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Editoriale
L’
estate ha lasciato il passo ai colori e alla magia dell'autunno. E mentre la natura si chiude in se stessa nel letargo tipico di questa stagione, noi di Sapori di Sicilia, invece, lavoriamo con rinnovata energia e carichi di entusiasmo, guardando direttamente al 2017. Forti del successo ottenuto con la nuova veste grafica e con una scelta sempre più mirata nei contenuti, vi presentiamo questo ultimo numero del 2016 e rilanciamo con un 2017 sfavillante, che vedrà il nostro magazine in edicola con cadenza bimestrale. La prima parte di questo numero sarà declinato secondo i toni ambrati dell'autunno. Andremo per boschi e colline, alla scoperta dei frutti autunnali di stagione tipici della nostra regione. Faremo un salto nel passato, una sorta di amarcord alla scoperta di quei frutti poco commercializzati, e per questo estremamente bio, di cui erano ghiotti i nostri nonni che si arrampicavano sugli alberi per raccoglierli. E parlando di bio e di Sicilia, non potevamo non parlare del frutto siculo per eccellenza: il fico d'India, con le sue caratteristiche e le sue proprietà. Le temperature più fresche e il ritorno alla vita d'ufficio non ci precludono la possibilità di fuga dalla città per un weekend all'insegna del buon cibo e della bellezza. In questo numero andremo alla scoperta di Aidone, in provincia di Enna e di Trabia, in provincia di Palermo. Oppure in tour per la Sicilia alla ricerca dei formaggi siciliani: a pasta dura, filata o morbida, la loro storia parla di pascoli, mucche e pecore che vagano libere per i boschi e le campagne e del duro e appassionante lavoro dei pastori per raggiungere la tanto agognata eccellenza made in Sicily. E sempre in ambito di tour, andremo alla scoperta dell'Itinerarium Rosaliae, quattordici comuni, tre riserve naturali e due boschi. Un cammino che sa di devozione, ma anche di scoperta e di meraviglia, alla scoperta dell'entroterra, con le sue tradizioni, eccellenze e paesaggi e monumenti da lasciare senza fiato. L'ultima parte del nostro giornale, invece, cambia colore. Si passa al rosso e all'oro. Vi dedichiamo, insieme agli auguri, uno speciale sul Natale e le feste di fine anno, fatto di mandorle, miele, frutta secca e tanto calore. Per la tavola delle feste, abbiamo scelto per voi, con l’aiuto dei nostri chef, una selezione ricercatissima di primi, secondi e dolci tipici del mese di dicembre. Non mi resta che augurarvi una buona lettura. L'appuntamento con Sapori di Sicilia è per gennaio, con tante novità che non vi sveliamo per non rovinarvi il piacere dell'attesa. Da parte mia e di tutta la Redazione i migliori auguri di un felice Natale e di un prospero 2017.
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Vuoi mangiare sano?
Rispetta la stagionalità Ecco che cosa comprare in estate Verdure: zucca rossa, finocchio, cardo, cipolle, broccolo, sparacello, cavolo, cavolo-rapa, carciofo, insalate varie, ravanello Frutta: uva, kaki, fichi d’India, kiwi, melagrane, mandarini, clementine, arance (quelle con l’ombelico), pere, mele, castagne, noci Nella dispensa: olio extravergine di oliva, caffè, zucchero, latte, burro, formaggi, pasta lunga e corta, riso, sale, spezie, uova, vino da cucina, qualche confettura, bicarbonato, lievito per dolci, farina
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SOMMARIO
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Editoriale Frutti d’autunno tra riscoperte e ricordi Profumo di capperi Kaki, cibo degli dei Ricetteria di Peppe Giuffrè Formaggi & C., casari all’opera Cacio e provola dall’altopiano ibleo ‘U piacentinu, la Dop ennese Lampuga e palamita, pesci di stagione Una Pescheria sotto il vulcano Qui si studia per mangiar bene! Le confetture di ortaggi autunnali Rosa canina, la bacca che non t’aspetti Chayote ovvero la cucuzza cintinaria Pomodoro seccagno, tesoro del feudo di Scalfani Bagni Il Capo, da mercato del popolo a meta turistica Itinerarium Rosaliae La festa dei morti nella tradizione siciliana San Martino e la sua breve estate Speciale Feste di fine anno Natale in Sicilia Il menù della vigilia di Natale di Seby Sorbello Il menù di San Silvestro di Pietro D’Agostino Immancabili lenticchie A Natale, regalini fai-da-te in cucina Piatti di cucina povera Fico d’India mangiatutto Aidone la normanna Trabia, gioiello tra due castelli Le fave, fresche o secche, sulle nostre tavole
AIDONE
RUBRICHE 28 70 76
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L’orto e la frutta d’autunno Dalle cucine dei ristoranti siciliani Vegetariani con gusto - Quella “fettina” che piace ai vegani
LA NORMANNA
Hanno collaborato: martina Comito, Oliva Barbara Corrao, Vanessa d’Acquisto, Omar Gelsomino, Alessandro iannelli, Giorgia iannelli, maria Rita Pisano, Paola Roccoli, Rachele Sanfilippo, maria Grazia Sclafani, Anna Venturini, manuela Zanni
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Frutti d’autunno tra riscoperte e ricordi di Angela Sciortino
Dimenticati, abbandonati, fuori dai circuiti commerciali li troviamo a volte nei mercati contadini, nelle sagre e fiere paesane
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hi ha superato gli “anta” ne ha ancora qualche vago ricordo. Qualcun altro ne conosce l’esistenza per via dei racconti dei nonni. Alcuni frutti autunnali, un tempo legati alla tradizione e spesso a riti religiosi e credenze pagane, sono ormai da anni fuori dai circuiti commerciali. Eppure molti di questi prodotti della terra possiedono virtù e proprietà di grande interesse non solo per la salute umana, ma anche per la bellezza. I più informati rimangono i contadini (specialmente quelli anziani) che hanno avuto cura di queste piante dimenticate nei loro giardini o gli amanti della natura che nelle loro passeggiate autunnali nella macchia mediterranea (magari alla ricerca di funghi) si imbattono in piante che in questo periodo assumono colori meravigliosi. Per rinfrescarne il ricordo o stuzzicare nuove curiosità abbiamo deciso di dare spazio a prodotti che rischiano l’oblio o, speriamo di no, l’estinzione. Un pericolo che, grazie alla maggiore attenzione alla salvaguardia della biodiversità e alla green economy basata sulla nutracetica, dovrebbe essere scongiurato. Ma vediamoli in una piccola rassegna, questi frutti dimenticati. Chissà che a qualcuno non riaffiori qualche ricordo infantile...
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IL MIRTO (MURTIDDA)
A Palermo, un tempo, era usanza consumare ’a murtidda l’8 dicembre, nella ricorrenza dell’Immacolata, quando i venditori ambulanti abbaniavano: “A murtidda, a murtidda, ppi-ddivuzzioni si mancia a murtidda“. Secondo la tradizione popolare religiosa, infatti la pianta del mirto è sacro alla Madonna. Diversa, invece, la tradizione pagana, secondo cui il mirto è dedicato ad Afrodite, dea dell’amore, che poi diventerà Venere nel mondo latino. Secondo il mito, Afrodite, dopo essere nata dalle acque del mare di Cipro, per sfuggire alle brame di un satiro che la inseguiva, ebbe riparo in un bosco di mirti. A questa specie botanica sono riconosciute proprietà afrodisiache, ma nella tradizione al mirto viene associato il valore della fedeltà e della purezza tanto che Plinio lo definì “Myrtus coniugalis” e in Germania ancora oggi viene ricordato come la pianta delle spose. Il Myrtus communis, è una pianta aromatica e rappresenta uno degli arbusti più comuni della macchia mediterranea.
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Può raggiungere i tre metri di altezza, ha portamento cespuglioso e ramificazioni sottili; la corteccia è rossastra, il fogliame è verde scuro. In estate produce numerosi fiori bianchi, profumati e di piccole dimensioni; i frutti, piccole bacche di colore nero o bluastro, talvolta bianche (a seconda della varietà) sono commestibili e si raccolgono in autunno. Le foglie hanno proprietà aromatiche, astringenti, rinfrescanti e balsamiche, mentre i frutti, consumati freschi, hanno potere disinfettante e stimolante. Un tempo il mirto veniva usato per la decorazione dei presepi, degli altarini e delle edicole votive. Da questa usanza trae origine l’antico proverbio: “Ogni festa havi la sò murtidda“. Con i frutti del mirto, grazie alle pregevoli caratteristiche aromatiche, si preparano liquori dalle apprezzate proprietà digestive. Quest’uso è fortemente radicato in Sardegna dove il digestivo a base di mirto è uno dei simboli della tradizione regionale. • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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LA SORBA (ZORBA)
Frutto antico, un tempo molto diffuso tra contadini e pastori, somiglia a una piccola mela o una piccola pera con diametro tra 2 e 4 centimetri. Si raccoglie in autunno quando assume colore giallorossastro. Appena raccolto ha sapore acidulo per via della forte presenza di acido malico e vitamina C ed è decisamente sgradevole. Il frutto diventa dolce con polpa farinosa e molle dopo “ammezzimento”, ovvero dopo avere conservato i frutti al buio e sulla paglia per qualche tempo fino a quando assumono la colorazione bruna. Alla tecnica dell’ammezzimento si riferisce il vecchio adagio siciliano “cu lu tempu e cu la pagghia, si maturunu li sorbi” che tradotto italiano diventa: “con il tempo e con la paglia maturano le sorbe”. In questa parole tanta saggezza e l’invito a sapere attendere perché ogni situazione possa evolvere senza fretta, arrivando al giusto punto di maturazione. Il sorbo domestico (Sorbus domestica L.) appartenente alla famiglia delle Rosa ceae, è una specie originaria dell'Europa meridionale. In Sicilia si trova nei boschi montani di latifoglie che crescono sui suoli calcarei. Conosciuta fin dai tempi antichi come rimedio naturale contro la dissenteria e le infezioni batteriche di varia natura, la sorba era nota anche al tempo dei Romani che ne apprezzavano la tenerezza e la dolcezza, soprattutto nella preparazione di liquori. Ai tempi di Virgilio era pratica diffusa la fermentazione di questo frutto con il grano. Il prodotto alcolico che se ne otteneva si chiamava “cerevesia” ed era simile al sidro. In fitoterapia le sorbe sono conosciute e apprezzate per le loro proprietà astringenti, diuretiche, detergenti, rinfrescanti e tonificanti. Apportano sorbitolo, che viene trasformato in fruttosio senza intervento dell’insulina e pertanto, nei casi di iperglicemia, non è raccomandabile ai diabetici il suo uso come zucchero alternativo. In cucina le sorbe vengono utilizzate per confetture, liquori e salse. Nell’industria alimentare viene utilizzato il sorbitolo – che dalle sorbe trae il suo nome – un alcol che per la sua capacità idrostabilizzante è utile nei prodotti che devono trattenere acqua come per esempio gelatine, creme, frutta candita, gelati. • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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L’AZZERUOLO (AZZALUORA)
In dialetto assume diverse denominazioni: azzaluora, lazzeruolo, gasariolo, nazzeruolo e razzeruolo. L’azzeruolo (Crataegus azarolus), frutto dall’inconfondibile gusto e profumo, in passato era facilmente reperibile dal fruttivendolo fra i prodotti di stagione. Da anni è ormai quasi dimenticato e difficilmente si trova in commercio; tuttavia, chi frequenta i mercati contadini può avere la fortuna di acquistarlo e di farsi raccontare dagli agricoltori che uso farne. L’albero da frutto, appartenente alla famiglia delle Rosacee, pare sia originario dell’Asia minore o dell’isola di Creta; un tempo in Sicilia veniva coltivato, insieme a pruni selvatici e sorbi, o innestato in siepi di biancospino. Cresce spontaneo nella macchia mediterranea, i suoi frutti sono bacche globose simili a piccole mele di 1-2 centimetri di diametro che diventano rosse quando a settembre-ottobre giungono a maturazione. Con i frutti si ottiene una marmellata dal profumo vigoroso, dove si uniscono l’acidulo e il dolce. I frutti dell’azzeruolo possiedono
Liquore alle sorbe
Ingredienti • 300 gr di sorbe • 300 gr di zucchero • 300 dl di acqua • 300 dl di alcol Procedimento Tagliate le sorbe in quattro spicchi e lasciatele macerare nell’alcol per tre settimane. Preparate uno sciroppo con l’acqua e lo zucchero mettendo la soluzione in tegame su fuoco fino a che tutto lo zucchero si sarà completamente sciolto. Una volta raffreddato, lo sciroppo deve essere aggiunto all’alcol e alle sorbe e il tutto dovrà riposare una settimana. Quindi si filtra il tutto e si fa riposare per circa due mesi.
Confettura di azzeruoli
Ingredienti • 1 Kg di azzeruoli • 600 gr di zucchero • 600 gr di acqua
numerose proprietà. Sono dissetanti, diuretici, antianemici, cardiotonici e ipotensivi. Inoltre è utilizzato in cosmesi come rivitalizzante per le pelli rovinate, spente e opache grazie all’elevato contenuto di pro-vitamina A che funziona da efficace antiossidante.
Procedimento Portate ad ebollizione dell’acqua in un tegame, immergetevi i frutti e fate bollire per una decina di minuti. Scolate i frutti e togliete i semi. Portate a ebollizione la quantità d’acqua indicata in ricetta in cui avrete disciolto lo zucchero e fate bollire per una decina di minuti. A questo punto inserite i frutti e continuate a tenere sul fuoco mescolando per un’ora abbondante. La confettura a questo punto sarà pronta e, ancora calda, dovrà essere versata nei barattoli. Questi ultimi, chiusi, rovesciati e posti sotto un panno saranno lasciati raffreddare naturalmente e, solo quando freddi, potranno essere conservati in dispensa.
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Aceto di corbezzolo
Ingredienti • una manciata di corbezzoli poco maturi • 5 foglie di alloro • 1 lt di aceto
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IL CORBEZZOLO (UMMARIEDDU)
Il corbezzolo è una pianta arbustiva sempreverde, appartenente alla famiglia delle Ericaceae, la stessa del mirtillo per intenderci, ed è diffusa in tutte le regioni a clima mediterraneo. Il nome botanico, Arbutus unedo, deriva da "unum tantum edo" che significa "ne mangio uno solo", gli fu assegnato da Plinio il Vecchio, facendo una chiara allusione alla scarsa gustosità dei suoi frutti o all’invito a non abusarne per evitare fastidiosi casi di stipsi. I Romani gli attribuivano poteri magici e ad esso associavano il sentimento di stima. Virgilio nell’Eneide ricorda, infatti, che i parenti del defunto erano soliti depositare sulle loro tombe rami di corbezzolo.
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Procedimento Introdurre i corbezzoli e le foglie di alloro in una bottiglia, versarvi sopra l’aceto, chiudere bene e riporre in un luogo fresco asciutto e al buio. Lasciare riposare per tre settimane prima dell’utilizzo. Con il passare del tempo i corbezzoli diventeranno maturi all’interno della bottiglia e diventeranno di un bel colore rosso vivo, molto decorativo.
Risotto alle melagrane
Ingredienti • 200 gr di riso • 1 melagrana • 30 gr di pancetta • 1 cipolla • 1/3 di bicchiere di vino bianco • brodo vegetale q.b. • olio, sale, pepe, parmigiano q.b. Procedimento Rosolate la cipolla in un tegame, aggiungete lo speck e fatelo rosolare per bene, aggiungete, quindi, il riso. Bagnate con il vino bianco e fate sfumare a fiamma viva. Aggiungete a poco a poco il brodo vegetale, ogni qualvolta l‘acqua viene assorbita dal riso. A fine cottura aggiungete i chicchi della melagrana, il parmigiano e il pepe. Per chi vuole un risotto più ricco, può aggiungere una noce di burro. Servite caldo.
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matorio delle vie urinarie. Alcune di queste proprietà, si ritrovano nel miele di corbezzolo caratterizzato da un gusto delicato e un po’ amarognolo. I frutti, che nell’aspetto ricordano vagamente le fragole, pur essendo commestibili, non sono particolarmente gradevoli. Facile, dunque, evitare alcuni effetti collaterali negativi dovuti a scorpacciate di corbezzolo: la stipsi, i disturbi della digestione e il leggero stordimento simile all’ubriachezza (dovuto alla presenza di una certa quantità di alcool nei frutti maturi). Dalla distillazione dei frutti maturi schiacciati e macerati nell’acqua fino alla fermentazione, si ottiene un’ottima acquavite: “il vino di corbezzolo”. Anche in cucina il corbezzolo trova impieghi interessanti nella preparazione di insolite marmellate o un di gustoso aceto da utilizzare per condire insalate e crudità.
In autunno avanzato la pianta presenta contemporaneamente i fiori (bianchi e riuniti in grappoli) e frutti commestibili dalla superficie verrucosa e di colore fra il rosso, l’arancio e il giallo che a maturazione tendono a cadere dall’albero, costituendo così un importante fonte di cibo per gli animali selvatici che vivono nella macchia. Numerose le proprietà terapeutiche del corbezzolo che sono però sono da ricercare soprattutto nelle foglie: antidiarroico; antinfiammatorio delle vie biliari, del fegato e di tutto l'apparato circolatorio; antispasmodico dell'apparato digerente; diuretico, antisettico e antinfiam-
LA NESPOLA COMUNE (NESPULA R'INVERNU)
Come accade per le sorbe, i frutti del nespolo comune (Mespilus germanica), una volta raccolti devono essere sottoposti all’ammezzimento. Le bacche tondeggianti e di colore marrone chiaro spesso ricoperte da una finissima peluria sono mature tra settembre e ottobre, ma si pre sentano estremamente dure e legnose e il loro sapore acido ed astringente non le rende commestibili. Prima di essere consumate devono per lungo tempo maturare all’interno di cassette di legno ricoperte di paglia poste in ambiente asciutto e ventilato. Mediante questa tecnica le nespole si ammorbidiscono, il colore vira fino a raggiungere una tonalità molto scura e la polpa subisce una modificazione enzimatica capace di renderla più dolce ed aromatica. Nella tradizione siciliana le nespole d'inverno erano tra i frutti che venivano disposti, insieme ad altra frutta secca, nei tradizionali canestrini preparati per i bambini come regalo della festa dei morti. La nespola d’inverno è considerata un efficace regolatore intestinale sia sotto forma di decotto che come frutti tal quali che – purché maturi e sottoposti ad ammezzimento – possono essere consumati a volontà senza alcuna controindicazione. Sempre con i frutti si prepara un decotto da utilizzare per gargarismi in caso di infiammazioni della gola e delle mucose. Infine, per le gengive fragili è indicato il decotto preparato con le foglie.
• MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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LA MELA COTOGNA (CUTUGNA)
Difficile da trovare ormai al mercato o nelle botteghe dei fruttivendoli, la mela cotogna, maturando nel mese di ottobre, fino a qualche decennio fa era un frutto che rientrava a pieno titolo nelle abitudini alimentari dell’autunno. Il cotogno (Cydonia oblonga), pianta della famiglia delle Rosacee, è una delle più antiche piante da frutto conosciute; originaria del medio Oriente, si è diffusa da lì nei paesi del bacino del Mediterraneo. La mela cotogna, forma irregolare e colore giallo, ha un sapore acidulo che induce molti a consumarla cotta insieme a spezie aromatiche come cannella e chiodi di garofano. La cottura, però, fa perdere una delle sue prerogative importanti ovvero il buon livello di vitamina C. Anche cotta, comunque, rappresenta un alimento poco calorico e ricco di sali minerali, tra cui potassio, magnesio e calcio e, grazie alla buona presenza di fibre, è utile alla quotidiana regolarità intestinale. Con la mela cotogna si può preparare un infuso che favorisce la digestione ed è dotato di proprietà antinfiammatorie utili a stomaco e intestino. Fin dall’antichità il decotto, poi, veniva utilizzato per contrastare mal di gola e tosse. Prepararlo è semplicissimo basta lavare la mela, tagliarla a pezzetti e farla bollire insieme a 200 ml d’acqua per circa 10 minuti, aggiungendo miele o zucchero secondo i gusti. Con le mele cotogne si fa un ottima confettura che può essere utilizzata per preparare dolci, ma che può anche accompagnare carni grasse e cotte in umido, pollame e selvaggina. Nella tradizione siciliana a questo frutto si associa la “cotognata”, uno dei dolci tipici delle festività di inizio novembre.
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LA MELAGRANA (GRANATU)
È sempre stata considerata simbolo della fecondità e della ricchezza per via dei numerosi presenti al suo interno. Ma è stata dimenticata per decenni e relegata a semplice elemento decorativo. Da un paio d’anni il frutto del Punica granatum, pianta originaria dell'Asia sud-occidentale e coltivata nelle regioni caucasiche da tempo immemorabile, è stato riscoperto dai consumatori, tant’è che nei mercati all’ingrosso italiani ed europei, dove fino a qualche tempo fa non veniva nemmeno quotato, è adesso richiestissimo. Oggi si consuma spesso sotto forma di succhi, ma sono innumerevoli gli usi culinari: non solo base per la preparazione di marmellate e gelatine, ma anche apprezzato in ricette di carne, insalate, dolci e molti aperitivi. In cosmetica naturale si trova tra gli ingredienti di creme anti-age e remineralizzanti per il viso e il corpo.
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Come spiegare il ritorno in “auge” di questo frutto considerato anche ben augurante? E’ bastato riscoprire e divulgarne le tante proprietà che erano note già nell’antica Grecia, dove il lucido frutto rosso era noto come concentrato di forza e resistenza utile alle ossa, al cervello, agli occhi e alle unghie. Della melagrana si sa che è una ricca fonte di antiossidanti e in particolare di flavonoidi che aiutano il nostro organismo a mantenersi in salute e a prevenire l’invecchiamento precoce e che agisce nella prevenzione di ictus e infarto e funziona anche da antitumorale. Porta benefici al sistema immunitario e aiuta a tenere sotto controllo i livelli di colesterolo e ad abbassare la pressione sanguigna. Da non sottovalutare, poi, il contenuto di preziose vitamine, soprattutto di vitamina A, vitamina C, vitamina E e vitamine del gruppo B. Buono anche il contenuto di sali minerali importanti come il manganese, il potassio, lo zinco, il rame e il fosforo. Molti sanno che pulire una melagrana e ottenere i preziosi chicchi è un’impresa complicata che spesso si traduce in macchie indelebili sugli abiti e sulle dita. Eppure c’è un metodo semplice e infallibile per riuscire nell’impresa: dopo avere eliminato la parte dove la buccia coriacea sta iniziando ad aprirsi, si divide il frutto a spicchi senza staccarli e lo si immerge per dieci minuti in acqua. Poi si pulisce facilmente a mano nell’acqua stessa: i chicchi vanno a fondo, membrane e buccia galleggiano. I chicchi lucenti e d’un bel colore rosso acceso, dolci e un po’ aciduli, spesso vengono usati per la decorazione delle pietanze, ma sono ormai in molti quelli che con essi preparano dessert, risotti o li abbinano alle carni, soprattutto di maiale.
Marmellata di corbezzolo
Ingredienti • 1 kg di polpa di corbezzoli maturi • 700 gr di zucchero di canna • Scorza di un limone non trattato • 1 bicchiere di acqua Procedimento Lavate bene i corbezzoli e metteteli in una pentola capiente. Lasciate cuocere a fuoco lento per circa 20 minuti, quindi passateli al setaccio per eliminare i semi e aggiungete lo zucchero, la scorza grattugiata del limone e il bicchiere d’acqua. A questo punto si rimette il tutto a cuocere su fiamma bassa, mescolando di tanto in tanto fino ad ottenere un composto denso. Invasate la marmellata ottenuta nei barattoli in precedenza sterilizzati, avendo cura di creare il sottovuoto.
Confettura di mela cotogna
Ingredienti • 2 kg di mele cotogne mature • 700 gr zucchero • 1 bustina di vanillina • il succo di 1 limone Procedimento Preparare una capiente ciotola piena d’acqua con qualche fettina di limone dove riporrete i cubetti di polpa in cui sono state ridotte le mele cotogne dopo averle lavate accuratamente, private del torsolo m non della buccia. Il limone servirà a non farle annerire durante tutta la fase del taglio. Togliere dall’acqua i cubetti di polpa, e dopo averle sgocciolati per bene poneteli in una pentola aggiungendo due bicchieri d’acqua. Fare cuocere a fuoco medio finché la frutta non si sarà ammorbidita e spappolata. A questo punto setacciarle in un passaverdure
e riporre la polpa così ottenuta di nuovo nella pentola a cui aggiungere lo zucchero, la vanillina. Fare cuocere nuovamente a fuoco lento per 40 minuti, mescolando di tanto in tanto con un cucchiaio di legno. Quando il composto sarà liscio e omogeneo aggiungere il succo di limone e fare cuocere ancora per 5 minuti. Ridurre al minimo la fiamma e versare la confettura bollente in vasetti sterilizzati che una volta tappati dovranno essere disposti a testa in giù affinché si formi il sottovuoto (condizione che consentirà alla confettura di conservarsi a lungo). Se si vuole preparare la cotognata da far asciugare, è necessario versare la confettura nelle formine inumidite. Dopo circa mezza giornata si possono sformare e le varie forme di cotognata vanno sistemate su un vassoio coperto con un velo per farle asciugare al sole per alcuni giorni e comunque fino a quando le forme si presentano ben asciutte.
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Capperi e Sale imp_5 10/10/16 16:23 Pagina 11
profumo di
capperi di Alessia Boschetti
Il cappero ha varcato i confini del Mediterraneo ed è protagonista di numerose ricette della cucina internazionale. Altro non è che il bocciolo del fiore di un arbusto rupestre, la “Capparis spinosa”, raccolto ancora chiuso.
• MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
I
capperi in Sicilia crescono spontanei ovunque c’è una rupe, un vecchio muro, un crinale roccioso che si tende verso il mare. Da sempre li raccolgono e li coltivano in tutto il bacino del Mediterraneo e fin dall’antichità sono decantati dagli autori classici sia come condimento con virtù digestive sia come appetitoso aperitivo. Nell’Egitto dei Faraoni erano pure considerati afrodisiaci. Se ogni famiglia in Sicilia li raccoglie per la conservazione casalinga, soprattutto nelle isole Eolie e a Pantelleria, dove terreni e clima garantiscono il prodotto più ricco di gusto e aroma, si sono organizzati per coltivazioni di altissimo livello, sicuramento al top qualitativo mondiale, in cui il rigoroso rispetto della naturalità e la raccolta tradizionale a mano, si sposano con un’organizzazione moderna nella conservazione e nella distribuzione del prodotto. Il cappero è il bocciolo del fiore di un arbusto rupestre, Capparis spinosa, il cui ceppo legnoso, normalmente abbarbicato nelle fessure tra le pietre, può vivere anche oltre un secolo, ma sviluppa fusti flessibili annuali, perloppiù ricadenti, con foglie ovali molto lisce, glauche, carnosette, alla cui base in alcune varietà ci sono due spine. I fiori sono bellissimi, con quattro sepali e quattro petali e numerossissimi lunghi stami che li rendono vaporosi. I frutti, detti cucunci, somigliano a cetrioli ovali. La raccolta dei boccioli, che sono buoni solo se perfettamente chiusi e sodi, avviene da metà maggio a fine agosto (quelli delle fioriture successive non hanno gli stessi requisiti qualitativi) e viene seguita da una conservazione di almeno di un paio di mesi in salamoia che dà al prodotto il tipico gusto piccantino e l’aroma. Successivamente viene effettuata la calibratura, perché
più i capperi sono piccoli più sono pregiati: vengono suddivise in diverse categorie partendo da 4 mm di diametro fino ai 14 mm e oltre. Il calibro 4-7 è il più pregiato. Ovviamente vanno scelti questi esemplari piccoli e sodi per consumarli interi a crudo; i medi vanno bene interi nei sughi e nelle varie ricette cotte (anche se è sempre meglio aggiungerli a fine cottura), mentre per salse e farciture, in cui il cappero deve essere tritato, si possono utilizzare esemplari più grossi e meno costosi. Dopo la calibratura i capperi vengono confezionati in sacchetti o secchielli con del sale marino. Oppure vengono conservati sotto vetro in liquido di governo composto da aceto di vino e salamoia. Saranno così protagonisti insostituibili di numerose ricette della cucina internazionale: il loro utilizzo infatti ha varcato i confini originari del Mediterraneo e li ritroviamo anche in piatti tipici di zone non marinare, come molte mousse o patè del nord della Francia, il “vitel tonnè” tipico della cucina milanese, “il bagnet vert” del Piemonte, la salsa di capperi per il cosciotto d’agnello bollito della cucina inglese. Nella cucina mediterranea trovano un posto di rilievo soprattutto in Provenza, tanto che all’inizio del ‘700 si diceva che tutti i capperi che si mangiavano in Europa venivano da Tolone: è vero che nel sud della Francia li coltivavano, ma le partite migliori, già allora, giungevano a Tolone proprio dalla Sicilia. È provenzale il cosiddetto caviale del sud, “la Tapenade”: capperi tritati con olive nere, semi di senape e acciughe. In Sicilia, con questi gustosi boccioli si aromatizzano carni, pesci, verdure, sughi per la pasta e soprattutto, la celebre caponata di melanzane. Oggi sono di moda anche i frutti del cappero, i cucunci, serviti sottaceto come stuzzichini per l’aperitivo.
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kaki,cibo degli dei di Mariagrazia Sclafani
Diospiro, loto, kaki: nomi diversi per quello che i Cinesi definiscono l’albero delle sette virtù. Simbolo dell’autunno e dolce fino ad essere stucchevole, o si ama o si odia
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uno degli alberi da frutto coltivati più anticamente dall’uomo. In italiano ha anche un altro nome, altisonante, un po’ meno noto: diòspiro o diòspero. Il nome botanico diospyros deriva dal greco dios = Giove e pyros = frumento, il che attribuisce al kaki l’attributo di “cibo degli dei”. Sebbene, in una nota canzone, simboleggino l'Italia, i kaki sono, in realtà, nativi dei Paesi d'Oriente. La loro terra d’origine è la Cina centro-meridionale. I cinesi chiamano la pianta del kaki anche “l’albero delle sette virtù”: fa molta ombra, è una fonte di buona legna da ardere, il suo fogliame concima in abbondanza il terreno, non viene attaccato dai parassiti, le sue foglie hanno fantastici colori decorativi, è molto longevo e offre agli uccelli ampio spazio sui rami per nidificare. Alcune fonti vogliono che il suo viaggio verso terre americane ed europee ebbe inizio solo verso la metà dell'Ottocento. Si narra che il primo albero di kaki nel nostro Paese fu coltivato nel giardino di Boboli nel 1871.
