorate il piatto con gocce di erbetta e gocce di patè di olive.
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Ingredienti Pan di Spagna (che potrete comprare già fatto) Per la crema pasticcera: un tuorlo d’uovo, 230 gr di zucchero semolato, 35 gr amido di mais, 1 lt di latte intero, una bacca di vaniglia Per le mele al rosmarino: 1,5 kg di mele gialle, 50 gr di burro, 100 gr di zucchero semolato, 200 gr succo di mela, 2 gr di rosmarino Per il gelato al Calvados: 1 lt di latte intero, 250 gr di zucchero semolato, 150 gr di tuorlo d’ uovo, 100 ml di liquore Calvados, 3 gr di stabilizzante, 200 gr di panna Procedimento Per la crema pasticcera: portate a bollore il latte con metà dello zucchero, la polpa e la bacca della vaniglia. Mescolate i tuorli con lo zucchero, unite la farina e l’amido, versate il latte caldo e portate ad ebollizione e continuate per circa 2 minuti. Per le mele al rosmarino: sbucciate le mele e tagliatele a spicchi. Riscaldatele in una padella antiaderente e aggiungete il burro facendole rosolare per bene. Fiammate con Calvados, fate evaporare e unite lo zucchero, il rosmarino e lasciate caramellare. Infine aggiungete il succo di mela. Per il gelato al Calvados: scaldate il latte a 40°C, unite lo zucchero miscelato con lo stabilizzante e i tuorli. Portate il tutto a 85/90°C. Lasciate riposare il composto per circa 2 minuti e unite la panna e il Calvados lasciandolo raffreddare per 12 ore. Formate delle palline e mettere in freezer. Composizione del dessert: al centro del piatto posizionate, con l’aiuto di un coppa pasta, uno strato di pan di Spagna, inserite uno strato di crema pasticciera, copritela con le mele e mettete intorno la salsa ricavata dalle mele spadellate. Decorate con del rosmarino fritto e dello zucchero a velo. Servite con accanto una pallina di gelato al Calvados magari adagiata su una fetta d’arancio.
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Ricetteria
di Bonetta dell’Oglio L
a pasta di grano duro di Sicilia fatta a mano nell’Isola si è da sempre impastata senza uova, proprio per la forza che il grano duro porta nelle sue intrinseche qualità. La Sicilia e i suoi contadini selezionano e hanno selezionato grano da millenni, una preziosa sapienza che purtroppo stiamo perdendo. Oggi riguardo al grano e alle farine è più che mai è importante essere autonomi e svincolati dalle logiche commerciali: autoprodursi le sementi significa non solo essere autonomi, ma potere scegliere la qualità che dipende non solo dal metodo di coltivazione, ma anche dalla qualità dei grani coltivati. Laddove riesco, lavoro soltanto con farine prodotte da varietà antiche di grani duri siciliani. Le paste che presento sono fatte con farina di Russello e di Tumminia, una bianca, l’altra nera, la cupola è realizzata con grano duro spezzato anch’esso di antiche varietà siciliane. A queste ricetta allego un invito: impariamo a rieducare i nostri palati e a riconoscere il sapore del grano, dell’olio e anche del formaggio che si metteva quando si faceva festa.
Cupola araba (versione di terra) Ingredienti per 4 persone • 200 gr di grano duro spezzato (Tumminia o Bidì) • 4 stampini a forma di cupola • 1 cipolla piccola • 20 gr di olio di oliva extravergine • sale e pepe q.b., brodo vegetale • 100 gr di pangrattato Per il ripieno • 1 carciofo spinoso, 20 fave fresche • 1 cipollotto, una costina di sedano • 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva • 30 gr di caciocavallo fresco • sale e pepe q.b. Per il latticello • 60 gr di caciocavallo semistagionato • 220 gr di latte intero fresco Procedimento Stufate la cipolla con un poco d’acqua, appena sarà cotta e l’acqua completamente asciugata, versate l’olio e aggiungete il grano spezzato. Cuocete il grano come un classico risotto, aggiungendo pochissimo brodo vegetale per volta, regolatelo di sale e appena sarà cotto (10 minuti circa) raffreddatelo. Quando sarà freddo utilizzate gli appositi stampi, riempiteli di grano, fate pressione sulle pareti della formina e lasciate il buco per accogliere il ripieno. Per preparare il ripieno, mondate accuratamente il carciofo, le fave, il cipollotto e il sedano. Tagliate tutto a piccoli dadini, mescolate a crudo e riempite il cuore delle cupole, che poi andranno sigillate con una parte di grano cotto, sformatele e passatele a mollica. Infornate le cupole a 180°C per 8 minuti. A parte avete preparato il latticello con il latte e il formaggio. Cuocete il formaggio tagliato a pezzi, a fiamma bassissima nel latte per 30 minuti (ideale è tenere il latte a 70°C), raffreddare e filtrare. Per impiattare, versate prima un mestolino di latte e ponete la cupola al centro del piatto. Servite ben caldo con il cucchiaio.
Maccheroncini bianchi e neri all’olio di Nocellara del Belice con mollica profumata alle erbe di Sicilia Ingredienti per 6 persone • 250 gr di farina di grano Russello • 250 gr di farina di grano Tumminia • 125 gr di acqua circa (gli impasti sono da fare separatamente) Per il condimento • 100 gr di olio di Nocellara del Belice • 100 gr di pangrattato di pane di Tumminia • nepetella, rosmarino e salvia, sale e pepe q.b. Procedimento Predisponete la farina a fontana e iniziate a versare l’acqua, impastando energicamente. L’impasto finale deve essere molto compatto e risultare faticoso da lavorare. Fate un panetto e lasciatelo riposare per mezz’ora. Poi stendetelo con un mattarello fino allo spessore di un cm e tagliate delle striscioline larghe un cm e ancora tagliate dei quadratini da un cm. Questa è la preparazione per i maccheroni. A questo punto entra in gioco l’utilizzo di un bastoncino di legno o di ferro, il buso. Avvolgete il quadratino di pasta intorno al buso e strofinate energicamente - ma senza pressare troppo - tra il palmo della mano e il piano dove lavorate che deve essere rigorosamente di legno. Il risultato deve dare l’impasto ben arrotolato intorno al buso, per una lunghezza di massimo 8 cm; lo sfilate staccandolo dal buso con estrema delicatezza. Sappiate che ne verrà fuori un impasto ottimale, soltanto se guidati da grande pazienza e dedizione. (In Sicilia per fare la pasta, le donne usavano riunirsi e lavoravano in comunità, questo alleggeriva la fatica e il lavoro dava un profondo senso di convivialità e allegria). È bene che la pasta riposi in un locale ben arieggiato per almeno mezza giornata, versatevi sempre della farina a pioggia per evitare che si attacchi. Per la cottura è necessaria acqua salata abbondante, versate quando bolle e lasciate cuocere per circa 3 minuti. Versate l’olio olio extravergine in padella, lasciatelo intiepidire e unite la pasta un po’ acquosa, aumentando la fiamma. Spadellate energicamente fino a che l’acqua non si asciughi ma sempre mantenendo un po’ il fondo di cottura cremoso, impiattate e rifinite con il pangrattato profumato. Per il pangrattato: tritate finemente qualche fogliolina delle tre erbette, unitela al pangrattato con un paio di cucchiai di olio extravergine e sempre girando tostatela per qualche minuto. Questa è una ricetta decisamente “basica”, che desidero promuovere per meglio conoscere il sapore del grano vero. Ovviamente l’olio può essere arricchito da ortaggi, formaggio ovino o vaccino per realizzare le tante ricette che in Sicilia le stagioni, insieme alle preziose mani delle nostre donne, ci hanno tramandato.
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SAN GIUSEPPE di Vanessa D’Acquisto
Il santo artigiano in Sicilia è patrono di ben 15 paesi. Gli altari, le tavolate e le vampe sono alcuni dei modi per festeggiare San Giuseppe
Polpette di sarde Ingredienti • 1 kg di sarde • 200 gr di pangrattato • 50 gr di uva passa e pinoli • 1 cipolla, 3 uova • olio extravergine d’oliva • farina, foglioline di menta • passata di pomodoro • sale e pepe q.b. Procedimento Pulite le sarde, togliendo la testa, la spina centrale e la coda, tagliatele finemente e in una ciotola impastatele insieme al pangrattato, la menta, le uova, sale e pepe. Formate le polpette (la grandezza a vostro piacimento) passatele nella farina e friggetele nell’olio d’oliva. In un tegame fate soffriggere la cipolla e unite la passata di pomodoro, salate e pepate e fate cuocere per 10-15 minuti a fuoco basso. Unite le polpette al sugo e fate cuocere per altri 15 minuti.
