Sapori di Sicilia Magazine n.2 - 2017

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Anno 5 - Numero 2 - 2017

euro 2,90 La rivista dei prodotti tipici e tradizionali

Itinerari del gusto • DIRETTORE EDITORIALE Peppe Giuffrè


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Editoriale

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a primavera è il periodo ideale per scoprire una Sicilia fantastica. Il risveglio della natura e le temperature tiepide quasi estive, sono i complici ideali per visitare spiagge meravigliose e città d’arte che tolgono il respiro. E per assaggiare i piatti della tradizione siciliana. Di cose da vedere in Sicilia ce ne sono tante, e farne un elenco è un’impresa da guinness dei primati. Ma possiamo cominciare da un gioiellino siciliano che tutto il mondo ci invidia: Trapani e il suo “oro bianco”, il sale marino. Ne parleremo in un articolo che ne descrive le caratteristiche e le proprietà. Pasqua, come tutte le feste religiose, è poi un’occasione ghiotta, anche non metaforicamente, per scoprire le ricette della tradizione. Vi porteremo così a Piana degli Albanesi per farvi conoscere la Pasqua arbëreshe di Sicilia e i riti della Settimana Santa. Una festa che per la complessità liturgica, la sontuosità e la raffinatezza dei paramenti sacri e degli abiti femminili nonché per le tante manifestazioni folcloristiche, costituisce la ricorrenza centrale della comunità albanese dell’Isola. Occasione in cui ogni arbëreshë ritrova le proprie radici, consapevole del valore del patrimonio religioso e culturale della comunità d’appartenenza: in pratica, una storia nella storia. La lotta tra bene e male ha un’ulteriore rappresentazione, a Prizzi, ma stavolta dal sapore più profano. Qui, per Pasqua, alcuni cittadini si travestono da “diavoli” e attraversano il paese con l’intento di prendere dei prigionieri da condurre all’inferno. Tale luogo altro non è che una comune osteria dove i “dannati” sono obbligati a bere vino e ad offrirlo ad altri. Dopo questa “scorpacciata” di arte e storia concludiamo con i dolci preparati dalle monache di clausura per i signori dell’epoca e che oggi si trovano in tutta le pasticcerie della Sicilia. Primavera fa rima con rinascita. Oltre all’appuntamento con le piante alimurgiche, dedicheremo uno spazio alla cucina vegana. In particolare alla sapiente quanto antica arte di cucinare con i fiori. E ancora: consigli e ricette sugli ortaggi di stagione. In particolare ci soffermeremo su “sua maestà” il carciofo, in particolare quello violetto di Ramacca, che cresce ai piedi dell’Etna. E sempre ai piedi del vulcano, non abbiamo dimenticato che a Catania c’è un cibo, anzi un insieme di cibi, che un turista non può fare meno di assaggiare: lo street food etneo, vario come quello palermitano, ma allo stesso tempo diverso. Come sempre, anche in questo numero, un piccolo spazio è dedicato all’orto. E se non avete il pollice verde, no problem! La frutta e gli ortaggi di stagione potrete comprarli al mercato del contadino. Ce ne sono disseminati in tutta la Sicilia. In questo numero abbiamo focalizzato l’attenzione su Palermo, indicandovi luoghi, giorni e orari dove acquistare le delizie della terra a km0. Buona spesa, dunque!


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Vuoi mangiare sano?

Rispetta la stagionalitĂ

Ecco che cosa comprare

Verdure: finocchio, cipolle, patate, broccolo, coste, piselli, fave, scalogno, carciofo, insalate varie, ravanello Frutta: mele, kiwi, limoni, fragole, arance, pere Nella dispensa: olio extravergine di oliva, caffè, zucchero, latte, burro, formaggi, pasta lunga e corta, riso, sale, spezie, uova, vino da cucina, qualche confettura, bicarbonato, lievito per dolci, farina


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Editoriale I dolci di Pasqua delle monache di clausura Pasqua arbëreshë, la grande Settimana Santa Ricetteria di Peppe Giuffrè Si fa presto a dire carne bovina... Caviale di lumaca, prelibatezza madonita Street food a Catania, istruzioni per l’uso Mucco o nunnata, il fascino del proibito Preziosissimo sale La rivoluzione degli orti urbani Prodotti a km zero al mercato del contadino La Calendula, il “fiore di ogni mese” dalle mille virtù La Borragine, dalla cucina alle cure naturali Violetto di Ramacca, il carciofo calatino SPECIALE SPOSI. Quel sì che non si scorda più Cucinare con i fiori Sua maestà il vino Latte e formaggi con l’origine in etichetta Primavera d’autore Cucina alternativa con la vasocottura In rovina le antiche muciare della Tonnara di Bonagia Piana degli Albanesi, la città degli esuli arbëreshë Incantevole Prizzi, tra edifici medievali e riserve naturali Songino, l’insalata dai tanti nomi

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L’orto e la frutta di primavera Dalle cucine dei ristoranti siciliani

SAPORI di SICILIA MAGAZINE bimestrale 2017 anno 5 - n. 2

soc. coop. a r.l.

Via Principe di Palagonia, 100 90145 Palermo www.sapori.sicilia.it

Direttore responsabile: Alessia Boschetti

PRIZZI

Hanno collaborato: Antonino Cicero, Martina Comito,Vanessa D’Acquisto, Omar Gelsomino, Alessandro Iannelli, Giorgia Iannelli, Elena Mysovskaya, Carola Parano, Paola Roccoli, Rachele Sanfilippo, Maria Grazia Sclafani, Anna Statello, Manuela Zanni Direzione, redazione: Via Principe di Palagonia, 100 - 90145 Palermo - tel. 091.7302609 email: redazione.saporisicilia@gmail.com - abbonamenti.edimed@gmail.com Concessionaria della pubblicità: EDIMED soc. coop. a r.l. Via Principe di Palagonia, 100 - 90145 Palermo - tel. 091.7302609 email: marketing.edimed@gmail.com

Direttore editoriale: maestro chef Peppe Giuffrè

stampa: Punto Grafica Mediterranea srl Via Z4, 18/20 - Fondo La Rosa, C.da Battaglia - 90039 Villabate (Pa)

Consulente editoriale: Vittorio Corradino

Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 18 del 05/11/2013 ISSN 2783-3242 - Iscrizione ROC n. 26415

Coordinamento redazionale: Angela Sciortino impaginazione ed elaborazione grafica: Loredana Greco

IVA assolta dall’editore ai sensi dell’art. 74, comma 1, lettera c, del DPR 633/72, così come modificato dalla legge 30/12/91 n. 413 Chiuso in tipografia il 25 marzo 2017


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I dolci di Pasqua

delle monache di clausura di Paola Roccoli

Gran parte della rinomata pasticceria siciliana ha avuto origine nei monasteri di clausura dove le figlie della nobiltà siciliana esprimevano la loro creatività elaborando torte e pasticcini

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a pasticceria siciliana, ormai rinomata in tutto il mondo, deve le sue antichissime origini alle ricette di qualche convento o monastero, e alle mani laboriose delle monache di clausura. Sono state proprio queste donne, infatti, che per ben quattro secoli hanno confezionato e donato i meravigliosi dolci della tradizione pasquale in tutta la Sicilia. Siamo nel 1400 quando giovani cadette nobili, costrette dalla famiglia a prendere i voti e ad entrare in clausura, iniziano un’attività di alta pasticceria come unica opportunità di interagire con il mondo esterno. Creano dolci per meravigliare e contraccambiare i favori di alti prelati, medici o confessori privati. Vere e proprie specialità di alta pasticceria che nei secoli successivi verranno acquistate tramite la ruota del convento, quella stessa dove fino alla seconda metà dell’1800 (epoca in cui lo Stato chiuse la maggior parte dei conventi) venivano abbandonati i neonati non desiderati. I loro laboratori diventano i primi veri antesignani delle migliori pasticcerie dell’Isola, a tal punto che ci sarà bisogno di supportare il lavoro delle monache con allieve e

suore laiche alle quali verranno svelati i segreti dell’alta cucina oggi tramandati ai pasticceri. Una delle ultime depositarie dei segreti degli antichi dolci delle monache di clausura è Maria Grammatico. L’inossidabile “signora delle genovesi”, come in molti chiamano l’attivissima settantaseienne ericina, conserva fedelmente le ricette del Convento San Carlo di Erice, e le ripropone nel suo famoso laboratorio di pasticceria del borgo medievale. Purtroppo oggi la pasticceria conventuale è quasi sparita. Sono pochissimi i conventi che conservano ancora i segreti delle magnifiche ricette. Tra questi c’è il Monastero del Santissimo Rosario di Palma di Montechiaro e il Monastero di San Michele Arcangelo a Trapani. Un tempo erano di gran lunga più numerosi e dei dolci pasquali della tradizione conventuale c’era una vasta scelta. Tra i ventuno conventi che si trovavano a Palermo deve essere ricordato quello di Valverde. Qui si realizzava la migliore cassata, quella confezionata apposta per il pranzo di Pasqua. Rigorosamente nei colori della tradizione verde della pasta reale e bianca

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della glassa di zucchero, e di una bellezza da togliere il fiato, la cassata, dolce di origine araba, non a caso è diventata il simbolo della pasticceria siciliana. A Bagheria si preparava la cassata al forno, coperta di pasta frolla con ripieno di ricotta e canditi. Pare che fosse la torta preferita del principe di Palagonia, il quale la offriva ai suoi ospiti nel suo settecentesco palazzo dei mostri a Bagheria. Molto simili sono le cassatelle di Pasqua di Ragusa e Ispica, differenti da quelle di Modica e Chiaramonte Gulfi dove l’impasto era costituito da ricotta e tuma. Nel Convento di clausura di San Carlo, quello dove passò ben quindici anni la signora Grammatico, nacquero gli ericini, dolcetti di pasta di mandorla con un cuore di conserva di cedro. I deliziosi bocconcini una volta confezionati dalle monache del San Carlo, ancora oggi nel periodo pasquale vengono preparati dalle Benedettine del Monastero di Badia Nuova ad Alcamo, e sono identici ai muccunetti di Mazara del Vallo. Qui, al centro della città, tra la sinagoga e la Casbah si trova il Monastero di San Michele Arcangelo, costruito sotto la dominazione normanna, risiedono le monache di clausura dell’Ordine di San Benedetto che custodiscono gelosamente la ricetta segreta dei piccoli dolci di pasta di mandorla con ripieno di zuccata intriso di un liquore assolutamente top secret. I muccunetti vengono lavorati tutti a mano e confezionati ad uno ad uno nella carta velina, come grosse caramelle. Nel Convento delle Benedettine a Palma di Montechiaro erano addirittura quattro i dolci che venivano preparati per la Pasqua. C’era il bocconotto nella versione tradizionale fatto con polpa di zuc-

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china lunga e canditi, bianca glassa decorata di rosso e verde a ricordare il sacrificio (rosso) e la speranza (verde) e le paste “nuove” preparate come il bocconotto, ma decorate con diavolicchi colorati. Con un’antica ricetta del 1400 le suore realizzavano il torroncino, dolce ricoperto di glassa lavorata con aromi e mandorla all’interno. E per finire i famosi biscotti ricci o mandorlati tanto graditi al Principe di Salina. “…Gli piacevano i mandorlati che le monache confezionavano su ricette centenarie, gli piaceva ascoltare l’uffizio del coro…” scriveva Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, descrivendo i biscotti ricci realizzati nel Convento del Santissimo Rosario a Palma di Montechiaro, fondato dal Duca di Lampedusa nel 1657 e dove risiedeva la zia del Principe. Qui, i mandorlati tanto amati da Don Fabrizio, vengono preparati ancora con la ricetta originale. Ad Agrigento, nel Convento di Santo Spirito le monache confezionavano un dolce molto delicato a forma di conchiglia, ripieno di pistacchi o zuccata e realizzato con stampini di legno a forma di piccole capesante. Tipici della Pasqua sono pure i biscotti Savoia al cioccolato che venivano preparati dalle suore Benedettine del Santissimo Sacramento di Ragusa.

Biscotti ricci o mandorlati del Gattopardo Ingredienti • 500 g di mandorle • 400 g di zucchero • 3 uova • 1 limone • cannella in polvere Procedimento Sbollentate le mandorle per pochi minuti in acqua bollente così potrete pelarle facilmente. Quindi asciugatele e tritatele finemente insieme a zucchero e scorza di limone. Aggiungete le uova, la cannella e amalgamate fino a quando l'impasto diventi consistente. Versate l'impasto in una siringa con il beccuccio a forma di stella che donerà al biscotto l'aspetto riccio con le scanalature. Spolverizzate con zucchero semolato e cuocete in forno fino a doratura.

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Muccunetti di Mazara del Vallo bocconcini di Alcamo e di Erice Ingredienti • 500 g di mandorle • 350 g di zucchero semolato • 350 g di conserva di cedro • vaniglia q.b. • chiodi di garofano • acqua q.b. Procedimento Pelate le mandorle e tritatele finemente con lo zucchero, incorporate la conserva di cedro, aromatizzate con chiodi di garofano ridotti in polvere e vaniglia, aggiungete un po’ di acqua fino a quando il composto diventi omogeneo e compatto. Formate delle palline e passatele nello zucchero semolato, appiattendole leggermente, disponete in una teglia da forno, avendo cura che siano distanti l'una dall'altra, cuocete in forno fino a doratura.

Avevano forma simile ad una piccola saliera i salireddi, i dolci preparati dalle suore del monastero di San Marco a Enna che confezionavano anche le dita di Apostolo, dedicati ai primi seguaci di Cristo. Le suore a Mistretta confezionavano un dolce molto delicato fatto di una frolla con dei piccoli fiori di mandorla a guarnire che erano noti come i fiori di Mistretta. Al 1840 e alle Clarisse del Convento della Batìa, annesso alla Chiesa dell’Annunciazione di Tortorici, si fa risalire l’invenzione della pasta reale di Tortorici, una particolare pasta lievitata al centro e fatta esclusivamente con nocciole, dalla forma di una piccola corona, che ancora oggi viene preparata e rigorosamente cotta nel forno a legna dai pasticceri del paese nebroideo. A Noto viene ancora ricordata la rivalità tra le suore Benedettine di clausura e le Clarisse su chi fosse più abile a preparare le paste di mandorle e i biscotti al

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latte. E non sono stati dimenticati i dolci pasquali di pastaforte a forma di colombine, rettangoli e rombi che venivano confezionati nel Monastero benedettino del Santissimo Salvatore. A Motta d’Affermo in provincia di Messina, le Clarisse preparavano i dolci di Pasqua chiamati le varate, dalle caratteristiche forme di pecorella, di colomba e di coniglio, guarnite con uova sode e il turruncinu, un torrone che viene cotto in forno. A Geraci Siculo capitale della Contea dei Ventimiglia, le monache del Monastero di Santa Caterina ci tramandano le serafinelle e le cassatine antiche. Un meraviglioso dolcetto di pasta frolla a forma di fiore, ricoperto di glassa fruttata che per le feste grandi ancora oggi viene preparato secondo l’antica ricetta, fu inventato dalle suore di clausura di Sant’Agata Salvatrice Carrera, a Militello Val di Catania. In occasione della Pasqua non possono essere dimenticati gli agnellini di marzapane. Venivano confezionati in tutti i conventi della Sicilia, ma l’antica ricetta sembra che si debba alle suore del Collegio di Maria a Favara, centro agricolo in provincia di Agrigento. Confezionati con forme antichissime di legno o gesso, pare che la ricetta sia stata tramandata grazie ad una nota famiglia del paese che la trascrisse nel 1898. Famosi anche gli agnellini di Palma di Montechiaro, ripieni di pasta di pistacchi

e decorati con fiorellini e una giulebba di zucchero che si contrappongono a quelli delle monache Benedettine della chiesa Martorana di Palermo, realizzati semplicemente con la pasta di mandorle, l’impasto di farina di mandorle invenzione delle monache del convento palermitano che nel capoluogo è noto con il nome di martorana. Chi non poteva permettersi il costo dei dolci di mandorla o marzapane, ripiegava sui pani dolci votivi, che venivano regalati con finalità augurali a parenti e amici. Vari nomi e varie forme li distinguevano: pupi cu l’ova (figure umane o animali con le uova), panareddi di Pasqua (cestini di Pasqua), cuddura cu’ l’ova (corona con le uova). L’impasto è quello della pasta frolla e la decorazione si compone di zuccherini colorati e di un uovo sodo al centro a simboleggiare la resurrezione. Secondo il Pitrè, nei monasteri di Palermo un tempo le monache si impegnavano a preparare i pupi cu l’ova, ed era usanza che arrivassero alle famiglie che ne avevano fatto richiesta, con un grande fazzoletto di seta gialla e rossa che diveniva parte del dono. Anche a Prizzi si preparano i cannateddi di Pasqua, pani pasquali a forma di panierino con uovo sodo, che vengono distribuiti ancora oggi durante l’abballu di li diavoli, la nota rappresentazione della domenica di Pasqua. E per continuare sul tema dei pani, impossibile non ricordare la festa degli “Archi di Pasqua” a San Biagio Platani durante la quale si distribuiscono ancora oggi dolci particolari, pani e biscotti colorati dalle forme più disparate: campane, chiavi, angioletti, colombe, cuori e tanto altro ancora.

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Pasqua arbëreshë la grande Settimana Santa

di Vanessa D’Acquisto

I riti pasquali della comunità albanese sono ricchi di spiritualità e simbolismo. Di grande effetto scenografico le processioni con le donne che indossano i costumi tradizionali ricamati in oro zecchino 10

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e celebrazioni della Settimana Santa in Sicilia sono vissute con intensa spiritualità e partecipazione da parte di tutti gli isolani. A Piana degli Albanesi, in particolare, i riti pasquali (la cui liturgia viene eseguita in lingua albanese e in quella greca) sono molto suggestivi, assumono carattere di solennità e magnificenza e sono ricche di simbolismi, derivanti dalle liturgie scritte dai padri della Chiesa greca. Le celebrazioni religiose siculo-albanesi culminano nella celebrazione della Settimana Santa (Java e Madhe, letteralmente “la grande settimana”). Durante la settimana gli uffici divini diventano più solenni: aumenta la loro durata, si alternano letture e canti dei salmi, si utilizzano i paramenti di colore viola e rosso in sostituzione a quelli dorati.

Le celebrazioni iniziano il venerdì che precede la Domenica delle Palme, quando viene rievocata la resurrezione di Lazzaro (Lazëri). Una processione di giovani e meno giovani guidati dal papàs (il sacerdote) percorre le vie cittadine ricevendo dolci, frutta secca e uova da coloro che ascoltano l’annuncio della resurrezione. Poi nel giorno della Domenica delle Palme (E Dielija e Rromollidhet) vengono benedette le palme e i rami di ulivo nella Chiesa di San Nicola di Mira. L’Eparca (ossia il vescovo greco ortodosso) a dorso di un asinello e con in mano un crocifisso e una piccola palma, guida la processione lungo il corso principale fino alla cattedrale di San Demetrio, dove verrà celebrata la divina liturgia. Il Giovedì Santo (E Intja e Madhe) è quello in cui si svolge la messa in Cena domini. Durante il rito viene rievocata la • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •


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“lavanda dei piedi” secondo l’Evangelo di San Giovanni: dodici papàs che rappresentano gli apostoli si riuniscono attorno alla sacra mensa e l’Eparca, che si è spogliato dei paramenti, lava i piedi dei commensali. Il papàs che impersona San Pietro rifiuta inizialmente l’umile gesto per poi accettarlo, facendosi lavare simbolicamente per intero. Le campane da questo giorno vengono legate e saranno sciolte solo il giorno di Pasqua. Le celebrazioni del periodo pasquale continuano al mattino del Venerdì Santo (E Prëmtja e Madhe) in cui si svolge una celebrazione attorno ad un quadro raffigurante il Cristo morto (Taphos). Nel pomeriggio, l’urna contenente il Cristo morto percorre le vie cittadine, seguita dal coro che intona suggestivi e malinconici lamenti della Madonna, cantati in lingua

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albanese e accompagnati da particolari strumenti in legno di origine bizantina. Il Sabato Santo (E Shtunia e Madhe) è dedicato ai battesimi per immersione dal forte significato simbolico: è la nuova vita che Cristo dona ai suoi fedeli. In questa giornata si celebra il trionfo di Cristo attraverso la speranza e l’invocazione, affinché Egli possa salvare il mondo. Intorno a mezzogiorno, si dà l’annuncio della Resurrezione e le navate delle chiese vengono cosparse con foglie di alloro. A mezzanotte clero e fedeli con candele accese giungono in corteo sul sagrato della Cattedrale dell’Eparchia. Fermandosi davante ad una porta chiusa, il celebrante intima alle potenze del male (rappresentate da una voce proveniente dall’interno) di non ostacolare l’ingresso. Dopo una breve resistenza, le porte si aprono permettendo al corteo di entrare in chiesa intonando il Christós anésti (Cristo è risorto). Nella domenica di Pasqua (Pashkët), a Piana degli Albanesi, se si vuole assistere all’intera liturgia bisogna arrivare per tempo. Alle 10, infatti, inizia la liturgia officiata dai celebranti avvolti nei preziosi e antichi paramenti sacri. L’incenso si spande per tutta la chiesa, mentre alle preghiere in lingua greca, i fedeli rispondono coralmente esaltando la resurrezione di Cristo. Segue il canto, molto suggestivo, del Vangelo in diverse lingue. Fuori dalla chiesa, il corteo delle donne in abiti tradizionali sfila per il corso principale, adornato con festoni e teli ricamati appesi ai balconi. Giunti nella piazza principale di fronte alla Chiesa santuario di Maria Santissima Odigitria, il papàs impartisce la benedizione e a fedeli e turisti vengono distribuite le uova (vetë të kuqe), simbolo di rinascita e fertilità, colorate di rosso per ricordare il sangue versato in sacrificio da Cristo per l’umanità. Alla fine vengono liberate alcune colombe bianche, universalmente riconosciute come simbolo di amore e di pace. La Pasqua a Piana degli Albanesi diviene anche l’occasione per il raduno dei gruppi folkloristici provenienti dalle altri comunità arbëreshë d’Italia, che si esibiscono in canti e balli tradizionali. Le uova rosse costituiscono anche uno dei piatti della tradizione pasquale degli Albanesi d’Italia. Vengono preparate il Sabato Santo per essere mangiate dopo mezzogiorno e sono utilizzate anche per abbellire i panaret (i pani di pasqua), preparati durante la Settimana Santa e donati ai bambini che con ansia aspettano di poterli mangiare dopo il mezzogiorno del Sabato Santo. Anticamente, prima di donarli, venivano benedetti nella Cattedrale di San Demetrio Megalomartire.