Pochi sanno, invece, che il kaki arrivò direttamente dalla lontana Cina già nel 1692 a Misilmeri. Quando venne realizzato un orto botanico per mano di Don Francesco Bonanno del Bosco Sandoval (principe della Cattolica e duca di Misilmeri). A quel tempo i nobili facevano a gara per chi avesse il giardino botanico più eccentrico e con le piante più esclusive. E Don Francesco Bonanno di sfigurare con i suoi pari palermitani non ne voleva proprio sapere... Per la realizzazione vera e propria del giardino si avvalse dell’aiuto del padre francescano Francesco Cupani da Mirto. Fu proprio quest’ultimo ad introdurre il loto (questo è un altro nome della pianta), inizialmente, solo per scopi scientifici ed ornamentali. Si dovrà aspettare la fine della prima guerra mondiale per dare inizio alla coltura del kaki a Misilmeri e alla commercializzazione dei suoi frutti. Si presume che i primi impianti siano stati realizzati tra il 1925 e il 1930: poche piante inserite in alcuni frutteti familiari, in concomitanza alla morte degli alberi di piante di agrumi, dovuta molto probabilmente all’impoverimento del terreno o all’attacco del marciume del colletto, fatale per alberi innestati su specie non resistenti. Oggi i kaki sono i frutti tipici e simbolo dell’autunno ma a differenza di altri, dato il loro sapore dolce e la consistenza un po' gelatinosa, è difficile che ci siano mezze misure: o si odiano o si amano. Nel territorio dell'agro palermitano, dove il clima è temperato e subtropicale, è stata possibile l’introduzione di alcune varietà che con il passare del tempo si sono
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stabilizzate e ne hanno fatto una precisa entità caratteristica. Trovato il suo habitat favorevole, dal 1925, gli agricoltori pensarono bene di estendere tale coltivazione ad una più ampia superficie. La coltura cominciò ad espandersi rapidamente tanto che nell’arco di un ventennio giunse ad occupare una superficie piuttosto consistente, coprendo quasi uniformemente il comprensorio di Misilmeri. La varietà più coltivata nell’areale è quella di vaniglia. La sua raccolta (manuale) avviene comunemente nel mese di ottobre quando ancora la polpa è verdastra; i frutti ancora immaturi, vengono staccati dai rami a cui sono appesi da un ridotto e vigoroso pedicello che si diparte dal calice del fiore che lo ha generato. Il frutto così raccolto viene immesso in un cassone “casciuni” foderato di carta robusta e coperto. Qui avviene il cosiddetto “ammanzimento”, processo naturale in cui il frutto perde l’ “allappatura”: il frutto acerbo inizia il suo mutamento dalla buccia sottile ed ancora giallognola al colore arancio-mattone, perde il tipico effetto astringente al palato provocato dall’elevato contenuto di tannino e, maturando fa crescere il contenuto in zuccheri diventando così molto gradevole al gusto. "Il nostro lavoro sul campo – dichiara Vincenzo Giordano della Soat di Misilmeri – nasce per valorizzare il prodotto sia nel nostro comprensorio, sia oltre i nostri confini". E aggiunge: "I risultati sono frutto di un lavoro di squadra, che ha visto protagonisti i produttori e l’Assessorato alle Risorse agricole ed alimentari della Regione Siciliana, che, attraverso i suoi servizi tecnici, ha favorito ed assecondato la crescita e lo sviluppo di un’iniziativa sinergica per la tutela, la promozione e la valorizzazione commerciale del prodotto". Da qualche anno, poi, i tecnici della Soat di Misilmeri e del Consorzio Vivaisti Lucani di Scanzano Jonico hanno proposto e validato sui frutti di kaki varietà "Farmacista Onorati", l'applicazione del processo di "detannizzazone" con CO2 (anidride carbonica), lo stesso adottato in Spagna per il kaki "Rojo Brillante" che viene venduto come “kaki mela” e che negli ultimi quattro anni si è diffuso sulle nostre tavole. “Il kaki acerbo – spiega Giordano - è miniera di tannini, ai quali si devono le note proprietà astringenti: la tipica percezione di avere la “bocca legata” è dovuta proprio alla componente tannica. Durante la maturazione, la quantità di tannini si riduce fortemente e viceversa, gli zuccheri (fruttosio e glucosio) aumentano. La detannizzazione con anidride carbonica consente di commercializzare, e quindi di consumare, un frutto ancora acerbo, con una polpa croccante e soda, quindi di fa-
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cile movimentazione anche su lunghi tragitti senza rinunciare alle straordinarie proprietà organolettiche”.
KAKI, SALUTE E BENESSERE I kaki hanno proprietà lassative e diuretiche. Sono frutti ricchi di fibre che contribuiscono a migliorare la regolarità intestinale. Le fibre sono utili anche per aiutare il nostro organismo a liberarsi dalle tossine. La loro ricchezza d’acqua li rende un frutto utile a reidratare l’organismo e nello stesso tempo a stimolare la diuresi. Una caratteristica molto utile per chi desidera scegliere un’alimentazione ricca di cibi che aiutino a depurarsi. Sono un frutto utile per provare a contrastare la tipica stanchezza autunnale dato che ci aiuta a ritrovare energia in modo naturale. Il momento ideale per consumare i kaki è la colazione, sia per iniziare la giornata con più sprint che per riavviare fin da subito le funzionalità intestinali.
SUGGERIMENTI Quando acquistate i kaki sceglieteli sempre con la buccia perfettamente intatta, sodi e maturi al punto giusto. Per il trasporto dal negozio a casa evitate di usare borse, cestini o sacchetti, preferite piuttosto una cassettina dove i kaki possano stare allineati senza schiacciarsi.
CURIOSITÀ DALL' ORIENTE In Giappone, dove il kaki viene largamente coltivato e consumato, si usa conservarlo per l’inverno con un sistema davvero singolare: una volta raccolti i frutti immaturi, si toglie loro la buccia quanto più sottile possibile. Poi, usando il peduncolo come aggancio, vengono appesi a dei bastoni posti su cavalletti, in pieno sole o in particolari stanze riscaldate. Con il passare dei giorni, il kaki perde la sua tipica forma e si allunga, diventando scuro e coperto di una patina biancastra di zucchero cristallizzato. E' il dolce preferito dai giapponesi. Sempre in Giappone, al devastante bombardamento atomico di Nagasaki, nell’agosto del 1945, sopravvissero soltanto alcuni alberi. Tra questi, un albero di kaki. Per questo motivo il kaki è considerato universalmente, nei paesi non cattolici, “l’albero della pace”. Da allora, viene offerto come dono nei santuari shintoisti. Per il profondo legame del kaki con la vita, viene posto sull’ altare a Capodanno e nel giorno dei morti quando le anime tornano sulla terra, mentre nei cimiteri su delle foglie di kaki si appoggia del riso come offerta per i morti senza nome o bambini morti.
Confettura di kaki e frutti rossi Ingredienti per 4 vasetti da 300 ml • 1 Kg di cachi maturi • 300 gr ribes rossi • 500 gr di zucchero semolato • 2 mele renette • buccia e succo di 1 limone • 1 bicchierino di rum • 1 bustina di vanillina Procedimento Lavate bene i vasetti e i relativi tappi; metteteli in forno e portare la temperatura a 150 °C. Raggiunta la temperatura, lasciare nel forno i vasetti e i tappi per 15-20 min. Riducete la temperatura del forno a 80-100 °C lasciando al suo interno i vasetti sino al momento del loro impiego. In una casseruola d’acciaio mettete la polpa dei kaki, i grani di ribes ben lavati, le mele renette tagliate a dadini, il succo di un limone e ponete su fuoco. Portate a bollore e cuocete, a fuoco medio, per 15-20 min. Trascorso il tempo, passare il tutto utilizzando un passaverdura; rimettere la purea nella casseruola, aggiungere lo zucchero semolato, la buccia grattugiata del limone, mescolate bene e rimettete sul fuoco; portate a bollore e continuate la cottura per circa 60 minuti o comunque sino alla consistenza desiderata. Terminata la cottura, aggiungete il bicchierino di rum, mescolate bene e procedete all’invasettamento: utilizzando un guanto, prendere un vasetto dal forno, riempirlo con la confettura sino al bordo; avvitare il tappo ben stretto e capovolgere il vasetto a testa in giù. Questa operazione permetterà, una volta che la confettura si sarà raffreddata, di creare il “sottovuoto” nel vasetto. Conservare in luogo fresco e asciutto per un mese prima di consumare la confettura. Questa confettura è ottima a colazione spalmata su fette biscottate, nella preparazione di crostate o in accompagnamento di formaggi stagionati.
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Gamberi rosa con caponata al Nero d’Avola La frutta di stagione ispira sempre nuove creazioni. L’uva, poi, presenta tanta varietà che è difficile non trovare quella che si sposa ad altri prodotti in modo egregio dando vita a preparazioni che solleticano il palato e l’immaginazione. Chi l’avrebbe mai detto che l’aggiunta di acini dell’uva da vino a bacca nera che più rappresenta la Sicilia enologica, insieme al gambero rosa avrebbe “riverdito” una pietanza tanto nota della tradizione gastronomica siciliana? Ebbene sì, il risultato merita attenzione. Ingredienti
Procedimento
400 gr di gamberi rosa 2 grappoli di uva Nero d’Avola 4 melanzane 1 peperone rosso 1 peperone giallo 3 coste di sedano, 2 cipolle 50 gr di pomodoro concentrato zucchero semolato aceto di vino 30 gr pinoli 30 gr di uva passa olio di oliva extravergine
Lessate il gambero con il guscio in modo che rimanga molto morbido e sempre integro. Sgusciateli e passateli in un battuto di olio e limone. Tagliate le melanzane a dadini e friggetele. Tagliate il sedano e sbollentatelo. Soffriggete la cipolla aggiungendo i chicchi di Nero d’Avola, i peperoni tagliati a listarelle e il concentrato di pomodoro. Fate cuocere lentamente aggiungendo di tanto in tanto dell’acqua; unite l’uva passa, i pinoli, il sedano e le melanzane. A questo punto regolate con aceto e zucchero. Formate nel piatto un tondino di capponata, decorate con i gamberi e i chicchi di Nero d’Avola. Mangiate unendo l’ultimo migliore ingrediente: una buona compagnia.
Unto e cacio… Amatriciana Con il cuore ad Amatrice... Originariamente il sugo veniva preparato dai pastori con gli ingredienti a loro disposizione sulle montagne quando seguivano al pascolo le greggi. Gli ingredienti erano guanciale a cubetti o fettine sottilissime, pecorino e spaghetti. Il piatto veniva tradizionalmente chiamato "unto e cacio". Ingredienti
Procedimento
500 gr di spaghetti, vermicelli o bucatini 200 gr guanciale 100 gr di pecorino di Amatrice sale e pepe q.b.
Tagliate il guanciale a fettine e poi a listarelle, ma, se vi piace di più, in classici cubetti. Mettete in una padella il guanciale senza altro condimento perché ben presto si scioglierà il grasso, mentre il resto diventerà croccante. Grattugiate il pecorino e tenete da parte. Cuocete la pasta in acqua salata bollente e scolatela al dente. Trasferite gli spaghetti nella padella con il guanciale e il suo condimento e iniziare a mescolare a fuoco basso, mantecate col pecorino e versare poca acqua di cottura in modo che si formi un’emulsione col formaggio e il grasso del guanciale sciolto.
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Ricciola su zucchine al pesto aromatico La ricciola, il più pregiato tra il pesce azzurro, è saporitissimo, ha ottime carni compatte, di colore roseo, con poche lische. È un pesce elegante dalle carni deliziose al pari di tonno, branzino e orata. Anche se le carni della ricciola sono ricche di omega 3, diversamente dal tonno e dal pesce spada, la fragranza ed il chiarore delle carni non danno l’impressione trattarsi di pesce azzurro. Ottima cruda, al forno, alla griglia. Ingredienti 1 kg di filetto di ricciola 2 zucchine genovesi 200 gr di pomodorini ciliegia 1 mazzo di indivia riccia 50 gr di olive nere qualche chicco d’uva qualche chicco di melagrana olio extravergine di oliva sale e pepe in più per il pesto: 3 foglie di citronella 3 foglie di menta 5 foglie di basilico foglia larga 50 g di mandorle Procedimento Preparate il pesto con le foglie di citronella, menta, basilico, le mandorle e l’olio extravergine di oliva. Quindi affettate la zucchina genovese molto sottile; affettate il pesce; tagliate il pomodoro a fettine sottili e l’indivia a piccoli ciuffetti. Disponete le zucchine in una teglia da forno dopo averla oleata in modo da formare un rettangolo: mettere il pomodoro, salare e pepare. Quindi irrorate con il pesto preparato in precedenza, mettete il pesce e ripetete con gli ortaggi a strati. Sopra disponete alcune listarelle di pesce, l’oliva ed al centro sistemate un chicco di uva bianca. Decorate con la melagrana, mettete al forno a 180°C e fate cuocere per 10 minuti.
Uva Italia in gelatina di catarratto L’agar-agar è un polisaccaride a nessun impatto calorico che viene utilizzato come gelificante naturale e può essere utilizzato per gelificare anche prodotti che non si solidificano con la classica “colla di pesce”. Non altera il sapore delle pietanze, è completamente vegetale e viene ottenuto grazie ad un trattamento abbastanza complesso di lavorazione ed essiccamento dell’alga rossa. È termo reversibile, ossia, il composto gelificato può essere sciolto nuovamente e poi ancora rassodato. A differenza della gelatina classica, si scioglie a temperature molto alte fra gli 85° e i 90°C. Ingredienti 500 gr di uva Italia 2 kg di catarratto 1 stecca di cannella 2 gr di agar agar 1 limone Procedimento Estrarre il succo dall’uva catarratto, tagliare in due l’uva Italia e privarla dagli acini. Mettete a cuocere il succo con la stecca di cannella il succo del limone e l’agar agar. Versate il succo in un bicchiere inserire l’uva Italia e mettere in frigo.
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Formaggi & C. casari all’opera
dalle Dop ai presidi Slow Food, le eccellenze prodotte nell’Isola di Maria Rita Pisano
Dall’esperienza dei casari siciliani nascono i formaggi d’eccellenza dell’Isola. Con questo articolo cominciamo una piccola e non certo esaustiva rassegna di quel che offre la Sicilia sul versante dei prodotti caseari
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n Sicilia la scelta di formaggi è piuttosto vasta (anche se non tutti ne sono consapevoli). Molti di questi sono da consumare freschi e cioè prima di subire le trasformazioni aromatiche legate alla stagionatura. Tra questi, un posto di primo piano occupa la vastedda del Belìce Dop, uno dei formaggi-simbolo della biodiversità casearia della Sicilia. Viene prodotto nella parte occidentale della Sicilia, in una valle, quella del Belìce appunto, che si trova a cavallo di tre province: Palermo, Trapani e Agrigento. Più in particolare il disciplinare di produzione individua l’areale di produzione che comprende i territori dei comuni di Santa Margherita Belìce, Contessa Entellina, Sambuca di Sicilia, Menfi. La vastella del Belice ha ottenuto il marchio Dop nel 2010 e questa denominazione di origine protetta è riservata esclusivamente al formaggio a pasta filata, ottenuta con latte di pecora allevata nella Valle del Belìce. Caratteristico il suo colore bianco-avorio e il sapore dolce e fresco con un lieve retrogusto acidulo. La particolare lavorazione rende la vastedda leggera e digeribile: pur avendo una massa grassa bassa, mantiene un buon livello di proteine, vitamine e sali minerali. La vastedda ha una peculiarità che molti sconoscono: è l’unico formaggio di latte di pecora fatto a partire dal latte crudo.
Ma andiamo ai numeri. Qual sarà mai la produzione della Vastedda del Belìce? “Lo scorso anno abbiamo avuto un incremento eccezionale, passando da 16,9 tonnellate del 2014 a 25,7 tonnellate di produzione certificata nel 2015”, dichiara Massimo Todaro, Presidente del Consorzio di Tutela, produttore di vastedda e al contempo docente universitario. Che poi esprime ottimismo per il 2016: “Grazie alla buona annata, confermeremo la produzione dello scorso anno ed è probabile, ma non certo, un leggero incremento”. “La vastedda della valle del Belice Dop è un formaggio fresco – spiega Todaro – che piace ai giovani, dal sapore leggermente acidulo che sa di latte appena munto quando il prodotto è freschissimo, con essenze aromatiche floreali dovute al pascolo. Nell’areale di produzione le pecore sono alimentate al pascolo per 365 giorni l’anno, e quindi anche d’estate: da lì vengono le note floreali che si trasferiscono al latte e che poi troviamo nel formaggio. Ciò fa sì che il formaggio non si possa di certo definire standard”. E poi c’è il metodo di lavorazione. La vastedda viene fatta con il latte crudo (cioè non trattato termicamente) e ancora all’antica, il che prevede la manualità del casaro e l’uso delle attrezzature di legno dove si
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annidano i fermenti lattici che rendono tipico il sapore e che troviamo numerosi nel formaggio. E poi la vastedda ha la caratteristica di essere poliedrica e molto versatile in cucina, la possiamo adoperare per preparare un antipasto, o un primo o un secondo mantecato, grazie alla sua capacità di filare. La possiamo degustare a fine pasto, magari con delle gelatine di limone, o possiamo inserirla fra i condimenti della pizza siciliana rendendola un piatto da gourmet. Dalla valle alle montagne. Nel nostro viaggio immaginario passiamo ad un altro versante, le Madonie, Qui troviamo una provola a pasta semidura e filata, prodotta con latte vaccino. E’ la provola delle Madonie, dalla caratteristica forma a fiasco panciuto. Può essere consumata fresca, quando il suo colore è prossimo al bianco e la consistenza morbida e compatta, dal caratteristico sentore di latte. Ma è ottima anche dopo la stagionatura, quando il colore vira maggiormente verso il giallo paglierino. Nella provincia di Palermo si allevano ancora le mucche della razza cinisara, che Slow Food ha deciso di proteggere in quanto autoctona, istituendo un suo presidio così come fa con molte peculiarità territoriali. La razza cinisara è una
razza rustica, caratterizzata dal manto nero uniforme e dalle corna ben sviluppate a forma di lira che sono portate dai maschi. Il formaggio che deriva dal latte della mucca cinisara è il “caciocavallo palermitano” o “scalone palermitano di cinisara”. Si tratta di un formaggio ricco di profumi e dai sapori intensi, di grande versatilità, da consumare sia fresco che stagionato. Nella zona di Godrano, sempre nel palermitano, invece, troviamo il “caciocavallo fiore” a quattro facce. Si tratta di un formaggio a pasta filata ottenuto sempre dal latte delle vacche di razza cinisara a cui viene data la forma di parallelepipedo, con crosta è sottile, liscia e di colore ambrato. Due le caratteristiche principali del prodotto: l’odore fragrante, che cambia secondo la stagionatura, e il sapore piccante. A questo formaggio è legato una similitudine usata spesso per definire gli ipocriti o gli opportunisti. “Aviri quattru facci comu ‘u cascavaddu” significa, appunto, comportarsi diversamente a seconda delle circostanze. Un prodotto che possiamo definire “ubiquitario”, ovvero che non ha un territorio d’elezione o di produzione caratteristico e che non ha ancora un profilo ben definito è la ricotta. Considerato “il formaggio, no formaggio” è comunque uno dei prodotti della tradizione siciliana a cui è indissolubilmente legata l’arte della pasticceria tradizionale. La definizione di “formaggio, no formaggio” deriva dal fatto che non si ottiene dalla cagliata, ma da un sottoprodotto della caseificazione cioè il “siero di latte” con o senza aggiunta di acidificanti. Da qui il nome di “ri-cotta”. Sul mercato troviamo ricotta di vacca, di pecora, ricotte fresche, stagionate ed è considerato un prodotto “light”.
Falsomagro Ingredienti • una fetta di fesa di vitello, di circa 1 kg e spessa circa 1 cm • 100 gr di mortadella, 100 gr di lardo • 200 gr di salsiccia sbriciolata • 200 gr di tritato misto manzo/maiale • 1 uovo fresco, 3 uova sode • 50 gr di pangrattato • 50 gr di pecorino grattugiato • 200 gr caciocavallo palermitano • olio extravergine di oliva • 2 foglie di alloro, vino rosso • cipolla, 400 gr di salsa di pomodoro • q.b. sale e pepe Procedimento Mettete la salsiccia sgranata, la carne macinata, il pangrattato, il pecorino grattugiato, sale, pepe e l'uovo fresco intero in una ciotola e mescolate il tutto fino a ottenere un impasto morbido e ben amalgamato (il cosiddetto "capuliatu”). Stendete la fetta di fesa e battetela un po’ per renderla più morbida. Su di essa adagiate uno strato di mortadella a fette, poi l'impasto ottenuto ovvero “u capuliatu" distribuendolo uniformemente sulla fetta di carne, quindi uno strato di caciocavallo palermitano, uno strato di lardo e infine le uova sode. A questo punto arrotolate la fetta di fesa, applicate le foglie di alloro e chiudete il rotolo con spago per cucina. Ponete sul fuoco un tegame grande in cui avrete versato l'olio extravergine di oliva ed una cipolla affettata; adagiatevi il falsomagro che girerete ogni tanto sfumandolo con un bicchiere di vino rosso. Quindi aggiungete la salsa di pomodoro e poi 4 bicchieri di acqua, sale e pepe, coprite il tegame e lasciate cuocere a fuoco moderato per un'ora e mezza. Controllate che non si asciughi troppo, eventualmente aggiungete mezzo bicchiere di acqua e di vino rosso. Finita la cottura lasciate intiepidire il falsomagro che va affettato su un tagliere e quindi disposto nei piatti con la salsa di pomodoro.
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Cacio e provola
dall’altopiano ibleo
di Omar Gelsomino
Si narra che un argentiere del popolare quartiere della Vucciria, fosse caduto in disgrazia e che fosse riuscito a non far capire ai vicini di casa le ristrettezze economiche in cui si trovava la sua famiglia, grazie alla moglie molto brava ai fornelli. Al posto del coniglio, divenuto per loro un alimento ormai di lusso, cucinavano il caciocavallo. Dalla fusione dei profumi dell'aglio con il formaggio e l'aceto sfumato, i vicini rimanevano così "rapiti" tanto da credere che quell'aroma provenisse dalla cottura della pietanza più costosa.
Caciocavallo all'argentiera Ingredienti • 600 gr di caciocavallo • olio extravergine d'oliva q.b. • due spicchi d'aglio • aceto bianco q.b. • zucchero q.b. • origano fresco Procedimento In un tegamino si fa rosolare l'aglio, tagliato a pezzetti, l'olio. Aggiungi il caciocavallo, tagliato a fette rettangolari e spesse quasi un centimetro ed aspetta che il formaggio cominci a dorare da entrambi i lati, poi ag giungi un cucchiaio di aceto bianco che avrà già preso lo zucchero. Dopo aver fatto sfumare l'aceto e spolverato con l'origano fresco bisogna lasciarlo sul fuoco per qualche minuto per poi mangiarlo caldo.
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on oltre venti prodotti tipici ed una storia antichissima risalente ai Fenici, la Sicilia è la regioni italiana che vanta il maggior numero di specialità casearie. La storia dei formaggi dell’Isola ha poi testimonianze d’eccezione: chiari riferimenti alla presenza in Sicilia di pastori dediti alla produzione di pecorini si trovano negli scritti di Aristotele e nell’Odissea (il ciclope Polifemo si dedicava, infatti, alla pastorizia). Ai formaggi oggi si associano luoghi di produzione, tradizioni gastronomiche, importanti riferimenti storico-culturali e sociologici; ecco perché a questi prodotti può legarsi una nuova offerta turistica e sono nate negli ultimi anni delle vere e proprie vie dei formaggi dedicate ai golosi, ai curiosi e agli appassionati di queste prelibatezze. Un bel tour su può fare sull’altopiano ibleo. Qui si produce la maggior parte del latte siciliano. E con molto di questo i casari locali realizzano prelibati formaggi. Uno tra i più rinomati è la provola ragusana, che può bianca o affumicata, stagionata e non. Si tratta di un formaggio semiduro a pasta filata, prodotto con latte vaccino intero crudo della mucca modicana, la razza autoctona dell’altipiano Ibleo, quello stesso areale ricco di essenze foraggere spontanee. Della provola ragusana si hanno tracce già dal 1808 (se ne parla in “Viaggio fatto in Sicilia e particolarmente nella Contea di Modica” dell'abate Paolo Balsamo) quando veniva realizzata, secondo gli antichi metodi tradizionali, con il caglio d'agnello o di capretto, il latte fresco e il sale. La provola ragusana non è una Dop, ma è sottoposta a tutela dal rischio di estinzione e per questo è stata inserita tra formaggi storici siciliani nell’Elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali istituito con il Decreto Ministeriale n.130 del 2000. Avendo
ottenuto questo riconoscimento, la sua produzione non soggiace alle ferree (e spesso stupide) regole imposte dalla Ue in materia di igiene degli alimenti. La provola ragusana ha forma di “pera” tipica delle provole meridionali che grazie alla loro forma possono essere facilmente essere appese a stagionare. Il suo colore dipende dal grado di stagionatura: se fresca è bianca, se di colore giallo paglierino è stagionata. Anche il sapore è diverso: più dolce in quella fresca, leggermente salato in quella più stagionata. Viene consumato sia come formaggio da tavola (è il caso del prodotto fresco) che inserito come ingrediente in diverse ricette siciliane. Un altro formaggio tipico della provincia iblea è il caciocavallo, differente dalla provola sia per la forma che per periodo di stagionatura. Chiamato in dialetto “scaluni” o “pruvuluni” è anch'esso prodotto con latte vaccino intero ottenuto da mucche di razza Modicana, ha un peso che varia dai 10 ai 16 chili e la forma di un parallelepipedo a sezione quadrata (altezza 13-15 cm e lunghezza 40-45 cm) con angoli smussati leggermente deformati dalla corda che lo tiene sospesa durante la stagionatura. Nel 1996 a questo formaggio è stata riconosciuta la Denominazione di Origine Protetta. La denominazione sotto tutela è “Ragusano” per il quale esiste un disciplinare di produzione in cui si definisce l’areale di produzione che include tutti i comuni della provincia iblea e alcuni comuni siracusani (Noto, Palazzolo Acreide e Rosolini). Il disciplinare indica anche il metodo e le fasi di produzione, pasta, sapore, peso, ecc. Per degustarlo al meglio è consigliabile abbinarli al pane ragusano, lievitato con il lievito naturale o “criscente” e cotto nel forno a legna, accompagnati dall’ottimo Cerasuolo di Vittoria Docg.
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Ragusano Dop un gioiello di formaggio
Il Ragusano Dop è giallo dorato o paglierino tendente al marrone; la crosta è liscia, sottile, compatta di colore giallo dorato o paglierino tendente al marrone con il protrarsi della stagionatura e può essere anche cappata con olio di oliva. La pasta è bianca, tendente al giallo paglierino, compatta. E infine il sapore: decisamente gradevole, dolce e poco piccante nei primi mesi di stagionatura che diventa piacevolmente piccante a stagionatura avanzata. Ma come riconoscere un Ragusano Dop? Ogni forma presenta la scritta punteggiata “Ragusano” ai lati della forma, due marchi a fuoco sulla parte alta e bassa con scritto “Ragusano Dop”. Inoltre riporta il marchio aziendale del caseificatore, la numerazione ed il marchio a fuoco di certificazione della qualità. Il Ragusano Dop è prodotto con latte vaccino intero e crudo durante le stagioni tardo autunnale, invernale e primaverile, in presenza di foraggio verde. La lavorazione rigorosamente artigianale si realizza con utensili in legno e seguendo metodi tradizionali e la salatura in salamoia fatta di acqua e sale per non oltre il 6%. La stagionatura deve durare almeno tre mesi (ma può protrarsi anche oltre un anno): avviene in ambienti freschi con pareti geologicamente naturali cosicché vengano garantite temperature comprese tra 14 e 16 gradi e umidità compresa tra l’80 il 90%. Le forme vengono legate a coppia con sottili funi e poi appese a cavallo di travi di legno (per questo il formaggio così stagionato veniva chiamato caciocavallo). (a.s.)
Per le Dop ragusano e pecorino siciliano la garanzia Corfilac Il Corfilac, il Consorzio di Ricerca della Filiera Lattiero-Casearia, si occupa della certificazione del Ragusano Dop e del Pecorino Siciliano Dop (prodotto prevalentemente nella Sicilia centrale). Il Consorzio, dopo avere svolto per anni attività di ricerca volta alla caratterizzazione del Ragusano Dop, svolge oggi attività di assistenza tecnica e si occupa della formazione dei casari. “Abbiamo anche un caseificio sperimentale e laboratori attrezzati grazie ai quali forniamo servizi di consulenza alle aziende zootecniche per il bilanciamento delle diete animali e per la conduzione tecnologica degli allevamenti”, spiega il presidente Giuseppe Occhipinti. Per il futuro grandi ambizioni: “Vogliamo allargare sia la base sociale che le attività conto terzi a favore degli agricoltori – conclude Occhipinti – e, sulla base di una partnership con i privati, puntiamo alla riconversione della cacioteca che, realizzata inizialmente con finalità museali, domani può diventare un punto di riferimento non solo per l'attività formativa, ma anche per la commercializzazione dei formaggi da parte dei privati". Il Corfilac per la propria attività può contare sul sostegno della Regione Siciliana. A questo dovrebbero aggiungersi quest’anno i fondi messi a disposizione per la ricerca dalla nuova programmazione delle risorse comunitarie. (o.g.)