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tra vampe e tavolate I
l santo più popolare in Sicilia? Quasi sicuramente San Giuseppe. Santo Patrono di ben 15 comuni siciliani (Pitrè, al suo tempo, ne contava già 13), ma nell’Isola sono 150 i comuni in cui viene solennemente festeggiato. Per non parlare di tutte le comunità siciliane in America che rinnovano ogni anno i tradizionali festeggiamenti del santo artigiano. Tra tutte ricordiamo la festa organizzata dai siculiamericani di New Orleans. Fu Papa Sisto IV, nel XV secolo, a scegliere il 19 marzo come giorno dedicato al santo, mentre fu Papa Pio IX a proclamarlo santo patrono della Chiesa Cattolica l’8 dicembre 1870. Per l’iconografia cristiana il santo viene raffigurato come un vecchio di circa 60 anni, con barba e capelli bianchi, accompagnato da un bastone di legno con un giglio bianco (simbolo di purezza). Non è un caso, che in alcune città viene preparato un pane dedicato al santo chiamato “a varva”, la barba. L’iconografia più recente ha visto spesso sostituire la classica immagine del vecchio con quella di un giovane uomo, ma sempre con la barba. Questioni di opportunità. L’età avanzata raffigurata poneva dei problemi riguardo la verginità della Madonna: evoca, infatti, l’attuale triste e odioso fenomeno della pedofilia… San Giuseppe è considerato il protettore dei poveri, della categoria dei falegnami e padre della provvidenza (difatti lo stesso giorno è anche la festa del papà). L’adorazione in Sicilia è tanto forte tanto che il santo viene celebrato due volte l’anno: alla classica data del 19 marzo, si aggiunge un festeggiamento a fine estate. Questa doppia celebrazione è legata al ciclo agronomico: a marzo, la natura esprime tutta la sua energia per produrre; a fine estate, la terra si prepara al rigido inverno proteggendo il seme. Gli elementi comuni delle celebrazioni del Santo nell’isola sono il fuoco (le vampe), la mensa (le tavolate o altari) e la sacra rappresentazione della fuga in Egitto. A Palermo – racconta Giuseppe Pitrè – per impersonare la sacra famiglia venivano scelti un povero vecchio, un orfanello e una ragazza orfana e priva di dote. A fine pranzo ai tre “santi” venivano distribuito dei pani di forma diversa e quel che rimaneva del
banchetto. Ciò continua ad essere rappresentato ad esempio a Randazzo e Raddusa, in provincia di Catania. Lo stesso avveniva a Ribera, con una curiosità: ad ogni piatto offerto alla sacra famiglia, il padrone di casa rispondeva con un colpo di schioppetto, più erano le schioppettate più era considerato ricco, generoso e devoto. Ma chi non conosceva questa tradizione, riferisce il Pitrè, poteva avere il timore di trovarsi in mezzo ad una rivolta. Prima dell’inizio del banchetto questo veniva benedetto dal prete e a Palermo anche dal bambino che impersonava Gesù. A Leonforte, invece, il bambino Gesù, viene posto su una sedia in modo da dominare l’altare e benedice i presenti, la padrona di casa lava il piede destro con il vino, lo asciuga con un panno bianco e lo bacia, e di seguito Maria, Giuseppe e gli altri commensali. Poi si dà inizio al banchetto. Ad Alcamo, Casteltermini, Calatafimi, Poggioreale, la fuga in Egitto veniva rappresentata come una vera opera teatrale, seguita poi con la classica mensa. La mensa o banchetto o tavolata, come veniva chiamata nei diversi luoghi, costituisce l’elemento principale e caratteristico della festa di San Giuseppe. Si tratta di una struttura complessa a più gradini, con baldacchini, ricoperta di tovaglie di lino finemente ricamate, adornata con nastri di seta, alloro (simbolo della gloria del santo), rosmarino e rami di palma a cui sono appesi i pani e su cui sono adagiate prelibatezze di ogni tipo, ma anche primizie di frutta e verdura. Non devono mancare un mazzo di finocchio e le arance che, a banchetto concluso vengono distribuite alla sacra famiglia a banchetto concluso. I piatti rimasti, poi, venivano donati ai poveri della città. Oggi, invece, più che dividere il cibo rimasto, si allestiscono della mense comuni dove come a Capaci, in provincia di Palermo, viene distribuito a tutti gli abitanti il “minestrone di San Giuseppe”, minestra di verdure, broccoli, lenticchie, olio e pasta, oppure una minestra di fave secche. Altro elemento principale della festa sono i pani, utilizzati anche e soprattutto come decoro degli altari. A Salemi la preparazione stessa di questi pani, realizzati dalle donne della città che si riuniscono appositamente, costituisce una fase della celebrazione. Vengono preparati pani pre• MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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Sfinci
deriva e sfinci ” e dal Il nom g spon ia trambe “ o in t n dal la e ” che e nto dell sfoggia greco “ spugna, appu dano r ano rico signific morbide che nno e però fa ll i, e r t lt it a fr a l M a . ugna nome delle sp l’origine del ”, che risalire “sfang e arabo termin a una frittella . indic il miele ita con addolc
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parati a forma di croce, di frutta, di fiori e di animali. Perfino a forma di “M”, per ricordare Maria, la moglie di Giuseppe. Ad Alimena vengono preparati pani con la forma degli strumenti del falegname e di parti del suo corpo (mani, viso, barba). A Ribera, i festeggiamenti iniziano con la sfilata dei cavalieri, ognuno dei quali porta con sé un ramo d’alloro, il quale, poi, viene posto ai piedi della “stragula”, ossia una torre alta una decina di metri, posta sopra un carro trainato da buoi. Alla “stragula” vengono appesi grossi buccellati (cudduri) di pane che fanno da cornice al ritratto del santo. Ultimo elemento della festa è il fuoco e le vampe. Ancora presenti nei quartieri popolari di Palermo, le vampe attirano grandi e bambini. Accatastare e bruciare legno, mobili vecchi e fantocci di paglia, simboleggia il desiderio di cancellare e chiudere il periodo cupo dell’inverno e propiziare l’arrivo della primavera. La tradizione ha anche un’antica radice religiosa: le vampe servivano ad illuminare e scaldare il viaggio della sacra famiglia.
Sard a becca e fico
A Paler m molto r o il piatto pr elibato ic ercato cittadin e a erano dell’aristocra zia chiama dei pic coli ucc ti “becc e afico”. essend Il popo lletti o in lo, non grado d econom i ic mode n amente la vo soddisfare obiliari, glia di se sostitu con un irono g guire le ingred li ie uccell n t e alla lor sarde, o porta etti ingred eccelle ie ta: le n t e pove nza. In ro piatto n fatti la dispos per iz asce da lla volo ione del imitare n tà quello origina di le.
Carciofi cu tappu r’uovo Ingredienti per 6 persone • 6 carciofi • 4 uova • pangrattato (due cucchiai a carciofo) • un mazzetto di prezzemolo tritato finemente • 8 cucchiai di caciocavallo grattugiato (in alternativa si può usare anche il parmigiano) • sale e pepe q.b. • il succo di un limone • olio di semi d’arachidi per friggere • olio extravergine d’oliva q.b. Procedimento Pulite i carciofi, tagliate le punte con le spine e togliete le foglie dure. Batteteli su un piano rigido in modo da allargare le foglie. Con l’aiuto di un coltello eliminate “la barba” interna e tagliate i gambi. Metteteli in acqua e limone per evitare che anneriscano. Intanto sbattete tre uova e amalgamarle con il pangrattato, il prezzemolo tritato, il caciocavallo (o parmigiano) grattugiato e a pezzi un pizzico di sale e pepe. Imbottite i carciofi in modo che il ripieno penetri fino al fondo del carciofo e in superficie risulti ben compatto. A questo punto sbattete l’altro uovo, scaldate l’ olio di semi in una padella, passare i carciofi nell’uovo battuto in modo da “tapparli” e friggete per sigillare la farcia. Fateli rosolare anche dalle parti laterali e metterli a scolare su carta assorbente. A questo punto metteteli in una padella in cui metterete acqua evitando il “tappo”, due spicchi d’aglio e i gambi dei carciofi tagliati a pezzettini,aggiustate di sale e pepe. Quindi adagiatevi i carciofi, in modo che stiano in piedi, col tappo rivolto verso l’alto, cuocere per circa 15- 20 minuti. Quindi spegnete il fuoco, condite con un giro d’olio d’oliva e lasciateli insaporire ancora nel tegame a fuoco spento. Serviteli tiepidi accompagnati dal liquido di cottura.