Panaret Ingredienti • 1 Kg di farina 00 • 400 gr di zucchero • 350 gr di strutto • 4 uova • 1 tazzina di latte • 1 bustina di lievito per dolci • 1 bustina di vanillina • uova per decorare Procedimento Setacciate la farina e mischiate con lo zucchero, il lievito e la vanillina. Sciogliete lo strutto a bagnomaria, unitelo alla farina e alle uova. Iniziate a mescolare ed infine unite il latte. Impastate bene e lasciate poi riposare per mezz’ora. Nel frattempo, cuocete le uova per la decorazione in acqua, colorante alimentare rosso e aceto che funge da fissativo (50 g di aceto per ogni 5 lt di acqua). Oppure, dopo aver bollito le uova, in un contenitore versate 1/3 di tazza di aceto, da 6 a 10 gocce di colorante e acqua calda. Immergete le uova sode e tenetele fino a quando non si coloreranno i gusci. Lasciatele poi asciugare sulla carta assorbente. Stendete l’impasto alto circa mezzo cm. Create un cesto con il manico e al centro posizionate le uova rosse. Spennellate con l’uovo e infornate a 180°C per 20 minuti. Quando saranno cotte, abbellitele con fiori e uccellini.

Nel periodo pasquale viene preparata la verdhët, una torta fatta con le uova, la ricotta di pecora e con il finocchetto selvatico lessato. Un altro piatto della tradizione è la milanisë, a noi in realtà non sconosciuta: la paste con le sarde e il finocchietto selvatico, a cui però viene aggiunto l’estratto di pomodoro. Entrambe le pietanze, però, non sono esclusive del periodo pasquale: vengono, infatti, preparate anche il 19 marzo per festeggiare San Giuseppe.

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Passata di ceci al profumo di erbe Ingredienti per 6 persone 12 uova da 60 gr circa (categoria medie) 12 carote 50 gr di uovo di tonno (bottarga) prezzemolo basilico finocchietto di montagna 50 gr si pistacchi zafferano di Nubia 2 foglie di brik Procedimento

Due semplici uova nel piatto sono insignificanti, ma con un po’ di fantasia è possibile farle apparire invitanti anche ai più scettici e recalcitranti nei confronti di questo alimento. L’uovo è molto nutriente, può essere inserito anche nelle diete dimagranti e non è vero che fa male al fegato, anzi le sostanze che contiene ne proteggono le cellule. Infine un consiglio: meglio le uova di galline allevate "a terra". In questo sistema sette galline possono disporre mediamente di in un metro quadrato di terreno coperto di paglia o sabbia. Come riconoscerle? Ogni uovo ha stampigliato un codice: il primo numero deve essere 2.

Tagliare la foglia di brik in quattro e formare dei piccoli conetti da infornare per due minuti a 170°C. Lessate le carote ed insaporitele con sale grosso e olio. Preparate un trito con prezzemolo, basilico e finocchietto di montagna. Frullate i pistacchi con lo zafferano. Mettete a bollire l’acqua salata e mentre create un mulinello mescolando alacremente, versate un uovo intero che prima avrete messo dentro un bicchiere, e fate cuocere per tre minuti: con questo procedimento assumerà la forma ovale. Fate lo stesso con l’altro uovo avendo cura di separare il tuorlo e l’albume in modo che assuma una forma molto irregolare. Disponete al centro del piatto l’uovo, in un lato il conetto da cui far uscire l’albume con le carote e a sinistra il tuorlo con la polvere di pistacchi e zafferano. Mettete il trito sopra l’uovo e grattugiate la bottarga, servite con una manciata di pepe molito al momento.

Maccheroncini con palamita e pesto ai semi di zucca La pasta nasce spaghetto e i maccheroncini ne rappresentano una evoluzione. Ma su questo termine in Italia non ci intendiamo completamente. Per noi siciliani, ad esempio, il maccheroncino è lo spaghetto col buco, per i marchigiani è quello Igp di Campofilone che in realtà è una tagliatellina all’uovo. Il nome ha comunque una radice unica: quel “maccheroni” con cui all’estero definiscono in maniera generica la pasta all’italiana. La palamita è un pesce azzurro che ama avvicinarsi alle coste siciliane in primavera. Costa poco e che si presta a svariate preparazioni. Ricchissima di Omega 3, possiede qualità organolettiche simili a quelle del tonno, ma le sue carni sono più saporite.

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Ingredienti per 6 persone

Procedimento

500 gr di maccheroncini 400 gr di filetto di palamita 1 melanzana, 1 cipolla una manciata di mandorle pelate foglie di basilico un ciuffetto di prezzemolo un mazzetto di spinaci 10 semi di zucca tostati e sgusciati vino bianco, olio evo

Pulite la melanzana e tagliala a dadini quindi friggetela in olio di oliva. Preparate un soffritto con cipolla, aggiungete il filetto di palamita fatto a piccoli pezzetti, sfumate con del vino bianco fino a cottura, quindi aggiungete le melanzane. Mettete in un mortaio prezzemolo, basilico, mandorle e semi di zucca pestate il tutto grossolanamente, aggiungete gli spinaci lessati e fate diventare il pesto cremoso aggiungendo un filo d’olio. Amalgamate il tutto in una grossa padella dove metterete i maccheroncini cotti al dente e fate mantecare il tutto. Servite decorando con semi di zucca.


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Agnello, favino e uovo di quaglia Sbucciando le fave contate i semi. La leggenda ricorda che se ne trovate sette potete aspettarvi che da un momento all’altro vi possa capitare un colpo di fortuna. Ingredienti

Procedimento

550 gr di polpa d’agnello 1 kg di favino verde 6 uova di quaglia 100 gr di mandorle pelate 200 gr di pomodori maturi 50 gr di farina di rimacino 1 mazzo di basilico 6 foglie di citronella 6 fiori di lavanda 1 rametto di menta olio evo, sale e pepe q.b.

Lessate i baccelli del favino. In un mortaio pestate le mandorle assieme al basilico ed aggiungete la polpa di pomodoro avendo cura di togliere la buccia. Tagliate a listarelle piccole la polpa dell’agnello, infarinatele e friggetele. Mettete in una ciotola il pesto, il 30 per cento di fave, l’agnello, regolate con sale e pepe e sistematele in formina da forno. Infornate per 10 minuti a 180°C. Frullate le fave rimaste con basilico e menta fino ad ottenere un salsa vellutata. Friggete l’uovo. Mettete nel piatto la vellutata, sistemate al centro l’agnello e sopra l’uovo di quaglia spolverato con le foglie di citronella (possibilmente secche), quindi decorate con la lavanda.

Cassata di Pasqua

Ingredienti • il marzapane è fatto con mandorla pizzuta e pistacchi di Bronte non preoccupatevi del colore spento... è semplicemente naturale; • il pan di Spagna è fatto con farine provenienti da Questa volta non troverete la ricetta in quanto grani antichi siciliani e con uova di galline questa opera d’arte è un vero patrimonio ineallevate a terra; stimabile custodito da noi siciliani. Io sempli• la ricotta, rigorosamente di pecora, è dolcificata cemente desidero raccontarvela. con 150 gr di zucchero d’uva e 50 gr di miele di sulla, entrambi prodotti in Sicilia; Procedimento • i canditi sono di fattura artigianale e realizzati Siccome è mio desiderio ridare alla mia Sicilia secondo una vecchia ricetta palermitana che quello che stiamo lentamente ma inesorabilmente permette la conservazione delle componenti aromatiche della frutta; perdendo, una raccomandazione: consumate pro• la glassa è fatta con albume, acqua e zucchero a dotti e fatti in Sicilia. velo comprato in una azienda storica che frequento da quando avevo i pantaloncini corti.

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Si fa presto a dire

carne bovina...

Ogni piatto ha il suo giusto tipo di carne e di taglio per esprimersi al meglio e conservare tutte le proprietà organolettiche del prezioso alimento. Di grande importanza la frollatura che deve protrarsi a sufficienza per renderla tenera di Rachele Sanfilippo

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i siete mai chiesti cosa c’è dietro la riuscita di un buon piatto di carne? Un mondo d’infinite variabili che partono dall’età e dal sesso del bovino scelto, dall’alimentazione che segue, dalla sua macellazione, dalla frollatura, fino ad arrivare ai rispettivi tagli, divisi in categorie e sottocategorie che, solo in Italia, sono più di quaranta. Ogni piatto ha il suo giusto taglio di carne per esprimersi al meglio e conservare integre tutte le proprietà organolettiche di questo prezioso alimento. Cercheremo di orientarci nell’intricato campo della carne bovina seguendo un percorso che ci guiderà nella scelta del tipo di carne giusto per ogni preparazione, naturalmente in termini di ricette rigorosamente “made in Sicily”. La prima classificazione del bovino si fa in base all’età. Così distingueremo la vitellina da latte che è l’animale macellato tra i 5 e i 7 mesi alimentato sin dalla nascita solo dal latte. La carne è molto tenera e contiene molta acqua e poco grasso. Più proteiche sono le carni del vitellone che viene macellato tra gli 8 e i 12 mesi e rappresenta gran parte dell’offerta sul mercato. Più pregiata è la carne della femmina che non ha mai partorito: possiede carni molto tenere ed apprezzate per la quantità di grasso di infiltrazione. In questo gruppo distinguiamo la manza (14/16 mesi) e la scottona o giovenca o an-

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cora manzarda (16 e i 22 mesi). Altro tipo è il manzo non castrato (nome che viene attribuito anche alla femmina che non ha mai partorito): ha età compresa tra 1 e 4 anni, carni grasse e saporite, più o meno tenere in base all’alimentazione dell’animale. Un tipo di carne ormai introvabile è il bue, ovvero il maschio castrato di oltre 4 anni e mezzo di età che non più utile per il lavoro nei campi, veniva destinato al macello. La vacca è la femmina che viene macellata alla fine della produzione di vitelli e di latte a 6/8 anni di età. Anche questa è scomparsa dal mercato perché le sue carni sono poco pregiate e magre, ma viene pur sempre utilizzata per la produzione industriale. Una volta macellato, l’animale viene diviso in mezzene e quarti


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e viene sottoposto alla frollatura, un aspetto che purtroppo in Sicilia è piuttosto trascurato. Ma in cosa consiste? La frollatura in parole povere è un tempo di riposo in cui, grazie all’azione di alcuni microrganismi, aumenta l’acidità e gli enzimi all’interno delle masse muscolari che agiscono sulle proteine della carne denaturandole. Il processo in definitiva aumenta la morbidezza e la succosità dei diversi tagli. Il tempo necessario per una giusta frollatura è variabile in base al taglio e all’età dell’animale e comunque per i bovini mai inferiori a 10-14 giorni. La temperatura ottimale per eseguire questo processo di stagionatura della carne è tra 0 e 4 gradi centigradi mantenendo costante l’umidità intorno a 85-90%. Le carni toscane sono famose per il rigore con cui questa pratica viene seguita che nel caso della Chianina Igp soggetta al disciplinare di produzione proprio, deve durare almeno 20 giorni. In Sicilia, invece, la pratica è pressocché sconosciuta o meglio non utilizzata. Il motivo è banale: la frollatura è un processo comunque costoso che richiede attrezzature adeguate e poi c’è da considerare che la carne lungamente frollata perde peso ed il suo colorito all’esterno diventerà scuro e non più roseo, risultando apparentemente meno appetibile all’acquirente. Risultato? Le carni bovine nostrane sono generalmente frollate per circa 24/48 ore il che non garantisce il raggiungimento delle migliori qualità organolettiche. Le carcasse giungono al macellaio già divise in due grosse parti dette “mezzene” in cui si distingue il quarto anteriore e il quarto posteriore. Poi sarà suo compito suddividerli ulteriormente in tagli che acquisteranno diverso valore commerciale in base alle proprietà organolettiche, all’aspetto ed al sapore. Si distinguono così tagli di prima, seconda o terza scelta con la percentuale di tessuto connettivo crescente. Ma non sempre i tagli di prima scelta più costosi e più magri sono anche quelli più saporiti, anzi! C’è anche il quinto quarto, cioè la pezzatura meno pregiata che comprende, insieme alla coda, alla lingua ed alle trippe anche le frattaglie.

La maggior parte dei tagli ricavati dal quarto posteriore sono i più pregiati e sono detti di prima scelta. Di questi fa parte il girello detto anche magatello o più conosciuto dalle nostre parti come lacerto. Anzi più precisamente girello di coscia, da non confondere con quello di spalla che un po’ più grasso. È un taglio con cui si realizza principalmente il vitello tonnato, ma anche bistecche, fette da farcire, macinato di qualità o, comunque, viene destinato a cotture brevi in padella. In Sicilia questo taglio viene destinato a una pietanza della domenica, tipica della nostra gastronomia tradizionale: il lacerto aggrassato, a cui il girello, pur trattandosi di uno stracotto, si presta bene. In Sicilia il suo prezzo medio è di euro 13,50 al kg ed il suo tempo medio di frollatura è di 4 giorni (quando va bene). Da una parte all’altra dell’Isola, la ricetta, come sempre, viene declinata in modi diversi, ma con una costante in tutte le sue varianti: la cipolla abbondante che cuoce lentamente insieme alla carne fino a trasformarsi in glassa da servire sulle succulente fettine. È un brasato che trae origine dalla tradizione culinaria aristocratica franco-sicula, quella dei Monsù per intenderci, i cuochi francesi a seguito dei Borboni. Il suo nome corretto dovrebbe essere “agglassato” (dal francese glacer: glassa) aggettivo derivante proprio dalla glassa di cipolla stufata che fa da base alla cottura. Ma il termine “aggrassato” è più usato e forse più appropriato per una cottura che, alla fine, rende il piatto untuosamente grasso e poco digeribile, ma ottimo e di sicuro effetto. Ogni paese ed ogni famiglia siciliana ha la sua ricetta tramandata da generazioni. Chi lo cucina in bianco e chi con pomodoro, chi lo accompagna a pisellini e chi a patate, chi fa cuocere il tutto in vino bianco e chi insiste sull’immancabile Marsala, chi preferisce un aroma ad un altro. Ma ovunque si prepari questo piatto e in qualsiasi sua declinazione, vi assicuriamo che si tratta di un secondo che dà soddisfazione agli occhi ed al palato. Noi vi proponiamo una versione semplice realizzata con il girello di coscia (un po’ più tenera di quello di spalla), quella che tradizionalmente si consumava la domenica nel palermitano. Si preparava il sabato per poterla affettare meglio e per far insaporire ben benino la carne nel suo intingolo. Si continua a servire ancora con una salsina sempre abbondante, la glassa a base di cipolla appunto, che tuttora i palermitani consumano solitamente anche la sera o i giorni seguenti per condire e insaporire un panino o un semplice piatto di pasta. A voi aggiungere i sapori e i profumi che più vi piacciono.

Lacerto di vitello “aggrassato” Ingredienti • 700/800 gr di lacerto di vitello • 3 cipolle dorate • ½ spicchio d’aglio rosso • 2 foglie d’alloro • 2 rametti di rosmarino • 1 litro circa di acqua • olio extravergine d’oliva q.b. • 1 bicchiere di vino bianco secco • sale e pepe q.b. • aromi a piacere Procedimento Legate il lacerto insieme al rosmarino con dello spago per alimenti. Salatelo e pepatelo e riponetelo in un tegame capiente con l’olio ben caldo a rosolare uniformemente da ogni lato, affinché la carne sigilli i suoi succhi. Tirate fuori la carne e mettete in tegame le cipolle affettate ed il mezzo spicchio d’aglio e fatele imbiondire lentamente a fiamma bassa insieme agli aromi che più vi piacciono (noi abbiamo usato salvia e timo oltre al rosmarino). Quando la cipolla si sarà intenerita, rimettete il lacerto insieme al bicchiere di vino bianco, lasciatelo cuocere con coperchio e a fiamma bassa, fino a che evapora del tutto. Unite poi l’acqua fino a coprire tre quarti del lacerto con le foglie di alloro e gli altri aromi. Lasciatelo cuocere per una buona mezz’ora e quando cotto tiratelo fuori e lasciate cuocere la cipolla fino a che non si sia asciugato quasi tutto il brodo. La cipolla dovrà essere ridotta ad una crema, quindi schiacciatela con un cucchiaio o passatela con un mixer ad immersione. Quando la carne si sarà completamente raffreddata, slegatela e tagliatela a fettine. Aggiustate di sale e pepe la salsina di cipolla e adagiate le fettine nell’intingolo; fatele cuocere ancora una decina di minuti affinché la carne risulti ben cotta anche all’interno e si insaporisca con il denso sughetto. Se la salsina risulta troppo liquida aggiungete un po’ di farina per addensarla. Servite le fette di carne ben calde e cospargetele con abbondanti cucchiaiate di sughetto.