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‘U piacentinu la Dop ennese
di Oliva Barbara Corrao
DAL LATTE AL FORMAGGIO IN OTTO STEP •
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Si comincia dal latte. Per fare il Piacentinu Ennese Dop si usa solo latte ovino ovino intero, crudo ad acidità naturale di fermentazione prodotto da razze autoctone siciliane (Comisana, Pinzirita, Valle del Belice e loro meticci) alimentate al pascolo naturale e/o coltivato, con foraggi freschi, fieni e paglia ottenuti nella zona di produzione. Entro le 24 ore il latte (ovviamente refrigerato) proveniente da una o due mungiture successive avviato alla caseificazione: prima riscaldato ad una temperatura massima di 38°C, viene poi messo nella “tina” in legno, in cui avviene la coagulazione. Allo scopo di eliminare eventuali particelle estranee, nel momento in cui dai secchi viene versato nella tina, il latte viene filtrato mediante teli o setacci. Prima dell’aggiunta del caglio, il latte viene arricchito di zafferano nella misura massima di 5 grammi ogni 100 litri di latte. Per facilitarne la perfetta omogeneizzazione con il latte, lo zafferano viene prima disciolto in acqua tiepida. Con l’aggiunta dello zafferano il latte assume un bel colore giallo intenso; a questo punto viene aggiunto il caglio in pasta di agnello o capretto in quantità non superiori a 100 grammi ogni 100 litri di latte. La quantità di caglio viene scelta dai mastri casari in funzione della sua forza e deve essere tale da determinare in 45 minuti coagulazione, presa e indurimento di 45 minuti. La giusta consistenza del coagulo viene valutata saggiandola al tatto e osservando il siero che deve risultare limpido. Si procede poi alla rottura della cagliata fino a quando i granuli di cagliata hanno raggiunto una dimensione paragonabile a chicchi di riso. In questa fase per favorisce lo spurgo dei granuli di cagliata si aggiunge acqua calda alla temperatura di 75°C (20 litri ogni 00 litri di latte). La cagliata viene quindi messa nei canestri di giunco e mano a mano viene aggiunto, cercando di assicurare una distribuzione omogenea, il pepe nero in grani; ad ogni aggiunta la pasta viene fortemente pressata per favorire al massimo lo spurgo. La pasta contenuta nei canestri viene poi posta nella tina di legno e ricoperta di scotta calda per 3-4 ore. A questo punto la pasta viene messa ad asciugare a temperatura ambiente per 24 ore. Segue la salatura a secco: la forma viene cosparsa uniformemente con il sale. L’operazione va ripetuta due volte a distanza di dieci giorni l’una dall’altra. Il disciplinare prevede che il Piacentinu Ennese venga stagionato almeno per 60 giorni dalla data di produzione. E ciò deve avvenire all’interno della zona di produzione stessa, in locali freschi con delle piccole aperture affinché ci sia una moderata ventilazione, o in magazzini aventi temperature comprese fra 8/10°C ed una umidità relativa compresa fra il 70 e l’80%.
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l clima ha affidato alla Sicilia il ruolo di granaio dell’impero romano prima, e di fruttato giardino arabo in seguito. Terra di grandi latifondi e benché con pochi pascoli ha sviluppato un’antica tradizione casearia. Il pecorino siciliano è probabilmente il più antico formaggio dell’Isola: la sua documentazione risale al IX sec. a.C., quando nell’Odissea si narra dell’incontro tra Ulisse e Polifemo. Successivamente lo ritroviamo citato in una carta dei formaggi del mondo classico greco e ancora negli scritti di Plinio, che lo giudicava uno dei migliori prodotti caseari dell’epoca. Quando non viene lavorato seguendo il disciplinare della Dop è probabilmente il formaggio che può vantare il maggior numero di varianti e appellativi. Prodotto in quasi tutte le province dell’Isola con una lavorazione di base simile, si personalizza poi nelle varie tradizioni locali: è tuma a pasta freschissima, se non ancora sottoposto a salagione e stagionatura; diventa Maiorchino in provincia di Messina dove il latte di pecora viene miscelato al latte caprino; diventa invece Piacentinu nel territorio ennese, con l’aggiunta di pepe nero e zafferano. Quest’ultimo è una Dop a parte denominata appunto “Piacentinu Ennese”. È un formaggio stagionato a pasta pressata ottenuto da latte ovino, intero e crudo, proveniente dalle razze autoctone siciliane Comisana, Pinzirita, Valle del Belice e dai loro incroci. La caratteristica peculiare di questo formaggio sta nell’aggiunta, durante la lavorazione, pepe nero in grani e di zafferano che, oltre a dargli un’inconfondibile colorazione di un giallo intenso, gli conferisce un sapore spiccato, reso lievemente piccante dal pepe. Il Piacentinu viene prodotto esclusivamente nella provincia di Enna, in particolare nei comuni di Aidone, Assoro, Barra franca, Calascibetta, Piazza Armerina, Pietraperzia, Valguarnera e Villarosa. Insieme ad altre peculiarità del territorio ennese, quali la pesca tardiva di Leonforte, la fava larga di Leonforte e il Pane del Dittaino, costituisce uno degli elementi portanti della gastronomia tipica locale della provincia. L'origine della produzione del Piacentinu Ennese Dop è legata sia all’allevamento di pecore e all'attività casearia, diffuse già in antichità, che alla coltivazione dello zafferano. La leggenda vuole che l'aggiunta di zafferano al latte nella fase di produzione risalga al periodo della dominazione normanna. Si narra, infatti, che re Ruggero, preoccupato per la consorte Adelasia prostrata da un’invincibile depressione, ma da sempre amante dei formaggi, invi-
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tasse i casari del luogo a preparare un prodotto che avesse proprietà rivitalizzanti e terapeutiche. Da qui sarebbe nata l’idea di aggiungere al latte di pecora una manciata di Crocus sativus (zafferano), spezia nota nell’antichità per le sue proprietà stimolanti, energizzanti ed antidepressive. Tuttavia è assai probabile che le sue origini risalgano ad un periodo ancora precedente, cioè ai secoli della dominazione araba, in quanto furono proprio gli Arabi ad introdurre nella nostra isola lo zafferano. Quanto al termine “piacentinu”, fra le varie ipotesi sul suo significato quella più accreditata ne indica la derivazione dalla parola dialettale “piacenti” nel senso di formaggio “che piace”, proprio perché saporito e gustoso. Un’altra tesi ritiene che sia una versione del termine “piagentinu”, da
“piangente”, con riferimento alle “lacrime” di grasso che colano dalla sua untuosa superficie. La produzione di questo formaggio a pasta gialla è protetta dal Consorzio di Tutela del Formaggio Piacentinu Ennese Dop che costituitosi nel 2015 ha il compito di controllarne e tutelarne la produzione e il commercio nonché l’originalità tramite la marchiatura delle forme all’origine. Il consorzio realizza anche iniziative, progetti ed eventi a livello nazionale ed internazionale per promuovere e valorizzare il Piacentinu Ennese Dop, per informare il consumatore e curare gli interessi relativi alla denominazione di origine protetta con numerose azioni di vigilanza, e promuove ricerche scientifiche e di mercato per il miglioramento dei metodi di produzione e commercializzazione del prodotto.
Le nove aziende produttrici del Piacentinu Ennese Dop che fanno parte del Consorzio di Tutela
Casalgismondo S.P. 103 km 13 - Aidone (En) 0935 809565 info@caslgismondo.it Caseari Di Venti c.da Tresauro - Calascibetta (En) 388 89438932 casearidiventi54@gmail.com Caseificio Valvo c.da Salerno - Enna 0935 541669 info@caseificiovalvo.it Caseificio Centro Form c.da Vanelle - Aidone (En) 0935 88113 info@centroform.it
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Il Cavalcatore c.da Cavalcatore - Assoro (En) 0935 667255 info@ilcavalcatore.it Raja c.da RAJA ss 121 km 98.8 - Enna 0935 25019 liboriocottonaro@gmail.com Sapori della Terra c.da S. Tommasello - Enna 0935 533646 saporidellaterra@alice.it Azienda Agricola Stella c.da Cozzo Povero - Enna 0935 1824639 stellasocietacooperativa@hotmail.it Tenuta Bubudello Az. Agric. F.L. c.da. Bubudello - Enna 0935 671316 luigifamaci@hotmail.it
Rosario Umbriaco lo chef inventore dell’Arancino al Piacentinu Ennese®
Arancino al Piacentinu Ennese® Ingredienti per 18 persone • 750 gr di riso (Vialone nano oppure Carnaroli) • 0,75 gr di zafferano in polvere • 40 gr di burro • 40 gr di sale • 2,1 lt di acqua • 400 gr di ricotta fresca di pecora • 100 gr di Piacentinu Ennese Dop • menta selvatica, prezzemolo • pepe nero in polvere • pangrattato, olio di semi di arachidi Procedimento Eliminate la crosta e il pepe nero dal Piacentinu ennese Dop e tagliatelo a cubetti molto piccoli che scioglierete a bagnomaria con un po’ di latte. Così facendo avrete ottenuto la fonduta che metterete in frigo per farla addensare e raffreddare. Adagiate la ricotta su un setaccio e ponetela in frigo per farla asciugare: eliminerà così gran parte del siero. Si preparano quindi i due strati di riso. Per il primo mettete a bollire 1,4 litri e di acqua con lo zafferano e 20 gr di sale. All’ebollizione mettete 500 gr di riso e giunti a tre quarti di cottura amalgamate 20 gr di burro e un cucchiaino di menta selvatica tritata; a cottura ultimata, stendetelo su un piano di marmo e fatelo raffreddare. Per il secondo strato di riso mettete a bollire 700 ml di acqua con 20 gr di sale e un pizzico di pepe nero. All’ebollizione dell’acqua aggiungete 250 gr di riso a cui, giunti a tre quarti di cottura amalgamerete 10 gr di burro e un cucchiaino di prezzemolo fresco tagliato grossolanamente; anche in questo caso, a fine cottura stendetelo su un piano di marmo per farlo raffreddare. Mentre le due preparazioni di riso raffreddano, setacciate la ricotta e incorporatela al riso con pepe nero e prezzemolo. Nel frattempo, con la fonduta che si è solidificata in frigo, preparate delle palline di circa 7-8 gr ciascuna. Si passa adesso all’assemblaggio. Bagnate leggermente le mani e prendete una manciata di riso del primo strato (zafferano e menta selvatica); schiacciatelo leggermente al centro per ricavare la concavità dove andrà inserito il secondo strato di riso (quello fatto di ricotta, menta selvatica e pepe nero). In questo formate un’altra concavità in cui inserire il piacentino. Chiudete il tutto e così facendo in un unico arancino siete riusciti ad assemblare due strati di riso. Panate l’arancino con abbondante mollica premendola leggermente e friggetelo in olio di semi e arachidi al 190° per 7-8 minuti. Dopo la frittura adagiare l arancino in carta assorbente per 10 minuti, quindi servite.
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lampuga e palamita pesci di stagione di Angela Sciortino
“Capuni” e “Palamitu” sono due pesci tipici dell’autunno. Economici e versatili in cucina, adatti a chi è a dieta e a chi vuole stare in salute grazie alle poche calorie e agli Omega 3
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Palermo lo chiamano capone. È pisci capuni per i Trapanesi. Nel dialetto catanese, invece, è sfoderu. E poi c’è il pauni o capuni a Messina; ‘a lampuca a Siracusa e ‘u capuni a Porto Empedocle. Nomi diversi per Coryphaena hippurus che in italiano si chiama Lampuga, un pesce conosciuto in tutto il Mediterraneo e che frequenta i mari caldi. La specie, in questo periodo spesso presente sui banchi del pesce di tutti i mercati isolani, è caratterizzata da un accentuato dimorfismo sessuale che riguarda soprattutto la testa: i maschi hanno un profilo ripidissimo, praticamente verticale, le femmine invece (così come gli esemplari giovani) presentano il profilo piuttosto arrotondato. La lampuga predilige spazi aperti e vive sempre in branco. Si avvicina alla costa solo per deporre le uova, cosa che avviene a nella stagione
autunnale. Ha corpo allungato compresso ai lati, un colore grigio azzurro che scurisce sul dorso. La lampuga senza essere mai sazia, si nutre di sardine, alacci, pesci volanti. Pesa dai 300 grammi ai 5 chili e il peso è crescente man mano che ci si inoltra nella stagione fredda. Gli esemplari più piccoli sono quelli che hanno al massimo un mese di vita, poi la loro proverbiale voracità si traduce in ritmi di crescita velocissimi cosicchè in pochi mesi raggiungono dimensioni di tutto rispetto e in questo caso i pesci vengono venduti a tranci. Gli amanti della pesca a traino sfruttano l’abitudine di questa specie (comune in questa stagione ad altre specie come i tonnetti) di riposare a pelo d’acqua sotto materiali che galleggiano. Per questo i pescatori gettano in mare “ ‘u cannarizzu” o un mazzo di foglie di palma e poi ci ripassano accanto con le lenze dotate di numerosi ami a cui le lampughe abboccano in abbondanza, dando comunque sempre filo da torcere per via della loro grande combattività. Secondo i nutrizionisti il capone, grazie all’elevato contenuto proteico, può costituire una validissima alternativa alle carni sia bianche che rosse. È un pesce magro perché contiene meno dell’1% di grassi e apporta 117 Kcal per 100 grammi. Poi, come del resto tutti il pesce azzurro,
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è ricco di Omega 3 che con com’è noto contribuiscono a tenere sotto controllo il colesterolo e a proteggere le membrane cellulari. La sua carne è ricca di vitamine (A, B, B2, PP, B5, B6, B12, C, D, E e K) e sali minerali tra cui fosforo, zinco, magnesio e potassio. La lampuga è facile da pulire, ma per chi armeggia con difficoltà le lame affilate, troverà sempre bravi pescivendoli disposti a farlo. Inoltre si presta a molte preparazioni culinarie: è ottima alla brace, al forno, in padella ma rende al meglio cucinata al cartoccio o alla griglia. Per i siciliani Doc, la sua miglior fine in assoluto è in agrodolce. Una ricetta semplice e a basso costo e in cui potrete cimentarvi proprio in questa stagione. Un altro pesce azzurro che troviamo facilmente sui banchi delle pescherie durante i mesi autunnali è la palamita (nome scientifico Sarda sarda) che ha l’aspetto di un piccolo tonno e di cui er-
roneamente viene considerata parente povero. ‘U palamitu (questo è il suo nome in dialetto) può raggiungere il peso di 10 chilogrammi, ha colore blu scuro con riflessi azzurro verde con ventre e fianchi argentei, poche spine e carni molto gustose e compatte molto simili allo sgombro. Costa poco e si presta a diverse preparazioni, compresa la conservazione sott'olio. È simile al tonno, non solo per forma ma anche per caratteristiche organolettiche, compreso l’elevato contenuto in acidi grassi buoni (cioè quelli insaturi) e soprattutto di Omega 3, importanti per lo sviluppo cerebrale e per la protezione del cuore e delle arterie. Inoltre è ricco di vitamina A, fosforo, proteine e, proprio come la lampuga, anche la palamita è ipocalorica, apportando appena 117 Kcal per 100 grammi. A proposito di qualità, per molti le sue carni sono addirittura più saporite di quelle del tonno rosso.
Bucatini al ragù di palamita Ingredienti per 4 persone • 320 gr di bucatini • due tranci di palamita • una decina di pomodorini • uno spicchio d’aglio • una piccola cipolla • una costa di sedano • tre o quattro acciughe sott’olio o sotto sale
• una manciata di capperi sotto sale • una manciata di olive taggiasche snocciolate • un peperoncino rosso • origano • prezzemolo • olio extravergine di oliva • un pizzico di zucchero
Procedimento Dentro una grande padella rosolare nell’olio l’aglio tagliato a fettine, la cipolla divisa in due, la costa di sedano intera e il peperoncino. Dopo cinque minuti aggiungere le acciughe e lasciarle sciogliere, quindi aggiungere i pomodorini tagliati a dadi. Lasciar cuocere fino a che i pomodorini si sono asciugati, quindi aggiungere i capperi dissalati, le olive, il pizzico di zucchero, il prezzemolo e l’origano. Dopo qualche minuto di cottura aggiungere il pesce tagliato a dadi. Cuocere ancora per due o tre minuti, aggiustare di sale, spegnere, quindi togliere la cipolla e il sedano. Lessare i bucatini molto al dente, versarli nella padella insieme a un po’ di acqua di cottura della pasta, far saltare a fuoco vivace finché la pasta è ben legata al condimento.
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Una Pescheria sotto il vulcano A Catania alla scoperta del popolare mercato del pesce di Anna Statello
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pochi passi dalla sacralità del Duomo di Catania, luogo di preghiera dove riposano le reliquie della tanto amata patrona Sant’Agata, si aprono le porte di un mondo vivace, caotico e colorato che ci catapulta in un’altra dimensione: la Pescheria. Il retaggio arabo di questo storico mercato alimentare tanto amato dai “Catanesi Doc” è ancora particolarmente evidente anche per i gruppi di turisti che ne hanno fatto una meta imprescindibile nella scoperta del capoluogo etneo. La confusione che si affolla tra i banconi, il vociare incessante di pescivendoli che gareggiano per guadagnarsi l’attenzione dei passanti, quasi fossero attori su un palcoscenico, i colori sgargianti e l’esposizione quasi coreografica dei prodotti, sono plausibilmente uguali a quelli che potremmo trovare in un qualsiasi suk sulla sponda sud del Mediterraneo. La peculiarità di questo centralissimo mercato, che si sviluppa tra le traverse di via Garibaldi, le antiche mura di Carlo V e gli Archi della Marina, sta indubbiamente nel suo forte legame con l’acqua: la porta di ingresso alle meraviglie della Pescheria è infatti la Fontana dell’Amenano, più nota ai catanesi come Acqua o’ linzolu. Si tratta
una magnifica fontana di marmo di Carrara della metà dell’Ottocento, il cui getto d’acqua, tracimando dalla vasca, sembra riprodurre proprio un sottilissimo telo cristallino. La base della fontana si trova esattamente all’interno del letto di un fiume ipogeo, l’Amenano appunto, che, dopo aver attraversato la città, riaffiora brevemente per poi sfociare a ridosso degli Archi della Marina nella zona del porto. Anche se a partire dall’inizio del XX secolo quest’area è stata strappata al mare, lo Jonio non ha ceduto del tutto il passo allo spazio urbano e s’impone prepotentemente nel mercato con i suoi profumi e i suoi ricchi doni. Bancarelle di prodotti ittici di ogni sorta riempiono la piazza e la galleria nelle antiche mura cittadine. Si passa dalle vecchie barche in disuso, che fanno da cornice ad una colorata esposizione di frutti di mare, al banco del polpo che, ancora vivo, cerca di saltare fuori dalla sua vasca approfittando della distrazione del suo venditore; dai banchetti di crostacei, gremiti di curiosi che si lasciano pizzicare dai granchi, a quelli del pesce azzurro, che abbaglia con la lucentezza delle alici sotto i raggi del sole autunnale; dalle fila di tranci di stoccu appesi che ondeggiano legger-
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Sarde beccafico alla catanese Ingredienti • 800 gr di sarde fresche • 100 gr di pangrattato • 50 gr di pecorino grattugiato • 2 uova • aglio • aceto di vino • prezzemolo • limone • olio extravergine di oliva • sale q.b. • pepe q.b.
Procedimento
mente nella brezza marina fino agli affollati banchi da tunnina (quando è tempo di tonno, ovviamente), punto nevralgico di tutto il mercato. É qui che si trovano le vere star tra pescivendoli della Pescheria, come il signor Mimmo Testarossa (che con autoironia si lamenta di avere in comune con la “grande” casa automobilistica solo un “gran” testone), protagonista indiscusso dei video di turisti ipnotizzati dalla naturalezza con cui incide chirurgicamente il tonno, mentre si accompagna ad allegre canzoni per incuriosire la folla. Ma non lasciatevi sviare dall’aspetto coreografico di questo mercato: non è solo un teatro ad uso e consumo degli stranieri che vogliono portare a casa un ricordo spiccatamente mediterraneo della loro vacanza. La Pescheria è un mercato ancora vivo, esclusivamente alimentare (ma non unicamente ittico), frequentato da Catanesi che vanno a fare la spesa quotidianamente. Chi va alla Pescheria cerca prodotti locali e stagionali e trova una maggiore varietà, anche se i prezzi sono leggermente più alti che alla Fera o Luni, l’altro grande mercato storico della città. La gente è sempre ben disposta verso il consiglio del pescivendolo di fiducia anche sulla modalità di prepara• MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
zione di alcuni piatti, così non è difficile assistere a veri e propri dibattiti culinari sulle ricette tipiche della cucina siciliana, siano le sarde a beccafico o la tunnina ca cipuddata. Ormai non è più comune come una volta, ma c’è ancora una clientela che vuole assaggiare il prodotto crudo in loco, prevalentemente frutti di mare; i pescivendoli raccontano divertiti i tentativi di emulazione da parte dei turisti, alcuni dei quali, non troppo avvezzi ai sapori forti, vanno poi alla disperata ricerca di una bibita fresca al chiosco del mercato. Forse per ovviare a questi maldestri tentativi di approccio ai sapori del mare, forse per il fatto che oggi si vive la riscoperta di alcune zone un tempo considerate popolari, la Pescheria sta rifiorendo. Dove una volta si trovavano le vecchie putie adesso ci sono ristorantini tipici che propongono menù a base pesce. E così quando i pescivendoli all’alba montano i loro banchi e si preparano ad una giornata di lavoro, si incontrano ancora alcuni irriducibili che hanno trascinato la nottata tra chiacchiere e un buon calice vino … «Su carusi, su tempi so» è il commento laconico e forse un po’ nostalgico del saggio signor Mimmo.
Ripulite le sarde di interiora, testa e lisca e apritele “a libro”; lavatele, asciugatele con un panno. Mettetele a macerare per un’ora in due cucchiai di aceto. Preparate il ripieno morbido mescolando la mollica con l’olio extravergine di oliva, il prezzemolo, l’aglio tritato, il pecorino a cui aggiungerete sale e pepe secondo gusto. Con l’impasto così ottenuto farcite metà delle sarde dal lato della polpa; chiudete a sandwich con un’altra sarda, premendo tra i palmi delle mani. Passatele nell’uovo battuto, già salato e pepato, e infine nel pane grattato. Friggete in abbondante olio caldo o in alternativa passatele in forno a 180°C per circa 20 minuti. Scolatele ben dorate e servite con un spruzzo di limone. Curiosità: Le sarde a beccafico nascono come piatto povero, ispirato da una ricetta molto richiesta dagli aristocratici. Il “beccafico” è in effetti un piccolo uccello migratore che veniva cotto al forno, ripieno di una farcia di mollica, uvetta e pinoli. La più facile reperibilità di un prodotto economico e comune come le sarde ha dato origine ad una versione popolare della ricetta che ancora è oggi molto richiesta.
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Intervista STAL imp_13 10/10/16 16:33 Pagina 26
Qui si studia per
mangiar Paolo Inglese
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di Giorgia Iannelli
l Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali dell’Università degli Studi di Palermo inaugura quest’anno il corso di laurea triennale in Scienze e Tecnologie Agroalimentari (Stal). Si tratta di un corso a numero chiuso per 75 studenti che vi accederanno tramite un test d’ingresso e che formerà una figura altamente richiesta nell’ambito del settore gastronomico e della conservazione e trasformazione degli alimenti, quella del tecnologo alimentare. Ne parliamo insieme a Paolo Inglese, presidente del comitato ordinatore del nuovo corso di laurea e professore ordinario di orticoltura.
Come e perché è nata l’idea di creare questo corso di laurea? Questo corso di laurea è nato, piuttosto che da un’idea, dalla consapevolezza che questa università non poteva continuare a non offrire un corso che definirei di culture e tecnologie agroalimentari, anche se nella denominazione del corso il termine “culture” ufficialmente non c’è. È molto attuale l’interesse di giovani e meno giovani, dei consumatori, delle imprese, per le diverse tipologie dei prodotti agroalimentari e delle metodiche di produzione e trasformazione degli alimenti. Non potevamo ignorare questo diffuso interesse e quindi abbiamo proposto questo corso in linea con le sollecitazioni all’innovazione del nuovo rettore. La proposta ha già superato tutto l’iter burocratico, adesso, considerato il numero dei ragazzi che hanno richiesto di fare il test di ammissione, ha passato il gradimento delle matricole. Poi ci sarà la prova più importante, ovvero il gradimento degli studenti. Sarà possibile per gli iscritti ad altri corsi di laurea effettuare il passaggio a questo corso? Non subito, perché per ora possiamo solo partire dal primo anno. Dal prossimo anno sì.
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Nasce all’Università di Palermo un corso di laurea in Scienze e Tecnologie Agroalimentari. “Patron” dell’iniziativa il docente di orticoltura dell’Ateneo siciliano, Paolo Inglese
Quali sono le principali materie di studio? Le tecnologie alimentari come noi le abbiamo pensate hanno quattro basi. La pri ma è certamente una base forte di materie fondanti la cultura scientifica sugli alimenti. Non si può parlare di scienze alimentari senza conoscere la chimica organica che è il fondamento di tutto ciò che si mangia; non si può immaginare di conoscere bene le piante e gli animali senza avere le necessarie conoscenze di fisica. Dopodiché ci sono le materie del settore medico: la fisiologia umana, la nutrizione, la nutraceutica, l’igiene degli alimenti. E poi ci sono comunicazione e antropologia del cibo. In una facoltà di agraria ci si immaginerebbe un approccio esclusivamente tecnico-scientifico. È molto interessante questo approccio più umani-
stico, lo studio dell’antropologia del cibo e dell’alimentazione, la semiotica della gastronomia… Non possono non esserci. Non si può “creare” un cibo senza essere coscienti delle aspettative delle persone e della loro storia. Non si può capire • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
Intervista STAL imp_13 10/10/16 16:33 Pagina 27
bene! perché oggi il sushi è diventato una specie di mania collettiva e vent’anni fa non se ne conosceva l’esistenza, se sei esclusivamente un tecnologo “puro”. Le scienze alimentari sono fatte anche di questo. Ovvero, non si tratta semplicemente di indicare la temperatura a cui si fa la cagliata per il formaggio, che pure dobbiamo sapere; ma dev’esserci la consapevolezza di ciò che vuole il consumatore, perché il contesto in cui si muove oggi l’agricoltura – e quindi il cibo – è il contesto di tutti. Probabilmente quello che stiamo facendo può sembrare difficile… Difficile perché? Perché la multidisciplinarietà è un rischio. Il problema è evitare il “babel course”. Per organizzare un corso buono, quando si ha a che fare con la multidisciplinarietà, bisogna rispettare regole ferree ed evitare che ognuno consideri il proprio settore come la summa teologica… Secondo me l’obiettivo è vicino. So di avere uno zoccolo duro di docenti fortemente competenti per i quali nutro affetto e stima profonda. So anche, però, che insegnare scienze e tecnologie agroalimentari facendo insegnare solo il professore di agraria è inutile e non divertirebbe gli studenti. E poi il mondo dell’agroalimentare non appartiene a nessuno, è di tanti, di tutti quelli che stanno “from field to fork”, cioè dal campo alla tavola. Si potrebbe dire che questa sia la filosofia del nuovo corso di laurea? Sì, perché non capisci quello che hai nel piatto se non conosci l’agricoltura e non sai fare agricoltura se non capisci dove va a finire il prodotto. Quando io studiavo in questa facoltà il tema del post-raccolta
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non era trattato; noi, futuri agronomi, eravamo confinati in campagna e l’approccio al mercato non veniva approfondito. Eppure ci si dedica all’agricoltura non per fare gli “alternativi”, ma per “fare soldi”, poiché tutti i prodotti poi devono affrontare il mercato e quindi per conquistarlo dobbiamo sapere come mangiano le persone. Corsi simili sono presenti sia in Sicilia che nel resto d’Italia. In cosa si distingue quello di Palermo? Negli altri corsi di scienze alimentari non si studiano bene le filiere produttive. Si parla molto di food come se venisse dal nulla. La novità principale del corso dell’Università di Palermo consiste, oltre che in un approccio multidisciplinare, nello studio a tutto tondo delle filiere produttive. Gli studenti non devono sapere come si coltivano il grano o il pomodoro ma come sono strutturate le loro filiere: quali sono le problematiche più importanti, dove e come vengono prodotti e come se ne influenza la qualità. Per questo motivo il corso prevede anche un gruppo di materie sulle produzioni: arboree, erbacee, orticole e zootecniche e, novità delle novità, i pesci. Esiste già un corso di specializzazione per conseguire la laurea magistrale? Non in questo momento. Ma esiste già un corso che si chiama “Imprenditorialità e qualità per il sistema agroalimentare” che diventerà tra due anni la magistrale di Scienze e tecnologie agroalimentari. Di fatto è il corso che ha la maggiore percentuale di occupati in Sicilia e la maggiore assunzione di occupati nel resto d’Italia. Che professionista uscirà da Stal? Un professionista capace di lavorare nel mondo della gestione, della lavora-
zione e della trasformazione dei prodotti alimentari, capace di unire il mondo dell’agricoltura col mondo del consumo, attraverso la gestione del prodotto. Per gestione che intende? Tutto quello che comporta il portare un prodotto dalla campagna alla tavola e contemporaneamente tutto ciò che riguarda la sua trasformazione. Spero che i nostri studenti escano dall’Università non solo in grado di produrre un frutto di 100 grammi, rosso, con la giusta percentuale di zuccheri, ma anche sapendo come si gestisce il prodotto una volta fuori dal campo: dalla conservazione alla trasformazione, dal controllo alla certificazione, dal collocamento nella grande distribuzione alla promozione e alla organizzazione di eventi. Fino a sviluppare percorsi di autoimprenditorialità: il tecnologo alimentare può inventare cibi nuovi, può inventare processi di trasformazione nuovi, può migliorare quelli consueti, può far sì che continui la tradizione alimentare perché la tradizione alimentare non è ripetere sempre le stesse cose, ma è cambiarle continuamente. E dunque le aziende richiedono o richiederanno una figura di questo tipo? Sì e per questo i corsi di tecnologia alimentare funzionano. In Sicilia, poi, assistiamo ad un importante fenomeno, ad una grande scommessa collettiva che coinvolge di tutto il sistema agroalimentare. Sono tanti i produttori agricoli che verticalizzano la filiera: chi fa agrumi, per esempio, fa anche marmellata e in questo si inserisce il mestiere dei tecnologi. L’esito di questa scommessa decreterà il successo del nuovo corso di laurea.