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La Repubblica imp_21 13/01/17 12:26 Pagina 46
in giro per l’Italia con
le guide di Repubblica A
Roma esplorando le periferie, in Toscana seguendo intriganti itinerari in bicicletta, in Lombardia tra botteghe artigiane, ricette tradizionali e specialità del territorio. E poi in Basilicata e in Piemonte passando per Umbria e Veneto, precedute dalla Sicilia che ha riscosso il successo che meritava. Con le Guide regionali di Repubblica tutte le stagioni sono all’insegna del gusto. Alla scoperta di un’Italia segreta che continua ad affascinare turisti da ogni angolo del mondo. Manuali preziosi che narrano, in chiave giornalistica, la nostra penisola, discostandosi volutamente dalle tradizionali guide turistiche e dai voti di quelle enogastronomiche, per segnalare le unicità intime di ogni regione ancora oggi custodite gelosamente. “Le ammiraglie delle Guide di Repubblica – racconta il direttore delle Guide di Repubblica, Giuseppe Cerasa – sono ricche di indirizzi preziosi e di occasioni per conoscere territori mai fin troppo esplorati. L’inverno delle meraviglie enogastronomiche, e non solo, è iniziato il 29 novembre quando sugli scaffali delle librerie e sugli espositori delle edicole è arrivata la Guida ai sapori e ai piaceri di Milano e Lombardia. È proseguita il 2 dicembre con l’uscita della guida di Roma e Lazio ed finita il 22 alla vigilia della grande festa con l’ultima edizione dell’anno dedi-
cata a Torino e al Piemonte”. Le guide delle tre regioni diversissime tra loro, con mille storie da raccontare, centinaia di personaggi da scoprire, di percorsi da fare, sono state precedute da altre regioni d’Italia e tra queste non poteva mancare una particolare attenzione alla Sicilia. “Tutte le guide – continua Cerasa - hanno un denominatore comune: niente punteggi, solo storie, piccoli saggi di identità nascoste o conosciute che vengono alla ribalta perché legati ad un territorio, ad un modo differente di declinare la tradizione e di proiettarla nel futuro. Un carosello di personaggi, chef, agricoltori, bottegai del gusto, produttori di vino, titolari di b&b, di spa, ma anche percorsi, tanti, alla scoperta di parchi, laghi, piste da sci, campi da golf, mercati”. A queste si affianca un progetto speciale, il primo a carattere nazionale curato dalla redazione delle Guide di Repubblica. Si tratta di Autostrade Gourmet: Guida ai sapori e ai piaceri d’Italia 2017, un volume inedito, realizzato in collaborazione con Aiscat (l’Associazione Italiana Società Concessionarie Autostrade e Trafori), che attraversa l’Italia da Nord a Sud tracciando una mappa enogastronomica che racconta tutte le eccellenze raggiungibili da ogni uscita autostradale. Un vademecum indispensabile da custodire in auto per soste gourmet all’insegna del gusto.
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a cura di Manuela Zanni
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San Valentino
una festa tra storia e mito I
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l giorno di San Valentino è da sempre incorniciato da cuori romantici e candide immagini dell’amore platonico rappresentato dagli eterei fidanzatini di Peynet. Pochi sanno però che all’origine di questa festività ci sono leggende tutt’altro che caste e che San Valentino fu anch’egli un uomo innamorato, ma in forma assolutamente platonica. All’origine della festa di San Valentino sembrano esservi miti e leggende che con il sentimento “puro” dell’amore hanno ben poco a che fare. La leggenda narra, infatti, che questa ricorrenza sia nata dall’esigenza della Chiesa cattolica
mese particolare, perché in esso si manifestano i primi segni del risveglio della natura e segnava il passaggio dall’inverno alla primavera. La nascita degli agnelli, per esempio, rappresentava al contempo fortuna ma anche preoccupazione poiché i lupi affamati dal lungo inverno scendevano a valle minacciando le greggi. Così i pastori invocavano la protezione di Lupercus, dio della natura selvaggia, offrendo in cambio i loro formaggi. Lupercus era un fauno cacciatore di ninfe, prima figlio e poi sposo di Fauna – una delle tante sembianze attribuite a Madre Natura – che, come tutte le dee vergini,
mentre brandiva una clava da pastore. In suo onore gli antichi Romani celebravano ogni anno un’importante festa primaverile in onore del risveglio di Madre Natura, i Lupercalia, che si svolgevano proprio il 14 febbraio e con cui solevano propiziarsi buoni raccolti e la fecondità della terra e dei suoi abitanti. Il rito di purificazione veniva praticato in una grotta sacra a Luperco ai piedi del Palatino. Il rito era particolarmente cruento poiché prevedeva il sacrificio di animali con il cui sangue venivano “battezzati” due fanciulli dopo che i sacerdoti avevano offerto la mola salsa, ovvero farro
di porre termine ad un popolare rito pagano per la fertilità in onore del dio Lupercus che risaliva al IV secolo a.C., e a cui pare risalga l’origine dell’attuale festa degli innamorati. Gli antichi Romani avevano le loro divinità e i loro riti con cui celebravano i momenti più importanti del ciclo agricolo e pastorizio. Febbraio era considerato un
generò da sola il proprio figlio, e con cui, in seguito, si accoppiò. Al dio in questione, venne dato il nome Lupercus derivante dall’unione dei due termini latini lupus (lupo) e hircus (capra), per la sua duplice natura: lupo ma nello stesso tempo difensore del gregge dai lupi. Lupercus veniva rappresentato col flauto, la cornucopia, ricoperto da pelli di capra
tritato con il sale, preparata dalle vergini vestali. Una volta scuoiati gli animali sacrificati, indossatene le pelli e mangiatene le carni, i sacerdoti, detti luperci, correvano fuori dalla grotta seminudi, con i soli fianchi coperti da una pelle di capra, il corpo unto di grasso e il volto nascosto da una maschera di fango, brandendo lunghe fruste di cuoio ricavate dalla pelle
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Crostata di San Valentino Ingredienti
di capro, detta februa (da cui deriva il nome del mese di febbraio), in cerca di giovani donne da fecondare. Tutto ciò che veniva colpito dalla februa veniva purificato e reso fertile. Tant’è che le donne, per ottenere la fecondità, offrivano volontariamente il ventre alla frusta. Durante la festa era previsto un “sorteggio” a sfondo amoroso e sessuale. Da due urne distinte in cui erano inseriti i bigliettini da estrarre che riportavano i nomi delle giovani vergini e quelli dei giovani aspiranti uomo-lupo, ciascuno dei bambini “battezzati” durante il rito lupercale pescava un bigliettino: si formavano così le coppie, che con la benedizione di tutti, avevano a disposizione un intero anno per procreare per accrescere il bene della comunità. Il culto di Luperco era molto sentito ed i Lupercali rimasero una ricorrenza significativa per i Romani, anche dopo l’avvento del Cristianesimo. Questo antico rito pagano, infatti, fu celebrato fino al V secolo dopo Cristo, quando subentrò la nuova festa cristiana nota come San Valentino, o festa degli innamorati. La Chiesa cattolica, infatti, nel tentativo di porre fine a questa usanza “poco ortodossa” cercò un santo che potesse sostituire l’impuro Lupercus. Così si individuò in Valentino, un vescovo che era stato martirizzato circa duecento anni prima, il più degno sostituto del fauno e la festa ad esso dedicata venne gradualmente rimpiazzata dalla festa di San Valentino dedicata agli innamorati che perse le connotazioni sessuali dei Lupercali. Ma chi era il santo degli innamorati? Valentino era un vescovo di Terni che nel • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
270 d.C. professava la fede cristiana all’epoca in cui il cristianesimo era considerato nemico del Sacro Romano Impero. Egli non era ben visto poiché aveva convertito al cristianesimo il filosofo romano Cratone e suoi tre discepoli. Per via della sua fede e per avere celebrato il matrimonio segreto tra una giovane donna cristiana e un centurione romano, contravvenendo all’editto dell’imperatore Claudio III, fu lapidato e poi decapitato il giorno della celebrazione dei Lupercalia. Ma per quale motivo a lui si associano gli innamorati? Si narra che mentre Valentino era in prigione in attesa dell’esecuzione, si fosse innamorato platonicamente della figlia non vedente del guardiano e che, grazie alla sua fede, fosse riuscito miracolosamente a ridare la vista alla fanciulla. Tanto che la giovane riuscì a leggere il messaggio d’addio “dal vostro Valentino” da lui scritto sul bigliettino che le consegnò prima di essere giustiziato. Da qui ebbe inizio l’uso di scambiarsi bigliettini con frasi d’amore durante la ricorrenza del 14 febbraio. Da allora, la festa di San Valentino è giunta ai nostri giorni nell’accezione romantica e piuttosto infantile con cui la conosciamo tutti. Ne abbiamo purtroppo dimenticato le origini sotto la spinta e le abili manovre di marketing sostenute anche dai media in cui si mettono in campo astutamente – quasi schierassero delle truppe d’assalto – ogni sorta di gadget e prodotto con la gettonatissima forma di cuore. Noi non saremo da meno e, rigorosamente a forma di cuore, è anche la crostata di cui diamo la ricetta.