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Caviale di lumaca prelibatezza madonita

di Antonino Cicero

Le chiocciole, un tempo considerate un cibo povero, recentemente sono state reinterpretate dagli chef per diventare piatti gourmet

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a lumaca madonita, a Campofelice di Roccella, è diventata una realtà. Non è stata una passeggiata di salute però quella dei tre giovani del centro agricolo palermitano. «L’importante, comunque, è che dopo diversi tentativi, sta conquistando fette di mercato via via sempre più ampie», dicono i tre ragazzi che hanno puntato sull’elicicoltura credendo potesse diventare un’attività produttiva capace di trattenerli nella propria terra. E hanno avuto ragione. Messa su nel 2006 da Davide Merlino e dai fratelli Michelangelo e Giuseppe Sansone, oggi l’azienda, che ha cinque dipendenti, produce tra 18 e 20 tonnellate di lumache all’anno. «Lumaca Madonita – dice con soddisfazione Davide Merlino – è il più grande allevamento di chiocciole in Italia. Di queste quasi il 90% sono destinate al mercato mondiale, arrivando sulle tavole soprattutto francesi e spagnole». Lo sviluppo di un innovativo “made in Italy” di qualità, anche all’estero, non è mai stato così veloce (anche se si parla di lumache...). Quelle madonite, infatti, vengono usate nella ristorazione e dall’industria cosmetica. Il fatturato è cresciuto progressivamente nel corso degli anni, subendo una leggera contrazione nel 2016, ma non a causa della crisi. «I nostri allevatori partner – spiega Merlino – stanno attendendo da diverso tempo alcuni importanti finanziamenti che dovrebbero

incassare quest’anno. La crisi di liquidità causata da questi ritardi ha inciso sulle loro capacità produttive e, quindi, in una flessione del fatturato». Qualità sì e anche specialità, nicchie alimentari che fanno gola. A partire dagli chef, compresi quelli stellati. Da Campofelice, infatti, il business legato al caviale di lumaca è parecchio remunerativo. «Il caviale di lumaca – precisa Merlino – è composto dalle uova e il suo sapore, unico e particolare, ha sentori di terra, di erba e di funghi ed è molto apprezzato da quanti lo hanno provato». Costo: 1600 euro al chilo. «Si tratta di piccole e raffinate perle bianche di produzione interamente siciliana, oggi tra i cibi più ricercati, capaci di sposarsi perfettamente con ogni alimento», ci tiene a ricordare Merlino. Il caviale di lumaca, non a caso, ha fatto vincere al trio di Campofelice il premio nazionale “Oscar Green” nel 2013 e si è guadagnato il certificato di “eccellenza italiana”. Quello che un tempo era considerato un alimento per i poveri, così come le chiocciole, oggi viene reinterpretato dagli chef per diventare cibo pregiato. Nel 2016 ne hanno prodotto circa 5 chili che diventeranno 8 nel 2017. Solo per dare un’idea della difficoltà della produzione del caviale è bene sapere che una lumaca produce circa 90 uova che in totale pesano circa 3 grammi. • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •


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Ma c’è un aspetto fondamentale per l’azienda che va tenuto presente a proposito di crescita e riproduzione. «Tutto in natura è perfetto – precisa Michelangelo Sansone – e segue il rigoroso scandire del tempo che non si può in alcun modo forzare. Noi cerchiamo di rispettare queste dinamiche accompagnando il ciclo vitale della chiocciola e assicurandole un habitat protetto e biologicamente perfetto». I terreni dove nascono e crescono le lumache, infatti, sono a poca distanza dal centro abitato e quello che i tre allevatori danno da mangiare ai piccoli animaletti, lo coltivano in loco senza ricorrere all’uso di pesticidi. In totale circa 4 ettari e 95 recinti: tutto all’aperto. «L’allevamento è naturale - sottolinea Giuseppe Sansone - e non intensivo: insomma, etico e genuino. Riusciamo in questo modo a unire la tradizione con l’innovazione per ottenere un prodotto siciliano di qualità, ma anche per formare nuove aziende che vogliono produrre col “metodo madonita”». Già, perché i ragazzi della “Lumaca madonita” formano pure tutti coloro che vogliono cimentarsi in questa attività e che oggi genera un business che immette sul mercato carne e conserve gastronomiche, prodotti di bellezza e sieri. I tre giovani offrono consulenza, progettazione degli impianti, fornitura dei materiali e degli esemplari da riproduzione. In più acquistano dagli allevatori partner, purché siano rispettati i protocolli produttivi concordati. «Questo ci garantisce la qualità necessaria per non incappare in problemi durante la fase di commercializzazione» che interessa prevalentemente il mercato italiano (il primo in termini di assorbimento). Ma seguono anche la Spagna e la Francia

dove l’escargot è diverso dalla nostra lumaca. «Sia per il metodo di allevamento – spiega Merlino – che è al chiuso per via delle basse temperature, ma anche per le dimensioni». Il “sistema madonita” si preoccupa molto dell’alimentazione delle chiocciole perché «la lumaca ha il sapore di quel che mangia». «È un maiale in miniatura – dice, sorridendo, Merlino – perché mangia proprio di tutto». La concorrenza, in questo settore, è ancora molto alta, soprattutto con i paesi nordafricani e dell’Est Europa che invadono i mercati con prodotti a prezzi molto più bassi. «La Sicilia è, ancora oggi, il primo produttore in Italia» ricorda Michelangelo Sansone che aggiunge: «La qualità è il nostro vero, primo obiettivo; in questo modo pensiamo di poterci differenziare. Abbiamo anche registrato e certificato, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Agrarie dell’università di Palermo, la specie da noi prodotta: la Helix aspersa madonita». Al Nord è facile trovarla al banco del pesce, mentre al Sud è giustamente considerato prodotto di terra «che si sposa bene - dice Merlino - con i piatti must della nostra tradizione: caponata, macco di fave e finocchietto selvatico o frittata di lumache».

Davide Merlino, al centro, con i fratelli Michelangelo e Giuseppe Sansone

Crocchè di lumaca di Davide Merlino

Si tratta di un interessante esperimento culinario effettuato durante lo Street Food Festival di Cefalù, la scorsa estate. Riuscitissimo e gradito da tutti i partecipanti. Ingredienti per 5 persone • 1 kg di lumache con guscio. Per il brodo • 4 litri d’acqua • 1 porro • 1 sedano • 1 finocchio • 2 foglie di lauro • pepe nero in grani • coriandolo Per la panatura • 500 gr di pangrattato o farina di mais • 200 gr di pecorino • 500 gr di farina • 10 uova Procedimento Lavate le chiocciole più volte e assicuratevi che siano tutte prive di “tappo”. Preparate il brodo versando in acqua fredda le lumache con il finocchio, il sedano, il porro, le foglie di lauro, il coriandolo e il pepe nero. Mettete a bollire a fuoco lento per 10 minuti. Quando arriverà a bollitura, portate la fiamma al massimo, cuocete per altri 30 minuti e, una volta pronte, scolate le chiocciole risciacquandole per bene. Sgusciate ogni lumaca facendo attenzione a eliminare le interiora (la parte scura, a circa metà corpo, del mollusco) e infarinatele, utilizzando anche un setaccio per togliere eventuali grumi. Preparate un composto di pangrattato, pecorino, prezzemolo tritato, sale e pepe e, dopo aver immerso le lumache nell’uovo sbattuto, passatele nel composto. Quindi friggete tutto in olio di semi già caldo a 180°C fino a ottenere una doratura perfetta. Servite e condite con salse a piacere o con glassa di aceto.

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Street food

a Catania IstruzIonI per l’uso

di Anna Statello

La più nota espressione di cibo da strada etneo è la rosticceria. Disponibile a tutte le ore del giorno e della notte, per il catanese doc può essere anche colazione o cena

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e si volesse descrivere Catania sotto il profilo culinario, la parola chiave sarebbe street food. Anche se oggi questa definizione è diventata, per così dire, di tendenza, i catanesi godono già da tempo di una tradizione profondamente radicata e diversificata di cibi da potere consumare velocemente ed economicamente accessibili a tutti. Alcune pietanze sono ormai conosciute anche ben al di fuori dai confini regionali; altre, pur vantando una tradizione molto antica, sono rimaste di nicchia, solo per veri intenditori. Ognuna però merita menzione, soprattutto se si vuole tracciare una sorta di linea guida alla scoperta dello street food del capoluogo etneo. La più famosa forma di cibo da strada catanese è la rosticceria o tavola calda. Disponibile a tutte le ore del giorno e della notte, per il catanese doc può essere colazione o cena senza alcun problema. Si declina in una tale varietà di ricette, ognuna con le sue varianti naturalmente, che fa dei banconi dei bar catanesi un tripudio di profumi e sapori. Tra pizzette e cartocciate, siciliane e bombe, paté e bolognesi, c’è però un re indiscusso: l’arancino. Tralasciando per una volta l’eterno dibattito sul genere di questa celeberrima pietanza, a Catania esistono decine di varianti della stessa ricetta, che si differenziano per il ripieno. Tutte traggono origine però dall’unica primitiva forma, l’arancinu cco sugu, il cui ripieno è costituito da un pezzo di

carne (di vitello generalmente) cucinato a mo’ di spezzatino col sugo. Per ogni re che si rispetti c’è sempre una regina e l’arancino divide lo scettro della tavola calda con la cipollina, un succulento fagottino di sfoglia, ripieno di cipolle stufate, mozzarella e prosciutto. Un’altra importante categoria dello street food etneo è il cosiddetto arrusti e mangia, dedicato esclusivamente agli amanti della carne da grigliare. Anche in questo caso esiste un ingrediente principe: la carne di cavallo. In gustose polpette da mangiare insieme ad un panino o nella classica versione del filetto, la mangiata di carne di cavallo è una filosofia di vita catanese, tappa obbligata per tutti in qualsiasi stagione, persino durante la festività più importante: la festa di Sant’Agata. L’autentico arrusti e mangia si trova fondamentalmente concentrato nella zona di via Plebiscito, dove quelle che di giorno sono macellerie, la sera si trasformano in vere e proprie trattorie all’aperto: la carne è esposta in banchi refrigerati e si può scegliere direttamente cosa farsi grigliare al momento. Spesso ormai i macellai si sono organizzati anche con dei tavolini sul marciapiede e sulla strada, per chi vuole concedersi una piccola comodità. Sempre a proposito di carne, per i più temerari esiste una pietanza molto antica ma quasi in via d’estinzione al giorno d’oggi: il sangeli. Vicino alla Pescheria, sotto gli Archi della Marina è ancora possibile trovare qualche venditore di sangeli con i tipici pentoloni, i quarari, in cui si fa • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •


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cuocere il sangue di maiale insieme all’acqua, sale e pepe nero prima di versarlo nel budello del maiale e continuarne la cottura. Un’altra specialità un tempo diffusa ma ormai di nicchia, è la bisecca, un mix di frattaglie che spesso viene preparato dagli stessi venditori di sangeli. Per gli amanti del pesce, il punto di riferimento è sempre la Pescheria: nel cuore dell’antico mercato ittico della città, alle spalle di Piazza Duomo, ancora in molti (spesso anche i turisti) si avventurano nell’assaggio di ricci e frutti di mare crudi con una spruzzata di limone. Nella zona di Ognina invece è possibile il tipico l’assaggio del cosiddetto mauru cco sali: si tratta di un’insalata di alghe edibili condite semplicemente con sale e limone. Divenuto ormai una rarità, lo si trova solo tra aprile e giugno. Per chiudere il nostro tour della gastronomia da strada catanese, dopo tanta tradizione, ci apriamo alla modernità del cosiddetto panino del carrozzone o panino della camionetta. Da più di una trentina

di anni, a Catania è tutto un fiorire di camioncini ambulanti (spesso, laddove ci sia spazio, anche questi attrezzati con qualche tavolino), presso cui è possibile mangiare deliziosi panini ad un costo veramente alla portata di ogni tasca. Esistono due “basi” del panino, ossia porchetta e formaggio oppure würstel, cui si può aggiungere ogni sorta di condimento: dai funghi in salsa rosa all’insalata di pomodori e ricotta salata, dalle melanzane grigliate alle cipolle stufate, dall’insalata russa ai peperoni gratinati con la mollica e alle patate fritte, l’elenco è infinto e varia da un camioncino all’altro. Alla fine di questo breve excursus, bisogna però ricordare l’aspetto forse più interessante dello street food catanese: al di là della varietà di sapori, profumi e colori e del mix di tradizione e modernità, lanciarsi alla scoperta di questo mondo è un’esperienza socio-culturale, che offre la possibilità di capire un po’ più a fondo la complessità e la ricchezza di una città temprata dal fuoco dell’Etna.

Panino con polpetta di cavallo Ingredienti • 600 gr di carne di cavallo tritata • 4 uova • 70 gr di parmigiano • 50 gr circa di pangrattato • 1 limone • prezzemolo, foglie di limone • sale e pepe q.b. Procedimento Sbattete le uova con sale e pepe e quindi aggiungete la carne trita di cavallo, impastandola bene con le mani; unite a tale composto il prezzemolo tritato, il parmigiano e la scorza di limone grattugiata e, in ultimo, il pangrattato: aggiungetelo poco alla volta per evitare che l’impasto diventi troppo secco. Aggiustate di sale e pepe. Per la cottura, rigorosamente sul barbecue, è possibile utilizzare anche le foglie di limone: in questo caso la polpetta va adagiata sulla parte interna di due foglie e va modellata sulle loro dimensioni. Se invece non volete perdere l’aroma della carne di cavallo, modellate delle polpette rotonde e schiacciatele fino a renderle piatte, poi grigliate. Una volta pronte, le polpette vanno servite dentro un panino accompagnate dal salamaricchiu, ossia una miscela di olio, sale, pepe, prezzemolo e succo di limone.

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Mucco o nunnata il fascino del proibito di Martina Comito

Per i siciliani dal palato fine il novellame di sarda, alice o luvaro è ormai solo un ricordo. La pesca è proibita già da qualche anno e sui banchi dei pescivendoli si vede sempre meno di frequente

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ualche tempo fa tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera un cibo dal sottile profumo di mare riempiva il nostro animo e le nostre cucine, trasportandoci poi col suo gusto unico tra le onde del mar Mediterraneo. Stiamo parlando dell’intenso e impareggiabile sapore della sicula nunnata che in alcune parti dell’Isola chiamano anche muccu. Per chi non capisce il siciliano lo traduciamo in neonata o bianchetti, così come questa specialità marinara viene generalmente chiamata nel Nord d’Italia. È il novellame, l’insieme dei pesci piccolissimi, appena nati, di diverse specie. La neonata, chiamata anche “l’oro bianco del mare” visto il suo colore splendente che ricorda il prezioso metallo, è un pesce azzurro di taglia piccolissima dall’aspetto uniforme e una consistenza gelatinosa con dei piccoli punti neri che sono i riconoscibilissimi occhi. Si pescava un tempo nel mar Mediterraneo e faceva parte del patrimonio delle tradizioni culinarie e gastronomiche di molte regioni italiane con in testa la Sicilia, la Calabria e la Liguria. Con il generico termine neonata ci si riferisce ad un’ampia una varietà di pesce azzurro: sarde, alici, alaccia, luvari e poi c’è il cicirieddu il Gymnammodytes cicerellus. Da non confondere con il

maccherronello: un misto di pesciolini un po’ più adulti rispetto alla neonata in cui si trovano alici, sarde, triglie e luvari e tanto altro ancora. La cattura della neonata avviene con un attrezzo speciale, il cosiddetto tartarone, una rete a circuizione simile alla sciabica, formata da due lunghi lati ed un piccolo sacco a maglie molto fitte (1-2 mm). Negli ultimi anni tanti si è tanto dibattuto sulla questione dell’eccessiva cattura della neonata. Una cosa è certa: l’impoverimento di alcune specie, dovuto alla cattura eccessiva, rischia di contribuire alla morte del Mare Nostrum. E siccome il Mediterraneo è un mare condiviso, sulla materia della pesca interviene l’Unione Europea che produce regolamenti ovvero leggi a tutti gli effetti che valgono per tutti i Paesi membri. Ecco che per frenare il fenomeno, inizialmente, la pesca del novellame venne consentita solo in periodi limitati. Tra il 1989 e il 1994, l’Italia, in linea con le disposizioni comunitarie, emanò alcuni decreti che regolamentavano la pesca sia a livello commerciale che professionale e che permettevano una sola raccolta annuale che partiva, per la neonata dal 1º dicembre al 30 aprile per un periodo non superiore ai due mesi consecutivi,

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Polpette di neonata Ingredienti per 4 persone • 500 gr di neonata • un uovo • 2 cucchiai di farina 00 • sale • un cucchiaio di prezzemolo tritato • olio per friggere Procedimento Mettete la neonata in una ciotola, unite l’uovo battuto e la farina, amalgamate per bene. Aggiungete il prezzemolo tritato e un pizzico di sale. In una padella scaldate l’olio. Prelevate il composto di neonata con un cucchiaio e versatelo nell’olio caldo, facendolo scivolare semplicemente dal cucchiaio sempre verso il centro, in questo modo avrete polpette di neonata tutte della stessa dimensione.

per la pesca della sardina invece un periodo tra il 15 gennaio e il 15 marzo. La regola, benché restrittiva, non è bastata a limitare l’impoverimento delle acque mediterranee. Ecco perché oggi, e già da circa dieci anni, in Italia vige il divieto assoluto di pesca del novellame. In Sicilia rimane possibile, invece, la pesca della sardina per 60 giorni a decorrere dal 25 di gennaio. Per questo motivo non ci resta che ricordare e parlare di questa prelibatezza mediterranea riferendoci al passato. E sperando che un ulteriore tentativo – dopo quello sperimentato dall’Italia nel 2010 in cui venne presentato un piano di gestione che però la Commissione Europea non approvò – possa avere miglior fortuna. Una costa della Sicilia molto nota a cui un tempo si faceva riferimento per la qualità di questa prelibatezza è la marineria di Marinella di Selinunte. Qui, quando era ancora consentita, durante il periodo della neonata erano in molti a trasferirsi lungo la costa per catturare il novellame di sarda (la specie più gustosa) da rivendere poi nel capoluogo siciliano. Ancora oggi molti pescatori non si danno per sconfitti. O per passione o semplicemente per interesse commerciale, non tutti sembrano rispettare le regole per questo tipo di pesca. Ma nonostante il divieto assoluto di pesca, la domanda rimane elevata: sarà il

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fascino del proibito o semplicemente la voglia di non dimenticare un sapore d’altri tempi? Quale che sia il motivo, sta di fatto che alcuni commercianti senza scrupoli ingannano i consumatori proponendo per “bianchetti” una strana specie di dubbia provenienza simile alla neonata, senza che ne sia garantito un controllo igienico-sanitario. Si tratta di “pesce ghiaccio” cinese – un pesce che rimane per tutta la sua vita della taglia della nostra neonata – venduto come bianchetto, ma che rispetto a quest’ultimo non ha nulla da spartire ed è sicuramente di minor valore commerciale. Benché rimasta, dunque, un semplice ricordo i palati dei golosi impenitenti legati alla tradizione gastronomica siciliana, non si può fare a meno di citare e descrivere alcuni modi in cui veniva preparata. Ricordando anzitutto che differivano dal luogo. C’era, infatti, chi la preferiva semplicemente cruda condita con limone, sale, pepe e olio extravergine d’oliva. Poi c’era la classica ricetta sicula, le purpette di mucco o di nunnata o purpette di nunnata schiacciate (al Nord le chiamano frittelle) in cui i pesciolini arriccchiti di uova, farina e prezzemolo venivano fritte nell’olio bollente. E per finire questo amarcord gastronomico, un pensiero non può non andare agli spaghetti alla nunnata, un primo molto semplice e dal sapore delicato.

Spaghetti con neonata Ingredienti per 4 persone • 400 gr di spaghetti • 300 gr di neonata • 3 pomodori • ½ bicchiere di vino bianco • 2 spicchi d'aglio • sale, pepe • olio extravergine di oliva • un mazzetto di prezzemolo Procedimento Per prima cosa sbollentate i pomodori, spellateli e togliete i semi presenti all'interno di essi. Successivamente soffriggeteli in padella con due spicchi d'aglio. Aggiungete la neonata con delicatezza e fate cuocere il tutto per un minuto circa. Accompagnate la cottura col vino e lasciate evaporare a fuoco spento. Nel frattempo cuocete gli spaghetti al dente. Scolateli, aggiungete un mestolo dell’acqua di cottura degli spaghetti al condimento, sale e pepe, quindi conditeli delicatamente con un cucchiaio di olio crudo e la salsa di neonata. Per finire spolverizzate con abbondante prezzemolo tritato.