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a cura di Alessandro Iannelli
CASTAGNO L’albero del castagno fruttifica tipicamente ad ottobre e novembre. All’interno del riccio, guscio spinoso del frutto, sono presenti da una a tre castagne, più spesso una sola nella pregiata varietà detta marrone, che presenta anche una buccia più facilmente separabile. Le castagne sono ricche di vitamine del gruppo B e fosforo, preziosi coadiuvanti delle funzioni nervose, di acido folico (importante per lo sviluppo del feto), potassio e vitamina A. Sono usate anche per la produzione di farine, impiegate soprattutto nell’industria dolciaria. Come coltivarlo. Sono necessari grandi spazi (il tronco della pianta può raggiungere gli 8 metri di diametro, 10 metri la chioma). L’albero fruttifica dal quarto anno d’età e prospera in terreno subacido e, specie alle nostre latitudini, è da preferirsi un’area collinare. Nella raccolta è da evitare l’abbacchiatura manuale, che spezza i rami esponendo la pianta al temibile cancro della corteccia. I ricci raccolti si possono immergere in acqua per riconoscere quelli vuoti, detti guscioni, che galleggeranno. ZUCCA Con il termine si indicano diverse specie annuali appartenenti al genere Cucurbita, fra cui ricordiamo le tre più utilizzate per il consumo umano: la Cucurbita maxima, la Cucurbita moschata e la Cucurbita melanosperma. Una quarta specie di Cucurbita usata in cucina, la Cu-
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L’ortoe la
curbita pepo, cioè la zucchina da friggere, viene raccolta in estate, prima della maturazione, mentre la cosiddetta zucchina serpente, anch’essa estiva, appartiene ad un altro genere, la Lagenaria. A seconda delle cultivar, la zucca viene raccolta già a fine agosto o anche a dicembre. È ricca in betacarotene, antiossidante prezioso nella prevenzione di disturbi cardiaci e arteriosi e precursore della vitamina A; si distingue anche per il buon contenuto in sali minerali, in particolare fosforo, ferro, magnesio e potassio. Come coltivarla. Il terreno ideale è subacido, la semina in genere viene effettuata a fine aprile, mantenendo fra le buche una distanza di 10-15 cm, con file distanziate di almeno 1 metro e
mezzo che tengono conto dello sviluppo orizzontale della pianta. Richiede irrigazione frequente (si badi ai ristagni, però) e concime ad alto tenore di potassio. OLIVO Si considera come periodo migliore per la raccolta delle olive quello in cui la maggior parte è a metà dell’invaiatura della polpa, quando si raggiunge un equilibrio ottimale fra la quantità di olio e di polifenoli, tra cui spiccano la vitamina E e i secoridoidi, sostanze protettive dell’apparato cardiovascolare e che migliorano le difese immunitarie. Per la ricchezza in polifenoli e la percentuale preponderante di acidi grassi monoinsaturi, l’olio d’oliva rappresenta un’opzione nettamente preferibile all’uso di grassi animali. In particolare è indicato l’olio extravergine, il cui grado di acidità (cioè di degradazione dell’acido oleico, principale componente dell’olio d’oliva) è minore rispetto all’olio vergine. Sono sei le Dop siciliane: Monti Iblei, Valli Trapa-
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frutta d’autunno il consiglio è di comprare piantine di almeno 4 anni, da mettere a dimora in terreno tendenzialmente calcareo (e comunque non acido) a distanza di 5-6 metri fra loro. Una volta raccolte, le olive vanno conservate in cassette areate e molite entro 48 ore, pena un alto grado di acidità dell’olio.
nesi, Val di Mazara, Monte Etna, Valle del Belice e Valdemone. Presto troveremo in commercio anche la Igp Sicilia. Come coltivarlo. Gli ulivi cominciano a produrre all’incirca dal quinto anno d’età, pertanto
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NOCE A differenza delle castagne, le noci, sono un seme e non un frutto. Fortemente caloriche e dunque da consumare con moderazione, sono ricche di acido αlinoleico e linoleico (utili per il controllo dei livelli di colesterolo), nonché di arginina, un amminoacido prezioso alleato nella prevenzione dell’aterosclerosi. Spesso l’albero viene coltivato per sfruttare il legno, molto resistente e duro. Una curiosità: le foglie e le radici contengono juglone (seppur in quantità minore nel noce da frutto), sostanza che inibisce la funzione degli enzimi di altre piante, ragione per cui spesso sotto i noci la vegetazione stenta o è quasi assente. Come coltivarlo. Solo se si dispone di spazi molto ampi (nella varietà da frutto la chioma può raggiungere i 15 metri di diametro), si parte da piantina di almeno 4 anni, di preferenza in zona collinare. Il terreno non deve allontanarsi troppo da un ph neutro e, come per le castagne, si sconsiglia l’abbacchiatura manuale.
KIWI Matura fra metà settembre e novembre. Originario della Nuova Zelanda, è stato introdotto in Italia negli anni ‘70 e oggi il nostro Paese ne è il principale produttore mondiale. È ricco in vitamina C (oltre il 50% in più di arance e limoni) e, per il suo contenuto in calcio e fosforo, può contribuire a contrastare l’osteoporosi. È inoltre ricco di potassio e povero di sodio (ciò lo rende ideale prima di uno sforzo fisico intenso, per ridurre il rischio crampi). Come coltivarlo. Trattasi di specie dioica (ogni esemplare porta solo fiori maschili o femminili), servirà dunque almeno un albero con fiori maschili ogni 5 con fiori femminili, distanziando le piante di circa 4 metri fra loro. Nei periodi di scarsa pioggia necessita di irrigazione costante. Il portamento dei rami è rampicante, per cui andranno sistemate delle pergole a sostegno.
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Le confetture
di ortaggi autunnali
a cura di Manuela Zanni
Confettura di zucca e cardamomo Ingredienti • 1,5 kg di zucca pulita • 500 gr di zucchero • 5-6 semi di cardamomo Procedimento Mondate la zucca e tagliatela a pezzetti. Mettetela in una pentola capiente insieme allo zucchero, alla pectina e ai semi di cardamomo (precedentemente sbucciati; decidete voi se ridurre i semi in polvere con un mortaio o lasciarli interi) e mettete sul fuoco. Portate a bollore e lasciate bollire a fuoco vivo per qualche minuto. A questo punto frullate il tutto, verificate la consistenza su un piattino e spegnete il fuoco. Invasate in vasetti precedentemente lavati e sterilizzati. Capovolgere a testa in giù per qualche minuto, poi girare e conservare in luogo fresco e asciutto.
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Confettura di radicchio, arance e chiodi di garofano Ingredienti • 1 kg radicchio rosso • 100 ml vino rosso, 100 ml aceto balsamico • 500 gr zucchero di canna • scorza di un’arancia bio Procedimento Lavate il radicchio e affettatelo molto sottile anche con l’aiuto di una mezzaluna. Stufatelo in una pentola insieme al vino rosso e all’aceto balsamico su fuoco vivace fino a quando i liquidi non saranno evaporati completamente (serve circa mezz’ora). A questo punto disponete il radicchio stufato in una pentola, unitevi lo zucchero, la scorza di arancia e i chiodi di garofano. Cuocete a fuoco lento per circa per 40 minuti. Quando la confettura è pronta, versatela ancora bollente nei vasetti sterilizzati in precedenza. Tappateli e capovolgeteli. È preferibile lasciare trascorrere almeno due settimane dopo la preparazione della composta prima di iniziare a consumarla.
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L’
autunno è il momento dei bilanci. Si tirano le somme sull’estate appena trascorsa, si fanno progetti per l’anno che verrà. Dopo tanto girovagare all’inseguimento dell’ultimo raggio di sole regalatoci dalla bella stagione, finalmente ci si ferma a riflettere e si raccolgono i frutti di ciò che è stato e si piantano i semi di ciò che sarà. In questo momento di stasi solo apparente, nulla di meglio che occupare il tempo conservando i prodotti dell’orto di cui la stagione autunnale è ricca per assicurarsene una scorta che duri tutto l’anno. Solitamente l’idea della confettura rinvia immediatamente ad una marmellata di frutta spalmare sul pane o da usare per farcire crostate e torte. E se invece la preparassimo con alcuni ortaggi di stagione? Scopriamo insieme alcune semplici e gustose ricette con alcuni insoliti abbinamenti.
Confettura di cipolle e bacche ginepro Ingredienti • 1 kg di cipolle (della qualità preferita) • 1 foglia di alloro • 500 gr di zucchero di canna • 100 ml di vino bianco o rosato Procedimento Sbucciate le cipolle, lavatele, asciugatele con un foglio di carta da cucina e successivamente tagliatele a fette sottili. Versate all’interno di una ciotola capiente le cipolle, aggiungete quindi il vino e la foglia di alloro. Aiutandovi con un cucchiaio di legno, mescolate bene le cipolle affinché si insaporiscano. A questo punto coprite la ciotola e lasciate macerare il tutto almeno per sei ore in un luogo fresco e asciutto. Durante il tempo di attesa mescolate di tanto in tanto in modo da favorire l’assorbimento degli aromi. Terminato il tempo necessario eliminate la foglia di alloro e versate il contenuto della ciotola all’interno di una pentola capiente facendo bollire il tutto a fuoco molto basso per 30 minuti fino ad ottenere una crema molto densa. A questo punto, se lo preferite, potete passare il tutto al mixer per ottenere una confettura liscia e omogenea. Cuocete per altri cinque minuti a fuoco vivo. Ponete nei vasetti sterilizzati la confettura ancora calda, quindi chiudeteli, capovolgeteli e lasciateli raffreddare. Una volta freddi conservate i vasetti in un luogo fresco e buio.
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Confettura di peperoni rossi e cannella Ingredienti • 1 kg peperone rosso • 500 gr zucchero di canna • 1 cucchiaino cannella in polvere • 1/2 bacca di vaniglia • un pizzico di sale • 1 cucchiaino aceto balsamico • succo di 2 limoni Procedimento Pulite e togliete i semi al peperone, tagliatelo a pezzetti, unitevi il succo di limone, il sale, l’aceto balsamico, la cannella, la vaniglia e mettete su fuoco dolce. Una volta cotto frullatelo nel mixer ottenendo una crema liscia ed omogenea. Portate ad ebollizione e fate sobbollire piano per una decina di minuti, mescolando di tanto in tanto. Unire zucchero di canna e continuate a mescolare per evitare che si attacchi al fondo della pentola per altri 15 minuti. A questo punto togliete dal fuoco, versate nei vasetti con tappo a vite (già lavati e sterilizzati), tappateli e capovolgeteli per un minuto, poi rigirateli e posateli in terra per farli raffreddare.
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Rosa Canina la bacca che non t'aspetti di Alessandro Iannelli
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ra le rose ne esiste una diffusissima in Italia allo stato selvatico ed apprezzata non per l'aspetto, bensì per le proprietà benefiche di varie parti della pianta e soprattutto del suo frutto, il cinòrrodo (o, forma assai meno comune, cinorrodonte): stiamo parlando della rosa canina o rosa selvatica comune, che deve il nome a Plinio il Vecchio, il naturalista romano del I secolo d.C. che in un passo della Naturalis Historia sostiene
come un decotto delle radici avesse curato un soldato dalla rabbia. La rosa canina è un arbusto spinoso perenne a portamento cespuglioso, di altezza compresa fra uno e due metri e mezzo, dal fusto legnoso, spinoso e glabro con rami a tendenza rampicante, foglie ovali e lanceolate e fiori, presenti fra maggio e luglio, in genere di colore rosa a cinque petali bilobati. Il frutto, il cinorrodo, è un falso frutto, derivante dall'ingrossamento
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RosaCanina imp_16 10/10/16 16:40 Pagina 33
non dell'ovario ma del ricettacolo, la struttura a forma di calice che nei fiori sostiene o ingloba l'ovario: i frutti veri sono gli acheni all'interno e vanno rimossi per il consumo così come la peluria che li circonda che è leggermente irritante. Benché il termine cinorrodo possa far riferimento ai frutti di tutte le rose, è più spesso associato proprio alla rosa canina come suggerisce l'etimo del nome, derivante dal greco κυνόροδον, composto di κύων, «cane», e ῥόδον, «rosa». Dal sapore dolciastro e leggermente acidulo, i cinorrodi vantano notevoli proprietà nutritive: è nota la presenza massiccia di vitamina C (1250 mg per etto, 25 volte più di arance e limoni), inoltre si distinguono per il buon contenuto di betacarotene, fondamentale per la salute degli occhi, e di vitamine D e K, preziose per la salute delle ossa e la corretta coagulazione; soprattutto, sono ricchi in antiossidanti polifenoli, alleati contro i radicali liberi. In particolare contengono tannini dalle proprietà angioprotettive, antibatteriche e coadiuvanti della salute dell'epidermide, nonché bioflavonoidi, utili nel contrasto di alcuni disturbi reumatici e intestinali. Fino a metà del secolo scorso il cinorrodo ha conosciuto amplissimo utilizzo: oltre che per il consumo del frutto, fresco o essiccato, veniva raccolto per essere usato in numerosi preparati, come marmellate, liquori, sciroppi, o ancora se ne ricavava una salsa agrodolce per accompagnare secondi piatti e il macerato veniva talora aggiunto alla farina nella preparazione del pane. Il cinorrodo raggiunge piena maturità fra metà novembre e dicembre ma
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può essere raccolto anche alcune settimane prima, sarà solo meno dolce; si trova soprattutto ai margini dei boschi, nelle radure, lungo siepi o in terreni abbandonati, anche fino a quasi 2000 metri di altitudine. La pianta è molto rustica, teme solo le zone ombrose e andrà ricercata di preferenza (ma non esclusivamente) nei terreni calcarei, laddove vegeta bene come tutte le rose mentre molte altre specie vanno incontro al soffocamento della radice. Come per altre piante che ricerchiamo allo stato spontaneo, si pone il problema della distinzione da altre specie, soprattutto se tossiche. A maggior ragione in questo caso, data la varietà di bacche rosse presenti in natura molto simili ai cinorrodi di rosa canina, come quelle del tàmaro e quelle del genere viburnum (in particolare della specie viburnum lantana che è di forma ovale). Tuttavia uno sguardo attento ci permetterà sempre di riconoscere il cinorrodo di rosa canina: il suo colore non è rosso acceso come nelle succitate bacche (che assumono colorazione blu in fase avanzata di maturazione), ma simile al rosso carnoso del pomodoro, talora leggermente virante verso l'arancione; la forma è oblunga, il che le differenzia dal tàmaro, meno dalle bacche del viburnum lantana da cui però differiscono, oltre che per tonalità di rosso, anche per la calicina (parte terminale del frutto, opposta al peduncolo), che nel cinorrodo si presenta marcata e con un diametro di diversi millimetri, talora accompagnata da residui dei petali lunghi anche qualche centimetro, mentre quella del viburnum lantana ricorda un peduncolo corto e sottile.
Liquore alla rosa canina Ingredienti per 850 ml circa • 200 gr cinorrodi di rosa canina • 300 gr alcool 95% • 300 ml acqua • 200 gr zucchero Procedimento Tagliate a metà per il lato lungo i cinorrodi e ripuliteli non solo degli acheni ma anche della peluria e lavate con acqua abbondante: immergeteli dunque nell'alcool, chiudete il barattolo in vetro e lasciate macerare per due settimane in luogo fresco, asciutto e al buio, avendo cura ogni giorno di aprire il contenitore e mescolare per un paio di minuti. Al termine delle due settimane filtrate l'alcool e versatelo in una scodella, quindi in un pentolino capiente versate l'acqua e lo zucchero e scaldate a fuoco lento mescolando fino a quando lo zucchero si sarà sciolto: a questo punto, versate l'alcool ed il liquido zuccherato nella bottiglia di vetro e lasciate riposare ancora in luogo fresco, asciutto e riparato dalla luce, per altre due settimane. Al termine di questo periodo, il liquore sarà pronto per essere consumato e la sua gradazione alcolica sarà intorno al 35%, per cui in molti preferiranno sorseggiarlo in cicchetti.
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CucuzzaCentenaria imp_17 10/10/16 16:40 Pagina 34
chayote ovvero la
cucuzza cintinaria di Giorgia Iannelli
CucuzzaCentenaria imp_17 10/10/16 16:40 Pagina 35
Ecco come cucinarla con patate saltate, cipolla e menta Ingredienti per 4 persone 1 chayote 1 patata, 2 cipolle rosse 1 spicchio d’aglio 1 cucchiaio di menta fresca tritata grossolanamente 4 cucchiai di olio extravergine d’oliva ½ cucchiaio di pepe nero, sale q.b. Procedimento Lavate, asciugate, sbucciate la cucuzza centenaria e la patata, dividetele a metà e poi tagliateli in fettine sottili. Affettate le cipolle e schiacciate lo spicchio d’aglio. Versate l’olio d’oliva in una padella larga e fatelo riscaldare a fuoco alto. Quando l’olio sarà caldo versate nella padella la cucuzza, la patata, la cipolla e l’aglio. Saltate in padella, mescolando frequentemente, finché tutti gli ingredienti non saranno ben cotti, dorati ma ancora croccanti. Aggiungete sale a piacere e completate col pepe e la menta fresca. Servite immediatamente.
I
Il suo nome più antico e universalmente noto, datogli dal popolo azteco, è chayote, il cui significato è “frutto piriforme”, con chiara allusione alla sua forma. Ma sia nel mondo che in Italia è conosciuto con molti altri nomi: zucchina o zucca spinosa, zucchina messicana, melanzana spinosa o melanzana americana, patata spinosa, lingua di lupo. È anche chiamato zucchina centenaria – cucuzza cintinaria nella versione siciliana – poiché è una pianta estremamente generosa, che può arrivare a dare anche cento frutti in una sola fioritura. Si tratta di una pianta facente parte della famiglia delle cucurbitacee, di cui fanno parte anche meloni, zucche e cetrioli ed è originario del Sud America, per la precisione del sud del Messico. Fu molto probabilmente importato in Europa in seguito alla scoperta del continente americano e attualmente il maggior esportatore è la Costa Rica. La sua caratteristica peculiare è già evidenziata dall’appellativo “spinosa” con cui è conosciuto: la sua superficie è infatti ricoperta da aculei, sebbene ne esista anche una varietà “liscia”. Eppure, nonostante il suo aspetto non proprio elegante, il chayote ha mille usi e mille proprietà benefiche e, se si prendono i giusti accorgimenti, è anche abbastanza semplice coltivarlo, purché si evitino temperature troppo calde (al di sopra dei 28°) o troppo fredde (sotto i 13°), venga irrigato frequentemente e gli venga fornito un sostegno: è infatti una pianta rampicante che si sviluppa velocemente e
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può raggiungere un’altezza superiore ai 10 m. Nelle zone più miti può essere piantato già a fine marzo e la raccolta, generalmente tra settembre e ottobre, si può protrarre anche fino a novembre, quando il frutto sarà diventato, dal verde scuro iniziale, di colore giallastro o bianco avorio. Per piantarlo bisogna usare l’intero frutto, interrandolo appena sotto la superficie del terreno: la zucchina centenaria è infatti una pianta vivipara, il che vuol dire che il seme germina all’interno del frutto; il seme è infatti privo di tegumento, cioè di rivestimento protettivo e, se separato dal frutto, morirebbe. Una volta piantato, il chayote si rivela assai longevo, motivo per cui in Sicilia viene anche chiamato “cuccuzza ri sett’anni”: al sopraggiungere del freddo la pianta secca ma mantiene viva la parte radicale che ricaccia con l’arrivo della primavera. Questo ciclo di apparente morte e rinascita può ripetersi per diversi anni. La centenaria è ricchissima dal punto di vista nutrizionale: composta per il 94% di acqua, ha un ridotto apporto calorico, circa 19 kcal per cento grammi, è ricca di amminoacidi, antiossidanti e fibre nonché di minerali quali potassio, fosforo, calcio e magnesio ed ha un alto contenuto di vitamina C e soprattutto di folati (vitamina B9), fondamentali durante la gravidanza e per la rigenerazione dei globuli rossi. Tutte queste proprietà ne fanno un valido aiuto per la salute dei reni e dell’apparato cardiovascolare, svolgendo un’importante azione diuretica, ipoten-
siva e antinfiammatoria. Le proprietà del chayote sono talmente preziose da essere alla base di una leggenda contemporanea secondo la quale la dieta basata su questo ortaggio sia alla base della mummificazione “naturale” di molti corpi prelevati dal cimitero della città colombiana di San Bernardo. Nonostante gli indubbi vantaggi associati al consumo della zucchina centenaria, è più probabile che tale fenomeno sia dovuto al particolare microclima della città situata sulle Ande. Tutte le parti del chayote sono edibili, dunque non solo il frutto, ma anche i germogli, le foglie e le radici. Il frutto può essere cucinato in moltissimi modi, proprio come una normale zucchina: fritta, al vapore, bollita, come condimento per la pasta o accompagnamento negli spezzatini di carne, in agrodolce, per torte dolci o salate e può anche essere consumato crudo, condito come un’insalata, da solo o con altri ortaggi e verdure. I germogli possono essere consumati come asparagi e conservati anche sott’olio o sott’aceto, mentre le foglie possono essere mangiate come spinaci o usate per le tisane ed entrambi possono anche essere mangiati crudi in insalata. I tuberi possono invece essere cucinati come si fa con le patate o altre tuberose, per esempio fritti, come si usa fare in Asia. Un solo accorgimento: quando la cucuzza centenaria viene sbucciata è consigliabile usare i guanti, non solo per le “spine” ma anche perché al di sotto della buccia c’è una sorta di latte colloso che rende le mani appiccicose e che non va via tanto facilmente.
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PomoSeccagno imp_18 10/10/16 16:41 Pagina 36
pomodoro tesoro del feudo di Sclafani Bagni di Giuseppe Garlisi
Da Caltavuturo a Valledolmo fino a Villalba. È questo il territorio dove è coltivato ancora il pomodoro seccagno. Da questo si ottengono ottime conserve e un “astratto” squisito
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L
a coltivazione del pomodoro seccagno in pieno campo si diffuse a partire dagli anni ’60 tra le colline argillose dell’entroterra siciliano, nel territorio che abbraccia le rocce di Caltavuturo, il feudo di Sclafani Bagni e le fertili vallate che da Valledolmo scendono sino a Villalba. La coltura subito si contraddistinse per la sua elevata adattabilità ad un areale di coltivazione difficile per una coltura come il pomodoro dalle elevate esigenze idriche. L’intuizione giusta fu quella di far crescere la coltura senza l’ausilio di acqua, in seccagno appunto, facendo leva sulle elevatissime capacità di ritenzione idrica dei terreni argillosi di queste vallate. La tecnica agronomica che caratterizza la coltivazione prevede l’apporto di modeste quantità d’acqua al trapianto e frequenti rincalzature; la raccolta, scalare, viene effettuata manualmente a partire dal mese di agosto. La tecnica di coltivazione utilizzata “spinge” la coltura di pomodoro a resistere a condizioni agronomiche critiche per elevati periodi del suo ciclo colturale. Tali condizioni determinano elevatissimi conte-
nuti in carotenoidi (luteina, β-criptoxantina, licopene, β-carotene), costituenti suscettibili di modificazioni in funzione di specifiche funzioni delle piante, come l’ispessimento dei tessuti delle foglie e la riduzione dell’apertura degli stomi. Le qualità nutrizionali ed organolettiche del pomodoro seccagno di questo areale di coltivazione sono state certificate da un lavoro dell’Inran, l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione di Roma: la ricerca ha evidenziato come il pomodoro seccagno sia particolarmente ricco in licopene. Il licopene presente in quantità più elevata rispetto ai pomodori coltivati in modo tradizionale, oltre a conferire il caratteristico colore rosso intenso alle bacche è un potente antiossidante che protegge le cellule dai radicali liberi, responsabili del-
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PomoSeccagno imp_18 10/10/16 16:41 Pagina 37
seccagno l'invecchiamento delle cellule e concausa di malattie degenerative. Le bacche di seccagno, oltre ad essere ricche di proprietà salutistiche, sono caratterizzate da un particolare sapidità che conferisce ai prodotti trasformati un sapore unico. Si tratta di un sapore frutto di una alchimia nata tra un areale di produzione, i suoi laboriosi agricoltori e il “Pomo d’amore”; una alchimia che si conserva tra le stradine dove le massaie con le loro umili mani stendono l’astrattu di pomodoro su tavole di legno prima di porle al sole, dove in ogni garage annualmente si ripete il rito della salsa fatta in casa, dove i bambini aiutano ancora le nonne a tagliare i pomodori prima di salarli e metterli al sole per ottenere il pomodoro secco. Una alchimia che vi consiglio di vivere (dovete aspettare però la
prossima estate) visitando l’areale di produzione del pomodoro seccagno e che vi invito a gustare acquistando i prodotti senza intermediari e non fidandovi delle imitazioni direttamente dai produttori di questa terra. Quegli stessi agricoltori che sono i padri di una coltura sostenibile, frutto dell’innovazione di una tecnica colturale rispettosa dell’ambiente, delle risorse naturali, dei ritmi e delle potenzialità della terra. Le loro laboriose mani indicano la rotta da seguire per ridisegnare un modello agricolo che per nutrire una popolazione mondiale in crescita deve affidarsi all’intuizione, alla laboriosità e a quel folle eroismo che ha contraddistinto il primo produttore di seccagno che, deriso e sbeffeggiato dai suoi confinanti, decise di seminare una coltura dalle elevate esigenze idriche in un areale dove in estate nemmeno le api che sorvolano i campi di grano giallo fuoco riescono a trovare una goccia d’acqua. Le loro laboriose mani vi condurranno nel loro mondo fatto di silenzi, sospiri, sacrifici; un mondo tutto da conoscere, scoprire, gustare.
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Il Capo imp_19 10/10/16 16:41 Pagina 38
Capo
Il da mercato del popolo
a meta turistica di Rachele Sanfilippo
Colorato e multietnico il mercato popolare del Capo ricorda un suk maghrebino o un bazar arabo. Ci si trova di tutto, ma specialmente pesce, frutta e verdura. Ogni giorno frotte di turisti arrivati a Palermo con le navi da crociera affollano gli spazi tra le bancarelle
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U
na passeggiata in centro città, a due passi dal Palazzo di Giustizia e dal teatro Massimo, ci porta al mercato de “il Capo” che, definito il “mercato del popolo” e in parte sopravvissuto alla crisi forse per la sua centralità, rappresenta a tutt’oggi una delle parti più vere di Palermo. Esso è connubio di tradizione, genuinità e convenienza popolare. Il Capo è ormai da qualche anno diventato una meta turistica consolidata e immancabile in ogni tour che si rispetti. Sarà perché Palermo è una città da visitare attentamente e con curiosità, mai banale, con diverse sfumature di lettura. Una di queste è proprio l’intrigante scoperta dell’antico mercato che in questo numero dedichiamo ai lettori di Sapori di Sicilia.