• 300 gr di farina 00 • 130 gr di zucchero semolato • 130 gr di burro freddo (se preferite margarina vegetale) • 1 uovo intero (preferibilmente di galline allevate all’aria aperta) • un pizzico di sale • il succo di mezzo limone • la scorza di un limone • 5 cucchiai di confettura ai frutti di bosco Procedimento Mettete in una ciotola (o nella planetaria) la farina setacciata, lo zucchero, l'uovo con un pizzico di sale, la scorza grattugiata di un limone, il succo di mezzo limone e il burro freddo tagliato a pezzetti ed impastate tutto molto velocemente. Quindi formate una palla, avvolgetela nella pellicola da cucina e mettetela a riposare in frigo per almeno mezz’ora. A questo punto mettete la frolla su una spianatoia infarinata e ricavate una sfoglia di circa un centimetro di spessore che trasferirete sulla teglia a forma di cuore precedentemente imburrata e infarinata. Con l’aiuto di un coltello livellate il bordo della crostata, tagliate i bordi in eccesso con un coltello poi praticate tanti forellini con i rebbi di una forchetta per non fare gonfiare la pasta durante la cottura. Spennellate la base della crostata con un velo di confettura. Cuocete la base del dolce in forno caldo a 180°C per circa 20 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare completamente. Decorate la crostata con i lamponi e se desiderate spolverate leggermente con dello zucchero a velo.
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San Valentino Regali da mangiare preparati con il cuore È arrivato l’ennesimo San Valentino. Che sia il primo da fidanzati, il decimo da single o il quinto da sposati, il 14 febbraio è il giorno destinato a festeggiare l’amore in tutte le sue forme. Qualunque sia la situazione sentimentale con cui lo affrontiamo, c’è solo un modo per celebrarlo degnamente e renderlo memorabile: fare il regalo giusto anche ad amici, parenti e tutte le persone a noi care. E quale regalo più gradito di qualcosa di goloso preparato con le nostre mani? Ecco alcune idee interessanti per realizzare degli autentici e originali regali gastronomici in grado di risvegliare l’animo romantico di ciascuno di noi.
Biscotti dell’amore Ingredienti • 120 gr di farina • 100 gr di fecola • 100 gr di zucchero (se preferite di canna) • 100 gr di burro (o margarina senza grassi idrogenati) • un uovo (preferibilmente di galline allevate all’aria aperta) • un pizzico di cannella • un pizzico di bicarbonato • marmellata (di fragole, ciliegie o frutti rossi a piacere) • zucchero a velo Procedimento In una ciotola mescolate la farina e la fecola, unite al centro il burro tagliato a tocchetti, lo zucchero, l'uovo un pizzico di cannella e uno di bicarbonato. Iniziate ad impastare partendo dal centro e fate assorbire tutta la farina. Formate con l'impasto ottenuto una palla, avvolgete nella pellicola trasparente e fatela rassodare in frigo per un'ora. Trascorso questo tempo stendetela su un piano infarinato fino ad ottenere una sfoglia di 3 mm circa. Con un taglia biscotti a forma di cuore, ricavate tanti cuoricini che andrete a posizionare su una placca ricoperta con carta forno. Con un tagliapasta più piccolo, bucate la metà dei cuori ottenuti formando delle cornici. Infornate i biscotti in forno già caldo a 180°C e cuocete per 10 minuti fino a doratura. Aspettate che i biscotti si siano intiepiditi, quindi stendete un velo di marmellata su ogni cuore. Adagiate sopra la cornice a forma di cuore ed esercitate una leggera pressione per far sigillare i biscotti. Cospargete i biscotti di San Valentino con lo zucchero a velo vanigliato e servire.
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Cuore “fondant”
Ingredienti • 6 uova (preferibilmente di galline allevate all’aria aperta) • 200 gr di zucchero • 200 gr di farina • 200 gr di cioccolato fondente • 200 gr di burro (se preferite margarina senza grassi idrogenati) Procedimento Sbattete in una ciotola le uova con lo zucchero in modo da ottenere un composto omogeneo. Quando saranno ben amalgamate, unite la farina. In un pentolino a bagnomaria ponete a fondere il cioccolato insieme al burro. Una volta sciolti, aggiungeteli al composto. Mettete il composto in una cocotte che farà parte del regalo. Infornate per 15 min circa in forno preriscaldato a 180°C avendo cura che l’interno rimanga “fondente”. Servite caldo ponendo intorno alla cocotte un nastro rosso.
Cioccolatini ripieni
Ingredienti • 500 gr di cioccolato fondente • marmellata del gusto preferito Procedimento Fondete il cioccolato a bagnomaria e, una volta sciolto, ricoprite fondo e lati di ogni stampo con uno strato abbondante di cioccolato. Avete così creato il guscio dei nostri cioccolatini.A questo punto mettete in frigorifero per alcune decine di minuti per far indurire il guscio. Per la farcitura, una volta induriti i gusci, basterà tirare fuori dal frigorifero gli stampini e riempirli con la marmellata facendo attenzione a non riempire tutta la formina perché dovrete ancora “chiudere” il guscio del cioccolatino. A questo punto coprite gli stampini ormai farciti con il cioccolato fuso rimanente, che avrete sciolto di nuovo a bagnomaria, e poneteli in frigorifero per alcune ore.
Confettura di peperoncino Ingredienti • 1 kg di peperoncini rossi tondi • 1 kg di zucchero (se preferite di canna) • il succo di un limone Procedimento Ponete i peperoncini in una ciotola capiente e lavateli sotto l'acqua corrente. Asciugateli bene, eliminate il picciolo e riduceteli in piccoli pezzi aiutandovi con un paio di forbici e avendo cura di eliminare tutti i semi. Poneteli poi in una pentola, con uguale quantità di zucchero e il succo di un limone. Mettete sul fuoco e lasciateli cuocere fino al completo scioglimento dello zucchero. Continuate la cottura mescolando spesso per circa un'ora a fiamma bassa per evitare che la confettura possa attaccarsi al fondo della pentola. Raggiunta la giusta densità, passate il tutto al passaverdura. Per capire quando la marmellata ha raggiunto il giusto grado di densità, se ne deve mettere un po' in un piatto e inclinarlo. Se la marmellata, raffreddandosi a contatto con il piatto, si rapprende senza scivolare via, vuol dire che è pronta In caso contrario, proseguire la cottura. Invasate quando la marmellata è ancora calda in barattoli di vetro sterilizzati (in acqua bollente oppure nel microonde, parzialmente riempiti di acqua, per qualche minuto). Dopo averli chiusi per bene, mettete i barattoli a testa in giù fino al completo raffreddamento. Questa marmellata sarà perfetta se abbinata ad un piatto di formaggi.
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Un cocktail imp_24 13/01/17 12:32 Pagina 52
Nel giorno più romantico dell'anno, oltre a preoccuparci di cucinare gustosi manicaretti da fare degustare alla nostra dolce metà e occuparci dei regali, preferibilmente preparati con le nostre mani, è il caso di premurarci anche di non lasciare “a secco” il nostro amore, offrendo un cocktail ispirato al romanticismo e alla passione, dolce preludio della nostra serata. Abbiamo incontrato quattro noti bartender palermitani che hanno interpretato in esclusiva per Sapori di Sicilia il “cocktail d’amore” per dirla alla Stefania Rotolo, che negli anni ’80 diede scandalo con una sua canzone.
Amaramore di Francesco Polizzi (Hostaria del Gusto di Palermo)
Ingredienti 1 oz di gin Tanqueray, 1/2 oz amaro amara, 1/2 oz vermouth Anselmo rosso, 1 cucchiaino di succo di melograno, fresco spremuto e filtrato, 1/2 oz di acqua tonica (oz = oncia, la misura che utilizzano i barman nell'apposito misuratore) Procedimento: riempite il tumbler basso a metà di ghiaccio. Unitevi il gin, l'amaro ed il vermouth. Miscelate il tutto, quindi aggiungete il succo e l’acqua tonica. A questo punto passate una fetta d'arancia sul bordo del bicchiere e decorate con una scorzetta fresca.