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Preziosissimo SALE di Alessia Boschetti

La storia di un prodotto talmente prezioso tanto da dare il nome perfino alla paga dei lavoratori. Nell’antica Roma, il compenso del soldato era composto anche da un pugno di sale

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’è da rimanerci di sale a guardare cosa ha significato questo minerale nella storia dell’uomo. E non perché da sempre hanno saputo cavarsela meglio quelli che avevano un po’ di sale in zucca, ma perché, per il sale sono scoppiate guerre, rivoluzioni e risse più feroci di quelle combattute per l’oro. Del resto “nulla è più necessario del sale e dell’oro”, diceva nel V secolo d.C. Isidoro di Siviglia, riprendendo Plinio e Plutarco che avevano definito il sale come il più nobile dei cibi, il condimento per eccellenza. Il sale è sempre stato un bene talmente prezioso che ha dato il nome alla paga dei lavoratori: il salario. Così si chiamava infatti nell’antica Roma la paga minima del soldato, composta, tra l’altro, da un pugno di sale. Sei milioni di anni fa la natura compì un prodigio. Il Mediterraneo rimase isolato dall’Atlantico e della Sicilia erano emersi solo i Peloritani, i Nebrodi, i Sicani, le Madonie, i monti di Palermo e Trapani e l’altopiano ibleo. L’area circondata da queste catene montuose si presentava come una vasta laguna salmastra nella quale gli apporti d’acqua, marina e

piovana, erano inferiori rispetto a quanto veniva evaporato dall’azione del sole e del vento. Ciò comportò un aumento della concentrazione dei sali fino a provocarne la precipitazione: cominciarono a sedimentare, strato su strato, i sali disciolti nell’acqua del mare. I primi a precipitare furono i sali meno solubili, carbonati e solfati. Sopra questo letto di calcari e gessi si depositarono cristalli e solfati di sodio, magnesio e potassio che formarono i giacimenti alcalini, tra cui il salgemma. IL SALGEMMA Il sale di rocca, o salgemma, si presenta in cristalli, aggregati granulari o fibrosi e in stalattiti. Viene ottenuto per estrazione nei giacimenti di cloruro di sodio allo stato solido, in grotte che, generalmente, sono ciò che resta di antichi mari. Il procedimento di estrazione del sale è molto laborioso, occorrono scavi e molti più macchinari rispetto al processo di evaporazione del sale marino che avviene per lo più da solo durante i mesi estivi, inoltre il salgemma viene estratto in grossi pezzi e va quindi ulteriormente sminuzzato e macinato per essere

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reso commercializzabile. In Sicilia esistono numerosi giacimenti di salgemma tra cui i più famosi sono a Petralia, Realmonte e Racalmuto, nota da secoli come il “paese del sale” e ribattezzata Regalpetra da Leonardo Sciascia. I tre giacimenti di salgemma siciliani sono gestiti dall’Italkali, il maggiore produttore del sale in Sicilia, che garantisce ai consumatori dei prodotti alimentari di altissima qualità: «portiamo sulla tavola il sale nella sua integra natura, ricco naturalmente di magnesio e potassio e non sottoposto a nessun processo chimico di raffinazione o depurazione», spiegano i vertici dell’azienda. IL SALE MARINO Il sale ha fatto anche la storia di Marsala, del suo Stagnone e dell’Isola di Mozia dove i Fenici erano attratti certamente dal gran numero di murici, le conchiglie da cui estraevano la porpora, ma anche da una situazione ambientale unica: una laguna naturale di acque basse e protette con un’estate lunghissima e caldissima che ne rendeva facile la “coltivazione”. Chi va oggi sull’Isola Longa è colpito dall’abbandono di antiche ville affrescate, mulini, magazzini, ormai ridotti a rovine saccheggiate. L’antico lavoro dei salinai, portatori di una cultura antica, è in pericolo. Ma qualche mulino, seppure a motore, funziona ancora. Ancora ci sono grandi cumuli di cristalli di sale, gli ariuni, coperti tegole di terracotta, le ciaramire. Nella zona dove si insediarono i Fenici, oggi insistono due aree protette, la riserva naturale orientata delle saline di Trapani e Paceco e le saline dello Stagnone di Marsala, che ospitano un suggestivo scenario di acqua, mulini a vento e piramidi bianche che diventano rosa al calar del sole e costituiscono una zona umida luogo ideale per molte specie di uccelli migratori e piante particolari. In quella che è ormai la nota “via del sale” viene

prodotto il sale con antichi procedimenti artigianali. Il sale di queste saline è un presidio Slow Food, è inserito nei prodotti agroalimentari tradizionali siciliani e, qualora possieda i requisiti richiesti e venga prodotto secondo il disciplinare, può vantare la Igp, l’indicazione geografica protetta riconosciuta dalla Unione europea. Il sale marino è un sale bianco, con cristalli consistenti, prodotto tramite un sistema caratteristico che sfrutta la presenza delle acque limpidissime della riserva delle Isole Egadi. Il sale marino di Trapani Igp, si ottiene semplicemente lasciando evaporare l’acqua marina all’interno di grandi vasche sistemate sulla costa, le saline, dove il sale si produce con pochi elementi essenziali: l’acqua del mare, il sole e il vento. Per ottenere il sale marino, l’acqua del mare, grazie a pompe idrovore o ai mulini a vento, viene fatta convogliare in vasche impermeabilizzate dette “fridde”, per passare poi nelle vasche intermedie “di coltivo” e infine per arrivare alle vasche “evaporanti” o “caure” dove per effetto dell’evaporazione solare, o per evaporazione indotta con energia elettrica, l’acqua a mano a mano scompare per lasciare solo la salamoia, una pappa semisolida con una concentrazione di sale molto alta. A questo punto la salamoia viene trasferita in altre vasche chiamate “decalcificanti” dove si eliminano i sali di calcio, i sali meno solubili, i carbonati e i metalli pesanti, infine in vasche “cristallizzanti” o “salanti” o “caseddari” nelle quali il cloruro di sodio si deposita nel fondo. Il cloruro di sodio, decalcificato e cristallizzato, viene quindi raffinato. Quello che si forma in superficie ha cristalli molto grossi e risulta più pregiato, al contrario di quello presente sui bordi che è generalmente meno pulito e più fino. Recente è la richiesta del “fior di sale” ovvero del sale che si genera sulla superficie dell’acqua delle vasche salanti che viene raccolto tramite retini: i suoi cristalli sono morbidi

Sgombri al sale Ingredienti per 4 persone • 4 sgombri (oppure 2 se molto grandi) • fior di sale q.b. • salsa di soia giapponese q.b. • olio d’oliva extra vergine q.b. Procedimento Sfilettate gli sgombri ed eliminate tutte le lische visibili. Con un coltello affilato fate delle incisioni incrociate sulla pelle dei filetti. Fate scaldare pochissimo olio in una padella antiaderente e cuocetevi i filetti a fuoco vivo sul lato della pelle. Dopo 2/3 minuti girateli e cuoceteli ancora un minuto. Disporre i filetti su piatti individuali e condire con poco fior di sale e una goccia di salsa di soia. Serviteli con verdure a scelta oppure riso bianco o pilaf.

Gamberi rossi al sale Ingredienti per 4 persone • 12 gamberi rossi freschissimi • 1,5 kg di sale grosso • 2 albumi • erbe aromatiche Per la salsa aromatica: • olio extravergine di oliva q.b. • la scorza di un limone non trattato • timo, maggiorana, freschi e sale Procedimento Preparate prima la salsa schiacciando nel mortaio la scorza grattugiata di mezzo limone e mezzo cucchiaio di foglioline di timo e maggiorana, quindi aggiungete il sale e 3-4 cucchiai d’olio extravergine di oliva e lasciate riposare. Sciacquate rapidamente i gamberi e asciugateli con carta cucina. Eliminate il budellino scuro con un coltellino appuntito. Mettete il sale in una ciotola con foglioline di rosmarino tritate, il timo e la maggiorana. Unite gli albumi e mescolate bene. In una pirofila di vetro o ceramica preparate un letto di sale alto un po’ più di un centimetro su cui adagerete i gamberoni uno affiancato all’altro. Coprite con il resto del sale premendo ancora. Cuocete in forno a 200°C per non più di 15 minuti.

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SALE ROSA DELL’HIMALAYA Il suo colore è dovuto all’ossido di ferro. È un sale fossile dalle origine molto antiche: si è formato circa 250 milioni di anni fa grazie al prosciugarsi di mari e laghi durante la fase di costruzione della catena dell’Himalaya. Il suo sapore è equilibrato e tende a preservare l’aroma degli alimenti a cui viene aggiunto. Il sale rosa è considerato più salutare perché ricco di oligoelementi; è puro perché è depositato milioni di anni fa quando l’inquinamento dei mari non c’era ed è facilmente assimilabile dall’organismo grazie alla struttura dei cristalli. SALE GRIGIO BRETONE Viene è prodotto a Sud della Bretagna e il suo colore grigio è dovuto all’argilla che contiene. È un sale marino dell’Atlantico, molto ricco di magnesio e di tanti altri sali minerali e più povero di sodio rispetto al sale raffinato. La caratteristica unica di questo sale è il lieve retrogusto di salsedine che lo rende adatto a tutti i piatti a base di pesce, carne bianca e verdure lesse. SALE ROSSO DELLE HAWAII Sale marino grosso da tavola di provenienza oceanica e lavorato con argilla vulcanica delle Hawaii chiamata alea. Per la sua intensa e vivace sapidità, è ideale in abbinamento con arrosti, carni e pesce alla griglia. SALE BLU DI PERSIA Salgemma naturale molto raro che viene estratto dalle miniere di sale dell’Iran. La sua colorazione dipende dalla presenza della silvite. Presenta un retrogusto speziato. SALE AFFUMICATO DELLA DANIMARCA Questo sale viene affumicato con legno di quercia, ginepro, faggio, olmo rosso, e ciliegio. Il suo gusto è quindi più deciso ed è ottimo per condire piatti a base di carne e verdure.

al palato e viene apprezzato per la guarnizione dei piatti o per insaporire le preparazioni più ricercate. Il sale marino contiene un’elevata percentuale di magnesio non eliminabile con i lavaggi: questa caratteristica lo rende inadatto per gli usi industriali (per cui è preferito il più economico salgemma), ma facilita la penetrazione del cloruro di sodio negli alimenti, permettendo l’impiego di meno sale in cucina e quindi preparazioni più sane anche per chi soffre di ipertensione e problemi cardiovascolari.

SALE NERO DI CIPRO Viene raccolto nelle zone costiere dell’isola di Cipro. Questo sale viene arricchito con carbone vegetale ottenuto dalla combustione delle cortecce di legni dolci, quali tiglio, betulla e salice che gli conferiscono il tipico colore. La sostanza ha un forte potere assorbente che viene sfruttato nella cura di malattie intestinali, intossicazioni e avvelenamento. I parametri chimici di riferimento per il sale marino di Trapani unità di misura

sale marino di trapani

Residuo insolubile

%

< 0,2

Umidità residua

%

<8

Cloruro di sodio (su sostanza secca)

%

> 97,0

Magnesio

%

< 0,70

Potassio

%

< 0,30

Calcio

%

< 0,40

Solfati

%

< 1,5

Ferro

Mg/Kg (ppm)

< 20

Piombo

Mg/Kg (ppm)

< 1,5

Zinco

Mg/Kg (ppm)

<1

Rame

Mg/Kg (ppm)

<1

Cromo

Mg/Kg (ppm)

< 0,15

Mercurio

Mg/Kg (ppm)

< 0,05

Cadmio

Mg/Kg (ppm)

< 0,15

Arsenico

Mg/Kg (ppm)

< 0,1

Iodio

Mg/Kg (ppm)

> 0,70

parametri

A livello culinario non ci sono grandi differenze di sapore tra il sale marino e il sale di rocca o salgemma, dipende dai gusti personali. IL SALE IODATO La differenza sostanziale tra questi due tipi di sale sta nel fattore iodio. Il salgemma è cloruro di sodio allo stato puro, tanto che spesso non ha neanche bisogno di essere raffinato. Il sale marino, invece, è sì dotato naturalmente di iodio, un ele-

mento chimico presente nell’acqua di mare che contribuisce a favorire il metabolismo umano e aiuta il corretto funzionamento della tiroide, ma spesso, durante il processo di raffinazione del sale marino viene eliminato insieme alle impurità, cosicché il sale immesso in commercio risulta impoverito di questo importante elemento. Le patologie tiroidee sembrano essere in aumento anche in Sicilia perfino nelle zone costiere (dove l’aria è ricca di iodio) ed è per questo motivo che è ormai diffusa la presenza sugli scaffali dei supermercati di sale (marino o salgemma) a cui è stato aggiunto lo iodio. GLI ALTRI SALI DEL MONDO Soprattutto negli ultimi anni l’offerta di sale sta cambiando anche per qualità e ci si trova di fronte ad un sempre maggiore differenziazione di sali: il sale comune italiano e il sale marino bianco sono stati affiancati dai diversi sali del mondo, il sale rosa dell’Himalaya, il sale grigio bretone, il sale nero hawaiano, il sale affumicato della Danimarca e così via, dando origine ad un mercato del sale impensabile fino al decennio scorso ed a possibilità ed infiniti abbinamenti gastronomici.

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Orto Primavera imp_10 27/03/17 10:57 Pagina 26

a cura di Alessandro Iannelli

L’orto e la frutta zio autunno in terreno sciolto a pH fra 5,5 e 6,5, in pieno sole, con innaffiature regolari. La produzione avviene a partire dal secondo anno. Si consigliano le varietà rifiorenti, che fruttificano più volte fra primavera e autunno. Per evitare che la fragola si sporchi sul terreno sarà bene circondare la base della piantina con paglia dopo la fioritura, il che renderà inoltre impervio il cammino verso il frutto di formiche e lumache.

CAROTE Erano conosciute ai Romani, che spesso le confondevano con una radice simile, la pastinaca, di colore biancastro e meno adatta al consumo crudo. Il medico greco Galeno testimonia un largo uso di tipo medicinale. In passato erano diffuse carote di diversi colori con predominanza del viola: quella arancione fu selezionata nel secolo XVII in Olanda per omaggiare gli Orange e si diffuse per il sapore più dolce. La comune carota arancione è ricca di vitamina A (noti i suoi benefici per la vista) e C, quella viola (che si sta provando a reintrodurre negli ultimi anni) abbonda in antocianine. Il clima siciliano permette una doppia coltivazione: semina ad inizio primavera per raccogliere ad inizio autunno; si può altresì sfruttare l’inverno mite per una rac-

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colta primaverile, come nel caso della carota novella Igp di Ispica, dal profumo molto intenso. Si possono preparare sesti di 30 centimetri per 15. È fondamentale che il terreno non sia troppo duro e sia libero da sassolini o altri ostacoli, per cui sarà utile preventivamente scavare 40 centimetri in profondità e mescolare se necessario un po’ di sabbia al terreno, aggiungendo concime a lento rilascio. Le irrigazioni dovranno essere costanti quando non piove (fino a due volte al giorno d’estate), evitando eccessi. A seconda della varietà, trascorreranno 4-6 mesi prima della raccolta. FRAGOLA I Romani la chiamarono fragum: la radice è la stessa del verbo fragrare, “profumare”. La fragola nota a loro e ancora fino a metà ‘700 era però la fragolina di bosco (Fragaria vesca). La fragaria × ananassa, quella più comune oggi, fu il risultato dell’incrocio di due varietà americane. Il frutto è ricco di flavonoidi e di vitamina C, nonché di potassio e magnesio. In Sicilia, dove prevale la varietà precoce Florida Fortuna, si hanno coltivazioni soprattutto nella zona orientale (da ricordare la sagra di Siracusa in aprile), si segnala inoltre la coltivazione bio a Marsala. Per il suo sapore dolce e al tempo stesso leggermente aspro, le fragole si sposano bene con i formaggi a pasta molle. I semi andranno piantati ad ini-

NESPOLE Con il termine “nespola” si possono indicare due diverse specie: la nespola germanica (Mespilus germanica), a maturazione autunnale; e la nespola del Giappone (Eriobotrya japonica) di cui ci occupiamo qui, di gran lunga la più diffusa in Italia, importata in Europa dal Giappone nel XVIII secolo. Largamente coltivata in Sicilia, matura tra aprile e giugno: si segnala in particolare il comune di Trabia (Palermo), dove a maggio si tiene una sagra e dove vengono coltivate la varietà

Nespola Rossa, zuccherina e di colore intenso, e il cosiddetto Nespolone, di pezzatura grande. Ricche di vitamina A e C, le nespole vantano un buon contenuto di vitamine del gruppo B e proprietà diuretiche. I grandi noccioli sono tossici ma possono essere usati in quantità contenuta per la preparazione di un ottimo liquore, il nespolino, di facile ma lunga preparazione. Le varietà rustiche sono più resistenti alle malattie ma presentano frutti di pezza• MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •


Orto Primavera imp_10 27/03/17 10:57 Pagina 27

di primavera tura piccola, mentre le varietà più pregiate vanno seguite in quanto tendono a soffrire di ticchiolatura; inoltre i venti, sia quelli troppo freddi che lo scirocco, possono causare cascole. Si suggerisce quindi di evitare posizioni troppo esposte ai venti e di praticare trattamenti rameici prima della fioritura, nonché di potare parti eventualmente già intaccate dal fungo. RUCOLA Originaria del bacino del Mediterraneo, è una pianta versatile in cucina e negli ultimi anni ha visto crescere notevolmente l’apprezzamento per il suo sapore leggermente piccante. La rucola (Eruca sativa) vanta proprietà diuretiche e può rivelarsi un prezioso alleato per la salute di ossa e muscoli dato il buon contenuto di calcio e magnesio e per quella degli occhi in virtù della vitamina A; contiene inoltre sul-

Cheesecake alle fragole in crema siciliana

Procedimento Tritate i biscotti e aggiungete il burro dopo averlo fatto sciogliere in un pentolino, quindi amalgamate e versate nella forma (dopo aver steso la carta forno) e pressate per bene. Scaldate la panna per 3-4 minuti a fuoco medio, aggiungete 3 fogli di gelatina e mescolate di tanto in tanto finché la gelatina si sia sciolta. Quindi incorporate il formaggio molle con lo yogurt e 130 grammi di zucchero e versate poi il composto nel pentolino della panna, mescolate fino ad amalgamare il tutto. Aggiungete infine la ricotta, continuando a mescolare fino a che il composto sarà amalgamato, indi versate • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •

forafano, dalle proprietà antitumorali e antibatteriche. Vi sono coltivazioni, anche bio, nella provincia di Ragusa. Di sapore affine ma aspetto diverso e appartenente ad altra specie è la cosidetta rucola selvatica (Diplotaxis erucoides). Semina a partire da marzo fino a fine estate, in pieno sole, con irrigazioni costanti ma evitando accuratamente ristagni. Mantenere 30 centimetri in larghezza e lunghezza tra seme e seme. La pianta si sviluppa ed è pronta per il consumo nello spazio di appena 6 settimane circa.

Ingredienti per una forma di 24 cm • 250 gr di fragole • 200 gr di biscotti secchi a scelta • 100 gr di burro • 400 gr di formaggio spalmabile (tipo Philadelphia) • 200 gr di yogurt alle fragole • 200 gr di ricotta • 150 ml di panna • 5 fogli di gelatina in fogli • 200 gr di zucchero • 20-25 gr di pistacchio o mandorla in granella nella forma e mettete in frigo per 4 ore. A questo punto riducete a pezzettini 200 grammi di fragole e mettetele in una tazza, mescolandole con il resto dello zucchero e 200 ml d'acqua, aggiungete gli altri due fogli di gelatina e mescolate per bene. Quindi mettete il composto a cuocere a fuoco medio per 3-4 minuti, mescolando spesso. Spegnete il fuoco, aspettate 15 minuti circa, passate a mixer e versate nella forma. Mettete in frigo e aspettate un'ora e mezza, indi guarnite con il resto delle fragole tagliate a fettine: la torta è ora pronta per essere servita. A piacimento, potete aggiungere in superficie granellini di pistacchio o mandorla.

Nespolino Una raccomandazione preliminare: come i noccioli di pesche e albicocche, anche quelli delle nespole sono tossici se consumati impropriamente, per cui si sconsiglia di superare le dosi indicate. Il sapore del nespolino è simile a quello dell'amaretto, il colore varierà a seconda della cultivàr utilizzata (dal giallo pallido all'arancione), la preparazione è semplice ma richiede del tempo (3 mesi circa). Ingredienti per 1,5 litro circa • 200 gr di noccioli di nespolo • 500 ml di alcool 90°-95° • 500 ml di acqua • 500 gr di zucchero Procedimento Lasciate essiccare al sole per 3-4 giorni i noccioli, quindi rimuovete la buccia marrone e pestateli grossolanamente in un mortaio (o spezzateli ad uno ad uno in almeno 3-4 parti), quindi immergeteli nell'alcool in un contenitore a chiusura ermetica da riporre in luogo riparato dal sole, dove dovrà rimanere per sei settimane. Ricordatevi ogni giorno di agitarlo una o due volte per alcuni secondi. Trascorso questo periodo, mettete a bollire l'acqua con lo zucchero (a fuoco medio-basso, procedete per 6-7 minuti dopo aver raggiunto il punto di bollitura) mescolando di tanto in tanto e versate poi in un contenitore (sempre a chiusura ermetica) della capacità di 2 litri; dopo mezz'ora (il tempo necessario perché lo sciroppo si raffreddi) aggiungete l'alcool filtrato con un colino a maglie strette, chiudete il contenitore e riponetelo in luogo fresco e asciutto, dove il nespolino dovrà riposare altri 40-45 giorni prima di poter essere consumato.

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Rivoluzione Orti imp_11 27/03/17 10:57 Pagina 28

la rivoluzione degli

orti urbani di Maria Grazia Sclafani

L’edizione più moderna degli orti di guerra oppure la versione italiana dei “victory gardens” a Palermo è diventata un vero e proprio boom

I

nsalate, pomodori, carote, cetrioli, zucchine e patate coltivati in proprio. Anche chi non dispone di un cortile o di un giardino privato potrà portare sulla propria tavola frutta e verdura “a km sottozero”. Sono le promesse che stanno alla base del boom degli orti urbani in Sicilia, riedizione aggiornata e perfezionata degli “orti di guerra” fioriti nelle grandi città durante il Ventennio per far sì che, in osservanza all’imperativo del Duce, «non (ci fosse) un lembo di terreno incolto». O, se preferite, possiamo paragonarli ai “victory gardens” degli Stati Uniti e del Regno Unito, dove nel 1945 venivano coltivati 1,5 milioni di aree verdi sopperendo al 10% della richiesta di cibo. Quei tempi sono lontani. Ed oggi gli orti sono la più facile e immediata risposta alla domanda di verde, al desiderio di mettersi alla prova e di stare insieme. E in molti casi alla volontà di restituire ruolo e dignità ad aree altrimenti votate al degrado. L’ESPERIENZA DEL CODIFAS A Palermo tutto ha inizio nel dicembre 2013 nell’orto condiviso di via Galletti, in fondo a via Messina Marine, quasi al confine con Villabate. C’è chi ha piantato l’introvabile pomodoro “cuore di bue”, polposo e saporito, chi si è cimentato nella coltivazione di zucchine centenarie, chi ha

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riscoperto la bellezza di cultivar di nicchia come il fagiolino “spinnagadduzze”, sottile e amarognolo, che si coltiva solo nell’area di Misilmeri. Non mancano le curiosità: una ragazza, trascinata dalle ultime strenne dell’alimentazione, sta provando la Stevia, una pianta con un potere dolcificante talmente elevato da avere sollecitato l’interesse produttivo di un’industria dietetica (e usata addirittura dalla Coca-Cola). «La terra ha risposto bene», spiega dice Ambrogio Vario, presidente del Codifas, il consorzio di agricoltori che gestisce l’orto. E continua: «Noi non usiamo fitofarmaci e concimi chimici e questo ci ha permesso di realizzare un accordo con l’Istituto zooprofilattico e gli assessorati comunali alla scuola e al verde, per realizzare progetti comuni. Le nostre produzioni rispettano un protocollo bioetico e sono un modello che può essere replicato altrove». Costa trenta euro al mese l’affitto di uno spazio di cento metri quadri. Gli orti devono essere coltivati direttamente da-

tratta di un ettaro di terreno compreso fra il velodromo Borsellino e il Villaggio Ruffini nei pressi del maneggio di villa Pensabene. Era un terreno abbandonato, ai margini di un uliveto, impiegato da privati fino ad alcuni anni fa per la produzione di fiori.

settimana del mese verranno proposti concerti. Infine, saranno realizzati eventi per architetti, musicisti e designer intorno alla “cubola” custodita nel parco, mentre studenti dell’ateneo di Palermo e inoccupati del quartiere continueranno a partecipare al laboratorio per la riqualificazione dell’intero parco.