L’asse principale del mercato parte da Porta Carini (antico baluardo difensivo delle cinta murarie cittadine) e si estende per l’omonima via, proseguendo per via Beati Paoli, incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant’Agostino dall’altro. Il tour al mercato va affrontato in base a due prospettive principali: una artistico-culturale, per l’enorme patrimonio che la zona offre; l’altra per il colore e la tipicità del luogo. Sarà facile lasciarsi dondolare dai richiami dei venditori che abbanniano (tipiche cantilene in dialetto palermitano per richiamare l’attenzione dei passanti). Hanno un fascino indescrivibile queste voci che tuonano stridule tra le viuzze strette, dove la luce stenta a rischiarare vicoli e piazzette, coperte dai coloratissimi tendoni che ri-
Il Capo imp_19 10/10/16 16:41 Pagina 39
Esiste una dimensione cittadina ricca di storia e tradizioni. È quella dei mercati in cui ritroviamo le tracce più autentiche delle dominazioni straniere. Qui gli Arabi hanno lasciato l’impronta indelebile del “bazar”, a cui Palermo deve buona parte della propria “cultura del mercato”. I quattro mercati storici del Capo, di Ballarò, della Vucciria e di Borgo Vecchio rappresentano gli spazi più popolari e multietnici che trasmettono la conoscenza del tessuto urbano vissuta tra antico e moderno
parano le più disparate mercanzie. Il Capo è un mercato del tutto simile ai suk medio-orientali che per i suoi prodotti freschi ed a buon mercato, anche se integrati da frutti esotici e spezie di altre genti, trasuda comunque una forte sicilianità. Ad ogni angolo si fondono insieme i profumi di piramidi di spezie, di pesci di ogni dimensione e colore, di frutta secca, di olive condite, di sarde salate in latta, di baccalà essiccato o ammollato nell’acqua e di banchi di frutta fresca apparata (ordinatamente disposta per tipologia e colore), o già in cubetti da passeggio disposti in bicchieri di plastica per rinfrescare i turisti. Gli ortaggi disposti a parte, sono generalmente stinnicchiati e ammugghiati, cioè disposti uno sopra l’altro, come nel caso di sparaceddi (broccoli) e tenerumi
(giovani germogli della pianta di zucchine con cui i palermitani realizzano un primo gustoso). Ci sono poi gli ortaggi disposti a munzieddu, come melanzane, carciofi e finocchi. La bellezza di questi banchi, oltre alla parte cromatica sta nell’esposizione dei prezzi, scritti su di un cartone sorretto da un bastoncino di legno, su cui viene indicato il prezzo al chilo (spesso mezzo chilo), ma che riporta quasi sempre gli zeri accompagnati da una codina poco visibile; estrosità ed arte dell’arrangiarsi del venditore! Visto che il Capo nasce originariamente come mercato della carne (anticamente, infatti, era vicino ad un macello), ci sono molte carnezzerie (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate. L’abitu-
dine di appendere i quarti di carne fuori dalle botteghe probabilmente risale ai tempi in cui a Palermo viveva una nutrita comunità di Ebrei che, in ossequio alla loro religione, così depuravano gli animali del loro sangue. In giro tra le bancarelle si trovano banchetti allestiti per assaggiare ogni tipo di cibo di strada: si passa dal venditore di sfincione (una pizza alta condita con salsa ed abbondante cipolla e caciocavallo), a quello di frittula (grassi animali di risulta fritti nello strutto), al quarumaru (il venditore delle interiora di bovino bollite), agli stigghiulara (che cuociono sulla brace budella di vitello, nei casi migliori di agnello, arrotolate assieme allo scalogno), per non parlare poi del re dello street food palermitano: mister pani ca meusa, il pa-
Cazzilli
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nino con milza e le sue varianti. Poi ci sono le friggitorie con le varie specialità: panelle e crocchè, arancine, melanzane fritte e tantissime altre cose untuosissime, ma degne di assaggio. Lasciata via Carini, il mercato si dipana per via Sant’Agostino con putìe (bottegucce) di artigianato, gioielli, bancarelle di tessuti, lampadari ed articoli per la casa. Ci si rende presto conto che girando per le viuzze e le case fatiscenti ci sono esempi di devozione alla Madonna un po’ovunque: numerose sono le edicole a lei dedicate sono incastonate su altarini sempre fioriti). Si tratta di una devozione che si comprende meglio con la scoperta delle Chiese del mercato, come quella dell’Immacolata Concezione, costruita tra il 1604 ed il 1612 su progetto dell’architetto Lo Nobile ed ultimata solo nel 1740. Il visitatore resta senza fiato, entrando in un luogo di pace e magnificenza, fuori dal contesto assordante dei banchi di via Carini. Una facciata sobria non lascia immaginare il gioiello del barocco palermitano che si trova al suo interno, con marmi policromi e intarsi di pietre dure, che creano disegni geometrici, statue, colonne tortili, capolavori di artisti come il pittore monrealese Pietro Novelli (sua la tela sull’altare maggiore dell’Immacolata Concezione del 1637). Su via Cappuccinelle invece, si trovava lo storico panificio Morello (ormai chiuso dal 2013) sul cui prospetto mo-
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strava un pregiatissimo mosaico tanto caro ai residente e soprannominato “la pupa del Capo” risalente al 1920, attualmente presso il palazzo Ajutamicristo
dove, dopo il restauro, resterà, finché il palazzo barocco Serenario, dove aveva sede il panificio, non verrà ristrutturato. Questo mosaico è un gioiello del liberty italiano, dono di nozze di Salvatore Morello alla sua sposa, composto da due pezzi: la denominazione del panificio stesso e la dea Demetra circondata dal motivo della spiga, simbolo di fertilità ed abbondanza. Sulla stessa via proseguendo, si scorge un gradone ed uno spiazzo su cui si erge la Chiesa di Maria SS. Della Mercede (1482) costruita per volere dei Padri dell’Ordine dei Mercedari. Sul prospetto principale si colloca il simulacro della Madonna della Mercede e si narra che la statua sia stata rinvenuta in mare dai pescatori del Capo e riposta nella facciata della Chiesa da dove talìa e protegge il mercato. Ogni anno, nell’ultima domenica di settembre, la vara con la Bedda Matri ra Miccè (forma dialettale dallo spagnolo Mercè) viene portata in processione dai fedeli con fervida partecipazione. Tornando su via Carini, si arriva in piazza Beati Paoli dove si trova la Chiesa di S. Maria di Gesù al Capo o Santa Maruzza o detta anche dei canceddi (dal nome dei conduttori di bestie da soma che trasportavano mercanzie nelle ceste, dette canceddi). In questa chiesa si riuniva in segreto la setta dei Beati Paoli, dove decideva come punire chi abusava dei più deboli. • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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Da Monte Pellegrino un cammino religioso e naturalistico
ItInerarIum rosalIae
di Mariagrazia Sclafani
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ltre 180 chilometri di sentieri percorribili in bici, a piedi o a cavallo, attraverso i luoghi in cui ha vissuto e si è rifugiata Rosalia, patrona di Palermo. Così nasce e prende forma l’ “Itinerarium Rosaliae” sul modello del cammino di Santiago di Compostela: un percorso religioso e naturalistico tracciato lungo i sentieri attraversati da Santa Rosalia e che collega l’Eremo della Quisquina con il Santuario di Santa Rosalia su Monte Pellegrino, e la via della Fuga che va dal Palazzo Reale di Palermo a Bivona. L’itinerario attraversa sette Riserve Naturali e quattordici Comuni: “Monte Cammarata”, “Monte Carcaci”, “Monti di Palazzo Adriano e Valle del Sosio”, “Monte Genoardo e Santa Maria del Bosco”, “Bosco della Ficuzza, Rocca Busambra, Bosco del Cappelliere, Gorgo del Drago”, “Serre della Pizzuta”, “Monte Pellegrino”. Si tratta di una nuova opportunità di fruizione del territorio collegando aspetti storici, naturalistici e sociali. Al tempo stesso il progetto rappresenta l’asse portante per l’avvio di ulteriori iniziative per l’ospitalità rurale (agriturismi e B&B) e la valorizzazione dei prodotti agroalimentari Born in Sicily. Redatto dal Dipartimento dello Sviluppo Rurale e Territoriale, Itinerarium Rosaliae, è stato finanziato con la misura 2.27 del Psr Sicilia 2007-2013 “Investimenti per il miglioramento, la valorizzazione e il recupero di ecosistemi forestali e investimenti per la realizzazione di strutture e di infrastrutture volte a incrementare la fruizione turistico-ricreativa e didattica del bosco”, per un importo complessivo di 670.715,81 euro; gli interventi hanno riguardato la segnaletica, la ripulitura, la messa in sicurezza, la realizzazione di passerelle e ponticelli, l’apposizione di capannine con cartografia del percorso. Nell’ambito del progetto, è stata realizzata anche una app da scaricare gratuitamente e che consente a pellegrini e turisti di orientarsi lungo il sentiero, fornendo loro, anche off line, dettagli precisi sulla posizione in cui si trovano e in-
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formazioni in tempo reale su storia, eccellenze, punti ricettivi ed eventi promossi nei territori interessati dall’itinerario. “Questo percorso rappresenta innanzitutto un atto d’amore per la Sicilia – ha affermato l’assessore regionale all’agricoltura Antonello Cracolici durante la presentazione alla stampa dell’itinerario – che diventerà attrattore per chi ha fede e per chi ama la natura, valorizzando anche i nostri prodotti tipici ed il turismo naturalistico”. E ha continuato: “Rappresenta un volano turistico di promozione del territorio e dei programmi agro-alimentari e sebbene sia stato pensato come percorso religioso, ci fa pure scommettere sullo sviluppo del territorio e sul turismo relazionale”. Per il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando “si tratta di un percorso che coniuga storia, cultura, tradizione e religione attraverso uno straordinario im-
pegno comune”. Nel frattempo fino alla fine dell’anno, l’aeroporto di Palermo ospiterà una gigantografia che raffigura Santa Rosalia e il Santuario di Monte Pellegrino. L’installazione di oltre sette metri e mezzo si trova nella sala imbarchi, in prossimità del gate 8, ed ha già catturato l’interesse di numerosi viaggiatori. Ma se da parte dei realizzatori l’entusiasmo è unanime, i fruitori si dimostrano
un po’ freddi e critici nei confronti di questa iniziativa. Che così come è stata realizzata poco servirà a promuovere le eccellenze dell’agroalimentare disseminate lungo l’Itinerarium Rosaliae. Nell’app, ad esempio, non è stata prevista una sezione riservata ai prodotti enogastronomiche tipici dei luoghi che si attraversano. Eppure il cibo è narrazione stessa dei luoghi, della storia e della cultura di un territorio. Nella app ci sono delle info generiche che però non tengono conto dei prodotti Dop e Igp, proprio le produzioni che sono il frutto di una combinazione unica di fattori umani ed ambientali caratteristici di un determinato territorio. Di sicuro c’è un elemento non trascurabile: i siciliani si sono dimostrati molto interessati a questo percorso, non tanto dal punto di vista religioso, quanto dal punto di vista naturalistico, sportivo e enogastronomico perché in esso si concretizza un modo diverso di godere del territorio e una ricerca nella propria regione di modelli di turismo che funzionano in altre parti d’Europa. Così i fruitori si domandano: “perché il Cammino di Santiago funziona e coinvolge milioni di turisti ogni anno e in Sicilia invece non deve funzionare?”. Sui forum dedicato ai bikers siciliani, gli utenti sono molto critici e fanno rilevare i primi problemi pratici, che sicuramente sono sfuggiti agli informatici, ma anche a chi ha tracciato il percorso. Il primo problema evidenziato è l’attraversamento della diga del lago di Piana degli Albanesi. Un utente fa notare che “di solito il cancello è chiuso poiché l’impianto è di proprietà dell’Enel”. Però fornisce subito la soluzione: “Questo problema si può aggirare facendo il giro dall’altro lato del lago e risalendo verso portella Sant’Agata”. C’è chi ha fatto parte del percorso e comunica le sue perplessità: “Mi sono perso dentro la riserva della Moarda e non sono riuscito a continuare verso
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Piana degli Albanesi. Potrebbe essere un bel percorso da fare ma non so quanto sia stato accuratamente tracciato”. Poi c’è chi non ha proprio mezze misure: “Il percorso non è segnato bene ed è facile perdersi. È davvero duro e poco servito da punti di ristoro”. E ancora: “Vi consigliamo vivamente di farlo se non si è più che preparati e più che equipaggiati. Il primo tratto, quello che va da Santo Stefano Quisquina a Prizzi è lungo 30 km senza alcun punto ristoro. Bisogna essere fortunati a trovare qualche abbeveratoio. Chi lo ha fatto, ha diversi cammini di Santiago alle spalle e fare un paragone con quel percorso è solo pura utopia e propaganda politica”.
Insieme alle rassicurazioni dell’assessore sull’apertura di un tavolo tecnico in concerto con le Soat (le Sezioni operative di assistenza tecnica) dei comuni interessati per la segnalazione delle eccellenze del Born in Sicily, è arrivato anche il feedback rassicurante del team Itinerarium Rosaliae. “Il problema dell’attraversamento della diga di Piana degli Albanesi è noto e stiamo tentando di risolverlo. Se ciò non dovesse essere possibile, provvederemo a segnare un percorso alternativo che però aggiungerebbe svariati chilometri al già non brevissimo percorso. Per ogni segnalazione è possibile scriverci utilizzando l’apposito form presente nell’app della
Jecoguides, oppure a itinerariumrosa liae@regione.sicilia.it. Ci interessa molto il vostro feedback così come ci interessa che segnaliate ogni imperfezione incontrata sul cammino”. Un dato che abbiamo sicuramente riscontrato è che tendenzialmente nei siciliani al posto della lamentela, sta subentrando un atteggiamento di critica costruttiva. E insieme a questa la pretesa che sia un diritto dovere esaltare le bellezze materiali e immateriali dell’Isola. E questo non è sicuramente un cambiamento da poco. Si potrebbe addirittura affermare che sia un miracolo della Santuzza, senza per questo risultare blasfemi.
Ecco cosa gustare lungo il percorso della Santuzza
vona la pesCa di Bi nella splendida valle del Platani, circostanti si lta ll’a de na zo a line Nell Sicani e delle col cornice dei monti ne della pesca di Bivona o “monta-i zio va lti ette produzion estende la co in queste zone perm a gnola”. Il clima mite ristiche organolettiche: polpa bianc al tte i ra nt ca de ri lia ten cu e pe se ro con lcata da venature e soda talvolta so e aromatico. lce do re rosso, sapo
i BisCotti
di Monrea le Non perdetev i forma di esse, ini caratteristici biscotti mon e i biscotti oblu ventati dalle suore di San C realesi a o di cedri cand nghi, ripieni di marmellata diastrense, anch’essi oper iti e spennellati di zucchero cotogne a delle alacri m glassato, onache.
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il Cannol o di piana degli alB Il centro arbers anesi meta di pellegr he è la patria del cannolo siciliano e diffuso in tuttainaggio dei tanti devoti a ques vette di perfez l’isola ma qui capace di ra to dolce, pianesi e grazieione. Grazie all’abilità dei ggiungere past soprattutto alla fatta con il latte qualità della riicceri di pe cotta co re alle circa 800 metri di altitudine vate su un altopiano a
le Ciliegie Chiusa sClafani, il paese del re microclima, Chiusa Sclafani, grazie al suo particola cerasicoltura. dalla eriti pref li area costituisce uno degli circa 3800 quiCon una produzione che si attesta su unità chiusese, com la per ce, ituis cost gia cilie la tali, alle sue caratteun prodotto di pregio, grazie anche e. Tre le cultivar zion idua indiv ristiche peculiari ad alta caddusa. locali: la moscatella, la cappuccia e la
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riginal Legno Italia nasce ad Alcamo (Tp) nel 1999, dalla passione per la lavorazione del legno e l'amore per la natura e una particolare attenzione per gli animali domestici. L'attività, all'inizio artigianale, è stata sempre accompagnata da un alto livello di qualità. Oggi all’interno del ricco catalogo nella linea dedicata agli animali domestici, si possono trovare le brandine in legno, adatte per il riposo del cane, il box parto, per aiutare la madre durante il parto e lo svezzamento dei cuccioli. E per le nostre case? La scelta spazia dalla pavimentazione a quadrotti alle cantinette, per mettere in bella vista e in maniera ordinata le vostre bottiglie; dal portalegna dove riporre in maniera ordinata la legna da ardere, alle librerie da parete; dal carrello portalegna, per trasportare comodamente la legna dal giardino al camino o al forno, alla casetta da giardino dove riporre l’attrezzatura e i prodotti per la casa. Tutti i prodotti sono realizzati con legno di pino di Svezia di alta qualità e tutte le operazioni vengono effettuate negli stabilimenti di Original Legno: dal taglio fino alla realizzazione del progetto, che viene collaudato e imballato, pronto così per la spedizione in Italia e all'estero. Dietro ad ogni nuovo prodotto realizzato da Original Legno Italia c’è la progettazione di soluzioni ideali per rendere armoniosi gli ambienti interni ed esterni e per assicurare la salute degli animali domestici. Badando
bene sempre che il prodotto sia funzionale, utile, sicuro e solido con un design semplice ed elegante. Tutte le scelte aziendali sono basate su criteri di sostenibilità. A cominciare dalla scelta dei materiali. E quella del legno non è affatto casuale. La sua natura “viva” ed in continua evoluzione lo rende l’elemento più idoneo ad interpretare la mission dell’azienda che opera nel profondo rispetto della natura. In quest’ottica il legno utilizzato proviene da aree geografiche certificate e da boschi la cui riforestazione è controllata da precise normative locali e verificata dai corpi forestali. Il legno, così, si rinnova così perennemente. Non si distrugge mai e la sua bellezza aumenta col passare del tempo. Anche gli scarti di lavorazione vengono utilizzati dall'industria in molteplici modi. I metodi di lavorazione, infine, sono in accordo con la mission ecologica aziendale. Original Legno Italia, infatti, ha scelto di finire i manufatti con la verniciatura atossica ad acqua. Una scelta questa che garantisce notevoli e numerosi vantaggi per l'ambiente e per chi lavora in azienda. Viene garantita così la riduzione delle emissioni nocive, la sicurezza per gli addetti alla lavorazione, la garanzia di atossicità per il consumatore e la protezione da muffe ed agenti atmosferici.
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La festa dei
Morti
nella tradizione siciliana di Vanessa D’Acquisto
“...le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti...” (G. Verga, La Festa dei morti 1887)
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l culto dei morti è stato praticato fin dall’antichità in maniera differente da ogni popolazione. I Greci erano soliti pranzare presso la tomba del defunto nel giorno del compleanno, portando zuppe di pane, vino, pagnotte con alici e formaggio e dolci a base di mieli. Per i Romani il rito dei Lemuria del 9, 11 e 15 maggio era dedicato alla commemorazione dei defunti, che sostituì la festa pagana della Samhain dei Celti. La festa durava tre giorni (31 ottobre, 1 e 2 novembre) e celebrava l’ultima fase del raccolto e l’inizio del nuovo anno. Secondo i Celti, durante la notte del passaggio tra vecchio e nuovo anno, le anime dei defunti trapassavano nel mondo dei vivi. Così, con il passare del tempo e con la convinzione della Chiesa che le anime venivano identificate con gli spiriti potenti e diabolici, durante le celebrazioni di Halloween (contrazione di “All Hallows Even”, vigilia di tutti i santi) si inizio a raffigurare scheletri, fantasmi e streghe. La commemorazione dei morti fu istituita nel 998 da Odilo, abate dell’abazia di Cluny, che seguiva quella di Ognissanti, istituita da papa Gregorio II nell’853. In Sicilia la commemorazione dei defunti è la “festa dei Morti”. La tradizione siciliana si lega a quella del “consulu” (il pranzo che i vicini portavano
ai parenti del defunto dopo il funerale) e del “Día de Muertos” messicano (i messicani allestiscono in casa un altare dedicato al defunto e si recano presso la sua tomba dove mangiano e bevono). Il significato è duplice: da un lato l’offerta alimentare ai defunti; dall’altro l’offerta simbolica nei dolci a forma umana, come raffigurazione delle anime dei morti, come se mangiandoli si cibasse dei defunti stessi. Secondo la tradizione siciliana, la notte tra l’1 e il 2 novembre le anime dei defunti si recano in città e “rubano” dai negozi dolci, giocattoli e vestiti che doneranno ai bambini loro parenti che siano stati buoni durante l’anno. I bambini, la sera prima, al momento di andare a letto e recitate le dovute preghiere, ne aggiungono una particolare: «Animi santi, animi santi, io sugnu unu e vuiautri síti tanti: mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai, cosi di morti mittitimìnni assai», con la speranza, al risveglio, di trovare tanti doni. A chi, invece, non è stato buono, i morti porteranno una grattugia e grattugeranno i loro piedi. Il giorno dopo iniziava la “caccia al tesoro” e, se i primi risultati non erano quelli sperati, i genitori stuzzicavano i figli sulle possibilità di non essere stati bravi o non aver pregato a sufficienza e li spingevano a cercare fino a raggiungere il risultato sperato. Ed ecco spuntare fuori bambole con i
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Sicilia c’è l’usanza di andare al cimitero e consumare un pranzo presso la tomba del proprio caro invitando i vicini a unirsi a loro. In alcune zone della Sicilia, in questo giorno, si usa mangiare le fave “a cunigghiu”, perché, secondo la tradizione contengono le lacrime dei defunti. Da qualche anno anche in Sicilia si sta diffondendo l’abitudine di celebrare Halloween: sembra quasi che intendiamo rinnegare le nostre origini e perdiamo così le nostre tradizioni a cui non dovremmo rinunciare perché costituiscono un patrimonio culturale e tradizionale che appena conosciuto, viene apprezzato soprattutto da chi siciliano non è. Dolci tipici della festa sono i frutti di pasta di mandorle, o “pasta reale”, o conosciuti con il nome di “frutti di Martorana”. La loro origine è a Palermo da dove si sono diffusi nel resto della Sicilia, varcando anche lo stretto e diventando così conosciuti e apprezzati in tutta Italia. Il monastero della Martorana, delle «nobili signore dell’ordine di S.Benedetto», era
loro accessori, pentole, servizi da tè per le femmine; macchinine, aerei, navi ed armi per i maschi. E accanto un grande cesto colmo di dolciumi e frutta secca. Già, perché in ogni famiglia siciliani non sono “i morti” se non si preparava “u cannistru”, un cesto con dentro ogni dolce tipico della festa: le “ossa ri mortu”, i taralli, i tetù, i “pupaccena” o “pupi ri zuccaru” (ossia i pupi di zucchero dalle forme varie), “u scàcciu” (la frutta secca) e la frutta di Martorana. In più, la mattina del 2 novembre si preparava la “muffuletta”, un pane soffice farcita con l’acciuga, che si era soliti portare al cimitero e consumarlo insieme ai propri defunti. Nelle vie delle città siciliane, la notte si poteva assistere a “processioni” dei defunti, uomini vestiti con lenzuola bianche e scalzi che lasciavano i doni dei bambini fuori le porte delle case, e nello stesso momento le campane delle chiese suonavano a morto. Processioni di questo tipo si svolgevano a Borgetto, a Partinico, a Salaparuta e nel catanese. Presso le comunità albanesi della
‘A muffuletta
L’origine di questo pane molle e spugnoso è ignota; forse il nome è legato proprio alla sua caratteristica: da “mou” che in francese significa appunto morbido.
Ingredienti per l’impasto: • 500 gr di farina di manitoba • 500 gr di farina di grano duro rimacinata • 20 gr di lievito di birra • 10 gr di malto per panificazione • 500 ml di acqua • ½ bicchiere di olio extravergine d’oliva • 20 gr di sale • 1 cucchiaio di miele • semi di sesamo
Per il ripieno: • acciughe • caciocavallo (se piace) • sale e pepe q.b.
Procedimento In una ciotola, sciogliete il lievito, il miele e il malto in 250 ml di acqua tiepida. In un’altra ciotola emulsionate l’olio con il sale e la restante acqua. Setacciate le due farine e, su un piano, formate una fontana e versate poco per volta l’acqua con il lievito, e, quando sarà completamente assorbita, aggiungete l’altra acqua. Impastate energicamente e a lungo fino a quando otterrete un impasto soffice e liscio. Ponetelo in una grande ciotola infarinata e fate un taglio a croce. Ricoprite la ciotola con la pellicola per alimenti e lasciate riposare l’impasto per un paio d’ore in un luogo caldo. Dividete l’impasto in porzioni di circa 100 gr ciascuno, formate delle palline e schiacciate leggermente, spennellate con acqua e cospargete con i semi di sesamo e pressate per aderire i semi. Ponetele su una teglia ricoperta con la carta da forno distanziate l’una dall’altra, perché dovranno lievitare per altri 30 minuti. Terminata la seconda lievitazione, infornate in forno già caldo a 200°C per circa 20 minuti. Appena cotte, farcite le muffulette ancora calde con olio, acciughe, pepe e caciocavallo a pezzi o grattugiato. Se preferite, fate prima raffreddare e poi farcite. • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
Fave ‘a cunigghiu È un piatto tipico della cucina siciliana che secondo la tradizione si consuma nel giorno della festa dei morti. L’usanza deriva dal rito romano dei Lemuria, celebrate il 9, l’11 e il 15 maggio per esorcizzare gli spiriti dei morti, i Lemuri appunto. Secondo la tradizione il padre di famiglia lanciava alle sue spalle fave nere per il numero simbolico di nove volte per allontanare le anime dei defunti. Il nome deriva dal modo in cui si mangiano che ricorda il modo di fare dei conigli: tenute tra il pollice e l’indice, si fa un’incisione della buccia con i denti. Ingredienti • 1 Kg di fave fresche o fave secche con la buccia • 1 testa d’aglio • sale, olio, pepe e origano q.b. Procedimento Se usate le fave fresche: incidete con un coltello la buccia delle fave e mettetele a bollire in acqua salata con l’aglio intero. Quando sono cotte, prendete le fave con una schiumarola lasciando un po’ di acqua di cottura. Condite, poi, con olio e origano e pepe. Se usate le fave secche: tenetele in ammollo per una notte. Poi, bollite a fuoco basso in acqua salata con la testa di aglio intera, per circa due ore, fino quando l’acqua di cottura si è trasformata in una salsetta densa. A fine cottura, togliete la testa di aglio e condite con olio, pepe e abbondante origano.
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noto per i suoi «frutti» di pasta di mandorle, che da esso prendevano il nome. Secondo una leggenda popolare, le monache ricreando con la pasta di mandorle frutti di diverse stagioni li appesero tutti in un solo albero presso il chiostro del monastero (l’ex facoltà di architettura in via Maqueda). Le suore ingenue furono contente di aver burlato il buon Dio che, invece, faceva fiorire ogni albero secondo il suo tempo e luogo. Secondo un’altra leggenda, le suore si vantavano della bellezza del loro giardino, tanto da destare la curiosità del vescovo che decise di visitare il monastero per verificare ciò che aveva udito. La visita venne annunciata e realizzata durante la stagione autunnale, quando gli alberi erano spogli. Le monache non si persero d’animo e decisero di abbellire il giardino realizzando
frutti posticci da appendere sugli alberi con la pasta di mandorle, sbalordendo così il vescovo. Dopo la soppressione delle corporazioni religiose del 1866, l’attività del monastero cessò completamente e le specialità dolciarie delle «nobili signore» divennero patrimonio dei pasticceri della città che, ogni anno in occasione della festa, adornano vetrine e banconi con questi prodotti dai colori vivacissimi e dalle forme più varie. Durante le festività di Ognissanti e dei Defunti, 1 e 2 novembre, oltre alle Ossa de Motti, ai Tetù, agli Nzuddi, (tutti dolci tipici), sono immancabili sulle tavole dei catanesi le Rame di Napoli, un prelibato dolcetto d’autunno che si può trovare in tutte le pasticcerie, bar e panifici di Catania a partire da metà ottobre e per tutto il mese di novembre.
Ossa di morti
Ingredienti • 300 gr di farina per dolci • 300 gr di zucchero semolato • 6 gr di chiodi di garofano in polvere • ½ cucchiaino di cannella in polvere • 75 gr di acqua
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Procedimento In un pentolino riscaldate l’acqua e aggiungete lo zucchero, facendo attenzione che il composto non giunga a ebollizione (non importa se lo zucchero non sia del tutto sciolto). In una ciotola aggiungete la farina, la cannella e i chiodi di garofano e versate a filo lo sciroppo. Rimescolate insieme gli ingredienti e rimettete poi sul fuoco il composto senza smettere di rimescolarlo con un cucchiaio di legno. Quando avrete ottenuto una pasta morbida, toglietela dal fuoco e versatela su di un piano infarinato dove formerete dei salsicciotti che taglierete dando la forma di biscotto. Copriteli con telo e lasciateli ad asciugare per 3 o 4 giorni. Dopo ponete i biscotti su una teglia ricoperta con la carta da forno bagnata e strizzata e infornate a 180°C per 10 – 15 minuti. Saranno pronti quando lo zucchero formerà un croccante biscotto bianco sopra (come un osso). Sfornate e lasciate raffreddare.
Sul loro curioso nome e sulla loro origine, che non ha nulla a che fare con i napoletani (che non ne hanno mai sentito parlare), si fanno diverse ipotesi, anche se tutte incerte. La creazione di questo biscotto potrebbe, semplicemente, essere stata un’idea di un pasticcere di nome Napoli; oppure, come spiega lo scrittore Pino Correnti, la creazione delle “Rame” sono state un atto di stupido vassallaggio dei catanesi per fare onore alla città di Napoli al tempo del Regno delle Due Sicilie. Ancora un’altra ipotesi, (la più accreditata) e legata sempre al periodo dell’impero Borbonico, fa risalire la storia dei dolci alla moneta di rame che, durante l’unificazione del Regno di Napoli con il Regno di Sicilia, venne coniata dal Re Carlo di Borbone, in sostituzione dell’oro e dell’argento. Il popolo allora, ne riprodusse la
Frutta di martorana
Ingredienti • 1 Kg di farina di mandorle • 1 Kg di zucchero a velo • 200 ml di acqua • 100 gr di glucosio • 8 gocce di essenza di mandorle • qualche goccia di vaniglia • coloranti alimentari Procedimento Impastate tutti gli ingredienti aggiungendo l’acqua fino a ottenere un composto soffice ed omogeneo che non si attacchi alle mani. Lasciate riposare per almeno un’ora. Dopo di che iniziate a modellare i frutti: se ci riuscite potete farli a mano, altrimenti, potete usare gli stampini che trovate in commercio. Se usate gli stampini, ricordate di mettere cospargerli prima con un po’ di farina per evitare che il composto si attacchi. Quando avrete modellato i vostri frutti, lasciateli asciugare per 24 ore, quindi date sfogo al vostro lato artistico colorando i frutti e lasciateli nuovamente asciugare. Finite di decorare con foglioline, piccioli e ciò che la faccia sembrare una frutta vera.
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versione dolciaria, detta appunto “Rama di Napoli” dalla forma tondeggiante, utilizzando scarti e materiali poveri, proprio come la lega della nuova moneta. La ricetta è stata nel tempo modificata e arricchita di altri ingredienti, ma quella originale prevedeva: farina, cacao amaro, zucchero, ammoniaca, strutto e marmellata d’arance. Anche la forma oggi non è sempre tondeggiante, ma talvolta ovale, per distinguerne le varianti esistenti: con ripieno nutella o nutella di pistacchio, al cioccolato bianco o semplice senza alcun ripieno, con un sottile strato di marmellata sotto la glassatura. La glassatura può variare: oltre al cioccolato fondente classico, si possono trovare glassate al cioccolato bianco o al pistacchio, con o senza granella di pistacchio sopra. Ogni anno, poi, i pasticceri catanesi ne inventano sempre di nuove.
Rame di Napoli
Pupi di zucchero Ingredienti per l’impasto: • 500 gr di farina 00 • 300 gr di latte • 200 gr di zucchero • 100 gr di cacao amaro • 100 gr di margarina o burro • 2 cucchiai di miele • 1 bustina di lievito • scorza di un’arancia grattugiata • 1 cucchiaio di cannella in polvere • 1 cucchiaino di chiodi di garofano macinati per guarnire: • 300 gr di cioccolato fondente • 100 gr di margarina o burro • granella di pistacchi non salati • marmellata d’arance o d’albicocche
Ingredienti • 2 kg di zucchero • 250 gr di glucosio • 2 cucchiai di succo di limone • olio di mandorle • colori alimentari vegetali Procedimento In un tegame di rame sciogliete lo zucchero nell’acqua molto calda, mescolando di continuo. Aggiungete il glucosio e il succo di limone, continuando a mescolare, stando attenti a non farlo scurire. Toglitelo dal fuoco quando, immergendo uno stecchino di legno, alla punta si forma una bolla. Per bloccare la cottura immergete il tegame in acqua fredda. Nel frattempo ungete gli stampi con l’olio di mandorle e versate il composto. Fate rassodare in forno a 130°C e appena sodi, toglieteli da forno e fateli raffreddare. Alla fine decorateli a vostro piacere.