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Un posto segreto di adriano rizzuto (close)
Ingredienti 2,25 cl di liquore di gelsi neri, 4,5 cl di grappa di passito, 1,5 cl di succo di limone di Altofonte, 2 cl di acqua di ceci, 1 cl di mosto rettificato cotto Per guarnire: polvere di viola, star fruit (carambola: frutto tropicale a forma di stella), fragole disidratate Procedimento: unite tutti gli ingredienti e mixarli nello shaker. Quindi versate il cocktail in una coppa di metallo e guarnite con polvere di viola, una stella di carambola e fragole disidratate.
Poema
di anGelo sciaccHitano (sanlorenzo Mercato)
Ingredienti 4 cl grappa di Sicilia Bianchi, 3 cl liquore di limone e ciliegie “home made”, 3 cl succo di mandarino biologico e infuso di fiori di loto Procedimento: mixate insieme tutti gli ingredienti. Quindi versate il cocktail in una coppa di vetro trasparente e guarnite con un fiore edule e una grattugiata di cioccolato di Modica.
Love in 2017 di Gianluca di GiorGio (Bocum)
Ingredienti 30 ml di campari, 30 ml liquore alle ciliege, 30 ml succo di limone, top velluto alla rosa canina Procedimento: mettete tutti gli ingredienti, ad eccezione del velluto, dentro uno shaker. Shakerate con vigore. Versate il tutto in una coppetta gelata filtrando con un colino. Completate con il velluto alla rosa canina e petali di rosa.
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Vegetariani imp_25 13/01/17 12:33 Pagina 54
Amore e passione
nel menù di San Valentino
Per la festa più amata dell’anno, che siate inguaribilmente romantici o piuttosto tiepidini e scettici, potete comunque preparare per la persona amata, per gli amici o per i familiari, una cena gustosa con amore, l’ingrediente principale che renderà i vostri piatti davvero speciali. Di seguito vi proponiamo un menù di ispirazione “veg”, il cui filo conduttore è il rosso della passione, e che certamente piacerà anche a chi non è vegetariano.
antipasto Bicchierini di Pomodorini confit con sPuma di tofu e croccante di Pane ingredienti per 2 persone 20 pomodorini ciliegini, 2 cucchiai di zucchero di canna, 50 gr di tofu naturale, origano, olio extravergine d’oliva, sale e pepe q.b Procedimento Lavate i pomodorini e tagliateli in due. Poneteli in una teglia con la parte tagliata rivolta verso l’alto. Spolverateli con lo zucchero, il sale, l’origano e irrorateli con l’olio. Infornate in forno preriscaldato a 200°C circa per circa 20 minuti finché saranno “appassiti” e leggermente bruciacchiati. Nel frattempo in una terrina lavorate il tofu con olio, sale e pepe in modo da ottenere una crema morbida. In una padella abbrustolite con poco olio dei mini crostini di pane croccante. Dividete il composto a metà in due bicchierini di vetro trasparenti. Quindi ricopritelo con i pomodorini confit e finite con il croccante di pane. Servite i bicchierini accompagnandoli con un cucchiaino. Abbinamento consigliato: Spumante Brut Rosè Euphorya Casa di Grazia. Frappato. Colore rosa vivo, perlage fine e persistente si esprime con intensi e delicati toni fruttati. Ben bilanciato e fragrante. Mai spigoloso. Adatto anche con crostacei e cruditè.
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primo millefoglie di lasagne rosse ingredienti per 2 persone Per la pasta 200 gr di farina, una barbabietola, sale Per il condimento una barbabietola, uno scalogno, formaggio vegetale spalmabile, 10 noci sgusciate Procedimento Per preparare la lasagna di barbabietola disponete a fontana 200 gr di farina, versateci al centro il succo di una barbabietola, mescolate e impastate fino a quando la pasta sarà liscia ed elastica. Con l'apposita macchina, ricavate delle sfoglie sottili per fare la lasagna. A questo punto potete preparare il condimento rosolando l’altra barbabietola tagliata in piccoli pezzi in padella con l’olio e lo scalogno. Una volta cotta frullate metà di questo condimento e mettetelo da parte. Lavorate l’altra metà a pezzetti in una terrina con un formaggio spalmabile vegetale, sale e pepe e le noci sgusciate e ridotte in piccoli pezzi. A questo punto sbollentate le lasagne quindi scolatele facendo attenzione a non romperle e disponetele sfalsate in ciascun piatto riempendole con il condimento. Finite ciascun piatto con la crema di barbabietola. Abbinamento consigliato: Etna Rosato Barone di Villagrande. Nerello Mascalese 90%, Carricante 10% Colore rosato, brillante, aroma floreale di mela cotogna e di viola, equilibrato e armonico. Adatto anche su pesci elaborati, sui bolliti, sui formaggi freschi o sulla caponata siciliana.
secondo seitan tonnato ingredienti per 2 persone 1 confezione di seitan, 1 pizzico di sale, 1 cucchiaio di capperi, 1/2 cucchiaino di senape, 1 cucchiaino pieno di maionese di soia, acqua q.b. Procedimento Affettate il seitan in fette sottili e fatelo asciugare a fuoco basso per qualche minuto in una padella antiaderente. Preparate la crema mettendo tutti gli altri ingredienti nel frullatore. Aggiungete acqua finché il composto non assumerà la consistenza tipica della salsa tonnata, ovvero una salsa morbida. Preparate una terrina mettendo uno strato di salsa e uno di seitan, finchè non finiscono gli ingredienti. Mettete in frigo, almeno un paio di ore prima di consumarlo. Al momento di servirlo decoratelo con capperi interi dissalati. Abbinamento consigliato: Rosammare rosato Igp terre siciliane di Nino Barraco. Nero d’Avola. Un rosato caratterizzato dalla freschezza, bellissimo naso fruttato e speziato, con un netto sentore di variegato all’amarena; acidità e sapidità al palato. Ottimo a tutto pasto. Ottimo anche con pizza, sarde, cipolle e cacio cavallo, quiche di peperoni e melanzane.
dessert cuore di red VelVet ingredienti 175 gr di farina, 175 gr di fecola di patate, 250 gr di zucchero di canna, 75 gr di margarina vegetale senza grassi idrogenati, 75 gr di olio evo dal sapore delicato, 250 gr di yogurt di soia, 1 cucchiaio di aceto di mele, 10 gr di cacao, una bacca di vaniglia, 12 gr di lievito per dolci, un pizzico di sale, 6 cucchiai o più di colorante per alimenti rosso Per la crema: 500 gr circa di formaggio spalmabile vegetale, 250 gr di margarina vegetale senza grassi idrogenati, 200 gr di zucchero a velo, 250 gr di panna da montare vegetale. Procedimento Mescolate lo yogurt con l’aceto di mele e il colorante. Quindi setacciate la farina con la fecola e il cacao, la vaniglia il pizzico di sale e il lievito. Lavorate a crema la margarina con l’olio e lo zucchero. A questo punto unite gli ingredienti secchi al composto di burro e zucchero e alla miscela colorata di yogurt e aceto di mele. Versate il composto in uno stampo a forma di cuore equivalente a una teglia di 20 cm. di diametro. Cuocete in forno a 170°C per circa 45 minuti. Controllate la cottura con uno spiedino di legno: sarà cotta quando uscirà asciutto. Per preparare la crema lavorate il burro con lo zucchero a velo fino ad ottenere un composto omogeneo, a cui unirete il “formaggio” vegetale. Amalgamate il tutto e passate il composto ottenuto al setaccio per rendere la crema più fine ed eliminare gli eventuali piccoli grumi rimasti. Montate la panna e con una frusta aggiungetela un po’ alla volta alla crema. Tagliate in tre strati la torta. Spalmate la crema sul primo stato, ricoprire con il secondo e così via. Coprire e decorare tutta la torta con la crema rimasta. Abbinamento consigliato: Passito di Pantelleria Doc Ferrandes - 100% Zibibbo (Moscato d ‘Alessandria). Colore ambrato. Al naso spiccate note di uva passa, frutta secca e candita. Sapore dolce, fresco, equilibrato e intenso.
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Quei dolci da viaggio
delle monache di clausura di Paola Roccoli
L’aria era ferma, il rosso del tramonto rifletteva nei muri del convento, piccole figure vestite di stracci aspettavano il dolce momento di generosità delle sorelle che arrivò da un attimo all’altro. Manine bianche avevano elargito doni per sfamare i meno fortunati: dolci fatti di cioccolato fondente, nascondevano un cuore di carne tritata, prelibato e sostanzioso. Invenzione delle monache per i meno abbienti. Ecco le ’mpanatigghie.