L’ORTO DI VILLA NAPOLI

gli assegnatari o dai loro familiari, senza manodopera retribuita. Ogni lotto è dotato di un punto acqua per l’irrigazione e gli assegnatari potranno acquistare a prezzi agevolati piantine, bulbi, sementi, fertilizzanti e antiparassitari naturali. Negli orti non è consentito rimanere nelle ore notturne, tenere animali da compagnia o da allevamento e accendere fuochi o braci. L’orto fino a sei mesi prima era un ex agrumeto ricoperto di rovi. Ora ci sono quaranta agricoltori in erba che vengono qui anche solo per distrarsi. Si siedono sui sedili realizzati con pallet riciclati, all’ombra di un ombrellone che poggia su una bobina di cavi telefonici e parlano amichevolmente. L’onda verde non si ferma e dopo appena un anno Codifas raddoppia. Dopo l’orto in via Galletti, il Consorzio per la difesa agricoltura siciliana ha attivato un altro orto, stavolta a nord della città. Si • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •

Entusiasmo, energia e tanta voglia di innamorarsi di un “pezzo di cultura” da troppi anni abbandonato. È partito così nel 2015 il laboratorio “L’orto a Villa di Napoli lo faccio io”, che coinvolge gli studenti del convitto nazionale “Giovanni Falcone”. Il laboratorio ha l’obiettivo di far conoscere e amare ai giovani, l’antico giardino di Villa di Napoli. Nell’area verde limitrofa al monumento, situato nel quartiere Cuba-Calatafimi, è stato realizzato un orto didattico, curato interamente dalle scuole di ogni ordine e grado che ne hanno fatto richiesta. I ragazzi, trecento in tutto, hanno piantato pomodori, erbe aromatiche e cipolle, sistemato l’impianto di irrigazione e tolto le pietre dal terreno, portato nello spazio verde gli arredi, la segnaletica e la cartellonistica, realizzate con materiali da riciclo. Interessante il lavoro fatto dai ragazzi sui social: alcuni studenti sono stati delegati a creare dei profili della villa su Facebook e Instagram (Orto didattico// Villa Napoli su Facebook, Orto di Villa Napoli su Instagram). Si possono trovare le foto di tutti gli step che porteranno alla rinascita del giardino: sono gli scatti realizzati dagli stessi studenti. Del giardino romantico, invece, si occuperanno questa estate gli universitari di atenei stranieri che parteciperanno alla settimana di Summer School, un laboratorio d’arte per pensare e realizzare nuovi arredi in sintonia con le caratteristiche architettoniche del luogo. Sarà anche recuperata la serra e durante tutti i fine

CULTURA&COLTURA Sempre nel 2015 un altro orto urbano è sbocciato nel fondo Badia, nel quartiere Uditore (in via Badia, 48). Merito dell’associazione di promozione sociale “Cultura&Coltura”. In passato il parco di fondo Badia era l’immenso giardino delle monache che qui abitavano: adesso il grande spazio verde di proprietà dei Padri Redentori è stato restaurato e portato allo splendore di un tempo coi suoi aranci e gli alberi di mandarino che offrono ai visitatori un vero e proprio tuffo nella natura con attività culturali e sociali. L’iniziativa è stata promossa dal Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali dell’Università di Palermo «in nome della sostenibilità e dell’aggregazione sociale». L’attività dell’orto è solo la prima di una serie volte a rendere il parco un vero e proprio centro per attività sociali culturali e sportive legate al benessere e alla salute del cittadino. Presto infatti sarà inaugurato uno spazio dedicato all’allenamento a corpo libero in mezzo alla natura seguito da esperti in discipline come calisthenics o yoga. In progetto anche attività per gli amici a quattro zampe e un centro estivo per bambini. Il motto dell’attività è una frase di Gandhi: «Dimenticare come zappare la terra e curare il terreno significa dimenticare se stessi». In Sicilia, oggi, questa frase suona come l’inizio di una rivoluzione. Che ci porta sempre più vicini alla nostra terra e alle nostre radici. Senza ricorrere necessariamente a metafore.

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prodotti a km zero al mercato del contadino di Maria Grazia Sclafani

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a rinascita del rapporto città-campagna si sta facendo strada anche nella vita quotidiana e sta conquistando un posto sempre più importante nel rituale della spesa di ogni giorno. Protagonisti del fenomeno sono i mercati e le piccole botteghe che garantiscono la vendita diretta dal produttore al consumatore. Da qualche anno assistiamo a un vero e proprio boom dei mercati del contadino. I farmer’s market (questo il corrispondente nome in inglese) sono nati negli Stati Uniti nel 1943. Attualmente, negli Usa, se ne contano più di 3.000 e il valore delle vendite ha superato i 550 milioni di dollari l’anno. In Italia i piccoli mercati di vendita diretta degli agricoltori esistono da molto tempo, ma è stato grazie al Decreto del 1 gennaio 2008, emanato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, che per la prima volta sono stati regolamentati. Secondo tale normativa, vengono definiti “mercati del contadino” solo quelli nei quali gli agricoltori (e solo loro) vendono direttamente le proprie produzioni al consumatore. Gli alimenti presenti devono essere solo quelli prodotti dalle aziende che vi partecipano e ovviamente devono essere legati al territorio e alla stagione di riferimento. In realtà le aziende agricole hanno sempre avuto il diritto di vendere direttamente i loro prodotti all’interno dei mercati del comune di appartenenza. La novità è che nei farmer’s market sono presenti non solo le aziende e i produttori del comune, ma quelli di tutta la regione. Confezioni spartane, con qualche concessione ai sacchetti biologici in juta

per rispettare l’ambiente, contengono formaggi, salumi tipici, cereali, come farro e ceci. A Palermo, Cia e Coldiretti sono le organizzazioni che raccolgono sotto la loro sigla piccole realtà produttive agricole ed enogastronomiche di tutto il territorio siciliano. Ma ci si può organizzare anche tra privati, come ad esempio avviene alle Pagode di via Notarbartolo, dove ogni produttore prende in affitto il suo stand. Ogni quartiere della città, in un giorno diverso, accoglie il suo mercato contadino. Tutta Palermo è coperta: dalla zona residenziale a quella periferica, dal centro storico con un mercato del contadino, ospitato nella splendida cornice di Piazza Sant’Anna, ora isola pedonale, all’imponente e maestoso Palazzo Steri, dove all’interno del grande cortile dell’attuale Rettorato, un tempo tribunale dell’Inquisizione, oggi si vendono formaggi provenienti da ogni scorcio di Sicilia, il pane fatto con le farine di grani antichi siciliani e si degusta l’ultima primizia di stagione. Ma cosa spinge il consumatore a preferire questi piccoli mercati alla grande distribuzione? I fattori che concorrono sono molti e tra questi spicca la volontà di ricercare prodotti di qualità, il desiderio di riavvicinarsi ai «buoni sapori di una volta» e, non meno importante, la ricerca del risparmio. Il mercato del contadino poi, è democratico: accoglie tutti e accontenta tutti. Dall’anziana signora che si muove a piedi e che oscilla tra il ricordo nostalgico dei mercati di una volta e il rammarico di non poter andare al centro commerciale, ai single attenti a seguire l’ultima tendenza in fatto di alimenta-

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zione, alle famiglie con pargolo al seguito a quelle senza, per cui fare la spesa con calma e senza l’assillo delle auto può addirittura diventare un momento di relax. Forse si spenderà qualcosa in più di benzina, ma l´occasione vale la gita appena fuori porta. Dalle 9 alle 14, in via Roccazzo 85 all´interno dei 53 ettari dell´Istituto zootecnico, apre al pubblico il primo mercato degli agricoltori promosso dal Comune, con 60 stand di produttori agricoli palermitani e siciliani. Con un risparmio sul prezzo di vendita che in alcuni casi può superare anche il 30 per cento. In più è possibile visitare alcune aree dell’Istituto zootecnico e per i più piccini sono previsti dei momenti di didattica e di gioco in alcune aree dedicate. All´Istituto zootecnico, come in tutti i mercati del contadino in città, confluiscono agricoltori da tutta la Sicilia: da Ragusa, Catania, Palermo, Trapani, e vendono anche molti prodotti biologici come fave e fragole coltivate senza pesticidi, oltre a confetture di frutta fresca senza conservanti. Sono gli stessi agricoltori a trasportare la merce la mattina presto alle 7,30, prima dell’apertura del mercato. Una delle spinte che ha contribuito al successo dei mercati del contadino è la volontà di recuperare i rapporti umani e di portare il produttore e consumatore a contatto diretto limitando al minimo i passaggi della filiera che, a quanto pare, contribuiscono all’aumento dei prezzi e alla distorsione dei mercati. Spesso ai mercatini ci sono gli habitué che comprano una determinata cosa da un determinato produttore. E quando non lo trovano, chiedono come mai manchi all’appello. Può capitare pure di essere salutati come un vecchio amico dalla signora che vende il formaggio. E che mentre lo taglia e lo pesa, racconta pure • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •

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come lo fa e cosa dà da mangiare alle sue pecore. Dietro il rito della spesa, si torna ad essere umani, insomma. E non è un miracolo di poco conto. Nei mercati è facile trovare i formaggi caprini di Delia, quelli bio di Agira, l’orto-

frutta di stagione proveniente da Ragusa e Vittoria, la salsiccia e le carni di Caccamo, il vino di Corleone, le uova di Mezzojuso e l’immancabile cannolo di Piana degli Albanesi. Qualche esempio di risparmio? Un chilo di pane nero costa tre euro, con un risparmio di oltre due euro rispetto al prezzo di vendita in negozio. Un barattolo di miele biologico da mezzo chilo costa tre euro anziché cinque. Alcuni prodotti di stagione, poi, vengono offerte in cassette da sette chili al costo di 10 euro. Per questo prezzo, si può comprare un mix di peperoni, melanzane, pomodorini, zucchine, e pomodori da insalata.

Una cosa che noterete nei mercati del contadino, e che fa un po’ storcere il naso ad alcuni frequentatori, è che la merce esposta spesso non è lucida, non sempre gli alimenti hanno una dimensione standard e il più delle volte è imperfetta. È giusto così: l’agricoltore non “condiziona” la sua merce, cioè non la calibra, non la lava e non la “incera” prima di esporla sulla bancarella. L’alimento che arriva sugli scaffali dei supermercati, invece, è passato attraverso cernite, controlli, fasi di imballaggio, distribuzione e presentazione. Occhio, quindi, quando al mercato degli agricoltori vi trovate davanti a frutta lucida e perfettamente impilata. È capitato, ci raccontano, che esaurito un determinato prodotto, un contadino furbo lo abbia acquistato dal fruttivendolo più vicino o addirittura al mercato ortofrutticolo. E lo abbia poi rivenduto perfino ad un prezzo “bio”. La concorrenza sleale è stata denunciata. I furbetti in questo caso sono stati espulsi e segnalati agli altri mercatini sia nell’interesse del consumatore, che dei produttori stessi, che ne perderebbero in credibilità. Un altro punto importante è la tutela dell’ambiente, uno degli aspetti chiave su cui punta chi, come Coldiretti e Slow Food, si sta facendo forte promotore dei mercati dei contadini. Parlando di filiera corta, infatti, si sente spesso parlare di spesa a «km zero». I mercati del contadino vengono presentati come luoghi eco-sostenibili, se così si può dire, in grado di aiutare l’ambiente e ridurre le emissioni di gas serra, minimizzando il trasporto «dal forcone alla forchetta». Ma è proprio vero? Questo è uno dei punti più critici da analizzare e da valutare. È sempre vero che una mela nata alle pendici dell’Etna e trasportata in piccole quantità a Palermo, inquini meno l’ambiente di una che arriva direttamente in aereo dalla Nuova Zelanda? Visto l’assetto viario della Sicilia, domandarselo è lecito. Magari non sarà proprio economico e il produttore dovrà sicuramente tenere conto del costo della benzina per il trasporto che scaricherà sul consumatore finale, ma di una cosa possiamo esserne certi. Non avrà lo stesso sapore della mela d’importazione. O molto più banalmente: avrà un sapore. E questo non ha prezzo!

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la Calendula il “fiore di ogni mese” dalle mille virtù

di Elena Mysovskaya

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icuramente molti di voi conosceranno questa pianta alta tra i 40 e i 60 cm con piccoli ed affascinanti fiorellini in qualche modo assomiglianti alla margherita, ma di un bel colore che varia dal giallo all’arancione acceso e che hanno un profumo fortemente asproamarognolo. Sì, avete capito bene, si sta parlando della calendula, tanto carina quanto buona. Il suo nome significa fiore d’ogni mese, perché fiorisce tutti i mesi. Deriva dal latino e basta ricordare cosa significa il termine calendae, per comprendere facilmente che calendula significa appunto il fiore che fiorisce ogni trenta giorni. Poichè il fiorellino gira al girar del sole, chiudendosi di sera e riaprendosi nuovamente al mattino, la calendula è detta anche sposa del sole e orologio dei contadini. Viene chiamata anche fiorrancio, nome difficilmente pronunciabile che verosimilmente deriva dal suo colore arancione. Già dai tempi antichi questa pianta era un abitante ben voluto dei giardini, ed ancora adesso negli incolti se ne possono spesso trovare esemplari inselvatichiti che sui prati formano isolette, talvolta ampie, portando un po’ di gioia ed allegria, soprattutto nelle giornate fredde e grigie d’inverno. Un tempo si diceva che guardare a lungo i suoi fiori proteggesse la vista. E questo non

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è l’unico potere “magico” che si attribuiva alla calendula. Si credeva pure che raccogliere la calendula, quando il sole splende alto nel cielo, donasse forza e serenità; oppure che la calendula sparpagliata sotto il letto proteggesse il sonno inducendo sogni profetici. Ma leggende a parte, vediamo quali delle sue proprietà sono state confermate nel corso dei secoli e cosa dice la pratica scientifica dei nostri giorni. E cominciamo dall’uso in cucina. I fiori (anzi i capolini) sono di un bel colore arancione e possono essere utilizzati come colorante per i cibi per conferire un colore gradevolmente giallognolo agli impasti, alle minestre, al burro e a tanto altro ancora. Questo utilizzo era già noto all’epoca dell’impero romano durante il

quale le famiglie meno abbienti usavano la calendula al posto del pregiato zafferano. I petali freschi possono essere usati usati per aromatizzare il pesce e per guarnire i piatti, mentre con i petali essiccati si può preparare un ottimo aceto aromatico. Ci sono, dunque, svariati modi di utilizzare la calendula in cucina per dilettarsi in fantasiose sperimentazioni, ma bisogna tenere ben presente che il suo gusto amarostico non si adatta sempre ad ogni pietanza. Il vero tesoro nascosto di questa pianta è costituito dalle sue proprietà curative per le quali le è stato attribuito il “cognome” officinalis. Le premure della generosa calendula verso la nostra salute cominciano dalle proprietà curative della malattie tipiche della stagione invernale. È scientificamente dimostrato che l’infuso dei fiori di calendula riesce a disattivare il virus dell’influenza tanto che gli esperti di fitoterapia consigliano i gargarismi con questo prodotto. Due le ricette disponibili per i preparati antinfluenzali. La prima prevede che su un cucchiaio di fiori secchi di calendula venga versato un bicchiere di acqua bollente, si lascia riposare per circa 15 minuti, poi si filtra e si beve durante la giornata. Per i gargarismi la ricetta prevede un cucchiaio di fiori secchi che va coperto con 2 bicchieri di acqua bollente, si lascia intiepidire, si filtra e con questo infuso si fanno

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unguento alla calendula

gli sciacqui della gola e del tratto nasofaringeo durante del periodo delle epidemie influenzali. L’altra proprietà importante della calendula, confermata dalle scienze mediche, è la esplicita azione antibatterica, efficace soprattutto nei confronti di stafilococchi e streptococchi, sia nelle infezioni esterne che interne. Per questo i preparati a base di calendula (infusi, tinture, unguenti) si usano per curare infiammazioni delle cavità orale come gengiviti e stomatiti o le infiammazioni della gola come angine, tonsilliti (in questi casi si usa l’infuso oppure la tintura diluita in acqua per sciacqui e gargarismi), le infiammazione degli occhi come la congiuntivite, le ferite della pelle infiammate, le ustioni e gli eczemi. Le tisane di calendula si usano per curare l’ulcera dello stomaco, la colite, l’enterite, alcune malattie del fegato e della

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cistifellea e i problemi mestruali. In più è dimostrato anche un effetto calmante sul sistema nervoso. La calendula ha ovviamente delle controindicazioni: i soggetti che soffrono di pressione bassa devono usare la calendula con cautela, così come è vietato l’utilizzo dei preparati della calendula per le donne in gravidanza e le persone allergiche ad alcuni dei suoi componenti. Non si può, poi, dimenticare l’utilizzo della calendula in campo estetico: fa diminuire la forfora e rende più forti i capelli se dopo lo shampoo si sciacquano con un infuso un po’ più concentrato di quello descritto in precedenza da usare per prevenire l’influenza. Per la purezza della pelle del viso si usa un infuso di fiori di calendula come tonico; si può anche usare la tintura diluita nell’acqua, ma questa, per la presenza di alcol, non è adatta alle pelli più sensibili.

Gli unguenti contenenti calendula hanno effetto lenitivo e antinfiammatorio. Un vecchio trattato di fitoterapia suggerisce di mettere l’unguento sa base di questa pianta sulle parti infiammate ed arrossate della pelle. Per preparare l’unguento di calendula, riportiamo una ricetta rinvenuta nel manuale di fitoterapia del secolo scorso. • 25 gr di vasellina • 5 gr di tintura di calendula La tintura è l’infuso alcolico dei fiori che si può acquistare in erboristeria ma si può anche ottenere facendo macerare, 20 grammi di fiori di calendula in 100 ml di alcol al 60% per 10 giorni. Successivamente si filtra la tintura spremendo bene i fiori prima di gettarli.