Procedimento Versate in una terrina lo zucchero, il lievito, la scorza d’arancia grattugiata, il cacao amaro, il cucchiaio di cannella ed il cucchiaino di chiodi di garofano ridotti in polvere; poi i due cucchiai di miele e la margarina, precedentemente sciolta a bagnomaria, e cominciate ad amalgamare aggiungendo poco alla volta la farina setacciata e il latte, fino al punto di ottenere un composto dalla consistenza omogenea, liscia e cremosa, ma non troppo appiccicoso. Disponete l’impasto a cucchiaiate dalla forma ovale su una teglia rivestita con carta forno, avendo cura che tra una rama e l’altra vi sia una distanza di almeno tre centimetri. Mettete la teglia in forno preriscaldato a 180°C. Trascorsi 5-10 minuti, ovvero il tempo necessario affinché le rame gonfino e raggiungano la consistenza poco più dura di quella del pan di spagna, sfornatele e lasciatele raffreddare. Nel frattempo, preparate la glassa, fondendo a bagnomaria la margarina e il cioccolato; mescolate bene e lasciatela intiepidire. Distribuite sulle rame ormai fredde uno strato di marmellata e ricoprite con la glassa. Completate con granella di nocciole e/o pistacchi. Trascorsi circa 45-50 minuti la glassa si sarà rappresa e potrete gustare finalmente le vostre Rame di Napoli.
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San Martino e la sua breve estate
di Rachele Sanfilippo
L’undici novembre si festeggia San Martino, ma la data segna anche l’inizio dell’annata agraria. In questo periodo accade uno strano evento meteo: le temperature salgono e il sole torna a splendere. È l’estate di San Martino 50
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on i suoi inconfondibili colori l’autunno ci fa entrare in punta di piedi nell’atmosfera magica e fiabesca che precede il periodo natalizio. Una delle giornate da festeggiare nel mese di novembre, subito dopo la molto sentita in Sicilia ricorrenza dei “morti”, è San Martino, che con la sua “estate” ricorda la storia di un santo molto noto che, morto l’otto di novembre, viene ricordato l’undici, quando la sua salma fu tumulata. La festa di San Martino, celebrata un po’ in tutte le parti del mondo è intrisa di storia, tradizioni contadine, iconografie, leggende in cui si mescola e si confonde il sacro con il profano. Ovunque dove si festeggi questa ricorrenza c’è aria di festa, c’è voglia di mangiare caldarroste, salsiccia, dolciumi e di assaggiare il caratteristico vino novello dal color porpora. Tra le storie sul santo che si tramandano da generazioni, la più conosciuta in Italia è quella della cosiddetta “estate di San Martino” in cui per qualche giorno,
intorno alla data dell’undici di novembre, il clima diventa straordinariamente mite. Si racconta che in una nevosa giornata autunnale, il cavaliere Martino di Amiens (una località della Francia), uscì a fare una passeggiata sul suo cavallo bianco quando, sul sentiero, vide un povero vecchio seminudo intirizzito dal freddo; così Martino non ci pensò un attimo, con la spada tagliò il suo mantello di lana e ne donò una parte al mendicante. Improvvisamente il sole fece capolino tra le nuvole e scaldò la giornata con un clima quasi estivo. Il grande poeta Giosuè Carducci scrisse una poesia proprio per celebrare il clima festoso di questo giorno in cui si percepiscono gli odori e le atmosfere della festa: “Ma per le vie del borgo/Dal ribollir de' tini/Va l'aspro odor de i vini/L'anime a rallegrar”. Sono tanti i detti popolari riferiti alla festa di San Martino: “si mangiano castagne, salsiccia e si beve vino”, “si spilla la • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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botte e si assaggia il vino”, “ogni mosto diventa vino” con tante altre declinazioni, che si giustificano per la celebrazione dell’avvio della nuova annata agraria, cioè la fine dei lavori nei campi e l'inizio del raccolto dei vari prodotti che la terra ci offre (funghi, olive e uva, tanto per citarne alcuni). In Sicilia, come nel resto d’Italia, questo periodo coincide con la cosiddetta “svinatura”, che consiste nel degustare il mosto-vino travasato in altre botti nuove. Ogni provincia della nostra isola ha tradizioni legate a questa festa; innumerevoli sono le sagre che ci lasciano testimonianza di questo periodo tanto apprezzato e riconosciuto in molti borghi. Ad esempio, sono diverse le degustazioni di piatti della tradizione siciliana, le mostre-mercato e gli spettacoli di musica folkloristica che si susseguono nei paesini ai piedi dell’Etna, sia sul versante catanese che su quello messinese. Ci sono alcuni borghi che hanno usanze e tradizioni anche di origine balcanica, come a Palazzo Adriano, in provincia di Palermo, dove al centro dei festeggiamenti ci sono i novelli sposi che ricevono provviste per tutto l’anno da una proces-
sione di parenti, la cosiddetta “fornitura”. Per i dolci poi, la nostra terra non può non averne di adatti al periodo; in Sicilia, infatti, ogni occasione è buona per sedersi a tavola e stare in compagnia! Ad Agrigento, ad esempio, per San Martino è abitudine preparare le cosiddette “sfingi”. Si tratta di un dolce povero molto morbido, a base d’acqua, lievito e farina che, una volta impastato e messo a lievitare per circa un’ora, si frigge in abbondante olio. Queste palline dalla forma imperfetta, si cospargono poi di zucchero e cannella o si farciscono di cioccolato o ricotta. Per la tradizione palermitana, invece, ogni commensale dispone di un bicchiere di moscato, in cui intingerà il proprio biscotto per renderlo più morbido e gustoso: si tratta dei “sammartinelli” i tipici dolci di cui si hanno tre varianti. Ci sono i “tricotti”, cioè quelli cotti tre volte, che risultano molto duri, adatti ad essere inzuppati; con lo stesso impasto si ottiene il “rasco”, cotto una sola volta, notevolmente più morbido, riempito con crema di ricotta, cosparso di zucchero a velo e cannella, oppure farcito con conserva di cedro e ricoperto di glassa, con ghirigori di zucchero che si accompagnano a cioccolatini ancora incartati ed adagiati sopra. Di seguito, vi proponiamo la ricetta dei biscotti di San Martino, nelle sue tre golose varianti palermitane: quella secca da inzuppare e quelle morbide da farcire. Dunque, buon San Martino a tutti, con un cielo costellato di stelle, con tanto buon cibo, ottimo vino e un bel sole che fa capolino all’improvviso.
Tricotti Ingredienti • 1 chilo di farina • 50 gr lievito di birra • 300 gr di zucchero semolato • 250 gr di burro (o margarina) • 30 gr di semi di finocchio • un pizzico di cannella • sale q.b. Procedimento Sciogliete il lievito in poca acqua tiepida ed aggiungete un pizzico di sale. Amalgamate la farina con il lievito sciolto con l’aiuto di un cucchiaio di legno, aggiungete poi il burro, lo zucchero, i semi di finocchio e la cannella fino ad ottenere un impasto soffice e compatto. Ricavate dall’impasto tanti bastoncini della lunghezza di circa 10 cm che avvolgerete a spirale. Poneteli in una teglia imburrata (o sulla carta forno) a lievitare per circa un’ora. Una volta lievitati, metteteli in forno preriscaldato a 200°C per dieci minuti, quindi sfornateli e infornateli nuovamente per altri 20/25 minuti a 160°C accertandovi che non scuriscano troppo. Una volta terminata la cottura, lasciate i biscotti a riposare nel forno spento per qualche ora, così raggiungeranno quella particolare croccantezza e friabilità che li caratterizza.
Ripieni di ricotta Ingredienti Agli ingredienti della prima ricetta aggiungete: • moscato q.b. • ricotta q.b. • zucchero a velo q.b. Procedimento Procedete come nella prima ricetta, mettete i biscotti in forno a fuoco moderato e tirateli fuori quando sono cotti ma morbidi. Tagliateli in due parti, di cui una sia pari ai 2/3 e l’altra 1/3 dell’intero e lasciate raffreddare. Bagnate leggermente le due parti con il moscato. Passate la ricotta tre volte al setaccio, al fine di ottenere una crema soffice e spumosa, lavoratela con lo zucchero a velo. Mettete sulla base (la parte più spessa) la crema di ricotta e coprite con il “cappello” (la parte più sottile). Spolverate la parte superiore con zucchero a velo e cannella in polvere. • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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Buone Feste È
tempo di feste, è tempo di regali. Noi di Sapori di Sicilia vogliamo farvene uno, ma a modo nostro. Vogliamo festeggiare insieme a voi, la famiglia e le tradizioni culinarie che ci danno l'occasione di stare ancora insieme intorno a una tavola. Il nostro regalo è uno speciale dedicato al Natale e alle feste di fine anno. Sapori di Sicilia anche per il 2016 è andata nelle cucine degli chef stellati e ha carpito menù da veri gourmet. Ma ha anche cercato di darvi qualche idea per i regali da mettere sotto l’albero. A sfondo alimentare, ovviamente. Ce n’è per tutti i gusti e per tutte le tasche. Non ci resta che scegliere quello giusto per la persona che deve riceverlo. Difficilmente questi regali verranno riciclati come avviene spesso per quelli sgraditi o inutili. Ricevere qualcosa di prelibato da bere o da gustare è una delle gioie di queste feste. Nel preparare questo speciale, ci siamo resi conto quanto noi siciliani siamo davvero fortunati: possiamo preparare piatti prelibatissimi a Km0. La nostra terra e il nostro mare infatti, sono ricchi di tesori. Pensiamo alle carni degli allevamenti madoniti, al suino dei Nebrodi, ai formaggi della tradizione casearia ragusana, alle paste realizzati con i grani antichi siciliani, alle verdure di stagione e al pesce prelibato, soprattutto quello azzurro. Il tutto facilmente si può reperire nei nostri mercati, che sono la nostra storia. La pasticceria, poi, è un trionfo di dolci a base di pistacchio, mandorla, miele, cannella e zucchero, ed ancora cioccolata, vaniglia e ricotta. Come la cuccìa di Santa Lucia, che inaugura le festività natalizie fino ad arrivare all'immancabile la cassata, di cui il nostro Peppe Giuffrè è maestro. Il Natale e le feste di fine d'anno sono l'occasione per riscoprire gli autentici sapori di Sicilia. È questo l'obiettivo che la nostra rivista si è prefissata per tutto il 2016 e che rilanciamo per il 2017. Vi invitiamo non solo a continuare a leggerci, ma a continuare ad acquistare e a consumare tutto il made in Sicily. Anzitutto per mantenere alte le nostre tradizioni ed esserne orgogliosi ovunque noi possiamo trovarci. E poi per rilanciare l'economia siciliana e i nostri prodotti biologici, spesso in concorrenza con brutte copie che percorrono svariati chilometri prima di arrivare sulle nostre tavole. Scegliere di mangiare a Km0 va oltre le mode del momento. È una scelta economica, oltre che ecologica. Nell'augurarvi una buona lettura, Vi auguriamo un dolcissimo Natale, trascorso con le persone che amate di più. Vi auguriamo anche di concludere con gusto questo 2016. Ci rivediamo in edicola nel 2017, per nuove e prelibate avventure! La Redazione
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VINI E GRAPPE BOTTEGA IN 120 PAESI NEL MONDO
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'azienda Bottega, guidata da Barbara, Sandro e Stefano Bottega, è al tempo stesso una distilleria e una cantina.. Fondata nel 1977 da Aldo Bottega con la denominazione Distilleria Bottega, l'azienda ha sede a Bibano di Godega (TV), 50 km a nord di Venezia, dove produce grappe, vini e liquori che si rivolgono a un target di livello alto e medio alto. Tra le grappe, commercializzate con i marchi Alexander e Bottega., si distinguono le pregiate selezioni di monovitigni e i distillati maturati in barrique. La gamma dei vini Bottega comprende il Prosecco, tra cui il noto Bottega Gold, e altri spumanti di grande personalità. In due cantine a gestione diretta, in Valpolicella e a Montalcino vengono prodotti Amarone, Ripasso, Brunello di Montalcino e altri grandi rossi. Completano l’offerta Bottega i liquori alla frutta e alle creme, tra cui Limoncino, Gianduia, Fiordilatte. L’azienda, che nel 2013 si è trasformata in Bottega S.p.A., distribuisce i propri prodotti in oltre 120 paesi nel mondo. E' di oggi la notizia che Bottega sarà uno dei marchi del Food al Fondaco dei Tedeschi, a Venezia, che Louis Vuitton ha trasformato nel più grande store del lusso del mondo.
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NataleSicilia di Maria Grazia Sclafani
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atale con i tuoi...” recita un antico proverbio. Che nessuno osa smentire. Men che mai in Sicilia. Da noi, come tutte le altre feste del resto, il Natale è una vera e propria istituzione. Un appuntamento di cui le fimmine di casa – e con la diffusione di trasmissioni Masterchef style, ora pure i masculi – cominciano a parlare già un mese prima. Gli ingredienti di base delle feste siciliane sono tre: tanto cibo, tanta gente e tanta tradizione. Quella gastronomica, prima di tutto, intrisa di tutto ciò che ci hanno lasciato in eredità Greci, Spagnoli, Francesi e Arabi. E di cui, noi, Siciliani doc, siamo orgogliosi.
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L’ansia da prestazione del “Natale perfetto” inizia già in fase organizzativa, ovvero circa un mese prima. Con la pianificazione del menù delle feste, a partire dall’Immacolata, fino ad arrivare all’Epifania. Bisogna studiare un piano per incastrare almeno un pasto con tutti i componenti della famiglia, compreso Salvatore, cugino con non si sa quale grado di parentela, che vive a Milano e che “poveretto lì, queste cose se le sogna! Pensa, mischino, mangia sushi!” E allora si va al mercato, alla ricerca del baccalà per consacrarlo alla frittura con olive o condirlo con il limone per un’insalata da antipasto. O con l’aringa
per condirla con arance, mandarini e finocchi. E dei carciofi, probabilmente provenienti dalla piana di Catania insieme ai bastardoni dell’Etna (i fichi d’India). Se sei di Catania il via alla lunga notte che sembra non finire mai, lo danno le crispelle con ricotta e acciughe e quelle di riso e miele. Il loro profumo, nelle strade, nelle case, è un segno indelebile nell’iconografia olfattiva siciliana. Questa preparazione sembra avere anche un antenato più economico (e più light): il pane col miele. Quando anticamente si diceva “Cc’è-mmeli,… cc’è-mmeli…!”, lo si diceva per partecipare alla venuta al mondo di un neonato. Nel palermitano l’attesa si chiama sfincione. È la pizza povera dei palermitani. La sua origine è probabilmente saracena, mentre il nome è prettamente siculo. Pare che questa ghiottoneria sia stata inventata dalle suore del monastero di San Vito di Palermo. I panifici e i venditori ambulanti di Palermo, poi, ne hanno fatto un’istituzione. Dalle nostre parti, quando si vuol definire qualcosa di molto morbido e buono lo si definisce: “È muodda comu ‘na sfincia” (è morbida come una “sfincia”). Il menù tipico del Natale prevede un numero di portate interminabile, capace da stroncare qualsiasi fame “atavica” o appetiti insaziabili. Si parte con lo sfincione avanzato dalla sera prima (che è più buono). O la scacce ragusane, se sei della parte orientale. Si prosegue col trionfo del pastellato, tutto fritto, naturalmente: carciofi, cardi, broccoli, cipolle ad anelli (recente introduzione), fiori di zucca (ma meglio di no perché possono essere solo surgelati…). Si prosegue con i primi: sformato di anelletti al forno con ricotta e/o pasta con le sarde. Questa sarà necessariamente seguita dalle sarde a beccafico, involtini di carne con pancetta coppata
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con contorno di sparaceddi e caponata. Immancabile, poi, il capretto con le patate, con buona pace del cugino Salvatore che a Milano, nel frattempo, è diventato animalista. Poi pausa e si passa allo scaccio. La Sicilia è l’unico luogo in Italia dove arachidi e mandorle non sono visti come alimenti ricchi di cui non devi abusare, ma un ottimo digestivo o un modo per accompagnare i lunghi po-
Per bilanciare il culto della tavola, in Sicilia dedichiamo la stessa cura e le stesse scenografie anche al lato religioso delle feste di dicembre. La festa è sempre stata e sempre sarà l'occasione per allontanarsi dalle consuetudini, per abbandonare le fatiche quotidiane e dedicarsi allo straordinario, per avvicinarsi al nostro santo protettore in cerca di conforto e di possibili guarigioni. O semplicemente per trovare un posto di lavoro, come il cugino Salvatore. Ma no a Milano. Perchè noi, senza il sole, diventiamo tristi. Visitare i presepi viventi è un'occasione non solo per alzarsi da tavola, ma per scoprire angoli incantati della Sicilia. Il più noto è probabilmente quello di Custonaci, in provincia di Trapani, all'interno della grotta Mangiapane di Scurati, nella riserva di Monte Cofano; tra gli altri ricordiamo il presepe di Agira
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meriggi passati giocando a carte. Sappiamo che la frutta secca è calorica, ma per le feste fermiamo tutto e non ce ne importa nulla: ci piace assai. Finisce la pausa e si inizia con i dolci natalizi tipici: la “cobaita” fatta di miele al quale possono esser aggiunti semi di sesamo, noci oppure mandorle; i “nucatoli”, i biscotti con all’interno un impasto di mandorle e pistacchi tritati uniti alla
(Enna), Piana degli Albanesi (Palermo), Scicli (Ragusa), Caltabellotta (Agrigento). A Longi, in provincia di Messina, i presepi sono accompagnati da canti in un dialetto perso nella memoria dei nonni o da strumenti antichi come la zampogna a chiave, utilizzata a Monreale, in provincia di Palermo, o quella a paio suonata a Licata, in provincia di Agrigento. La diffusione del presepe in Sicilia risale al XV secolo, periodo in cui si cominciò a rappresentare la nascita di Gesù con statuine tridimensionali mobili. Sono bellissimi e visitatissimi i presepi di Caltagirone, quelli di Noto che si trovano nella cripta dei Cappuccini e sulla Scala di Santa Maria del Monte.
cannella; i “cosi chini”, altri biscotti ripieni di fichi secchi e mandorle; il “buccellato”, dolce di pasta frolla con ripieno composto da fichi secchi, uva passa, mandorle, noci, pinoli, bucce d’arancia candite e zucchero; e per finire il classico torrone. Il caffè amaro, o col dolcificante. Già, perché dopo avere mangiato tutto questo ben di Dio, c’è chi ancora sostiene di averci rinunciato per tenersi in linea...
Non mancate di vedere quelli di Trapani, realizzati in oro e finissimo corallo. Alcuni esempi di questa pregiata fattura si possono ammirare al Museo Pepoli.
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Il menù della vigilia Natale di Seby Sorbello firmato
Antipasto
Triglia nel giardino dell'Etna
ssico del l pesce è un cla a di Natale . menù della vigili Sorbello, Lo chef Seby rante Sabir patròn del risto del Parco dei Gourmanderie ea a Zafferana etn Principi Resort, di n menù a base u e n o p ro p t) (C o ingrediente st e u q i cu in e pesc antipasto al ll’ a d to a lin c e d viene raffinati secondo in tre a chiudere la cen A . ti n e m a in b b a l laborazione de e ri ta a ic st fi so una o. cannolo sicilian
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Ingredienti per 6 persone • 9 triglie di scoglio • 200 gr di farina di tumminia • dl 2 birra artigianale di grano tumminia • 2 melanzane bianche • 1 arancia • 1 limone • brodo vegetale q.b. • 3 carciofi • 1 cavolfiore viola • 1 broccolo • cannatedda (verdura spontanea) • sale • olio evo • timo • finocchietto selvatico • rosmarino • erbette di alta montagna Procedimento Sbucciate e tagliate a cubetti le melanzane bianche, saltate in padella con olio evo e timo, frullate aggiungendo brodo vegetale ed olio, sistemate di sale e profumate con la buccia di limone e d'arancia grattugiata. Mondate e cuocete a vapore i carciofi, il broccolo ed il cavolfiore viola, raffreddate in acqua e ghiaccio, successivamente saltate in padella con olio evo, rosmarino e finocchietto selvatico. Squamate e sfilettate le triglie facendo attenzione alle spine centrali, marinate per due ore con erbette di alta montagna. Realizzate una pastella con farina e birra di tumminia. Passate la pastella solo nella parte della polpa della triglia e friggere in olio evo. Servite aggiungendo della cannatedda cruda.
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Primo
Secondo
Tagliolini con ricciola, limone verdello e vellutata di porro al basilico Ingredienti per 6 persone Per i tagliolini • 400 gr farina di semola rimacinata russello • 4 uova intere, 400 gr filetto di Ricciola • 1 limone verdello, 4 dl di fumetto di pesce • timo, olio evo, sale
Pesce “aggrassato”
Per la vellutata • 1 porro, 1 mazzo di basilico a foglia larga • 5 dl latte fresco intero • olio extravergine d’oliva, sale
Ingredienti per 6 persone • 6 filetti di dentice, 2 carote, 1 cipolla, 1 sedano • 800 gr muscolo di vitello, 1 rametto di rosmarino • 1 sedano rapa, olio evo, sale e pepe q.b.
Procedimento Impastate la pasta per i tagliolini utilizzando la farina di semola e le uova. Avvolgete l’impasto ottenuto nella pellicola e lasciate riposare almeno 2 ore. Stendete l’impasto molto sottile e ricavate dei tagliolini. Pulite e tagliare il Porro alla julienne, stufare con olio evo aggiungendo il latte a poco a poco. A cottura ultimata sistemate di sale, unite le foglie di basilico crude e frullate bene con il frullatore ad immersione. A questo punto tagliate la Ricciola a cubetti e saltatela in padella con olio evo, sistemate di sale e versate il fumetto di pesce. Cuocete i tagliolini in acqua salata bollente, scolate al dente e mantecate con la ricciola, grattugiate la buccia del limone verdello e del timo. Impiattate i tagliolini e salsate con la vellutata.
Procedimento Pulire e tritare finemente sedano, carote e cipolla. Stufare in pentola con olio evo ed aggiungere il muscolo di vitello a pezzettoni, mettere il rametto di rosmarino e cuocere per almeno 2 ore aggiungendo acqua mano che si asciuga. Sistemate di sale e pepe. Pulite e tagliate a cubetti il sedano rapa e cuocete a fuoco basso in pentola con olio evo, sistemate di sale e frullate con il minipimer fino ad ottenere una purea liscia e setosa, aggiungendo acqua se necessita. Scottate i filetti di dentice in padella, impiattate adagiando il pesce sul piatto, dressate con la salsa ottenuta dalla cottura della carne “agrassata” e guarnire con la purea di sedano rapa.Con la carne cotta preparate una buonissima insalata di carne e verdure.
Dessert
Fioritura dell’Etna
Ingredienti per 6 persone Per la cialda del cannolo • 500 gr farina, 50 gr zucchero semolato • gr 30 burro, 10 gr sale, 2 dl marsala Per il gelato ai Frutti rossi dell’Etna • 2 dl di panna, 200 gr di zucchero semolato • 100 gr miele, 2 uova, 400 gr di frutti rossi dell’Etna Per la crema di ricotta • 1 kg ricotta di pecora, 300 g zucchero Per la crema alla nocciola dell’Etna • 125 gr di nocciole dell’Etna • 200 gr cioccolato bianco, 4 dl di panna fresca
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Procedimento Lavorate in una planetaria farina, sale, zucchero, burro e aggiungete poco alla volta il marsala. Una volta pronto fate riposare l’impasto per un’ora in frigorifero. A questo punto stendetelo finemente, tagliarlo con un coppapasta rotondo e arrotolarlo su un cilindro d’acciaio e friggere in olio bollente a 180°. A questo punto preparate la crema unendo la ricotta di pecora e lo zucchero semolato, lasciate riposare 30 minuti quindi setacciatela. Appena terminato portate ad ebollizione in una casseruola latte, panna, miele, uova e zucchero. Fate raffreddare, quindi unite il succo dei frutti rossi precedentemente setacciati e mantecare nella gelatiera. Frullate le nocciole con la panna fresca, portare ad ebollizione ed unire il cioccolato bianco, rimestare fino ad ottenere una crema liscia. Fate riposare in frigo per almeno 12 ore e montare in planetaria. A questo punto riempite la cialda di cannolo con la crema di ricotta e accompagnatela con una pallina di gelato ai frutti rossi e decorate con frutti interi e la crema alle nocciole dell’Etna.
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Il menù di
San Silvestro firmato Pietro D’Agostino Antipasto
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spettando lo scoccare della mezzanotte, potete deliziare il palato dei vostri ospiti con questo menù raffinato ed elegante suggeritoci da Pietro D’Agostino, chef patròn del ristorante “La Capinera” di Taormina
Passeggiata per la Sicilia Ingredienti per 10 persone • 800 gr polpo freschissimo • 4 patate medie • 80 gr di capperoni di Salina • 80 gr di pomodorini datterini • 40 gr di mandorle • 1 cipolla di Giarratana • 100 gr di broccoli • 1dl di aceto rosso • 100 gr di zucchero di canna • 1 calice di vino bianco • 2 filetti di alici Procedimento Cuocete il polpo assicurandovi che rimanga tenerissimo, appena freddo tagliatelo e cuocetelo alla brace. Tagliate le patate a dadi e bollitele, dopo cuocetele alla brace. Pelate la cipolla e cuocetela con l’aceto, lo zucchero e il vino per cinque minuti, pelate le mandorle e arrostitele in padella ben calda, sbollentate i broccoli e padellate con alici e poco olio, frullate tutto. Seccate i pomodori privi di semi a 70 °C per 10 minuti. Componete il piatto come da foto.
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Primo
Agnolotti di ricotta nostrana con seppioline e piccoli frutti di mare Ingredienti per 4 persone Per la pasta all'uovo Per la salsa • 200 gr di farina 00 • 400 gr di frutti di mare • 1 uovo intero • 100 gr di seppioline • 3 tuorli • 100 gr di broccoletti • 1 spicchio d’aglio Per il ripieno • 30 gr di pomodori datterini • 100 gr di ricotta • 2 cl di olio extravergine d’oliva • 50 gr di parmigiano • 1 cl di vino bianco secco • 2 albumi montati • qualche foglia di basilico • noce moscata, pepe • sale e pepe Procedimento Confezionate il ripieno mescolando tutti gli ingredienti, aggiustate di sale e pepe. Fate lo stesso con la pasta all’uovo, ottenendo un impasto ben sodo, stirate con un mattarello, farcite gli agnolotti aiutandovi con una tasca da pasticceria e chiudete bene. Preparate la salsa ai frutti di mare, soffriggendo aglio, olio e peperoncino, aggiungete i frutti di mare, le seppioline e aggiungete del vino bianco secco, i pomodori datterini e del basilico. Decorate a piacimento con foglie di finocchietto selvatico e la crema di broccoletti ottenuta frullando gli stessi dopo averli cotti al vapore.
Secondo
Tonno “a prima vista” Ingredienti per 6 persone • 350 gr. di filetto di tonno, una zucchina, una carota • una patata media, una cipolla di Giarratana • un finocchio, un bicchiere di latte, 5 gr di zenzero • scorza di limone, menta piperita, sale e pepe • un dl di olio extravergine d’oliva, fiori eduli Procedimento Filettate il tonno e dividetelo in 4 tranci. Salate, pepate e scottate in una padella con olio evo e mettete da parte. Fate imbiondire nell’olio evo la cipolla tagliata a cubetti, aggiungete il finocchio, lo zenzero e la patata a pezzettoni, versate il latte e 3 dl di acqua, aggiustate di sale e pepe e lasciate cuocere per 15 minuti. Passate il tutto al mixer ad immersione, fino ad ottenere un composto omogeneo che metterete da parte. Tagliate a bastoncini le verdure, passatele in forno a vapore per 3 minuti circa, condite con sale, pepe e mentuccia piperita. Composizione del piatto: adagiate la salsa su un piatto fondo, mettete le verdure a torretta incrociate, posizionate il trancio di tonno precedentemente scottato, guarnite con i fiori e con un filo di olio extra vergine d’oliva. Affumicate la composizione con del caffè arabica.
Dessert
Tortino al pistacchio con zabaione al passito e gelato alla ricotta Ingredienti per 6 persone Per il tortino • 180 gr di pistacchio a grana fine • 1 pera cotta nello sciroppo al 40% • 200 gr di farina 00 • 160 gr zucchero semolato • 4 uova intere, 200 gr di burro • 1 pizzico sale, 3 gr di lievito Per il gelato alla ricotta • 200 gr di ricotta di pecora • 40 gr di panna fresca • 40 gr di latte fresco • 90 gr di zucchero semolato • 1 cucchiaio di miele di acacia • 1 pizzico di sale.
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Procedimento Per il tortino: montate burro e zucchero, aggiungete pistacchio, uova, farina, sale e lievito, lasciate mescolare bene e ponete il composto in stampini imburrati e infarinati, inserite la pera cotta nello sciroppo aromatizzato e cuocete a 170°C con valvola chiusa per 10 minuti e altri 10 minuti con valvola aperta. Per la salsa zabaione: preparare salsa inglese con aggiunta di passito. Per il gelato alla ricotta: portate a 70°C sul fuoco per 15 minuti poi passate al termo mix per 4 minuti; poi per altri 5 e poi una volta freddo passate in gelatiera. Montate il dolce servendo il tortino in una fondina, salsa alla base e poi il gelato sopra il tortino caldo.