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ra il secolo XVI, la Contea di Modica era colonia spagnola. Un editto vietava il consumo di carne per i poveri. Così le suore dei conventi, mosse da carità inventarono questo dolce, che oltre a contenere cioccolato nascondeva un elemento segreto, un cuore di selvaggina. Questi dolci della carità venivano "calati dall'alto" dei conventi. Un'altra leggenda narra che le suore nel periodo della Quaresima, periodo in cui era proibito mangiare carne, la introdussero nel dolce destinato ai preti celandola nel ripieno a base di cioccolato. È comunque probabile che questi dolci siano stati introdotti dagli Spagnoli quando Modica era una loro colonia. L'etimologia stessa della parola deriva da empanadas ovvero "focaccia ripiena" che si usa preparare in Spagna, dove è normale usanza mischiare il dolce con la carne di manzo.
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Le 'mpanatigghie furono molto amate da Leonardo Sciascia che, elogiandole nella "Contea di Modica, le definì "dolci da viaggio" per le loro caratteristiche di nutrizione e di conservabilità (possono durare anche venti giorni). Ancora oggi questi dolcetti vengono preparati solo a Modica, o comunque i migliori sono quelli preparati dai maestri pasticcieri della cittadina. Che sia dolce della carità o dolce da viaggio, ancora resiste al tempo e la sua bontà è unica. Vi regaliamo la ricetta delle 'mpanatigghie della Contea di Modica, nella speranza possiate imitare questo panzerotto dolce salato di antica tradizione che realizza in sé un mix di sacro e profano e un mix di popoli e tradizioni che si uniscono per donarci i migliori frutti. Sicuramente un risultato sarà garantito se lo fate col cuore.
Le 'mpanatigghie Ingredienti per 6 persone Per la pasta: • 250 gr di farina, 75 gr di strutto • 50 gr di zucchero, 1 torlo d’uovo • vino Marsala q.b. Per il ripieno: • 100 gr di carne di vitello • 50 gr di cioccolato di Modica • 40 gr di noci, 100 gr di mandorle • un pizzico di cannella • un paio di chiodi di garofano tritati • 50 gr di zucchero a velo Procedimento Mescolate tutti gli ingredienti e impastateli fino per ottenere un composto liscio che farete riposare per circa un'ora prima di cominciare a stirarlo con il mattarello fino allo spessore di circa 2 millimetri e ricavando dalla pasta tagliate dischetti dal diametro di 8 cm circa. Nel frattempo avrete preparato il ripieno tritando noci, mandorle e la carne che avrete fatto asciugare sul fuoco in un tegamino (si mette sul fuoco e si tira via due volte), unendo lo zucchero e aggiungendo la cannella, la vaniglia, il cioccolato modicano sciolto a bagnomaria e l’albume rimasto dall’uovo usato per la preparazione della pasta. Il tutto viene amalgamato e inserito al centro di ogni dischetto che una volta chiuso a mezzaluna e inciso con un piccolo taglio a croce al centro verrà cotto in forno a 175°C circa, per 30 minuti. Alla fine spolverizzate con zucchero a velo.
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RicettePiraino imp_27 13/01/17 12:38 Pagina 58
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RicettePiraino imp_27 13/01/17 12:38 Pagina 59
La cucina siciliana
alla corte del Sultano
Il giovane chef Marco Piraino racconta in esclusiva a Sapori di Sicilia la sua esperienza in Oman, in occasione della prima edizione della “Settimana della cucina italiana nel mondo”
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he Extraordinary Italian Taste, la prima Settimana della cucina italiana nel mondo promossa dalle istituzioni italiane per dare seguito al percorso intrapreso durante Expo, ha offerto un gran numero di eventi in tutto il mondo. Dal 21 al 27 novembre scorso, sono stati organizzati più di 1300 eventi distribuiti nei cinque continenti con il coinvolgimento di oltre cento Paesi dove la parola d’ordine è stata la difesa del vero made in Italy agroalimentare all’estero. Il tutto si è sviluppato grazie alla collaborazione delle sedi diplomatiche e consolari, nonché degli istituti italiani di cultura. Ma al bilancio della Settimana della cucina italiana bisogna anche aggiungere più di 170 conferenze, quasi 400 proiezioni a tema e rappresentazioni teatrali legate al cibo, una trentina di mostre che sottolineano il valore culturale del cibo, 150 tra master class e cooking show a opera degli chef italiani che lavorano all’estero e più di 300 incontri per la valorizzazione dei sapori dell’agroalimentare made in Italy. Scelto tra una rosa di chef a rappresentare la Sicilia nel Sultanato dell'Oman, lì ho visto posti e orizzonti decisamente
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diversi dai nostri. Bellezza dei luoghi a parte, ciò che mi ha colpito più di ogni altra cosa è stata la cordialità e la gentilezza degli Omaniti. Già il loro saluto ti rassicura: la mano passa prima sul capo e poi sul cuore. Molti non parlano inglese, io non conosco l’arabo, ma poco importa: il sorriso e gli sguardi sono pieni di rispetto reciproco. La nostra cucina, poi, con i tanti elementi in comune con la tradizione araba, ha fatto da collante. E, a tavola, qualsiasi distanza e qualsiasi differenza è stata colmata. L’Ambasciata d’Italia ha curato un programma di eventi nella residenza dell’ambasciatore Giorgio Visetti: duecento ospiti, rappresentanti delle istituzioni del Sultanato, del corpo diplomatico, della stampa, della filiera agroalimentare e commerciale omanita, dell'imprenditoria italiana. Insieme ai colleghi italiani, durante gli show cooking organizzati nei principali alberghi di Mascate, ho realizzato piatti tipici accompagnati anche da vini, gelati e caffè, per fornire una fotografia completa della nostra gastronomia.
Durante la settimana della cucina italiana in Oman, mentre i ristoranti italiani proponevano alcuni menù ad hoc ed esposto materiale informativo sulla cucina italiana e brochure realizzate dall’Ambasciata, io ho avuto l'opportunità di “firmare” cene speciali dedicate alla cucina siciliana: importante esempio di legame tra il mondo arabo ed europeo espresso sia dai nomi dei piatti che dagli ingredienti utilizzati. Le celebrazioni nel Sultanato dell’Oman della prima Settimana della cucina italiana nel mondo sono state un successo. E per me, l'occasione di essere testimonial della mia terra, con la sua tradizione, la varietà, i legami con il territorio, e per la capacità di coniugare il gusto con la salute e il benessere, è stata entusiasmante. Insieme agli ospiti del sultanato ho avuto l'opportunità di osservare la mia terra dall'esterno, di scoprirla attraverso sapori e colori. Ancora una volta, me ne sono innamorato. Marco Piraino
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Le Ricette di
Marco Piraino Mustazzoli di Pantelleria Ingredienti Per la sfoglia: 250 gr farina 00, 40 gr di strutto, 40 gr di zucchero, 1/2 bustina vanillina, 70 ml di acqua Per la farcia: 500 gr di miele, 250 gr di semola, 100 gr acqua, 60 ml di zucchero, 75 gr di sesamo, 75 gr granella di mandorle tostate, 1 cucchiaio di scorza di mandarino, 1/2 cucchiaino di cannella, 1/2 cucchiaio semi di finocchio, 1/2 bustina vanillina, 40 gr di strutto Procedimento Si comincia con la farcia che preparerete mettendo in una casseruola il miele, acqua, zucchero e sesamo e facendo cuocere a fuoco vivo. Quando inizia il bollore unite la semola e lasciatela cuocere per circa 15 minuti continuan do a mescolare. Non appena riprende il bollore abbassate la fiamma al minimo, quando mescolando l'impasto si staccherà dai bordi, mettete l'impasto in un piano da lavoro unto di strutto e lasciatelo raffreddare; a questo punto aggiungete tutti gli altri ingredienti e impastate per bene e formate dei serpentelli del diametro di 2 cm lasciandoli riposare su carta oleata. Si passa quindi a preparare la sfoglia. In una insalatiera larga versate la farina lo strutto, lavorando la farina fino a quando assorbirà tutto lo strutto fino ad ottenere la consistenza del pongo, unite lo zucchero e la vanillina aggiungendo l'acqua poco alla volta. Passate la pasta dalla sfogliatrice; sulla sfoglia appoggiate il serpentello fatto con la farcia, e rifilare con il coltello, avvolgetelo su stesso fino a formare degli anelli. Infornate i mustazzoli a 240°C per 8/10 minuti mettendo nel fondo del forno una teglia con un po’ d'acqua per favorire la formazione di umidità.