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la Borragine

dalla cucina alle cure naturali di Alessandro Iannelli

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orse originaria del Medio Oriente, non è certo che la borragine fosse nota a Romani e Greci. Plinio il Vecchio, in un passo del XXV libro della Naturalis Historia, cita un “buglossos”, termine traslitterato dal greco che significa “simile alla bocca del bue” e che, spiega, “infusa nel vino aumenta i piaceri dell’animo ed è chiamata [per questo] euphrosynum”, cioè foriera di allegria. Parla di βούγλωσσοv anche il medico greco Dioscoride, che spiega: “Ricorda il verbasco. Le foglie sono prossime al terreno, più scure e piccole”. Anch’egli, come poi fece l’epigrammista Marziale, accenna alla caratteristica della pianta di rendere le persone “allegre”. Possibile, ma non sicuro, che tutti facciano riferimento alla comune borragine. Non si possono escludere, infatti, specie affini e in particolare la buglossa azzurra. I pochi, scarni e in parte vaghi riferimenti alla borragine fanno ritenere che la pianta fosse al più conosciuta indirettamente e che sia arrivata in Europa secoli dopo. Il nome potrebbe derivare dall’arabo

Borago officinalis

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“abou rach”, “che causa sudore”; altra ipotesi è che derivi dal tardo latino “burra” (una stoffa pelosa), cui sono connessi il nome alternativo “burrana” e quello siciliano (perlopiù al plurale) di “vurràne”. Il nome scientifico, Borago officinalis, fa riferimento all’uso medicinale testimoniato per la prima volta da Alberto Magno nel XIII secolo: la borragine è in effetti un buon rimedio contro la tosse, vanta proprietà antinfiammatorie e antipertensive e contiene vitamina A e C. I semi, ricchi di acidi linoleici, sono l’unica parte della pianta di cui il ministero della Sanità consiglia l’uso in quanto privi di alcaloidi: se ne ricava un olio seboregolatore nell’uso topico e dall’azione cardioprotettiva e vasodilatatrice. L’effetto euforico sembra dovuto ai pirrolizidinici, alcaloidi che sul lungo periodo responsabili di ridotto afflusso ematico nel fegato. Finora non sono stati segnalati effetti negativi di rilievo legati ad un consumo sporadico della pianta, ma si raccomanda comunque di mangiarla previa cottura che dissolve in parte gli alcaloidi. Le foglie più giovani, per la minor quantità di composti epatotossici, sono da preferirsi a fusto e foglie mature. Anche i fiori sono commestibili. La borragine, largamente diffusa sul nostro territorio, si adatta a diversi terreni e a tutte le condizioni climatiche non estreme purché non manchi il sole. In primavera comincia la fioritura: proprio a ridosso di questo periodo cade il momento migliore per la raccolta, quando viene raggiunto il picco delle proprietà balsamiche e prima che avvenga un parziale indurimento dei tessuti. Nel corso degli ultimi anni inesperti raccoglitori alla ricerca di borragini sono stati al centro di tristi episodi di cronaca, quasi tutti in Sicilia: vittime di avvelenamento (spesso con conseguenze mortali) per aver consumato la pericolosissima mandragora, scambiata appunto per la pregiata borragine. Per queste ragioni appare più che mai opportuno educare sul consumo di questa erbacea annuale, alla ricerca di un giusto equilibrio fra allarmismi e comportamenti superficiali talvolta perniciosi. La borragine • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •

Mandragora autumnalis


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Riso con crema di borragine Ingredienti per 4 persone 500 gr di riso Carnaroli, 20-25 fiori di borragine, 200 gr di foglie giovani di borragine, 1 scalogno, 70 gr di pecorino siciliano, 50 gr di pancetta affumicata (facoltativo). Procedimento Frullate le foglie e i fiori di borragine (lasciandone alcuni di lato per la decorazione finale) con mezzo bicchiere d'acqua. Preparate nel frattempo la pentola per il riso. Fate soffriggere in una padella capiente e profonda con 3 cucchiai di olio d'oliva lo scalogno fatto a quadratini, quindi aggiungete la crema di borragine e il formaggio grattugiato e proseguite a fuoco medio per circa 10 minuti, dunque spegnete. Se preferite, potete aggiungere la pancetta al soffritto. Quando il riso sarà pronto, scolate e versatelo poi direttamente nella padella, mescolate per qualche minuto, quindi preparate i piatti. Usate 4-5 fiori e un paio di foglie tagliate a rettangolini per la decorazione, quindi servite.

condivide in parte il suo habitat con la meno comune ma velenosissima mandragora, rispetto alla quale si differenzia per diversi aspetti. Le foglie della mandragora sono leggermente più scure e lucide di quelle della borragine che sono anche più pungenti e pelose e soprattutto presentano numerosi peletti lungo i bordi. La mandragora, poi, è priva di fusto e sviluppa le sue foglie in orizzontale, quasi schiacciata sul terreno e non supera mai i 15-20 cm di altezza. La borragine, invece, seppur occasionalmente può presentarsi leggermente schiacciata, si sviluppa in genere in altezza fino a 60-70 cm e presenta un fusto peloso e di solito violaceo. Altra differenza marcata tra le due specie si trova nelle radici: quelle della borragine sono di modeste dimensioni, quelle della mandragora, possenti, sono note perché spesso ricor-

dano nella forma una bambola vudù (un fittone principale da cui se ne dipartono fino a 4 secondari). Infine i fiori: quelli della mandragora sono viola chiaro, semichiusi e ricordano un calice; lo spettacolare fiore della borragine, più piccolo, spicca per l’intensissimo blu, che nell’ovario sfuma spesso nel bianco. Talora il colore può variare fra il viola scuro ed il rosa e la varietà alba presenta fiori bianchi. Inconfondibili, comunque, i cinque petali lanceolati a ricordare una stella stilizzata. Non è dunque necessario rinunciare del tutto al consumo della borragine che, grazie al caratteristico e intenso sapore amarognolo, offre spunti interessanti in cucina: proponiamo due ricette che prevedono anche l’uso dei fiori, di sicuro impatto visivo e dal sapore delicato, simile a quello del cetriolo.

Fiori e foglie di borragine in pastella Ingredienti per 4 persone 150 gr di fiori di borragine, 150 gr di foglie giovani di borragine 200 gr di farina tipo 00, 1 uovo, olio di semi q.b., un pizzico di sale

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Procedimento Lavate i fiori e le foglie, sciacquate e riponete su un panno. Premete con un altro panno, delicatamente, per favorire l'asciugatura, quindi aspettate un'ora. Versate in una terrina la farina, l'uovo e 100 ml d'acqua e amalgamate. Mettete a scaldare l'olio in una padella profonda a fuoco medio e dopo circa 5 minuti cominciate a immergere i fiori e le foglie nell'impasto, un po' per volta con l'aiuto di un colino, che userete poi per spostarli nella padella. Raggiunta la doratura (basteranno 34 minuti ogni volta) scolateli e poneteli in un vassoio ricoperto da qualche tovagliolo, in modo da assorbire l'olio in eccesso. Aggiungete un pizzico di sale se preferite, attendete un minuto o due che le pastelle si freddino, quindi potrete cominciare a servire.

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Violetto

di Ramacca di Omar Gelsomino

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osì finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama carciofo, poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica pasta del suo cuore verde. Si conclude così “L’ode al carciofo” di Pablo Neruda testimoniando come questo ortaggio, oltre ad avere un ottimo sapore è anche un alimento sano, tonico e genuino. La sua tipica fragranza, la morbidezza dei suoi teneri petali e del gustoso “cuore”, lo rendono decisamente apprezzato ai buongustai. Il carciofo, il più italiano degli ortaggi, è un alimento indicato per una sana dieta mediterranea. Contiene calcio, potassio, magnesio, ferro e fibre. Ha funzioni diversamente protettive per il nostro organismo grazie alla cinarina, una sostanza che favorisce la digestione e ha un’ottima azione diuretica e all’inulina che favorisce la crescita della flora batterica “buona”. E poi è ricco di cellulosa che assorbendo molta acqua aumenta la massa delle scorie agevolandone il transito intestinale. Tra le tante varietà coltivate in Sicilia spicca il Violetto di Ramacca, che prende il nome dal fiorente centro agricolo della Città Metropolitana di Catania dove rappresenta la coltura predominante ed è coltivato da tempo immemore. Proprio per valorizzare ed esaltare il carciofo in un giusto connubio tra tradizione e innovazione, a Ramacca ogni anno viene organizzata una sagra in cui i veri protagonisti sono il pro-

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il carciofo calatino tra tradizione e innovazione dotto di eccellenza e i produttori. Sono loro che con passione e laboriosità lavorano molti mesi prima per contribuire alla riuscita di questo evento tanto atteso e che contribuisce in maniera rilevante all’economia locale. Non si tratta solo di un appuntamento gastronomico per palati fini, ma di un’occasione in cui i visitatori possono apprezzare un ambiente accogliente e familiare, in cui riscoprire le antiche tradizioni di una civiltà contadina rimasta praticamente intatta nei sapori, nei colori e negli odori. Tutti segreti che Ramacca racchiude nella propria cucina e nelle proprie usanze che nel corso dei secoli hanno influito e contaminato culture e tradizioni. Ogni anno, dunque, questa ridente cittadina si trasforma in una vera e propria vetrina enogastronomica con un ricco programma di eventi che esaltano la cultura, le tradizioni

popolari e le capacità artigianali e artistiche. Il carciofo violetto così viene declinato dal primo al dolce: a tavola, tra i tanti piatti, verranno proposti i paccheri al forno con carciofi e scamorza affumicata, le mezze penne con crema di carciofi e pancetta affumicata, le casarecce ai cuori di carciofo e grana padano o il risotto alla crema di carciofo e zucca gialla. I visitatori più curiosi, poi, oltre a degustare prelibati piatti a base di carciofo potranno conoscere meglio anche le sue qualità nutritive e salutari: già da diversi anni, infatti, questo appuntamento prevede l’organizzazione di mostre e convegni in cui vengono affrontate tutte le tematiche inerenti la coltivazione del carciofo in Sicilia e le sue proprietà nutrizionali. Quest’anno la sagra si svolgerà dal 31 marzo fino al 9 di aprile. Nei dieci giorni di festeggiamenti ai visitatori sarà offerta la possibilità di degustare e acquistare la grande molteplicità dei prodotti tipici della zona. Ogni anno lungo le strade della cittadina, infatti, vengono allestite bancarelle e stand che ospitano tutte le migliori produzioni del Calatino: dalle arance rosse di Sicilia all’olio d’oliva extravergine a Dop, dai formaggi al miele fino al vino, oltre al pregiato pane locale. Sapori unici che confermano ancora una volta - se mai ce ne fosse bisogno – l’irrepetibilità della tradizione agroalimentare e gastronomica di questa parte della Sicilia. Il programma prevede tutta una serie di

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Carciofi ripieni Ingredienti

eventi che allieteranno le giornate con spettacoli e performance folcloristiche e musicali; per gli amanti della cultura sono in programma visite guidate al Museo Civico, al Museo delle Bande Musicali, al Parco Archeologico che racchiude i resti di un villaggio preistorico e i ruderi di un centro siculo-greco e alla Chiesa di San Giuseppe, con annesso l’ex convento dei Cappuccini, che conserva una reliquia di Padre Pio. All’interno di Ramacca, il cui toponimo per alcuni deriva

dall’arabo Rammuallah (terra o giardino di Allah) o Ramaq (osservatorio) o ancora Rammak (guardiano di giumente), merita una visita la Chiesa Matrice, dedicata alla Natività di Maria, con l’orologio civico che svetta sopra la torretta quadrata del campanile. La sagra del carciofo di Ramacca è insomma storia, cultura, folclore e ovviamente buona tavola con tanti prodotti da degustare: chi deciderà di spingersi fin qui nel primo weekend di aprile di certo non resterà deluso.

• 4 carciofi • 50 gr di pangrattato • 2 acciughe salate • 1 ciuffetto di prezzemolo • 1 spicchio d'aglio • mezza cipolla piccola • 30 gr pecorino grattugiato • olio di oliva extravergine • sale q.b. • pepe nero o rosso q.b. Procedimento Dopo aver pulito i carciofi togliendo le brattee esterne, per evitare che anneriscano, immergeteli in un contenitore con dell'acqua e gocce di limone per una mezz'oretta, poi batteteli su un tavolo o un tagliere capovolti in modo da allargare le brattee centrali. Aggiungete il sale e il pepe. In un tegame con due cucchiai di olio di oliva extravergine rosolate leggermente l'aglio, la cipolla e il prezzemolo tritato finemente. Prendete le acciughe, lavatele, deliscatele e tritatele. In un padellino mettete il pangrattato da tostare, aggiungete l'olio, l'aglio, la cipolla e il prezzemolo. Con il preparato ottenuto ed il pecorino grattugiato riempite l'interno dei carciofi, versate sopra un filo d'olio, poi metteteli in una pentola aggiungendo un bicchiere d'acqua e coprite con un coperchio facendoli cuocere a fuoco lento per circa mezz'ora.

Torta salata di carciofi Ingredienti • un rotolo di pasta sfoglia • 100 gr di prosciutto cotto • 1/2 scamorza affumicata • 2 uova • 50 gr di pecorino grattugiato • 10 carciofi cotti • rucola • prezzemolo Procedimento Stendete la sfoglia su una teglia coperta da carta da forno, aggiungete uno strato di prosciutto cotto, di rucola, e di scamorza affumicata tagliata a fette sottili. Completate aggiungendo i carciofi tagliati a listerelle, il prezzemolo e due uova frullate. Mettete in forno la teglia e tenetela a 180°C fino a quando non raggiungerà la perfetta doratura.

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speciale

Quel

che non si scorda più

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a parola d'ordine è programmare. Darsi delle scadenze e rispettarle. Mai farsi prendere dal panico. Organizzare un matrimonio non è cosa da poco. Il giorno più bello della vostra vita va pianificato almeno un anno prima. Se non due. Armatevi di pazienza perché in questo lasso di tempo tutti, dalla madre alla vicina di casa, dalla vostra migliore amica alla signora mai vista prima, si sentiranno in dovere di darvi consigli non richiesti. Una volta stabilita la data delle nozze, è opportuno decidere il luogo dove avverrà la cerimonia. Se intendete celebrare un matrimonio religioso la prima cosa da scegliere è la chiesa in cui intendete svolgere la funzione. Nel caso in cui questa non sia la parrocchia di uno degli sposi, è necessario chiedere il nulla osta al proprio parroco. Nel caso di matrimonio religioso di altre confessioni (non cattolica) è necessario contattare i rispettivi rappresentanti del proprio culto. Se invece preferite un matrimonio civile è necessario prendere contatti con il comune di residenza e fissare l'appuntamento per la cosiddetta "promessa di matrimonio", durante la quale l'incaricato comunale controllerà i documenti dei futuri sposi e acconsentirà a • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •

fissare la data della cerimonia, affiggendo all’Albo Pretorio le pubblicazioni. Con la lista degli invitati alla mano, fate un giro dei ristoranti che più si addicono alle vostre esigenze, valutando costi, distanze, spazi, ecc. Matrimonio all'aperto? Matrimonio in un casale, villa d'epoca? A bordo piscina o sulla terrazza di un hotel. Se volete “giocare in casa”, siete veramente fortunati: la Sicilia offre location mozzafiato. Non avete che l'imbarazzo della scelta. Almeno dieci mesi prima incominciate a pensare agli addobbi floreali. Se proprio volete ispirarvi, i social Pinterest e Instagram hanno infinite gallerie fotografiche su questo tema, con le ultime tendenze del momento. E poi non dovete dimenticare le bomboniere. Le ultime tendenze sono le bottiglie di vino o quelle di olio rigorosamente bio, le marmellate fatte a mano. Con queste chicche, si ricorderanno sicuramente del vostro matrimonio! Altra scelta importante riguarda la fissazione dei ricordi: contattate alcuni fotografi professionisti per conoscere la loro disponibilità, valutare i lavori fatti (e non stare a guardare soltanto i prezzi). A questo punto diamo spazio alla protagonista indiscussa della cerimonia: la sposa.Tutti guarderanno l'abito che lei


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indosserà. Sartoriale, su misura, di pizzo o semplicissimo. Le donne di casa si mobiliteranno per accompagnarvi e consigliarvi nella scelta. Le amiche faranno il tifo per voi.A questo punto noi consigliamo un gastroprotettore per la sposa. Se desiderate avere un'auto particolare (dalla limousine di ispirazione hollywoodiana alla 500 vintage) o un altro mezzo di trasporto (carrozza con i cavalli, ecc.) cominciate a pensare al noleggio (con autista o senza) almeno 5 mesi prima. È opportuno che anche lo sposo inizi a pensare al suo abito. Prima di sceglierlo, fatevi dare qualche indizio dalla vostra compagna, giusto per non avere contrasti troppo stridenti. Però lo stile classico vince su tutto. Ed è sempre elegante. Sempre sei mesi prima delle nozze, iniziate a valutare le proposte per la vostra luna di miele. Crociera tutto organizzato o fai da te? Anche qui le possibilità sono infinite. Ma le agenzie di viaggio, ricordatevelo, sono lì per risolvere tutti gli eventuali problemi e imprevisti e per evitare che la coppia torni “scoppiata” dopo il viaggio di

nozze. Alcuni mesi prima pensate al parrucchiere e all’estetista. Consiglio alle spose: fatevi fare sempre delle prove di come vi truccheranno e vi acconceranno i capelli. E ricordatevi che Moira Orfei non rientra nei canoni di bellezza della novella sposa. La lista nozze va scelta insieme, pensando alla nuova casa. Se siete già conviventi o avete già una casa arredata, fatevi regalare quello che vi manca o quello che avete sempre desiderato: oggetti di design, il televisore di ultima generazione, l'impianto home theatre. Oppure optate per quel viaggio che vi porterà lontano dallo stress dell'organizzazione del matrimonio... Gli ultimi due mesi sono dedicati alle conferme e alla definizione dei dettagli. Qualora abbiate previsto un sottofondo musicale con gruppo musicale o dj, definite con loro i brani da suonare durante il ricevimento. Fatte le prove generali e le ultime modifiche, è tutto pronto per la grande festa. Ricordatevi che i protagonisti siete voi. A noi, non resta che farvi i migliori auguri di felicità! • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •


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Cucinare con i FIORI di Manuela Zanni

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gni anno la natura in primavera dipinge splendidi quadri variopinti con fiori di mille colori. Se siete tra coloro che subiscono il fascino di un campo fiorito, sarete di certo lieti di apprendere che i fiori, negli ultimi anni, hanno conquistato un posto d’onore anche in cucina. Quando si parla di fiori si è soliti pensare alla loro bellezza, al colore, al profumo e a tutte le decorazioni che con essi si possono realizzare. Ma, in realtà, i fiori possono essere utilizzati anche in cucina per preparare ottime ricette. Il loro uso alimentare risale a migliaia di anni fa ed era consueto in tante civiltà tra le quali quella cinese, quella romana e quella greca. Già i Greci e i Romani usavano i fiori per speziare e aromatizzare gli alimenti sfruttandone le proprietà benefiche. Anche nella tradizione gastronomica mediorientale e mediterranea i petali dei fiori commestibili erano utilizzati con lo scopo non solo di abbellire, ma anche di insaporire e profumare le ricette tradizionali. Nei paesi arabi si usano da sempre fiori d’arancio, di rosa e limone per profumare i dolci o come condimenti di piatti dal sapore insolito o come ingredienti principali delle confetture. Anche nei paesi del Mediterraneo siamo avvezzi all’uso di fiori di zucca e zucchini, non solo come decorazione, ma anche e soprattutto come ingrediente principale da farcire e friggere. Sono innumerevoli i fiori che si possono utilizzare in base anche agli ingredienti a cui abbinarli: basti pensare ai petali di rosa, gelsomino, magnolia, malva, maggiorana, fiori d’arancio, di lavanda e di zucche e zucchini, solo per citarne alcuni. Senza contare che, anche quando utilizzati solo a scopo decorativo, i profumi e i colori che emanano riescono a stimolare i sensi, in particolare la vista, il gusto e l’olfatto. Prima di approcciarsi a questo tipo di cucina è importante, tuttavia, sottolineare che non tutti i fiori possono essere utilizzati in cucina perché alcuni risultano es-

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sere addirittura tossici o benché commestibili, possono diventare tossici se assunti in quantità elevate. È il caso dello zafferano che può risultare molto tossico se assunto in dosi uguali o superiori a 20 grammi al giorno. Ecco perché prima di elaborare un menù che abbia tra gli ingredienti fiori colorati e profumati è il caso di conoscere alcune semplici regole. Anzitutto i fiori devono essere acquistati dai rivenditori ufficiali per uso gastronomico e non dal fioraio. È sempre preferibile, inoltre, usare fiori di stagione e non cucinarli in condizioni di estrema umidità. Occorre tenere ben presente che i fiori non devono coprire il sapore degli altri ingredienti ma esaltarlo ed, in ogni caso, bisogna sempre accertarsi che siano commestibili. A meno che non si tratti di fiori essiccati, poi, è importante che siano consumati al momento e non vanno conservati a lungo. Per quanto riguarda la fase di pulitura, le corolle devono essere lavate con acqua fresca, facendo attenzione a non sciupare i petali. Vanno, inoltre, eliminati i pistilli e la base bianca dei petali per evitare che rilascino nel piatto il loro tipico gusto amarognolo. E ancora, una volta lavati, lasciate asciugare i fiori su un

foglio di carta assorbente e scuoteteli leggermente tenendoli con la punta delle dita per eliminare l’acqua in eccesso. Per la conservazione, infine, bisogna sapere che la maggior parte dei fiori mantiene la loro fragranza e freschezza per almeno una settimana se posti in un contenitore in frigorifero. Belli e buoni, dunque, i fiori in cucina sono anche utilissimi per arricchire la nostra dieta di tanti principi attivi importanti. Studi scientifici recenti, infatti, hanno dimostrato che la composizione chimica di diverse varietà floreali molto comuni presentano concentrazioni più elevate di minerali, fosforo e potassio rispetto a frutta e verdura. Inoltre, esistono fiori che forniscono al nostro corpo una bella carica di antiossidanti naturali come ad esempio i nasturzi, la panzanella e il tarassaco, solo per citarne alcuni e che sono ottimi in insalata, accompagnati con il formaggio caprino oppure uniti all’impasto di pane e torte salate. Di seguito vi proponiamo un intero menù, dall’antipasto al dolce, in cui tra gli ingredienti troverete fiori commestibili e facilmente reperibili nei negozi specializzati. Una ventata di allegria, colore e salute sulla vostra tavola di primavera.

alcune varieTà di fiori da uTiliZZare in cucina • Basilico - colore variabile dal bianco al rosa e sapore simile alle foglie ma più debole

• lavanda - fiore dal profumo intenso, dolce, speziato adatto sia a piatti dolci che salati

• Borragine - splendido fiore dal colore blu e a forma di stella dal gusto simile al cetriolo • camomilla - la forma ricorda quella della margherita, adatta per dolci e tisane • Tarassaco - noto anche come dente di leone, i boccioli sono ottimi da mettere sott’aceto • Zucca - molto comuni in cucina grazie alla varietà di ricette che si possono realizzare • gelsomino - grazie al suo profumo è perfetto nel thè o nei dolci

• margheriTa - i boccioli possono essere messi sotto aceto dal sapore simile ai capperi

• girasole - commestibili i petali e anche il cui germoglio può essere cotto a vapore

• menTa - protagonista di un’infinità di ricette e anche dei gustosi cocktail • rosa - i petali molto profumati sono adatti per preparare bevande, dolci e marmellate • samBuco - graziosi fiorellini bianchi dal profumo intenso ideali per dolci e tisane • salvia - fiore di colore violetto e dal sapore fresco e aromatico simile a quello delle foglie • viola - delicato sapore di menta, ideale nelle insalate, nella pasta, frutta e nelle bibite.