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Lenticchie imp_28 10/10/16 15:53 Pagina 63
Immancabili lenticche N
on possono mancare nell’interminabile lista delle pietanze del cenone di San Silvestro. Parliamo delle lenticchie. È, infatti, consuetudine mangiarle durante la cena dell’ultimo dell’anno come buon auspicio – specialmente dal punto di vista economico – nella speranza di un futuro prosperoso. Tale usanza deriva dall’antica tradizione romana di regalare una “scarsella”, ovvero una piccola borsa di pelle usata per conservare il denaro, contenente lenticchie con l’augurio che potessero trasformarsi in monete. Le lenticchie sono considerate un vero proprio passpartout a tavola. E non solo per i vegetariani e i vegani che le utilizzano come fonte di proteine e ferro in alternativa alla carne e ai derivati. Infatti la presenza di carboidrati e olii vegetali, fosforo, vitamine del gruppo B, zuccheri, sali minerali e fibre le rendono molto importanti e utili per il funzionamento dell’apparato intestinale e per tenere sotto controllo il livello del colesterolo. Infine, a fronte di una scarsa quantità di grassi, le lenticchie contengono, i soflavoni, ovvero sostanze che “puliscono” l’organismo. Così ricche (di sostanze utili al nostro organismo e al nostro metabolismo) e così povere nello stesso tempo (per via del prezzo di ac-
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quisto contenuto) sono considerate la carne dei poveri. Le lenticchie hanno pure una storia millenaria. Le prime testimonianze su questa pianta sono reperibili, infatti, in alcuni reperti fossili che testimoniano come le lenticchie rappresentino il legume più antico coltivato dall’uomo. Pur essendo famose in tutto il mondo, va sottolineato che le lenticchie più pregiate sono quelle italiane, di cui la Sicilia vanta alcune varietà tra le più conosciute e apprezzate quali le lenticchie di Villalba di dimensioni piuttosto grandi e bionde che necessitano di ammollo in acqua prima della cottura e e lenticchie di Ustica piccole, tenere, saporite e dal colore marrone scuro. Oltre che per le piccole dimensioni, queste si distinguono per la facilità di cottura, per cui non è necessario l'ammollo in acqua, per il gusto intenso e il tipico aroma. Da segnalare anche quelle di Chiaramonte Gulfi, Gangi e le lenticchie eoliane. È provenzale il cosiddetto caviale del sud, “la Tapenade”: capperi tritati con olive nere, semi di senape e acciughe. In Sicilia, con questi gustosi boccioli si aromatizzano carni, pesci, verdure, sughi per la pasta e soprattutto, la celebre caponata di melanzane. Oggi sono di moda anche i frutti del cappero, i cucunci, serviti sottaceto come stuzzichini per l’aperitivo. (m.z.)
Polpette di lenticchie Ingredienti • 200 gr di lenticchie di Villalba • 60 gr di caciocavallo • 2 uova, una cipolla bionda • una patata , una carota • una costa di sedano • un mazzetto di prezzemolo • 4 pomodori pelati • pane grattugiato q.b. • sale q.b. Procedimento Ammorbidite le lenticchie in acqua fredda per 24 ore. Il giorno seguente mettetele in una pentola con le carote e la patata pelate, la cipolla sbucciata, il sedano a pezzi e i pomodori. Coprite con abbondante acqua fredda, portate ad ebollizione e cuocete per circa un’ora o fino a quando le lenticchie risultano morbide. A fine cottura salatele e scolatele, tenendo da parte le verdure. Lasciate raffreddare le lenticchie, frullatele nel mixer con un uovo, il caciocavallo grattugiato, una presa di sale, una manciata di foglie di prezzemolo e 1 cucchiaio di pangrattato. A questo punto formate le polpette e passale prima nell'uovo sbattuto e poi nel pangrattato. Friggete le polpette in abbondante olio ben caldo fino a quando sono dorate e scolatele su carta da cucina. Servitele calde con le verdure di cottura frullate con poco olio e una presa di sale.
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A Natale
regalini fai-da-te in cucina di Manuela Zanni
S
arà pure un piacere, fare i regali di Natale. Ma ogni anno è uno stress: costretti a girare per le strade invase dal traffico tipico dei giorni di festa - magari proprio il 24 dicembre – ci si ritrova in interminabili code di macchine o fare
la fila nei negozi insieme a Babbo Natale. Ma se volete evitare questo stress da regali di Natale, il modo c’è. Ed è pure piacevole e rilassante. Basta prepararli nella quiete della propria abitazione, lavorando in allegria come fanno gli operosi folletti
lapponi nelle proprie calde casette di legno. Le idee originali e golose che di seguito vi proponiamo sono saranno doni perfetti da far trovare sotto l’albero ai vostri cari.
Sali aromatizzati alle erbe I sali aromatizzati con le erbe aromatiche sono l’ultima raffinata tendenza utilizzata nelle cucine degli chef stellati per dare alle pietanze “quel tocco in più” che fa la differenza. È davvero incredibile scoprire quanto sia semplice prepararli in casa, vediamo insieme come. Ingredienti • 1 tazza di sale marino • 1 cucchiaino di almeno 5 delle seguenti erbette: timo, origano, basilico, santoreggia, aneto, aglio in polvere, erba cipollina, salvia, peperoncino, maggiorana, semi di sedano, finocchio. • 2 cucchiaini di polvere di cipolla secca • 1/2 cucchiaino di rosmarino secco • 1/4 tazza di prezzemolo secco • 1 o 2 cucchiaini di alghe secche • 1 cucchiaio di lievito Procedimento In base ai vostri gusti e al sapore che volete ottenere potete togliere o aggiungere qualche erbetta o variarne le dosi. Mescolate bene in una terrina il sale con tutti gli aromi e riponete in un barattolo di vetro da conservare al chiuso, in un posto senza umidità e decorate con nastrini natalizi.
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Zuccheri aromatizzati alle spezie
Biscotti natalizi “orangebread”
Gli zuccheri aromatizzati con spezie sono un classico sempre attuale. Ideali per preparare i dolci ma anche per dolcificare tè, tisane e caffè. Ingredienti • 1 tazza di zucchero (bianco o di canna) • cannella, lavanda, vaniglia, anice stellato, cardamomo, chiodi di garofano, bacche di ginepro. Procedimento Mettete un cucchiaino di spezie in polvere ogni mezza tazza di zucchero semolato. Potete mischiare più spezie tra loro. In ogni caso dopo avere mescolato bene lo zucchero con le spezie macinate, ponete il tutto in un barattolo e decoratelo con la spezia intera ad esempio una stecca di cannella, un anice stellato etc.
Liquore “latte di vecchia” Nonostante il nome non sia particolarmente invitante, il latte di vecchia, noto anche come latte di suocera, è un delizioso liquore a base di latte ottimo da bere durante l’inverno. Perfettamente adatto, soprattutto se contenuto in una bella bottiglia dall’aria vintage, a diventare un regalo natalizio fuori dal consueto. Ingredienti • 3 dl di latte • 300 gr di zucchero • 3 dl di alcool a 90° • 1 stecca di vaniglia Procedimento Versate in una casseruola capace il latte e ponetela sul fornello a fuoco moderato. Quando il latte sarà a bollore aggiungetevi lo zucchero. Quando lo zucchero si sarà sciolto completamente unite la stecca di vaniglia. Mescolare bene e poi versare l’alcool. Quando la miscela si sarà raffreddata, versatela in un recipiente munito di coperchio e agitare il contenuto più volte a recipiente chiuso. Filtrate utilizzando un imbuto in cui dovrete introdurre un foglio di carta assorbente e versatelo nelle bottiglie che avete scelto per conservarlo. Riponete poi le bottiglie in dispensa lontane da fonti di calore.
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I biscotti orangebread sono la “versione sicula” dei famosi gingerbread, noti anche come pan di zenzero tipici dei paesi scandinavi nel periodo natalizio. La versione che vi proponiamo prevede l’arancia in sostituzione dello zenzero per un ottimo risultato assolutamente “made in Sicily”. Ingredienti • 150 gr di burro (o margarina) • 150 gr di zucchero di canna • 4 cucchiai di sciroppo d'acero • 340 gr di farina 00 (o integrale se preferite) • 1 cucchiaio abbondante di cannella in polvere • scorza grattugiata di un'arancia • 1 cucchiaino di bicarbonato di sodio • Per la glassa: 200 gr zucchero a velo, il succo di un limone Per decorare: confettini colorati Procedimento Lavorate il burro con lo zucchero, quindi unitevi la farina, lo sciroppo, la scorza d’arancia e la cannella e, in ultimo, il bicarbonato di sodio. Impastate bene insieme tutti gli ingredienti fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo. Quindi con l’aiuto di un mattarello stendete dei dischi dello spessore di un centimetro e ricavate dei biscotti utilizzando gli stampini della forma preferita. Cuoceteli in forno preriscaldato a 180°C per circa 20 minuti. Appena saranno dorati estraeteli dal forno e lasciateli raffreddare. Nel frattempo preparate la glassa amalgamando lo zucchero a velo insieme al succo di limone fino ad ottenere una consistenza liscia e corposa. Quando i biscotti saranno raffreddati ricopriteli interamente o parzialmente con la glassa e, prima che si asciughi, decorateli con i confettini colorati.
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Dalle cucine dei ristoranti siciliani ristorante
ristorante ViDi
Il Melangolo
Via ducezio, 15 noto (sr) tel. 345 1663741 info@ristorantevidi.it www.ristorantevidi.it
Via lo Bue, 5 90017 santa elia (pa) tel. 091 947194 cell. 349 6364769 Chef Marta Messeri
Chef Roberto Pirelli
r I c e t ta
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maltaglIatI dI tummInIa tra terra e mare al profumo dI rosmarIno
Insalata sIcIlIana al profumo del mare dI mazara
Ingredienti per 4 persone 250 gr lenticchie di Ustica (presidio Slow Food) 250 gr gamberi rosa già sgusciati interi 250 gr maltagliati di tumminia rosmarino fresco q.b. sale marino q.b. olio extravergine di oliva di Biancolilla un cipollotto fresco 1,25 lt di acqua Procedimento Tritate il cipollotto finemente e fate appassire con un poco d'acqua (mezzo bicchiere circa) aggiungete l'olio e le lenticchie; rosolate per qualche minuto, aggiungete l'acqua, il sale e un rametto di rosmarino, cuocete a fuoco lento per venti minuti. Aggiungete i maltagliati, fateli cuocere per pochi minuti se si tratta di pasta fresca, poco più se adoperate quella secca; a cottura quasi ultimata aggiungete i gamberi precedentemente sgusciati, mescolate per qualche altro minuto finché i gamberi non siano cotti (non occorre molto tempo i crostacei vanno serviti morbidi). Impiattate e aggiungete l'olio a crudo, un ciuffetto di rosmarino per decorazione e del pepe macinato fresco.
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Ingredienti per 4 persone 2 arance 1 finocchio grosso 500 gr olive verdi del Belice denocciolate 1 cipollina nuova 12 gamberi rossi di Mazara origano secco basilico fresco 6 fette di pane casereccio raffermo olio extravergine di oliva di Nocellara del Belice sale e pepe q.b. Procedimento Mettete in ammollo le olive verdi per 30 minuti. Scolatele e frullatele con acqua tiepida e olio extravergine fino ad ottenere una crema. Pelate le arance e recuperate gli spicchi. Tagliate a julienne i finocchi e la cipollina nuova. Condite questi ultimi con olio, sale e pepe. Pulite i gamberi, sgusciateli, eliminate il budello intestinale e lasciate marinare qualche minuto in acqua di mare. Eliminate la crosta del pane, ammorbidite le fette in acqua e strizzate. Condite con olio, sale, pepe e origano secco. Versate in un piatto fondo la crema di olive, al centro sistemate tre spicchi di arance, poi un turbante di finocchi e cipollina nuova. Finite con un gambero intero sopra all'insalata e gli altri tagliati a bocconi nel piatto, intervallati dal pane condito. Finite con un filo d'olio extravergine di oliva di Nocellara del Belice e basilico fresco.
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ristorante Hotel/ristorante
La Corte dell’Abbate Abbazia Santa Anastasia
Via luigi pirandello, 47 donnalucata (rg) tel. 0932 937007 info@zafranhotel.it
c.da santa anastasia castelbuono (pa) tel. 0921 672233 relais@abbaziasantanastasia.com www.abbaziasantanastasia.com
Zafran Boutique
Chef Giorgio Ruggeri
Chef Antonio Bonadonna
r I c e t ta
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mousse dI Baccalà aI profumI e saporI IBleI
testa dI turco
Ingredienti per 4 persone Per la mousse: 600 gr baccalà ammollato, 100 gr di olio extravergine di oliva di tonda iblea, 200 gr di panna (35% di grasso), 1 cucchiaio capperi iblei tritati, timo limonato, ½ cipolla di Giarratana tritata, prezzemolo q.b. Per i crostini: 200 gr pane di farina di Russello, 2 spicchi di aglio, olio extravergine di oliva di Biancolilla al tartufo estivo di Palazzolo. Per la cipolla caramellata: 200 gr cipolla di Giarratana, aceto rosso q.b, vino rosso da uve Frappato q.b., 100 gr zucchero di canna, 2 foglie di alloro fresco, sale q.b. Per la salsa di patate allo zafferano ennese: 1 grossa patata di Siracusa, 1 cucchiaino di pistilli di zafferano di Enna, ¼ cipolla tritata, brodo vegetale q.b., olio extravergine di oliva di Tonda Iblea q.b., sale q.b., confettura di mele cotogne Procedimento In una casseruola imbiondite la cipolla, aggiungete il baccalà privato di spine e pelle, tagliatelo a tocchetti e lasciate stufare. Aggiungete i capperi e dopo qualche minuto la panna e cuocete per 20 minuti, mescolando spesso. Non appena raggiungete la consistenza desiderata, spolverate con una manciata di prezzemolo e tenete in caldo. Tagliate il pane a fette e con un coltello affilato privatelo della crosta. Ricavate dei cubetti di mezzo cm per lato dal pane e tostate in forno a 170°C per 10 minuti, con 1 filo d’olio evo e dell’aglio schiacciato. Dopo avere lasciato riposare per una notte la cipolla di Giarratana tagliata a spicchi in una marinata di vino aceto rosso, strizzatela e fatela saltare con lo zucchero in una padella antiaderente già calda fin quando lo zucchero non si sarà completamente disciolto. A questo punto salatela leggermente. Per preparare la salsa di patate allo zafferano fate imbiondire la cipolla in un filo d’olio. Aggiungete la patata nettata e tagliata a fettine sottili. Versatevi il brodo a coprire e portate ad ebollizione. Unite i pistilli di zafferano e il sale e frullate. Per comporre il piatto, alla base di un “coppapasta” ponete i crostini, ponetevi un cucchiaino di confettura di mele cotogne, e coprite con un filo d’olio al tartufo. Quindi mettete la mousse di baccalà e livellatela fino all’orlo. Decorate con un “ciuffo” di caramelle di cipolla e una spolverata di fiori di timo limonato. La salsa allo zafferano si serve a parte, calda e viene versata sulla pietanza al momento.
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Ingredienti per 4 persone Per la sfoglia: 100 g di farina 00 1 uovo un cucchiaino di zucchero un pizzico di sale olio di oliva per friggere Per la crema: 500 ml di latte intero 100 g di zucchero 35 g di amido per dolci la scorza di un limone grattugiato cannella in polvere macinata fresca scaglie di cioccolato codette di zucchero colorate Procedimento In una ciotola unite l’uovo, il cucchiaino di zucchero, il sale e la farina e amalgamate fino ad ottenere un composto liscio ed omogeneo. Lasciate riposare il composto per 30 minuti. Stendete quindi l’impasto ricavando uno sfoglio sottilissimo e ricavate delle lasagnette. Friggete le lasagnette in olio caldo finché non saranno dorate e lasciatele sgocciolare su carta assorbente. Versate in un pentolino quasi tutto il latte (tenendone da parte solo un bicchiere) unite la scorza del limone, lo zucchero e fate cuocere a fiamma bassa. Intanto che il latte si riscalda, versate l’amido in una scodella e scioglietelo con il latte freddo rimanente. Versare quindi l’amido al latte nel pentolino e mescolate di continuo con una frusta. Appena il composto comincia ad addensare, toglietelo dal fuoco. Stendete uno strato di sfoglia sul fondo di una pirofila, versate parte della crema in maniera omogenea. Ripetete l’operazione alternando strati di sfoglie e di crema fino a concludere. Fare raffreddare la testa di turco, spolverate con abbondante cannella macinata fresca e guarnire con gocce di cioccolato e codine di zucchero colorate.
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Piatti di cucina povera S
ono tanti i piatti della cucina “povera” tipici della tradizione siciliana che sono stati tramandati di generazione in generazione. E che, come accade ai capisaldi della cucina tipica, oggi vengono rivisitati da chef stellati. Intere generazioni in Sicilia sono cresciute, infatti, chiedendosi “chi avimu a manciari?” sottintendendo dopo il verbo mangiare, a colazione, pranzo, merenda o cena, ovvero il momento in cui ci si siede a tavola mettendo da parte, anche se solo temporaneamente, i problemi e “li pinzeri”, per abbandonarsi al conforto di un pasto che racchiude in sé la tradizione di un popolo, la storia della propria famiglia e, dunque, le proprie radici.
Pasta fritta “Pisci” di terra Questa ricetta è una delle tante rivisitazioni della cucina della tradizione con ingredienti “poveri”. Chi non poteva permettersi di acquistare il pesce, lo sostituiva con i più economici prodotti dell’orto. Ingredienti per 4 persone • 2 finocchi • 1 cipolla • 12 foglie di salvia • olio di semi di mais • sale e pepe per la pastella • un uovo (preferibilmente di galline allevate all’aria aperta) • 350 gr di farina di grano duro • 150 gr di acqua frizzante fredda Procedimento Preparate la pastella mescolando la farina con l’uovo e l’acqua e lasciatela riposare in frigorifero per circa un’ora. Nel frattempo tagliate la cipolla e i finocchi a fette larghe circa un cm. Immergete le foglie di salvia e le verdure, una per volta, nella pastella, quindi tuffatele nell’olio bollente fino a completa doratura. Salate e pepate a piacere. Servite caldo.
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Il cibo è sacro. Le nostre nonne e bisnonne si inventavano ricette per non buttarlo via. Il risultato della cucina del “riciclo” in molti casi era addirittura migliore della ricetta di partenza. La pasta fritta ne è un esempio. Ingredienti per 4 persone • 320 gr di pasta del formato preferito • salsa di pomodoro • formaggio grattugiato • olio per friggere Procedimento Questa ricetta andrebbe preparata con la pasta che rimane dal giorno prima. Se non ne avete, cuocete la pasta e scolatela al dente. Conditela con la salsa di pomodoro e il formaggio grattugiato. A questo punto scaldate l’olio in una padella capiente e appena caldo versatevi la pasta e friggetela girandola da entrambi i lati. Servitela fumante.
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economici e gustosi
Zucca in agrodolce (ficatu di settecannoli)
A Palermo nel popolare mercato della “Vucciria” c’è la fontana del Garraffello che ha sette bocche (cannoli) dove pare che in passato vi fosse un tale che vendesse zucca rossa fritta alla maniera in cui si cucinava il fegato e lo vendesse a pranzo ai modesti acquirenti definendolo appunto “ficatu ri setticannuola”. Ingredienti • zucca rossa • ½ bicchiere d’olio d’oliva • 2 spicchi d’aglio • 4 cucchiai di aceto • 2 cucchiai di zucchero • sale • foglioline di menta fresca Procedimento Tagliate la zucca in fette spesse un centimetro circa e salatele. Rosolate in olio d’oliva gli spicchi d’aglio che toglierete quando imbiondiranno e metteteli da parte. Nello stesso olio friggetevi la zucca. Quando avrete finito di friggerla tutta, rimettete l’aglio nell’olio, unite l’aceto e lo zucchero, fate bollire, quindi spegnete il fuoco. Sistemate la zucca in un piatto da portata dove la condirete con l’olio di frittura, gli spicchi d’aglio e le foglioline di menta.
Gelo di loti Il “gelo” è una delle preparazioni tipiche siciliane che consente di ottenere un ottimo dessert con l’utilizzo di pochi ingredienti base ovvero frutta, zucchero e amido. Ecco perché tanto caro alle donne siciliane che in tempo di ristrettezze economiche volevano preparare qualcosa di goloso per i propri figli senza spendere molto. Ingredienti • 1 kg di loti • 250 ml di succo d’uva • 100 gr di zucchero • 100 gr di amido • 2 stecche di cannella • granella di pistacchi Procedimento Mettete i loti in una casseruola insieme al succo d’uva e frullate il tutto con un frullatore ad immersione. Unite al composto l’amido e le stecche di cannella e cuocete per circa 20 minuti stando attenti che non si formino grumi. Versate il composto in una ciotola di ceramica o in singoli stampini e lasciatelo raffreddare. E poi servitelo spolverato con pistacchi tritati.
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Fichidinda imp_33 10/10/16 16:49 Pagina 74
Fico d’India
mangiatutto di Maria Rita Pisano
dai cladodi ai dolci frutti
D Frittata con pale di fico d’India Ingredienti per 2 persone • 6 pale di fico d’India tenere • sale • aceto bianco • 5 uova grandi • olio extravergine d’oliva Procedimento Con un pelapatate (o un coltello affilato) rimuovete le zone con le spine sulla parte piatta e tutt’intorno alla pala. Lavate accuratamente per rimuovere tutte le spine e tagliate le pale in piccoli cubetti che verserete in un tegame e ricoprirete completamente d’acqua. Portate ad ebollizione, con sale e due cucchiai di aceto bianco, per circa 30 minuti. I pezzi di cladodi espelleranno così la gelatina che li rende viscidi e che dovrete eliminare scolandoli e lavandoli sotto l’acqua fredda corrente. Per avere una frittata ancora più gustosa, potete fare saltare i tocchetti di cladodo in un po’ d’olio per qualche minuto. Versate il tutto nella ciotola dove avrete sbattuto le uova con un pizzico di sale e, dopo avere mescolato bene, versate il tutto in una padella antiaderente unta con un po’ di olio. Mescolate subito con un cucchiaio di legno e appena la frittata incomincia a rapprendersi scuotete la padella per staccare bene la parte sotto la frittata e rigiratela. Risulterà ottima sia mangiata fredda che calda.
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Durante una passeggiata nelle campagne della Sicilia, non c’è nulla di più facile che imbattersi nella inconfondibile sagoma del fico d’india. Emblema della sicilianità, Opuntia ficus indica (questo è il nome scientifico del fico d’India) ha origini messicane, ma si è adattato con facilità in tutto il bacino del Mediterraneo, e oggi rappresenta il simbolo dell’Isola. Raccogliere il frutto del fico d’India è un problema davvero “spinoso”. Sembra quasi che il frutto scelga la mano esperta di chi in campagna ci vive e ne conosce i modi e le tecniche. Uno dei metodi utilizzati è quello della raccolta manuale all’alba, quando le spine intorno al frutto sembrano ancora “dormire”. Dopo la notte, i frutti sono bagnati dalla rugiada e l’umidità blocca le spine che rimangono attaccate al frutto e nello stesso tempo le ammorbidisce cosicchè al tatto si piegano invece di introdursi nella pelle. Come si puliscono i fichi d’India? Bastano pochi semplici passaggi, munirsi di bacinella, acqua fredda, tagliere, coltello e forchetta: immergete il frutto nell’acqua e con la forchetta portarlo sul tagliere dove verrà aperto con l’aiuto del coltello. Ed ecco il frutto, tondo e colorato, con la sua polpa succosa ricca di vitamine, compatta, piena di piccoli semi. Il colore è differente a seconda delle varietà: gialloarancione nella varietà sulfarina, rosso porpora nella varietà sanguigna e bianco nella muscaredda. La forma è anch'essa molto variabile, non solo secondo le varietà, ma anche in rapporto all'epoca di formazione del frutto. I primi frutti, quelli che maturano ad agosto, infatti, sono tondeggianti; quelli più tardivi hanno una forma allungata e peduncolata. Una volta sbucciati si possono tenere in frigorifero e mangiare freddi. I fichi d’India hanno una prima fioritura in primavera e i frutti che si ottengono da questa prima fioritura maturano ad agosto. Con la tecnica della scozzolatura, tra maggio e giugno i fiori della prima fioritura vengono eliminati costringendo così la pianta ad una seconda fioritura. Da questa avranno origine nuovi
frutti tardivi più grandi e succulenti che matureranno nell’autunno inoltrato e che vengono definiti bastardoni. In Sicilia, oltre il 70% delle colture si concentrano in 3 aree: la zona collinare di San Cono, il versante sud-orientale delle pendici dell'Etna e la Valle del Belice con baricentro a Santa Margherita. Due sono i prodotti che hanno ottenuto il marchio Dop: quelli di San Cono e quelli dell’Etna. I primi sono prodotti nella zona di confine tra le province di Catania, Enna e Ragusa, e precisamente nei comuni di San Cono, San Michele di Ganzaria, Piazza Armerina e Mazzarino; i secondi sul versante sud-orientale alle pendici del vulcano e precisamente nei territori dei comuni di Biancavilla, Adrano, Belpasso e Bronte. Del fico d’India non si butta via nulla. In campagna le pale più coppute, private dalle spine, in assenza di scodelle di terracotta venivano usate per “consare” l’insalata. Sempre le pale, o come si definiscono tecnicamente, i cladodi, spaccate e infornate venivano usate per curare angine, tonsilliti, febbri intermittenti e malariche. Non tutti sanno poi che le pale sono anche commestibili: possono essere mangiate fresche, in salamoia, sottaceto, candite, sotto forma di confettura. La pasticceria siciliana, in particolare per la frutta martorana, utilizza proprio la sagoma dei fichi d’india per meglio rappresentare l’Isola. Scelta probabilmente legata di marketing ma che negli anni ha permesso di rendere di identificare il prodotto made in Sicily anche all’estero.
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Fichidinda imp_33 10/10/16 16:50 Pagina 75
Fichi d’india di
San Cono
Messico a parte, l’Italia è il maggiore produttore al mondo di fico d’India. Gran parte della produzione si realizza in Sicilia. Famoso per qualità è quello coltivato nel territorio di San Cono, in provincia di Catania, che gli dedica una sagra annuale. Superata l’ostilità che ispirano le pale (i rami) e la buccia spinosa, il frutto dolce e carnoso si offre al consumo fresco con un sapore sorprendente. Il succo, filtrato, posto in formelle e lasciato seccare al sole, diventa una confettura tipica, la mostarda, oppure trova impieghi diversi in pasticceria.
mustata di ficudindia
Risotto di ficodindia
pale di ficodindia
in insalata Ridotti in poltiglia i fichidindia si fanno bollire per 15 minuti. Una volta che tutti si sono raffreddati, si passa a setaccio e si raccoglie il succo in un piatto largo che va esposto in pieno sole. Il succo va girato spesso, e nel giro di qualche giorno si otterrà una crema che può essere conservata in contenitori di vetro oppure versata in stampini umidi e rimessa nuovamente al sole finché non diventi una pasta perfettamente asciutta che può essere conservata in vetro per l’inverno. Aggiungendo in cottura 100 gr di amido per ogni litro di succo, si otterrà una crema ancora più densa. Ancora fresca la mostarda si può consumare anche come budino, dopo averla decorata in superficie con graniglia di mandorle e cannella in polvere.
ingredienti: 300 gr di riso 3 fichidindia mezzo scalogno 1 cucchiaio di parmigiano brodo vegetale sale, burro e olio extra vergine d’oliva preparazione Sbucciati e ridotti piccoli dadini, aggiungere i fichidindia in una casseruola dove si è già fatto imbiondire mezzo scalogno. Unire quindi il riso e portare a cottura versando di tanto in tanto del brodo vegetale. Prima di togliere dal fuoco aggiungete il parmigiano grattugiato e il burro aggiustando di sale. Accompagnare il risotto con un vino rosso fermo.
ingredienti: lo strato interno di 2 pale tenere di ficodindia 1 cipolla di Tropea pomodoro ciliegino peperoncino coriandolo sale, pepe olio extravergine d’oliva preparazione Scottare in una pentola di rame in acqua salata e con mezza cipolla le pale tagliate a listelli. Scolare e tagliate a dadi, disporre le pale su un piatto di portata unendo il pomodoro ciliegino a cubetti, la cipolla, una spolverata di coriandolo tritato, peperoncino, sale ed irrorare con l’olio extra vergine d’oliva.
“lassami spugghiari, ca ti fazzu arricriari...”
da detto popolare:
Vegetariani imp_34 10/10/16 16:50 Pagina 76
di Manuela Zanni
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Quella “fettina” che piace ai vegani
utto ciò che è nuovo, insolito o diverso tende a spaventare e, di conseguenza, tendiamo ad allontanarcene perché ciò che si conosce ci offre delle certezze che le novità non riescono a garantire. Ma se provassimo a conoscere da vicino ciò che “da lontano” ci sembra incomprensibile, potremmo avere delle piacevoli sorprese. È questo il caso di tofu, soia, seitan, tempeh, mopur, che sono solo alcuni dei prodotti utilizzati da vegetariani e vegani come succedanei degli ingredienti di origine animale e dei loro derivati che, per gli onnivori, rappresentano dei “perfetti sconosciuti” da cui stare il più lontano possibile. Anche se i nomi di questi cibi proteici a base vegetale possono suonare nuovi, in realtà non lo sono affatto poiché nei paesi orientali rientrano tra i cibi tradizionali. I popoli orientali producevano tofu già mille anni fa e preparavano gli arrosti di seitan già nel 15esimo secolo usando un nome diverso per questo ingrediente. In occidente, i cosiddetti "sostituti della carne" appaiono per la prima volta negli Usa nel 1940, grazie a John Harvey Kellogg, divenuto poi famoso per i corn-flakes, ed erano a base di noci e glutine di frumento che ne è la parte proteica. Durante la guerra conobbero un vero e proprio boom divenendo un cibo popolare grazie al loro basso costo. Nell’alimentazione vegetariana gli alimenti base rimangono sempre i legumi, i cereali, la verdura e la frutta; i succedanei delle carni ottenuti dalla lavorazione di cereali e legumi, uniti alle spezie, cotti e conservati, divengono prodotti dal sapore non particolarmente spiccato e deciso che però, se opportunamente cucinati, possono rappresentare una valida e gustosa alternativa. Si tratta di ingredienti sempre più diffusi che ormai è possibile trovare facilmente in ogni supermercato anche se nei negozi specializzati se ne trovano in varietà superiore. I costi? Non si discostano molto da quelli dei loro “alter ego” di origine animale di media qualità. Proviamo a conoscerne alcuni più da vicino.