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Parfait ai capperi di Pantelleria e mandorle di Avola Ingredienti 4 tuorli, 500 gr di panna per dolci, 150 gr di zucchero a velo, 150 gr di zucchero semolato, 250 gr di mandorle fogliate tostate, 100 gr di capperi dissalati secchi Procedimento Montate i tuorli con zucchero semolato, in una pentola mettete lo zucchero a velo, le mandorle e i capperi sbriciolati e 1/2 tazzina di acqua, mescolate energicamente fino a quando lo zucchero si sarà completamente sciolto, fate raffreddare il tutto e tritatelo con un mixer e montate la panna a neve ferma. Aggiungete alla panna i tuorli montati e il trito di mandorle e capperi cristallizzati mescolando dal basso verso l'alto, versate il composto in pirottini di alluminio e fateli riposare per due ore in congelatore. Disponeteli in un piatto e decorateli a piacere.
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Nicosia
da bizantina a Oppidum saracenorum
di Oliva Barbara Corrao
Un breve viaggio nella cittadina di origini bizantine tra riserve naturali e vestigia medievali
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ituata a pochi chilometri da Enna, provincia in cui ricade, la splendida cittadina di Nicosia, circondata dai suggestivi boschi delle Madonie e dei Nebrodi, sorge lungo i pendii di quattro colli su uno dei quali si ergono i ruderi di un antico castello medievale. Il centro cittadino è attraversato da un intrico di tipiche viuzze in battuto di pietra ed è costituito da particolarissime abitazioni ricavate all’interno della roccia. Questa città dove ancora oggi gli anziani parlano il dialetto gallo-italico, fu molto probabilmente fondata dai Bizantini intorno al VII secolo e il suo fascino colpì sia gli Arabi, che la definirono Oppidum saracenorum, sia in seguito il normanno Ruggero di Altavilla e l’imperatore svevo Federico II. Tale fascino si conserva ancora oggi, soprattutto per il notevole patrimonio naturalistico, essendo il territorio di Nicosia interessato da due riserve naturali: Monte Campanito-Sambughetti e Monte Altesina. Molti i dubbi sull’origine di Nicosia. Per gli storici la cittadina potrebbe identificarsi con una tra Engio, Erbita e Imachara, tre città dell’antichità. Le teorie degli studiosi però non sono state suffragate dalla certezza delle
prove. Diverse le ipotesi circa l’origine del nome attuale. Molti propendono per le origini greche e in questo caso il nome potrebbe significare sia “città di San Nicola” (da Νίκου Οικος, Níkou Oikos) che “città della Vittoria”(da Νικες Οικος, Níkes Oikos). C’è poi un terzo significato sempre legato ad origini greche e che deriverebbe in modo piuttosto complicato dall’alterazione del greco Λευκωσία (traslitterato Leukosia), a sua volta generato da Λευκός (leukos), con il significato di “bianco” o “luminoso”. Durante il periodo della dominazione araba, la città fece parte di un sistema di città fortificate e portava il nome di Niqusìn. Dopo la conquista da parte dei Normanni, Nicosia venne ripopolata da una colonia di lombardi a cui si deve l’antico retaggio della parlata alloglotta dal 2006 inserita nel Rei – il registro delle eredità immateriali – della Regione Siciliana. I lombardi, detti anche Mariani, si stabilirono nella parte alta del borgo nel quartiere di Santa Maria perché avevano come chiesa di riferimento Santa Maria Maggiore di rito latino; di conseguenza la popolazione greco-bizantina, detti anche Nicoleti, si spostò nella parte bassa del paese dando origine a un nuovo quartiere che gravitava intorno alla chiesa di rito greco di San Nicolò (o San Nicola). Ben presto la difficile convivenza tra Mariani e Nicoleti degenrò sfociando in una vera e propria lotta etnica che a par-
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Pernice arrostita ingredienti • 4 pernici • qualche rametto di rosmarino, salvia, maggiorana • olio extravergine di oliva, sale e pepe Procedimento Spennate e pulite le piccole pernici, mettete all’interno della pancia i rametti di rosmarino, ungete la pelle con l’olio, spolverate con sale e porle sulla brace calda. Girate continuamente lo spiedo affinché la cottura sia uniforme e fino a quando saranno dorate. Infine irroratele ancora con olio, spolveratele con sale e servitele calde.
tire dal Quattrocento, si trasformò più in antagonismo religioso: i contrasti erano dovuti al fatto che ciascuna parte della popolazione e voleva imporre il proprio luogo di culto come chiesa madre. Nicosia ascese nel Medioevo al suo massimo splendore diventando la quarta città demaniale della Sicilia, preceduta solo da Palermo, Messina, e Catania. Nel 1209, sotto gli Svevi, venne addirittura nominata Civitas Costantissima da Federico II. Considerevole è il patrimonio artistico che la città può vantare. Si può ricordare la famosa cattedrale intitolata dove mangiare e dormire
ristorante Pizzeria menphis via San Giovanni, 22 tel. 0935 639722 ristorante Quadrifoglio via Umberto I, 5 tel. 0935 646309 agriturismo oasi Basciana c/da Basciana tel. 0935 640275 Baglio San Pietro via Panotto tel. 0935 640529 Hotel Panorama c/da Torretta tel. 0935 647325
a San Nicolò con all’interno un soffitto ligneo interamente dipinto a mano e, adiacente ad essa, la splendida chiesa di Santa Maria Maggiore, anch’essa eletta a basilica maggiore. Passeggiando per i vicoli del centro storico si possono scorgere palazzi nobiliari e molte altre chiese di interesse storico-artistico, come la chiesa di San Vincenzo Ferreri, al cui interno è possibile ammirare i dipinti di Guglielmo Borremas, la chiesa di San Calogero con i dipinti di Filippo Randazzo e, non meno importante, la chiesa di San Biagio con meravigliosi stucchi in stile rococò. Nella riserva naturale di Monte Campanito, lo scorso anno è stato inaugurato il “Centro di Esperienze e Museo Multimediale della Montagna Siciliana”, costituito da sale multimediali e da una serie di dispositivi auditivi e olfattivi grazie ai quali laghi, piante e animali “digitali” e i beni ambientali custoditi dalla Montagna e in particolare dalla riserva naturale orientata Campanito – Sambughetti, sembrano prendere vita. A livello gastronomico e culinario Nicosia ha una lunga tradizione legata sia al mondo caseario che a quello delle carni di selvaggina e da allevamento. Numerosi piatti, infatti, come quello della ricetta in alto, si basano sulla cacciagione. Importante è anche la tradizione dolciaria di cui ricordiamo notevoli specialità come i nocattoli, i braccialetti, la pasta di mandorle, i pizzillati e i mustazzoli.