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Antipasto: fiori di Zucca ripieni

fresco e succoso offre sentori di fragola matura e ciliegie selvatiche e una nota finale di pepe bianco. Un mandarino appena accennato e una nota salina chiude un finale mediamente persistente. Ottimo per accompagnare aperitivi e primi leggeri dal gusto semplice poco elaborato Primo: linguine con pesTo di calendula

Ingredienti per 4 persone • 12 fiori di zucca freschi • 100 gr di pangrattato • 100 gr di ricotta (tofu per vegani) • uno scalogno • due cucchiai di concentrato di pomodoro • sale e pepe q.b. • olio extravergine di oliva Procedimento Pulite i fiori di zucca, apriteli e togliete il pistillo. Mettete una padella sul fuoco con un giro di olio d’oliva e rosolatevi lo scalogno. A questo punto unitevi il pangrattato e il concentrato di pomodoro e aggiustate di sale e pepe. Mettete tutto il condimento in una ciotola e lavoratelo con la ricotta (o tofu) per bene con una forchetta in modo da ottenere un composto liscio. A questo punto, accendete il forno a 200°C e nel frattempo riempite i fiori di zucca con una sacca da pasticcere a bocchetta larga o un cucchiaino, spennellateli con l’olio e passateli al pangrattato. Adagiateli su una teglia con carta forno, salateli leggermente e infornate per 30-40 minuti, fino ad ottenere una superficie dorata. Togliete dal forno e serviteli in tavola subito, ancora caldissimi. Abbinamento consigliato: Delicio Rosato Cva Canicattì. Un blend 50-50 di Nero d’Avola e Nerello Mascalese, dal colore rosato brillante. Al naso propone aromi fruttati e speziati di frutti di bosco, finocchio ed erbe mediterranee. Al palato

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Ingredienti per 4 persone • 350 gr di linguine • 50 gr di pinoli • 100 gr di pecorino grattugiato (facoltativo per i vegani) • 100 gr di fiori di calendula • olio extravergine d’oliva q.b. Procedimento In un frullatore mettete i pinoli, il pecorino e olio d’oliva quel tanto che basta per ottenere un composto omogeneo. Quindi unite un pizzico di sale e i fiori, frullate brevemente e lasciate riposare. Lessate le linguine in abbondante acqua salata. Scolate la pasta e conditela con il pesto ai fiori e altri pinoli interi tostati e fiori interi di calendula. Abbinamento consigliato: Zafaràna Rosato Organic di Legami. Colore rosa tenue. Al naso sentori accattivanti di fragola e viola, ma anche note eleganti e persistenti di frutti tropicali. In bocca fresco grazie ad una spiccata mineralità che gli dona in finale una buona persistenza. Adatto a primi con verdure, ma anche con pesce, crostacei e carni bianche.

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Secondo: TorTa rusTica con verdure e fiori

Dessert: cheesecake alla lavanda Ingredienti • 150 gr di biscotti secchi tipo frollino • 75 gr di burro (o margarina senza grassi idrogenati) • 250 gr di mascarpone (tofu per i vegani) • 10 gr di lavanda • 50 gr di panna da montare (vegetale per i vegani) • 100 gr di yogurt (vegetale per i vegani) • 50 ml di latte (vegetale per i vegani) • 25 gr di agar agar • 100 gr di zucchero di canna • un baccello di vaniglia • 250 gr di mirtilli • una tazzina da caffè di acqua

Ingredienti per 4 persone • un rotolo di pasta brisè • 2 carote • una zucchina • 200 gr di pomodorini • uno scalogno • fiori eduli a piacere (salvia, borragine, basilico, tarassaco) • olio extravergine d’oliva • sale e pepe bianco Procedimento In una padella capiente fate rosolare lo scalogno. Quindi unitevi le carote e le zucchine lavate, pelate e tagliate a rondelle. Quindi unite anche i pomodorini lavati e tagliati a metà. Unite un bicchiere d’acqua e lasciate cuocere con coperchio per circa 20 minuti. Una volta cotte, aggiungete i fiori eduli a fuoco spento. A questo punto stendete la pasta brisè in una teglia rivestita di carta forno e ponetevi all’interno il composto. Infornate la torta per circa un quarto d’ora. Quindi sfornatela e fatela intiepidire. Servitela con un contorno di insalata o patate al forno. Abbinamento consigliato: Vulkà Etna Rosato Nicosia. Nerello mascalese in purezza. Colore rosa intenso. Al naso propone un bel bouquet di spezie e fiori freschi. Bocca complessa fresca e sapida. Finale lungo e pieno. Ottimo vino da “tutto pasto” in abbinamento a primi e secondi con pesce, carni o verdure dal sapore ben definito.

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Procedimento Rivestite il fondo e le pareti di una tortiera a cerniera con carta forno. Fate sciogliere il burro, tritate i biscotti e amalgamate bene. Distribuite e compattate bene il composto sul fondo della tortiera. Montate la panna a neve, quindi prendete 200 gr di mirtilli e metteteli in un pentolino con lo zucchero di canna e l’acqua a fuoco molto basso affinché rilascino un po’ di succo. Quindi scolate i mirtilli dal succo e schiacciate il composto con un cucchiaio. Unite al succo di mirtilli metà di agar-agar e mescolate bene per incorporarlo. Nel frattempo, dopo aver scaldato il latte, unite la vaniglia, mescolate e unitevi l’altra metà di agar-agar e unitevi lo zucchero e mascarpone con lo yogurt e la panna montata. A questo punto dovete dividere il vostro composto in due diverse ciotole. In una ciotola mettete il succo di mirtilli e nell’altra il latte aromatizzato alla vaniglia, al quale avrete aggiunto la lavanda. A questo punto, avrete due creme di colore diverso. Versate la crema bianca con la lavanda sulla base di biscotti e mettete in frigo a rassodare per due ore. Poi aggiungetevi lo strato di crema ai mirtilli, rimettete in frigo per almeno sei ore. Decorate la vostra cheesecake con i mirtilli rimasti. Togliete la cheesecake dal frigo almeno un’ora prima di servirla. Abbinamento consigliato: Moscato delle Rose di Cossentino. Colore rosso rubino brillante. Al naso profumo di fiori e frutta rossa come rose e ciliegie rosse e amarene uniti ai sentori speziati di chiodi di garofano, cannella e buccia d’arancia. Fresco ed avvolgente al palato evidenzia un tannino elegante e dolce con finale persistente. Perfetto con dolci con basi cremose con frutti rossi o al cioccolato.

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Sua maestà il VINO di Carola Parano

Protagonista di miti e leggende, citato centinaia di volte nell’Antico Testamento, il vino è una tra le bevande più antiche del mondo

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Sumeri con una foglia di vite simboleggiavano l’esistenza umana. Gli Ebrei dell’Antico Testamento, consideravano la vite “uno dei beni più preziosi dell’uomo” (Libro dei Re) ed esaltavano il vino che “rallegra il cuore del mortale” (nei Salmi). Nella Bibbia la parola vino viene usata ben 278 volte. E ancora oggi durante la Beracah dello shabbat ebraico il vino rosso deve essere sempre di alta qualità. Nel mondo greco, poi, il vino era ritenuto un dono degli dei e tutti i miti sono concordi nell’attribuire a Dioniso l’aver iniziato la coltivazione della vite tra gli uomini, anche se ancor prima “Oresteo, il figlio di Deucalione, si recò in Etolia per ricevere il governo reale, e una sua cagna partorì uno ceppo. Egli ordinò di interrarlo e da questo nacque una vite abbondante in uva; per questo chiamò suo figlio Fitio (Concepitore). Da questo nacque Eneo, che ricevette il suo nome dalla vite” (Ateneo, II, 35B). Il vino ingentilisce il profilo di una donna e ne cattura l’essenza, si dice. Tanti riferimenti, tanta letteratura e tanti miti legati al mistero e alla magia dell’uva che diventa nettare, che diventa vino. DALLA VIGNA AL BICCHIERE Descrivere tutti i tipi di trasformazioni del frutto della vigna in una sola volta sarebbe davvero un compito arduo. Proviamo allora a soffermarci sulle tecniche di vinificazione in rosso e poi al rito dell’esame del vino.

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Aveva ragione Lavoiser nel 1789 quando diceva che nulla si crea nulla si distrugge. Fu proprio lui che comprese per primo cosa fosse la fermentazione alcolica, cioè la trasformazione degli zuccheri dell’acino in alcool, anidride carbonica, calore e prodotti secondari ad opera dei cosiddetti lieviti. Con Hans e Eduard Buchner furono individuati gli enzimi che determinano la trasformazione alcolica. Ad Harden e Young nel 1906 toccò invece “scovare” i fosfati nei lieviti per la fermentazione. Ma cosa sono questi lieviti? Sono funghi unicellulari, che hanno grande resistenza all’alcol, che sanno trasformare tutti gli zuccheri presenti nell’uva, che sono buoni produttori di glicerina e anche molto resistenti alla anidride carbonica (serve nel caso di vini spumanti). Come si formano? I fattori ambientali per la diffusione dei lieviti in un mosto sono la temperatura, il pH e l’ossigeno, mentre si nutrono di glucosio, carboidrati, aminoacidi, vitamine e sali minerali. Inutile dire quanto sia fondamentale l’azione e l’uso dei lieviti per la buona riuscita di un vino. Se tutto sommato sono questi i passaggi per una fermentazione alcolica, un momento di riflessione va dedicato alla fermentazione cosiddetta malolattica. Si tratta di una tecnica di disacidificazione tipica dei climi freddi, che trasforma l’acido malico in acido lattico ed è quindi un fenomeno biologico che avviene dopo la fermentazione alcolica. Semplicemente grazie • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •


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all’azione di determinati batteri l’acido malico viene trasformato in acido lattico e anidride carbonica provocando la riduzione dell’acidità del vino. Tale tecnica viene usata per i vini rossi, per i vini bianchi con elevata acidità e per quelli fermentati in barrique. I SOLFITI SEMPRE PRESENTI E che dire dei solfiti o dell’anidride solforosa o semplicemente detta la “solforosa”? Tanto vituperata quanto indispensabile perché è il più antico disinfettante del vino che si ottiene dalla combustione di zolfo in presenza di ossigeno. Viene spesso trattata in termini problematici: garantisce la stabilità del vino ma quando ce n’è troppa causa cattivi odori e fastidi anche gravi per il consumatore; quando ce n’è troppo poca, causa danni seri al vino nella sua struttura. La solforosa è indispensabile come azione antimicrobica, antiossidasica, solubilizzante utile per i composti dell’uva, e infine il suo utilizzo affina le caratteristiche sensoriali del vino. Ma il vino produce solfiti? Certo che sì. Perfino i vini biologici, benchè possano considerarsi senza solforosa (ne contengono meno di 10 mg per litro), ne presentano una bassa concentrazione che viene sviluppata di lieviti stessi e non ha necessità di essere indotta in cantina. LE REGOLE Ovviamente tutte le attività legate alla vinificazione dalla vigna alla bottiglia – o meglio alla tavola – sono sottoposte ad una rigida disciplina ed a precise regole definite all’interno di disciplinari europei e nazionali. Anche il “taglio” del vino è previsto attraverso la tecnica chiamata correzione dei mosti e dei vini. E quando si fa? Può succedere che a causa di cambiamenti climatici e ambientali l’uva non raggiunga la perfetta maturazione e pertanto diciamo che in questi casi l’uomo aiuta la natura attraverso operazioni che si riferiscono allo zucchero, all’acidità ed al colore. Per aumentare lo zucchero nel mosto e quindi il grado alcolico, all’inizio o a metà della fermentazione, si aggiunge zucchero di canna o da barbabietola con il 99% di saccarosio. Per l’arricchimento vengono altresì usati i cosiddetti mosti muti cioè uve con aggiunta di anidride solforosa e le mistelle. Per la riduzione di zucchero, invece, si può procedere in vigna anticipando la vendemmia, o in cantina tagliando il vino con altri mosti meno ricchi o diluendo il mosto con l’acqua. Un problema che può presentarsi è la sovramaturazione. In questa circostanza l’acidità è scarsa e il vino ne risente. Si rimedia o in vigna con la vendemmia anticipata o con l’aggiunta dell’acido lattico e dell’acido malico. Ed

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infine il colore, così accattivante e quindi fondamentale per attirare il consumatore verso la scelta di un vino dal colore rosso acceso o dal bianco brillante o dalle bollicine sottili, si può “aggiustare” se con l’uso di vini ricchi di sostanza colorante o con l’aggiunta di enzimi pectolitici per aiutare il dissolvimento del colore. A volte è necessario decolorare. In questo caso, si può utilizzare il carbone vegetale decolorante nella dose massima consentita di 100 grammi per ettolitro. IL COLORE DEL VINO A proposito di colore, entriamo nel mondo della vinificazione in rosso, il sogno o l’incubo dei produttori per la particolare attenzione che richiede tutto il processo di lavorazione. Durante il processo di fermentazione avviene anche la macerazione delle bucce e ciò permette l’estrazione delle sostanze coloranti in esse contenute. Ovviamente tutto questo processo avviene in cantina alla presenza dell’enologo che visiona tutti i passaggi fino alla svinatura cioè alla separazione di bucce e di vinacce che conclude la fermentazione. Subito dopo il vino viene estratto dalle vasche e si procede alla torchiatura delle vinacce la cui frazione residuale viene usata per la produzione di grappa. Si passa così ai travasi da un recipiente all’altro per rendere sempre più limpido il prodotto e poi alla prova dell’aria. È la parte più delicata e conclusiva che consiste nel prelevare un campione di vino tenerlo in un recipiente in osservazione per 48 ore a 20 gradi di temperatura. Alla scadenza del tempo, se il vino non presenta coloranti alle pareti o odore pungente o odori estranei è pronto per essere travasato e poi imbottigliato.

Coscia di tacchino ripieno al Merlot di Giuseppe Bellanza Ingredienti • 500 gr di una coscia di tacchino • 1 bottiglia di Merlot • 100 gr di sinàpi (senape selvatica) • 8 fette di fette di pancetta di maialino dei Nebrodi • 8 fettine di caciocavallo ragusano Dop • 1 bustina di timo • 1 bustina di origano • 1 bustina di maggiorana • rametti di rosmarino • sale q.b. • olio evo q.b. Procedimento Lessate in un pentolino la senape selvatica, tagliate le 8 fettine di pancetta di maialino nero dei Nebrodi tagliate 8 fettine di caciocavallo ragusano Dop. Disossate la coscia facendo attenzione a non romperla, dopo averla aperta a ventaglio mettete la pancetta, la senape e il caciocavallo. Arrotolate il tutto bloccandolo con la rete per alimenti. Cospargete l'arrotolato con origano timo e maggiorana e inserite nella rete 4 rametti di rosmarino. Riscaldate il forno a 180°C e prima di infornare spennellare l'arrotolato con l’olio e il vino. Girare l’arrotolato spesso inumidendo ogni volta con il vino. Lasciare all'interno del forno per 90 minuti e quindi servire tagliato a fette cospargendolo con la salsa di olio e il vino formatasi nella teglia.

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Latte e formaggi con l’origine in etichetta di Rachele Sanfilippo

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inalmente sapremo l’origine dei prodotti lattierocaseari. La norma, piuttosto travagliata, in vigore il 19 aprile, riguarda le industrie italiane del settore ed i prodotti destinati al mercato interno. Tutte le “regole del gioco” sono contenute nel decreto firmato dai ministri Martina (Agricoltura) e Calenda (Sviluppo economico) il pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 19 gennaio 2017. Regole che però si applicano dopo 90 giorni dalla pubblicazione. Ufficialmente si tratta di una “fase sperimentale” che durerà fino al 31 marzo 2019. Per chi acquista guardando le etichette un avviso: ci saranno 180 giorni di tempo per smaltire i prodotti precedentemente confezionati; poi per smaltire le vecchie etichette queste verranno affiancate da altre, adesive e inamovibili che integreranno le informazioni con quelle obbligatorie. QUALI I PRODOTTI INTERESSATI? Il settore lattiero-caseario è vastissimo ed occorre fare un po’ di chiarezza. Il Mise (Ministero dello Sviluppo Economico) è intervenuto in merito, per puntualizzare meglio l’ambito di applicazione delle norme. Si chiarisce anzitutto che, le regole per “l’etichettatura d’origine” riguardano tutte le tipologie di latte prodotte dalle varie specie animali: latte vaccino, bufalino, ovicaprino e d’asina. Il latte fresco, i prodotti Dop, Igp, Stg e i prodotti biologici non vengono toccati dal decreto, in quanto già disciplinati da specifici provvedimenti. E che dire, inoltre, dei

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cosiddetti formaggi fusi? Sono esclusi in quanto prodotti alimentari ambigui, che non rientrano nella definizione di formaggio. Le sottilette ad esempio, di dubbia identità perché ottenute per fusione di scarti di vari formaggi, utilizzano ingredienti come oli vegetali, coloranti, stabilizzanti, conservanti e sali di fusione (fosfati, polifosfati e citrati di sodio) necessari per rendere il prodotto filante che però eliminano il calcio presente. In sostanza, la nuova norma riguarda tutto quello che s’intende con il termine formaggio o ingrediente. Nel caso dei prodotti lattiero-caseari pre-imballati va specificata l’origine solo del latte (ingrediente), di cui si indicherà il paese di mungitura, quello di condizionamento o di trasformazione. Quando le varie fasi avvengono in un unico territorio, l’indicazione d’origine recherà la dicitura univoca del paese come ad esempio “origine del latte: Italia”; ma se le fasi avvengono in più paesi, possono essere utilizzate le diciture: “miscela di latte di Paesi Ue/non Ue” oppure “latte condizionato o trasformato in Paesi Ue/non Ue”.

Centinaia i prodotti chiamati in causa: latte Uht, formaggi stagionati e freschi, latticini, cagliate, burro, yogurt, mozzarella, pan na, kefir, creme di latte varie, latticello, siero di latte, etc. Da parte degli allevatori italiani del settore si tira un sospiro di sollievo: la norma tanto attesa fa ben sperare in un trend all’acquisto con un’ottica sempre più rivolta al “made in Italy” che dovrebbe tonificare il mercato del latte italiano, depresso dalla concorrenza del latte comunitario. LA LEGGE VALE SOLO IN ITALIA Una avvertenza per i consumatori: la legge non ha effetti sugli altri paesi dell’Unione, per cui solo i produttori italiani avranno l’obbligo d’indicare l’origine della materia prima. Pertanto se uno yogurt è prodotto all’estero e venduto in Italia, non riporterà nulla in etichetta e sarà perfettamente in regola. Negli anni sono stati fatti passi importanti nel processo di trasparenza delle etichettature obbligatorie, ma spesso queste scelte restrittive per il settore agroindustriale furono dettate dalle emergenze sanitarie: è il caso della carne bovina dopo l’emergenza “mucca pazza” e delle uova (con i loro codici d’identificazione) dopo l’aviaria. La provenienza è da qualche

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Formaggio spalmabile

tempo obbligatoria anche per l’ortofrutta fresca, il miele, la passata di pomodoro, il pollo. Nel campo lattiero caseario solo per il latte fresco italiano dal 2005 è obbligatorio riportare in etichetta la stalla di provenienza e la zona di mungitura. I CONSUMATORI ESULTANO Per le associazioni dei consumatori, che si battono da anni in materia di trasparenza alimentare, questo decreto rappresenta una svolta nel settore. Finora in Italia, su quattro cartoni di latte acquistato, tre contenevano latte non italiano ed il consumatore non poteva saperlo. La strada della trasparenza, però è ancora lunga: circa un terzo della spesa degli italiani, infatti, resta ancora anonima. «Due prosciutti su tre e un pacco di pasta su tre, sono venduti come ita-

liani, ma provenienti da maiali o grani stranieri ed i consumatori lo ignorano», denuncia spesso Coldiretti. Ma i consumatori sono spesso “più avanti” dell’industria alimentare e della distribuzione, mostrando comportamenti attenti, intelligenti e consapevoli negli acquisti di cibo. Secondo Eurispes, il quadro italiano sui comportamenti alimentari è chiaro: si risparmia in diversi ambiti, ma in campo alimentare non si rinuncia alla qualità, alla certificazione d’origine ed alla conoscenza dei processi produttivi. I consumatori più attenti, da aprile avranno un mezzo in più, per orientarsi nella scelta all’acquisto consapevole. Attenzione dunque ad un’etichetta d’origine omessa o reticente: probabilmente nasconde materie prime non italiane.