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TOFU Cibo tradizionale orientale, diffuso in Cina da più di 1000 anni, il tofu si ottiene cagliando il latte di soia. E’ una fonte eccellente di proteine, vitamine, ferro, calcio e altri minerali. Lo si trova in diverse versioni tra cui molle, bianco, affumicato e aromatizzato con erbe. Non tutti i tipi di tofu possono essere poi consumati allo stato naturale, perché poco gustosi, ma diventano molto gradevoli quando aromatizzati con erbe e utilizzati insieme ad altri ingredienti e per preparare condimenti o farcire torte salate e dolci.
TEMPEH Il tempeh è un prodotto molto gustoso che si ricava dai fagioli di soia gialla fermentati. E' una eccellente fonte di proteine, viene venduto in differenti preparazioni ma soprattutto sotto forma di panetto o confezionato a fette. Può essere preparato in diversi modi tenendo conto che ha un sapore molto particolare e piuttosto marcato che non sempre incontra il gusto di tutti.
BISTECCHE, MACINATO E BOCCONCINI DI SOIA Si tratta di un prodotto iperproteico a base di soia, disidratato e venduto come granulato, o sotto forma di polpette o spezzatino. Va fatto rinvenire facendolo bollire in brodo vegetale per qualche minuto, e poi va strizzato bene, per far uscire tutta l'acqua in eccesso. Terminata questa operazione preliminare, può essere cucinato proprio come il tradizionale spezzatino, o come scaloppine in padella, o come ragù, e il risultato é davvero ottimo, perché, non avendo un sapore proprio, queste "bistecche" o "spezzatini" si impregnano del sugo di cottura.
SEITAN Il seitan è un "sostituto" vegetale della carne, ottenuto dalla proteina del frumento, il glutine. È stato "inventato" dai monaci giapponesi nel 15esimo secolo e si ottiene estraendo dai cereali solo la
parte proteica, per questo è ricchissimo di proteine. Due i motivi che ne sconsigliano un consumo frequente (massimo 2-3 volte alla settimana): l’elevato contenuto proteico e la forte presenza di proteine che contengono aminoacidi solforati che come quelli della carne acidificano l'organismo e contribuiscono alla perdita di calcio dall'osso. Viene venduto in diverse preparazioni (panetti, spezzatino, wurstel, affettato, affumicato, aromatizzato con erbe) e ciò lo rende un ingrediente molto versatile: può essere usato al naturale, per secondi piatti e panini. Si può usare ancora in spezzatini, polpette, impanato "alla milanese", in padella stile "scaloppine", negli spiedini, ecc. A differenza del tofu ha un sapore molto gustoso anche mangiato al naturale.
MOPUR Si tratta di un prodotto derivato dal grano che per questa lavorazione caratteristica si basa su un processo di fermentazione naturale basata sull’utilizzo di un lievito madre selezionato ad hoc. Tale procedimento innovativo abbatte di oltre il 40% il glutine iniziale, con evidenti vantaggi sulla digeribilità di questa complessa proteina del grano. Il processo di lavorazione con cui si ottiene questo prodotto, gli conferisce una struttura microfibrillare che lo rende simile, come consistenza, alla carne di un filetto o di una bistecca. Il contenuto proteico rimane elevato con punte di oltre il 34%, bassa è la percentuale di grassi vegetali la cui presenza non supera il 7%, mentre è totalmente assente il colesterolo. Di seguito vi proponiamo un intero menù di cinque portate, ognuna delle quali ha come ingrediente base uno dei prodotti che abbiamo passato in rassegna in modo da potere scoprirne l’utilizzo. In tutte le ricette (eccetto che nel dolce) l’ingrediente base è sostituibile con uno degli altri suelencati. • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
primo
antipasto
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roTolini di moPur con crema di zucca ingredienti per 4 persone 1 confezione di affettato di mopur 250 gr di zucca senza buccia, 2 scalogni 1 cucchiaino di curcuma (o radice fresca grattugiata) 1 cucchiaino di zenzero (o radice fresca grattugiata) menta fresca, olio extravergine di oliva, sale e pepe q.b. Procedimento Lavate la zucca e tagliatela a pezzi. Fatela rosolare in padella con l’olio, lo scalogno, la curcuma e lo zenzero. Cuocete per circa 20 minuti coperta aggiungendo mezzo bicchiere d’acqua. Appena cotta frullatela con l’aiuto di un frullino a immersione. A questo punto disponete in un piatto le fette di mopur, ponetevi al centro un cucchiaio di crema di zucca e una fogliolina di menta fresca e arrotolate chiudendola con uno stuzzicadenti. Servite con un filo d’olio. Abbinamento consigliato: Mandrarossa Perricone Rosè. Il Perricone è una chicca tra i vitigni siciliani. Cresce su suoli a medio impasto vicini al mare, dove l’effetto delle brezze conferisce sapidità agli acini. In questa versione rosé, il vino è fresco e versatile dai sentori che ricordano i profumi della primavera. La sua sapidità e freschezza lo rende adatto all’aperitivo e ottimo anche con primi e secondi di pesce.
caserecce funghi e TriTaTo di soia ingredienti per 4 persone 350 gr di pasta formato caserecce 250 gr di tritato di soia, 1 confezione di funghi plerotus salsa di pomodoro, 1 cipolla dorata, 2 spicchi d’aglio 2 bicchieri di vino rosato, sale e pepe q.b.
dolce
contorno
secondo
Procedimento Fate rosolare i funghi in una padella con aglio e olio. Quindi copriteli e appena cotti e sfumateli con il vino. Intanto in una padella rosolate la cipolla dorata e unitevi il tritato di soia, sfumate con un altro bicchiere di vino e unitevi la salsa di pomodoro. A questo punto unite i due condimenti e fate bollire le caserecce in acqua salata. Condite la pasta con il condimento e servite fumante. Abbinamento consigliato: Inmezzo di Terre di Bruca. Ottenuto da uve Frappato; rosato con riflessi granato; profumi floreali e fruttati di pompelmo e gelsomino. Al palato intrigante e molto piacevole per la sua mineralità naturale e intensità del gusto. Ottimo anche con pietanze dal gusto deciso.
scaloPPine di seiTan al vino rosaTo ingredienti per 4 persone 4 fette di seitan 2 scalogni, 2 cucchiai di farina olio extravergine di oliva, sale e pepe q.b. 2 bicchiere di vino (rosato) Procedimento Passate le fette di seitan nella farina. Rosolate in una padella lo scalogno con l’olio. Quindi unitevi le fette di seitan e sfumatele con il vino. Servite calde accompagnando ogni fetta con il fondo di cottura. Abbinamento consigliato: Cannemasche - Abbazia Santa Anastasia. Vino biologico ottenuto al 100% da Nero d’Avola. Di colore rosa chiaretto e ottima la limpidezza, offre subito all’olfatto profumi che evocano aromi di frutta rossa intensi, piacevoli e comunque freschi accompagnati da note speziate di noce moscata. In bocca fresco e fruttato con tannino quasi impercettibile, minerale. Molto gradevole, ottimo come aperitivo ma da sorseggiare durante un intero pasto.
TemPeh Pomodori secchi e anacardi ingredienti per 4 persone 1 panetto di tempeh da 250 gr 200 gr di pomodori secchi, 100 gr di anacardi 2 cipollotti, 1 bicchiere di vino (rosato) olio extravergine d’oliva, sale e pepe q.b. Procedimento Tagliate il panetto di tempeh a cubetti. In una padella rosolate il cipollotto con l’olio e sfumatelo con il vino. A questo punto unite i pomodorini secchi e i cubetti di tempeh e lasciate amalgamare tutti gli aromi. Servite tiepido cospargendo con gli anacardi. Abbinamento consigliato: Nelumbo di Pietracava. Realizzato con da Nero d’Avola; rosato brillante con riflessi corallo. Profumo delicato con evidenti sentori di fragola ed eleganti note di lampone maturo. Ingresso vellutato, fresco e generosamente fruttato. Grazie alla sua persistenza e personalità ben si accompagna a pietanze con carattere dal gusto deciso.
TorTa di Tofu con mele e arance alla cannella ingredienti per 4 persone 150 gr di tofu al naturale 150 gr di farina integrale, 80 gr di margarina oppure olio vegetale 80 gr di zucchero di canna, 2 mele golden, 2 arance bio 2 cucchiai di marmellata di albicocche 1 pizzico di sale, pangrattato q.b. Procedimento In una terrina setacciate la farina. Unite lo zucchero, il sale, la margarina tagliata a pezzettini e il tofu sbriciolato. Amalgamate bene tuti gli ingredienti fino ad ottenere un impasto compatto con cui farete una palla che avvolgerete nella pellicola trasparente e porrete in frigo almeno per un paio d'ore. Nel frattempo lavate bene le mele e affettatele sottilmente. Sbucciate le arance eliminando tutta la parte bianca e affettatele nel senso della larghezza. Trascorso il tempo, accendete il forno e portatelo a 200°C e rivestite lo stampo con carta da forno. Prendete l'impasto e stendetelo sul piano pulito con il mattarello in uno spessore di un paio di centimetri. Spennellate con la marmellata di albicocche e poi spolverate con il pangrattato ben distribuito. Ricoprite con le fettine di mele e arance ben distribuite e infornate. Fate cuocere per 30-40 minuti poi sfornate la torta di tofu e lasciatela raffreddare. Abbinamento consigliato: Milazzo Excellent Extra Dry - Spumante Metodo Classico. Prodotto da Inzolia Rosa supportata dall’apporto aromatico di alcune selezioni di biotipi di Chardonnay coltivati in area Milici. Alla vista presenta un colore rosa con riflessi salmone e un perlage finissimo e persistente. Al naso sono presenti sentori di frutti rossi di tipo esotico in cui si distinguono licy e fragola. In bocca si offre cremoso e dolce, valorizza le note aromatiche di frutto e pasticceria favorendo una complessità trasversale.
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aidone la normanna di Oliva Barbara Corrao
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ita nel cuore della Sicilia, la provincia di Enna è costellata da una grande quantità di piccoli e medi centri ricchi di storia che portano le tracce delle dominazioni che si sono susseguite nei secoli e a cui si aggiunge un presente ricco di tradizioni e folclore. Tra questi centri minori una particolare attenzione, dal punto di vista della riscoperta e della valorizzazione turistica, va rivolta ad Aidone, centro tipicamente medievale a 35 km da Enna che si affaccia sulla piana di Catania e che dista soli quattro chilometri dalla famosa Morgantina, sito di inestimabile valore archeologico tra i più importanti d’Europa. Aidone ha origini antiche che gran parte della tradizione storica e documentaria fanno risalire al periodo normanno di cui conserva ancora oggi la tipica fisionomia. Fu infatti fondata da un gruppo di coloni di origine lombarda arrivati in Sicilia al seguito del conte Ruggero, circostanza che viene confermata dalla presenza nell’idioma locale di elementi linguistici tipici dei dialetti settentrionali. In origine era probabilmente un modesto casale composto da poche famiglie che nell’arco di un secolo divenne un “castrum”, ovvero un borgo cinto da mura
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con molti abitanti insediatisi nello spazio che comprende il castello e l’attuale piazza del Municipio. Posto a quasi 900 metri di altitudine, in un territorio difficilmente accessibile e facile da difendere, ha un’impronta tipicamente medievale con castelli, come quello dei Gresti (o di Pietratagliata), palazzi nobiliari e chiese. In epoca medievale e fino alla dominazione aragonese, Ai-
dove mangiare e dormire Ristorante la Vecchia Aidone via Senatore Cordova, 88 94010 Aidone (En) info@ristorantevecchiaaidone.it tel. 0935 87863 - 334 1443454 Biscottificio Ciantia Filippo via Abate Scovazzo, 31 94010 Aidone (En) tel. 0935 87822 B&B Holiday Mimma via Terranova, 64 94010 Aidone (En) tel. 347 4693073 Agriturismo Il Drago c/da Dragofosso 94010 Aidone (En) tel. 333 6291517
done fu un centro feudale di grande importanza per il ruolo che soprattutto vi svolsero alcune potenti famiglie feudatarie che influirono sullo sviluppo storico della città come i Chiaramonte, i Gioeni e i Colonna. La sua importanza era anche strettamente connessa al suo status giuridico di “Universitas Civium” che le garantiva la facoltà di autogovernarsi. Come molte altre città siciliane, fu teatro delle guerre tra Angioini e Aragonesi che videro l’imporsi della dominazione spagnola, durante la quale Aidone visse un periodo di generale benessere e di crescita demografica. Il terremoto del 1693 fece sentire i suoi effetti provocando parecchi danni mai riparati su molti edifici. Danni che potrebbero essere riparati entro breve tempo se venisse il governo dell’Arabia Saudita rispettasse l’impegno di investire 30 milioni di dollari per il recupero e la valorizzazione dei monumenti islamici delle città di Aidone, Piazza Armerina e Valguanera per la costituzione del “King Salman Cultural and Architectural Islamic Arabic Center” finalizzato alla promozione della conoscenza e della comprensione della civiltà islamica in Sicilia. Aidone, insieme ai paesi di Troina e Nicosia, conserva alcune feste tradizionali • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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di tipo religioso particolarmente suggestive. Una di queste è la Santa Pasqua, durante la quali vengono messi in scena veri e propri atti teatrali all’aperto incentrati sul rito collettivo dei giganti o santuna. Ancora oggi a questi riti prende parte l’intera popolazione aidonese, richiamando molti turisti e visitatori dalle zone limitrofe. Un’altra festa religiosa è quella di San Lorenzo (10 agosto); ma particolarmente importante è la grande festa detta ’u dibaittimento che si svolge con cadenza decennale e che è la rievocazione storica di un torneo durante il quale le fazioni dei Lombardi e dei Saraceni combattono agguerritamente a cavallo. Tra le sagre popolane c’è la “festa dei forestieri”, cioè la festa di San Filippo apostolo, soprannominato ’u nir perché la statua che lo rappresenta è nera.
• IL SITO DI MORGANTINA Parlando di Aidone non si può non parlare di Morgantina, antica città sicula e greca, sito archeologico di particolare interesse. La città fu riportata alla luce nel 1955 con gli scavi commissionati dall’università statunitense di Princeton. Gli scavi proseguono ancora oggi e seguono lo sviluppo dell’insediamento lungo un periodo durato quasi un millennio, dalla preistoria all’età romana. Da questo sito provengono molti reperti archeologici come la Venere di Morgantina, conosciuta anche come la “Dea”, che attualmente è visitabile presso il Museo Archeologico di Aidone. La città di Morgantina è attraversata da un’ampia strada in ciottolato che costituiva l’asse viario centrale della città e che fiancheggia l’antica piazza, l’Agorà, dove si trovano numerosi resti di edifici pubblici e botteghe dell’epoca. Alla sua estremità orientale si trova il ninfeo, una
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fontana monumentale a doppia vasca preceduta da colonne a fregi dorici; sul lato ovest si trova il famoso teatro, accanto al quale, e in stretta relazione con esso, sorge in posizione elevata il famoso santuario di Demetra e Kore; sul lato opposto si trovano poi il granaio principale e una fornace destinata alla produzione di terracotte. A destra della piazza si trovano i quartieri residenziali con i resti della Casa del capitello dorico, altrimenti detta Casa del Saluto. Tra gli altri reperti visitabili sono da segnalare i resti archeologici sulla collina della Cittadella e i reperti riguardanti le monetazioni (monete dell’epoca). Chi visita Aidone e la splendida area archeologica di Morgantina non può fare a meno di fermarsi strada facendo tappa alla splendida biscotteria Ciantia, dove si viene accolti dal profumo dei biscotti tipici locali leggermente aromatizzati all’essenza di vino. Se invece ci si trova ad Aidone ad ora di pranzo, un’ottima meta è il ristorante “Vecchia Aidone”, a pochi passi dal Museo, un antico palazzo che racchiude un giardinetto dove poter pranzare in modo piacevole. Il ristorante offre ai turisti e ai visitatori il menù del territorio che rispetta la stagionalità dei prodotti e le tradizioni locali, offrendo piatti come la polenta di cicerchie o il tegamino di piacentino ennese fuso con funghi porcini, o ancora il tortino di riso venere, omaggio alla Dea di Morgantina e dulcis in fundo quello che sta diventando un classico del territorio aidonese, i ravioli fatti in casa “fuori dalla norma”.
Tortino al riso nero Venere Ingredienti • 180 gr di riso nero Venere • 2 cipollotti di Tropea • 1 cucchiaio da tè di zucchero di canna • 2 cucchiai da tavola di aceto balsamico • 5 pomodori secchi sott’olio • 1 sedano rapa • 25 asparagi • 1 cucchiaio da tè di curcuma macinata • 12 grammi di pinoli, tostati e schiacciati • 3 cucchiai da tavola di olio extravergine d’oliva Procedimento Per prima cosa lavate bene il riso sotto acqua corrente fredda con l'aiuto di un colino a maglie strette e fatelo cuocere per una quarantina di minuti, aggiungendo il sale solo a metà cottura o verso la fine. Mentre il riso cuoce preparate il condimento. Versate l’olio in una padella e fate soffriggere i cipollotti precedentemente lavati, asciugati e tagliati a pezzetti. Durante la cottura aggiungete lo zucchero di canna e il balsamico ai fichi (se avete l'essenza ai fichi ancora meglio) per caramellare i cipollotti. Lasciate caramellare e poi aggiungete gli asparagi lavati e tagliati a pezzetti, tenendo da parte le punte che butterete in padella a metà cottura. Lasciate cuocere a fuoco basso finché le verdure non risulteranno croccanti e saporite. Salate a piacere. A parte tagliate tre fette di sedano rapa e ricavatene dei piccoli dadini che passerete nella curcuma per poi bollirli in acqua salata finché non risulteranno cotti e croccanti. Scolate bene i pomodori sott'olio e tagliateli a pezzettini. Tostate i pinoli in forno oppure in un pentolino facendo attenzione a non farli bruciare e schiacciateli grossolanamente. Quando il riso sarà cotto, scolatelo e conditelo con gli asparagi, i cipollotti caramellati, il sedano rapa aromatizzato alla curcuma e i pomodori secchi. Se serve, aggiungete ancora un filo d’olio. Impiattate con l'aiuto di un coppa pasta e guarnite con un po’ di sedano rapa alla curcuma che avrete tenuto da parte insieme a qualche punta di asparago e ai pinoli tostati schiacciati.
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Trabia gioiello tra due castelli di Alessandro Iannelli
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uello di Trabia è un territorio variegato, fra i cui estremi si erge il castello plurisecolare di cui il protonotaro Di Bartolomeo volle fare il centro del suo piccolo regno. Esso è stato silente testimone della storia di una comunità e degli intrighi di corte ed in queste storie, ancora più che nell'affascinante architettura, risiede il suo fascino: dall'incursione dei Termitani che non volevano perdere Trabia come tributaria, alla trama dell'assassinio della baronessa di Carini, che dietro una questione d'onore nadisconde Alessandro Iannelli una vicenda di debiti non saldati, fino alle vicende dell'inquieto viveur Raimondo, ultimo rampollo Lanza. Il nome della cittadina di Trabia che può vantare la presenza di due castelli normanni sul mare, il celebre castello Lanza Branciforte e il castello-torre della frazione marittima di San Nicola, si lega a quello della famiglia Lanza che qui regnò a lungo segnandone l'ascesa economica e l'affrancamento da Termini Imerese. Su molti aspetti della storia locale recenti ricerche hanno gettato nuova luce, correggendo anche errori tramandati da secoli. Il sito di Trabia fu abitato almeno dalla tarda età paleolitica come attesta il ritrovamento di raschiatoi in selce o querzite, già esaminati dagli archeologi ma destinati a essere esposti nei prossimi anni). La scoperta di una macina litica testimonia poi un insediamento umano stabile in età neolitica. In periodo storico, l'area di Trabia ricade sotto l'influenza punica (le anfore ritrovate nella tonnara appartengono a quell’epoca), mentre dall'età romana il sito fa parte del territorio termitano. La notizia secondo cui Trabia sarebbe sorta come accampamento degli Arabi in guerra con Termini, è un falso storico di cui è responsabile l'abate Vella, noto falsario; ed è almeno dubbia anche l'interpretazione tradizionale dell'etimo
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del nome, "la quadrata", dato che non caratterizzerebbe il luogo in modo specifico: l'esperto di storia locale Roberto Incardona avanza l'ipotesi che il termine arabo "tarbiàh" citato da Idrisi vada tradotto con "luogo dove ci si accampa", con riferimento forse alla bellezza del luogo - che sarà definito "amenissimo" dallo storico settecentesco Tardia - o alla presenza del mare e delle sorgenti d'acqua carsiche nonché delle foreste che si trovavano in contrada Sant'Onofrio e sul Monte Cane. La saga dei Lanza ha inizio con l'avvocato Blasco Lanza che, sposando Aloisia, nipote del protonotaro, eredita la concessione per l'uso della tonnara, del cannameleto e del mulino, attorno a cui era sorta almeno dal XII secolo la struttura originaria del castello, ed ottiene il titolo di barone di Trabia nel 1538, segnando la nascita di Trabia come feudo., mentre con decreto del 1601 Ottavio Lanza ottiene il titolo di principe, che comporta sovranità piena sul territorio, compresa la possibilità di celebrare processi. Oggi il castello è proprietà privata della famiglia Forelli, che ne consente la visita gratuita: chi fosse interessato può contattare la Pro Loco, tramite facebook o il sito prolocotrabiasannicola.it, e concordare un giorno di visita in gruppo. Il castello peraltro ospita periodicamente anche vari eventi e fino al 30 settembre vi saranno esposti i quadri popsurrealisti del pittore Max Ferrigno. Ma Trabia non è solo il castello e i volontari della Pro Loco conducono tour guidati (gratuiti) che includono altre attrazioni, tra cui la caratteristica cappelletta di stalattiti e stalagmiti di Santa Rosalia e la Chiesa di Sant'Oliva, la cui edificazione risale al 1643 per volontà di Ottavio II ed in cui spiccano due quadri, una Madonna con Bambino con richiami antonelleschi e fiamminghi e un
Martirio di Santo Stefano che risente della lezione caravaggesca; e, ovviamente, il castello-torre del XIV secolo di San Nicola, dove nel 1367 fu ottenuta la concessione regia per la tonnara e venne edificata la torre per monitorare l'eventuale arrivo di pirati dal mare. A Trabia è ancora viva poi la tradizione dei pupari, in particolare con l'attività di Gerolamo Cuticchio che, con strumenti tradizionali come le sgorbie, intaglia a mano i pupi per i suoi spettacoli. Soprattutto nel periodo primaverile ed estivo Trabia e la frazione di San Nicola sono vivacizzate da eventi e manifestazioni che iniziano con la sagra di maggio in cui si celebrano i due prodotti più caratteristici, la pasta e le nespole. “La pasta era prodotta a Trabia già dal XII secolo spiega a Sapori di Sicilia il sindaco di Trabia Leonardo Ortolano – e in particolare fu lo storico Idrisi nella sua relazione per il principe Ruggero del 1154 a fornire la più antica testimonianza per la produzione di pasta secca, citando Trabia come sede di produzione ed esportazione dell'itriya, pasta secca e filiforme”. Prosegue il sindaco sulle nespole: “Si avvantaggiano del microclima creato dalle correnti di scirocco e dalla vicina montagna, che conferisce un particolare tenore zuccherino alla nespola rossa trabiese". Ma l’agricoltura offre dell’altro: nell’areale di Trabia è diffusa la pregiata cultivar di olivo Ogliarola messinese la cui raccolta avviene perlopiù ancora in maniera tradizionale e da cui si produce un olio che vanta una maggiore capacità di conservazione. “Un olio - spiega l'agronoma Elena La Russa – che è caratterizzato da sentori di mandorla, pomodoro e carciofo”. Tra le manifestazioni estive si ricorda sagra del pesce azzurro che si svolge nella frazione di San Nicola per la quale la pesca ha rappresentato per secoli la principale attività economica. • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •
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Spaghetti con le nespole Questa semplice, innovativa e gustosissima ricetta, gentilmente concessa dal suo ideatore, lo chef Ridha Jabnoun del ristorante Covo del Brigante (San Nicola, frazione di Trabia), vi permetterà di stupire i vostri ospiti che riunisce due prodotti caratteristici della tradizione trabiese, spaghetti e nespole, in un'inedita combinazione di sapori.
dove dormire Hotel Tonnara, S.S.113 largo Tonnara tel. 091 8101115 www.hoteltonnara.it Lido Vetrana (anche ristorante) via Litoranea Piani, 73 tel.: 091 8125301 e 340 8241738 www.hotelidovetrana.it Torre Artale contrada Sant’Onofrio tel. 091 8104170 www.torreartale.eu B&B Dormo da Lia via Case Nuove, 34 San Nicola l’Arena tel. 0918125291 www.dormodalia.it B&B La Casa Gialla via Piani, 14 tel. 328 0077683 www.lacasagialla.biz B&B La Mimosa via Ettore Majorana, 24 tel. 091 8124093 www.lamimosa24.com B&B Ulivo via Ettore Maiorana, 75 tel. 091 8146987 www.bedandbreakfastulivo.it
dove mangiare Al pescatore via Molara, 6 tel. 091 8146415 Balistreri via Felice Cavallotti, 12 tel. 091 8147055 www.ristorantebalistreri.wix.com/index Case Morello contrada Sant'Onofrio tel. 334 9369669 www.lecasemorello.com Covo del Brigante corso Umberto I, 82 San Nicola l'Arena tel. 091 8101124 L'Ulivo contrada Rovetto tel. 347 9229478 www.ristorantelulivo.com La Fenice contrada Petruso tel. 091 8124327 www.lafenicericevimenti.it La Tonnara S.S. 113, Largo Tonnara tel. 091 3824925 Nespolo zona Piani, 14 tel. 091 8125894 U Rais contrada Tonnara tel. 091 8101115
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Ingredienti per 4 persone 500 gr spaghetti numero 4 300 gr nespole (suggeriamo la dolce varietà nespola rossa di Trabia) 250 gr pomodorini di Pachino 100 ml vino bianco 3-4 cucchiai di olio extravergine d'oliva 50 gr cipolla 1-2 foglie prezzemolo sale e pepe q.b. Procedimento Sbucciate, tagliate a metà e disossate le nespole, dividete ciascuna delle due metà della polpa in quattro parti e riponete il tutto in una tazza; tagliate i pomodori in quattro parti e riponete anch'essi in una tazza. Mettete a bollire l'acqua per la pasta, nel frattempo preparate a fuoco lento in una pentola capiente e dal bordo alto un soffritto con la cipolla tagliata fine e il prezzemolo. Quando l'olio avrà cominciato a friggere sfumate con il vino bianco, quindi aggiungete le nespole, rosolate sempre a fuoco lento e dopo circa 10 minuti aggiungete i pomodorini e, secondo le vostre preferenze, potete insaporire con un pizzico di sale e/o pepe. Dopo altri 10 minuti circa il condimento sarà pronto, scolate la pasta e versatela poi nella padella mescolando per bene con il condimento. A questo punto potrete preparare le porzioni e servire.
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facciamo...
di Martina Comito
C
’è chi non vede l’ora che la primavera ci regali i baccelli di fava (Vicia faba) per mangiarne i semi quando sono ancora teneri. Spesso accompagnandoli con pezzetti di pecorino semistagionato: una golosità da contadini a cui, chi vive in città, non può rinunciare. Le fave sono ricche di ferro, potassio, manganese, magnesio, selenio e rame, così come di molte vitamine e soprattutto della vitamina C, della tiamina (vitamina B1) e dei folati. La cottura, così come l’essiccazione, però, riduce il contenuto vitaminico assimilabile, per questo motivo sarebbe preferibile consumarle crude. Le fave fresche sono i legumi meno calorici e sono particolarmente indicate per chi generalmente pratica attività sportive, perché il loro apporto di grassi è quasi nullo. Contengono una buona quantità di acido ascorbico (la vitamina C per intenderci) che, com’è noto, all’azione antiossidante associa la capacità di migliorare l’assorbimento del ferro di cui sono ricchi questi legumi. Ed è proprio grazie a questa caratteristica che le fave riescono ad esercitare un’azione preventiva nei confronti di alcune anemie. Azione che
la Fava ma occhio alle allergie viene agevolata anche dalla presenza della tiamina che pur importante per il corretto funzionamento del sistema nervoso, è anche coinvolta nel metabolismo energetico e nella produzione di emoglobina. Sempre nella cura e nella prevenzione degli stati anemici, assumono un ruolo di primo piano anche i folati presenti in buona quantità nelle fave. Questi composti della famiglia delle vitamine del gruppo B sono fondamentali per la produzione di globuli rossi. Tra i sali minerali presenti nelle fave va ricordato il manganese: implicato in diversi processi metabolici, è utile nel supportare le funzioni del sistema nervoso, endocrino e immunitario. Una dieta ricca di manganese può aiutare a prevenire l’osteoporosi, l’artrite e altre ma-
lattie infiammatorie. Le fave influiscono molto sul miglioramento del livello di colesterolo nel sangue grazie agli steroli vegetali contenuti in una buona quantità sia in quelle fresche che in quelle secche. Ma per assumerlo dalle fave, bisogna ricordare di non eliminare la buccia del seme. Per il consumo di fave c’è una sola, ma importante avvertenza: non devono essere assolutamente consumate da chi è affetto dal “favismo”, la malattia di origine genetica ereditaria diffusa generalmente nell’area mediterranea che è associata alla carenza o mancanza nell’organismo dell’enzima glucosio-6fosfato- deidrogenasi. Condizione questa che determina lo stress ossidativo del globuli rossi.
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