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Novara di Sicilia
paese di pietra
di Giorgia Iannelli
Il suggestivo comune dei Nebrodi, è tra i pochi paesi dove si parla ancora il dialetto gallo-italico, antico retaggio dell’insediamento di coloni francesi e longobardi. Qui si festeggia il maiorchino, formaggio stagionato a base di latte di pecora e capra, che viene lanciato per i vicoli del paese in una avvincente gara
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ppartenente al circuito dei borghi più belli d’Italia, Novara di Sicilia sorge in una vallata sovrastata dalla Rocca Salvatesta (o Rocca Novara), al confine tra i monti Nebrodi e i Peloritani. La sua storia risale al periodo preistorico, come testimoniano i ritrovamenti di reperti e suppellettili risalenti a quel periodo, nonché i ripari scavati nella Rocca Sperlinga, presso la frazione di San Basilio e nella Rocca Salvatesta. Si deve probabilmente ai Romani la denominazione del luogo, “Novalia”, il cui significato è “maggese”, con evidente allusione all’intensa attività agricola che vi si svolgeva. Al loro arrivo gli Arabi fortificarono il territorio e costruirono un imponente castello di cui oggi rimangono pochi ruderi e attorno al quale si andò sviluppando un nuovo nucleo cittadino, parallelamente a quello già formatosi più a valle in epoca bizantina. Nell’XI secolo giungono i Normanni, i quali lasciano un’impronta soprattutto linguistica; con loro si insediano infatti coloni provenienti dalla Francia meridionale e dalla Longobardia (l’Italia settentrionale), la cui lingua si radica nel tessuto linguistico preesistente, lasciando un’impronta indelebile e perenne: a Novara di Sicilia ancora oggi si parla un antico dialetto gallo-italico, peculiarità che condivide con pochi altri comuni della Si-
cilia, Aidone, Nicosia, Piazza Armerina, San Fratello, Sperlinga. Si tratta di vere e proprie isole linguistiche alloglotte, la cui importanza e unicità è stata riconosciuta col loro inserimento nel “Registro Eredità Immateriali della Sicilia” e con lo svolgimento nel
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giugno di quest’anno, proprio a Novara di Sicilia, di un convegno sul gallo-italico, in occasione del quale è stato presentato il vocabolario di tale dialetto. Nel XII secolo, alcuni monaci cistercensi si stabilirono qui costruendo un monastero e l’Abbazia di S.Maria La Noara, che risulta essere la prima edificazione cistercense in Sicilia. E’ durante il periodo della dominazione spagnola, però, che la città raggiunge il suo massimo sviluppo urbanistico. Novara di Sicilia mantiene l’aspetto di un paesino tipicamente medievale, con un intrico di vicoli e stradine quasi tutti pavimentati con un acciottolato che ne accentua l’aspetto “antico”. Ciò che però contribuisce a darle una veste del tutto particolare è il fatto che le architetture sia civili che religiose e i loro elementi scultorei sono realizzati in arenaria, una tipica pietra locale di colore grigio-rosato, e in cipollino, un’altra pietra locale rossa e dall’aspetto marmoreo. Questa caratteristica ha valso alla cittadina il soprannome di “paese di pietra”. La lavorazione di tali pietre è un’attività antichissima che in passato ha reso Novara di Sicilia – e la locale maestranza degli scalpellini – famosa in Italia e in Europa. L’attività degli scalpellini oggi viene nuovamente valorizzata grazie all’annuale simposium di scultura intitolato “la pietra nell’arte”, durante il quale artisti locali e stranieri, europei ed extraeuropei, realizzano con le pietre del luogo opere che verranno poi collocate lungo le vie della città, a creare una sorta di permanente museo “itinerante”. Parlando di Novara di Sicilia non si può non menzionare il maiorchino, e non solo perché si tratta di un tipico formaggio locale, fatto con latte ovino e caprino, ma anche perché esso è il protagonista di un particolarissimo torneo a squadre risalente al XVII secolo. Lo “sport”, se così può chiamarsi, con-
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sistente nel fare ruzzolare la “maiurchèa” lungo un percorso in discesa prestabilito e nel farla arrivare alla meta, o comunque il più lontano possibile dal punto di partenza. Al torneo segue la sagra dedicata al formaggio tipico dee Nebrodi, durante la quale fanno mostra di sé altri prodotti e piatti tipici come la ricotta infornata e la pasta ’ncasciata, vero e proprio “marchio culinario” della città. La pietanza fa la sua apparizione anche durante il festino di mezz’agosto e in ogni importante evento, insieme ad altri tipici piatti locali come i frittui, a base di carne di maiale lessata insieme al lardo e a tutte le frattaglie del maiale stesso (trippa, polmone, cuore, fegato ecc.), mangiato tal quale o col pane, o ancora un altro piatto dal nome rivelatorio, lampi e trori (lampi e tuoni), una zuppa a base di legumi e cereali, perlopiù fagioli, cicerchie, lenticchie, grano e granturco, o la “fasjuada”, con fagioli e salsiccia o ancora la capra al forno, cui è dedicata una sagra ad agosto, mese in cui nella frazione di Badiavecchia si svolge la sagra delle nocciole, dove si può assaggiare la caratteristica salsiccia alla nocciola. In questo scenario culinario non possono ovviamente mancare i dolci, molti dei quali a base di ricotta, nocciole o fichi: ravijò, ravioli fritti umettati con vino e ripieni di ricotta aromatizzata alla cannella; jiditi d’apostulo, piccoli cilindri di pasta frolla ripieni di ricotta e ricoperti per metà da una glassa bianca e per l’altra metà da cioccolato: sono il ricordo di un episodio legato a San Tommaso che, incredulo sulla resurrezione di Cristo, volle toccare le sue ferite col dito, che si macchiò di sangue (ecco il motivo della doppia glassa); risu niru, riso con nocciole tostate e macinate, cacao, caffè, aromatizzato con cannella e buccia d’arancia candita; passatelli, un impasto di fichi secchi, nocciole, miele e cannella e dulcis in fundo pignurada, dadini di frolla fritti nella sugna e poi, ancora caldi, ricoperti di miele.
Pasta ’ncasciata Ingredienti • 400 gr di maccheroni freschi • sugo di pomodoro • 300 gr di tritato misto di vitello, castrato e agnello • 200 gr di primosale • 100 gr di salame • 2 melanzane • 3 uova sode • 1 spicchio d’aglio o una cipolla, • maiorchino grattugiato • vino bianco • pangrattato • olio extravergine di oliva • sale e pepe q.b.
Procedimento Sbucciare le melanzane, affettarle e tenerle sotto sale per circa un'ora per privarle del gusto amarognolo. Intanto soffriggere due spicchi d'aglio interi nell'olio evo e toglierli quando sono dorati. Mettete la carne nella padella, rosolatela, sfumate con un poco di vino bianco e quando sarà insaporita aggiungere i pomodori. Salare e pepare e lasciar cuocere a fuoco lento per circa 50 minuti aggiungendo un po' d'acqua quando il sugo si restringe. Asciugare le melanzane e friggerle in olio d'oliva. Lasciarle a scolare su carta assorbente. Tagliare le uova sode a dischetti, il salame ed la metà del primosale a dadini. Nel frattempo fate cuocere la pasta, scolatela al dente e conditela col ragù, il primosale e il salame tagliati a dadini, le uova sode a dischetti e le melanzane fritte, mescolando per bene. Prendete una pirofila, oleatela e cospargetela di pangrattato. Versatevi la pasta e cospargete la parte superiore con fettine del restante primosale. Infornate in forno preriscaldato a 180° per circa 20 minuti. Una volta pronta lasciatela intiepidire e servitela con un’abbondante spolverata di maiorchino grattugiato.
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Rucola imp_30 13/01/17 12:41 Pagina 66
la
rucolapizzica...
ma fa tanto bene
di Martina Comito
L
a rucola, Eruca sativa, è una pianta appartenente alla famiglia delle Brassicacee o Crucifere. Il nome Eruca deriva dalla parola latina “urere” che significa bruciare. Le sue foglie e più in particolare i suoi semi, infatti hanno un sapore decisamente piccante. Nota fin dai tempi antichi, veniva usata come aromatizzante ma anche come afrodisiaco e, per combattere l’impotenza, veniva assunta sotto forma di decotto. Viene anche chiamata rughetta ed è spontanea nell’area mediterranea, ma ormai da anni viene diffusamente coltivata. La rucola spontanea differisce da
quella coltivata per la foglia più dura e scura con gusto intenso, quasi acidulo. La rucola compare tra i primi venti alimenti che possiedono il maggior valore dell’Andi, l’indice aggregato della densità nutrizionale, valore che si ottiene calcolando il rapporto tra vitamine, fitonutrienti, minerali e calorie. Questo vegetale da insalata, in pratica, appartiene al gruppo di alimenti che possiedono molti nutrienti e poche calorie, apportando appena 25 kcal per 100 grammi. Come gran parte dei vegetali è composta prevalentemente da acqua (91,7 per cento); poi contiene proteine per il 2,5 per cento, carboidrati per il 3,5 per cento, fibre per l’1,6 per cento, grassi per lo 0,7 per cento e zuccheri per il 2 per cento.
Calcio, fosforo, sodio, magnesio, zinco, ferro, potassio, rame, selenio e manganese, i minerali più rappresentati nella sua composizione e infine le vitamine: presenti A, C, E, K e quelle del gruppo B, che, com’è noto, partecipano alla produzione di globuli rossi e a tutte le attività cellulari tra cui la produzione di energia e la sintesi dei grassi. Nella rucola è totalmente assente il glutine, quindi è adatta alla dieta dei celiaci. Si riconosce alla rucola la capacità di facilitare il processo digestivo. La sua assunzione, infatti, è in grado di favorire la produzione di succhi gastrici. Inoltre facilita l’eliminazione dei liquidi, rafforza le difese immunitarie e svolge attività antianemica, antitumorale e antidiabetica grazie all’elevato contenuto di vitamina C. La rucola è anche indicata per chi soffre di inappetenza perché contiene sostanza capaci di stimolare l’appetito e riesce a curare la tosse di origine nervosa.
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Copertina Gen-Feb2017_2 13/01/17 12:04 Pagina 2
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Anno 5 - Numero 1 - 2017
euro 2,90 La rivista dei prodotti tipici e tradizionali
Itinerari del gusto • DIRETTORE EDITORIALE Peppe Giuffrè