Due semplici ingredienti, pochi minuti per la preparazione e un po’ di pazienza affinché si concretizzi magicamente il famoso formaggio cremoso che tutti conosciamo. Sì, parliamo di una sorta di “Philadelphia” fatto in casa: stesso sapore e consistenza, ma niente conservanti. E la soddisfazione di averlo fatto con le vostre mani? Curiosi? Seguite i semplici passaggi. Ingredienti • 500 gr di yogurt bianco intero e senza zucchero • 1 cucchiaino raso di sale fino Procedimento Versate il cucchiaino di sale all’interno del vasetto di yogurt e mescolate bene per il tempo necessario (affinché possa sciogliersi perfettamente). Prendete un canovaccio in cotone o lino a trama fitta e riponetelo in un recipiente alto; versate tutto il contenuto del vasetto nel canovaccio e richiudetelo annodandolo o con dello spago dandogli forma di fagottino. Strizzatelo un po’ per far fuoriuscire il siero che lo yogurt perde per effetto del sale ed inserite uno stecco da spiedo o un cucchiaione di legno nella legatura, affinché il fagotto resti sospeso e non tocchi il fondo del recipiente (in alternativa, potete riporre il fagotto ben chiuso su di uno scolapasta adagiato sul recipiente). Potete riporre tutto in frigo ed aspettare pazientemente 24 ore senza aprire l’involucro, cioè il tempo di riposo necessario per compiere la magia. Il giorno seguente, aprite il tovagliolo ed il vostro formaggio sarà pronto per essere trasferito in un contenitore ermetico, che si conserverà in frigo perfettamente, ma per non più di 2-3 giorni, visto che non si tratta di un prodotto industriale. A piacere potrete regolare più o meno il sale nello yogurt e, se volete, potrete arricchire il formaggio bianco frullando i sapori che più vi piacciono (pomodorino secco, paté d’olive, salmone, prosciutto, tonno, basilico, etc.). Sapore e consistenza vi stupiranno in quanto praticamente identici al famoso prodotto confezionato.

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Dalle Cucine imp_20 27/03/17 11:05 Pagina 54

Dalle cucine dei ristoranti siciliani ristorante

ristorante

Via San giuseppe, 14 ragusa tel. 0932.621133

Via roma, 113 Santa Flavia (pa) tel. 091.9390060

Il Tocco

Chef Dario Di Liberto

Chef Claudio Gilles Croce Oliveri

r i c e t ta

r i c e t ta

trigLia di terra carcioFi, Funghi, tartuFo

Spaghetti con ricci, carpaccio di gamberi e "muddica atturrata"

Ingredienti per 4 persone 4 triglie di media grandezza 1 fungo porcino 1 carciofo topinambur, cipolle, finocchio, sedano tartufo nero ½ cucchiaio di concentrato di pomodoro pan grattato tostato al pomodoro, al nero di seppia e alle erbe, sale, pepe, timo Procedimento La base del piatto va preparata stendendo una crema di topinambur insieme a un’insalatina di funghi porcini crudi, carciofi e tartufo nero. La triglia va cotta in teglia, dopo una semplice marinatura con olio, sale e timo. Successivamente, il filetto va condito con uno strato di pan grattato di tre diverse tostature: una al pomodoro, una al nero di seppia, una alle erbe. Preventivamente, le lische della triglia vanno tenute in pentola con sale grosso, olio, cipolla, finocchio, sedano, mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro e una sfumatura di vino bianco. Dopo una cottura di circa 20 minuti il fumetto va filtrato e ridotto ulteriormente. Il filetto di triglia va adagiato sulla base di verdure e topinambur; solo una volta servito a tavola, va irrorato con il suo fumetto.

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Donna Concetta

Ingredienti per 4 persone 320 gr di spaghetti, 20 gamberi rossi 100 gr di polpa di ricci di mare 2 acciughe dissalate e diliscate, aglio liofilizzato q.b. 200 gr di pangrattato, un cucchiaino di zucchero una presa di sale, olio extr. d’oliva q.b., peperoncino q.b. Procedimento Fate sciogliere le acciughe, in una padella, con 4 cucchiai di olio, a fuoco basso. Quindi aggiungete il pangrattato e fatelo tostare girando continuamente con un cucchiaio di legno, facendo attenzione che non bruci. Quando la “muddica” sarà bene “atturrata”, avrà assunto cioè un bel colore dorato, toglietela dal fuoco, aggiungete un cucchiaino di zucchero, un pizzico di sale e una spolverata di pepe, mescolate per bene e lasciatela raffreddare. Sgusciate i gamberi e conservate le teste; mettete le code fra due fogli di carta trasparente e batteteli delicatamente, quindi conservate in frigo. Tostate le teste con un filo d’olio, appena saranno dorate sfumate con del brandy. A questo punto aggiungete l'acqua di cottura della pasta, il peperoncino e l'aglio liofilizzato. Scolate gli spaghetti al dente, saltateli nella padella con il condimento e serviteli nel piatto. Adagiatevi i carpacci di gamberi e i ricci e spolverate con la "muddica atturrata".

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Dalle Cucine imp_20 27/03/17 11:06 Pagina 55

ristorante

ristorante

Osteria di Cantine Nicosia

Locanda Nerello c/o Monaci delle Terre Nere

Via Luigi capuana, 65 trecastagni (ct) tel. 095.7809238 Chef Giuseppe Nicotra

Chef Vincenzo Gulino

Via monaci Zafferana etnea (ct) tel. 095.7083638 cell. 331.1365016

r i c e t ta

r i c e t ta

“maccu” di FaVe Fritto

iL cannoLo di ciaLda aL mieLe con ricotta

Ingredienti per 4 persone 300 gr di spaghetti (preferibilmente “alla chitarra”) 300 gr di fave secche sgusciate e ammollate 100 gr patate 30 gr di punte di cipolletta fresca (solo la parte tenera verde) finocchietto selvatico q.b. sale q.b. - brodo vegetale farina di semola olio extra vergine d’oliva - olio di semi di girasole per friggere Procedimento Soffriggete in olio extravergine d’oliva le punte di cipolletta fresca tagliate finemente. Aggiungete le fave secche precedentemente ammollate, lasciate insaporire per un paio di minuti, quindi coprite il tutto con il brodo vegetale. Aggiungete le patate crude tritate, il finocchietto selvatico, anch’esso tagliato molto finemente e il sale. Quando le fave risulteranno ben cotte, allungate, se necessario, con altro brodo vegetale e portate a bollore e aggiungendo gli spaghetti precedentemente spezzati con le mani. A cottura ultimata, versate il composto che dovrà essersi rappreso – divenendo quasi una purea – in una teglia ben oliata con olio extravergine di oliva e lasciatelo riposare in frigo per almeno 6 ore. Quando il composto nella teglia si sarà definitivamente solidificato, tagliatelo a piccoli cubetti di circa 2 cm di spessore. I tocchetti di “macco” vanno passati prima nell’olio extravergine di oliva e poi nella farina di semola, oppure, se si preferisce, nel pangrattato), cercando di realizzare una panatura ben compatta. Quindi, vanno fritti nell’olio di semi di girasole bollente. Possono essere serviti sia caldi, che freddi.

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Ingredienti per 10 pezzi Per la cialda 155 gr di burro 250 gr di zucchero a velo 125 gr miele d’arancio 125 gr di farina tipo 00 Per farcire 600 gr di ricotta - 300 gr di zucchero Per guarnire 200 gr di pistacchi tritati 200 gr di fave di cacao venezuelano scorzette di arancia candita q.b. Procedimento Per ottenere le cialde lavorate la farina con il miele, il burro e lo zucchero a velo fino ad ottenere un impasto omogeneo con cui formerete delle palline della dimensione di una noce. Quindi ponetele su carta forno o silicone (silpat) e infornate a 200°C per circa 6 minuti. Appena il calore trasformerà le palline in sfoglie sottili, estraetele dal forno. Quando saranno intiepidite ma ancora flessibili, arrotolate una per una intorno ad un canna per cannoli fino a farle raffreddare completamente. Nel frattempo lavorate la ricotta con lo zucchero fino ad ottenere un composto liscio e omogeneo che passerete al setaccio 3 o 4 volte. A questo punto riempite ciascuna cialda con la crema di ricotta. Appena avrete riempito tutte le cialde immergete un’estremità nei pistacchi tritati e l’altra nelle fave di cacao tritate. Infine, ponete al centro di ciascuna estremità le scorzette di arancia candita.

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Primavera d’autore di Maria Teresa Di Blasi

Luigi Capuana era un vero buongustaio. Le citazioni di ricette nei suoi romanzi dimostrano quanto per lo scrittore di Mineo la cucina fosse importante. Perfino quando descriveva il cibo della povera gente

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“L

a processione continuava a sfilare, lenta, interminabile: stendardi e confraternite e poi stendardi e confraternite ancora; un riverente silenzio si spandeva tra la folla. Ora venivano avanti le Congregazioni precedute dai loro pennoni: le società dei grossi massai, dei contadini, degli operai di ogni mestiere, tutti in abito scuro, gravi di portamento, con corone di spine in testa e in mano torce con lanternini di carta, su cui trasparivano rozzamente istoriati gli attrezzi della Passione: tre chiodi, il martello, la scala, la spugna dell’aceto e del fiele, o il velo della Veronica, o la croce soltanto…” (da Profumo, ed. Kromato, 2016). Questa la descrizione della suggestiva sfilata processionale di Pasqua nel paese di Spaccaforno (oggi Ispica in provincia di Ragusa) dove il Capuana, nato a Mineo nel 1835, si recava per incombenze legate al suo ruolo di Sindaco. Qui, grazie all’ospitalità della famiglia di Saverio Gennaro che lo accoglieva come un parente, ebbe modo di apprezzare, tra le altre prelibatezze che la ricca cucina locale produceva, le uova dolci. La ricetta è di Elena Gennaro ed è quella originale del 1880: “Si fa cuocere 4 tuorli d’uovo in 4 cucchiai di miele, si cuocino duri. Si atturrano 4 oncie di mandorla, si pesta fina, mettendoci nella mandorla scorza di limone grattata, o tagliata la scorza a fettine finissime. Si battono le 4 chiare d’uovo, col miele dove sono stati cotti i 4 tuorli d’uovo e il tutto si fa cuocere come crema quagliata mettendoci vaniglia o cannella pestata fina. Dopo si situa in un piatto da portata il conte-

nuto, collocando a disegno i tuorli e mettendo di sopra zucchero fine e cannella pestata fine. Dopo si sbolliscono un po’ di mandorle, si pelano, si tagliano per lungo a pettine e si contornano i tuorli d’uovo, mettendole a dritta. Non avendo miele si può usare invece zucchero e si cuocino lo stesso”. Nell’originale è scritto che Capuana, innamorato di questo dolce, ne avesse richiesto la ricetta. Oggi, per deli-


Capuana imp_21 27/03/17 11:06 Pagina 57

ziare gli ispicesi e non solo, queste uova dolci sono state riprese e rivisitate dal maestro pasticcere Emanuele Denaro che rivela a Sapori di Sicilia i segreti della preparazione. Luigi Capuana, oltre che scrittore, poeta, fotografo, caricaturista, collezionista, era un appassionato di sapori della sua terra, quella Mineo che è stata la fonte principale delle sue ispirazioni: “A Pasqua e a Natale quando la zia Mimì (che viveva nella residenza di campagna a Santa Margherita n.d.r.) veniva in città la mattina per tornare in campagna la sera dello stesso giorno, ci portava in regalo uva passa, fichi secchi, mostaccioli (dolci tipici preparati con all’interno mandorle, pistacchi o pinoli finemente tritati) con le mandorle, frutta d’ogni genere, secondo la stagione, e certi tortelli fatti con i rossi d’uova e ricotta, che erano una ghiottoneria da leccarsi le dita”. Sono i “ricordi d’infanzia” di Luigi Capuana che ci giungono vivi e pieni di vigore; ricordi che sembrano frutti della terra pronti a essere elaborati da mani sapienti per finire sulle tavole senza tempo di chi ha il palato fino e la voglia di mangiar bene. Tra le ricette povere ma saporite di Mineo, ricordiamo la cicoria con l’aceto e la pasta fricata. Anche in altre opere ci dà testimonianza di sapori senza troppe sofisticazioni; pochi dettagli per farci intuire come desinavano i popolani, i contadini o i ceti più agiati. Nella novella Scimmiotto ci rende partecipi di un episodio singolare che caratterizza uno dei personaggi principali: “Quando aveva raccapezzato quattro soldi, si comprava due soldi di pane e due soldi di cacio, o di fichi freschi, o di uva, o un soldo di pastinache e due arance, e faceva colazione sugli scalini della chiesa, in piazza, al sole, contento come una pasqua”. E continua: “Un soldo da spendere esse non sempre lo avevano, ma una fetta di pane, sì; dei fichi secchi, due mustaccioli, mezzo piatto di fave allesse condite con olio e aceto rimaste la sera avanti, sì”. Con le fave, a proposito, a Mineo, si prepara la minestra di fave e “giri” (bietole). In un’altra novella,

Capelli d’angelo

Le verginelle, si ritorna a respirare aria di festa, quella patronale di Santa Agrippina: “Donna Sara aveva impastato le lasagne che Benigna tagliava nella madia; e ora spennava il gallo e le tre galline da fare in stufato; il pane, lo avrebbero infornato la sera avanti per averlo fresco fresco. Sant’Agrippina, vedrete, farà il miracolo ripeteva donna Sara”. Nel racconto Cardello si evince quanto sia importante ciò che si mangia e quanto sia indispensabile tramandare il saper fare le cose buone: “Tu non sei il servitore del primo venuto, ma del Decano Russo della Matrice... …- E per cucinare? - So cucinare i maccheroni (è Cardello che risponde n.d.r.). - È poco. T’insegnerò; dovrai imparare. L’arrosto, il fritto, l’umido, e gl’intingoli... Il dolce ce lo manderanno tutti i giorni le monache. Per questo passo tre, quattro ore al giorno ad ascoltare le sciocchezze che mi dicono dietro la grata del confessionile... Pettegolezzi di teste fasciate... Ma i dolci sono eccellenti... E poi io non la penso come quel tale che diceva: o paglia o fieno purché il ventre sia pieno! Invece delle cose di Dio, il padre cappellano pensava a insegnargli ad arrostire le costole di maiale; a fare lo stufato pei maccheroni; il brodo coi galletti che le monache allevavano nell’orto per lui; certi intingoli ghiotti e un po’ complicati che richiedevano grande attenzione; e una frittata delicatissima, per la quale bisognava sbattere prima le chiare delle uova a parte e poi i torli, anch’essi a parte. - Le chiare si sbattono finché si riducono tutt’una spuma; vi si mescolano i torli, aggiungendo poche stille d’acqua, e giù nella padella con l’olio che frigge. Così... osserva bene. Ora puoi servire in tavola. Le ore passate in cucina erano uno svago per Cardello”. Vale poi la pena ricordare un’antichissima ricetta di un dolce tanto elaborato quanto buono e raffinato, rintracciata da Corrado Di Blasi, che avendo dedicato la sua vita allo studio e alla valorizzazione

Uova dolci

di Elena Gennaro per Luigi Capuana a cura del maestro pasticcere Emanuele Denaro di Ispica Ingredienti • 4 uova (due per persona), • 4 cucchiai di miele di carruba • acqua, mandorle di Avola tostate e tritate • scorza di limoni di Siracusa • vaniglia o cannella Procedimento Si rompono le uova separando gli albumi dai tuorli, si scioglie il miele con un po' d’acqua e vi si adagiano piano piano i tuorli fino a farli rassodare nel miele caldo. Si tolgono dal miele i tuorli e si mettono a raffreddare. Nel miele rimasto si mescolano gli albumi e si monta tutto a neve, poi si aggiungono le mandorle tostate e tritate e le bucce di limone finemente grattugiate. Si dispongono su un piatto alcune foglie di limone, fettine di limone e al centro il miele con le mandorle; si poggiano su questo letto dolce e profumato i tuorli cotti nel miele e si circondano con mandorle intere disposte a forma di margherita.

dell’opera capuaniana, nell’ambito delle sue ricerche sulle tradizioni popolari di Mineo ha riscoperto i capelli d’angelo, una preparazione destinata altrimenti all’oblio. REFERENZE BIBLIOGRAFICHE: “LE RICETTE DA’ SIGNA MENA”, MINEO 1998. SI RINGRAZIANO GIOVANNA DISCA ED EMANUELE DENARO

Ingredienti • 6 uova • olio per friggere • sale • miele • acqua • zucchero • bucce d’arancia o di mandarino • cannella • scaglie di cioccolato fondente • mandorle tostate e tritate Procedimento Si battono in una terrina le uova con un pizzico di sale; dopo avere unto con olio una padella antiaderente del diametro di 20 centimetri, si cominciano a preparare delle frittatine sottili come un velo. Le sfoglie così ottenute si devono arrotolare e, poi, tagliare a striscioline sottilissime come gli spaghetti (i capelli d’angelo). Si prende poi un pentolino e si prepara uno sciroppo con miele, acqua, zucchero e bucce d’arancia o di mandarino tagliate sottilissime. Disponete su un piatto i capelli d’angelo, irrorateli con lo sciroppo freddo e conditeli con le scaglie di cioccolato fondente, le mandorle tostate e tritate e la cannella. Sovrapponete più strati di questa deliziosa leccornia e servite in tavola.

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Cucina alternativa con la

vasocottura

di Manuela Zanni

P

er tutti coloro che sono affascinati dalle novità e che hanno voglia di sperimentare metodi di cottura alternativi sarà davvero divertente provare la vasocottura, la tecnica innovativa diventata negli ultimi anni di tendenza, utilizzata dai grandi chef e facilmente realizzabile anche in casa. Si tratta di una particolare metodologia di cottura che permette di ottenere risultati che sono una via di mezzo tra la cottura al cartoccio e quella al vapore e che hanno anche il grande pregio di preservare la maggior parte delle proprietà organolettiche degli ingredienti utilizzati, degradandone solo in minima parte la consistenza, i colori e i profumi. Inoltre, la quantità di grassi utilizzata in questo tipo di cucina è davvero ridotta, e in alcuni casi, addirittura azzerata, il che rende le pietanze anche più sane senza rinunciare al gusto. Molti chef preferiscono utilizzare questo sistema perché veloce, pratico, economico e anche molto scenografico. Infatti, una volta pronto, il piatto può essere servito ai commensali direttamente con il vasetto in cui è stata effettuata la cottura lasciando che sia ciascun ospite ad aprire il barattolo, potendo godere, pertanto, anche degli aromi sprigionati appena sollevato il coperchio. Insomma si tratta di un trucco che vi farà fare bella figura con poca fatica. Esistono diversi modi di realizzare la vasocottura. In genere si usa la tecnica del bagnomaria o il microonde; ma c’è addirittura chi, strizzando l’occhio al risparmio e alla lotta agli sprechi, opta per la cottura in lavastoviglie, sfruttando il calore prodotto dal ciclo di lavaggio. Non c’è limite a quello che si può cucinare all’interno dei vasi di vetro: dalla carne al pesce, dalla pasta alle verdure, e ancora crostacei e salse, creme e persino dolci. L’importante è che si tratti di in-

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gredienti di rapida cottura, altrimenti è consigliabile sottoporre gli alimenti ad una precottura. In ogni caso, sia che si tratti di ingredienti precotti che freschi, si consiglia di comporre i vasetti alternando gli ingredienti e disponendoli in modo da fare risaltare i colori: così si renderà la preparazione anche gradevole alla vista. A questo punto basterà aggiungere un filo d’olio e passare alla cottura, o per meglio dire alla vaso-cottura. Per realizzare una vasocottura a bagnomaria, è necessario anzitutto che i vasetti siano chiusi in maniera perfettamente ermetica. Successivamente occorre riporre i vasetti in una pentola capiente e riempirla di acqua. Quindi accendere il fuoco e fare cuocere per circa dieci minuti. Trascorso il tempo stabilito potete prelevare i vasetti (fate attenzione, data l’elevata temperatura, potreste scottarvi) e capovolgerli per qualche secondo in modo tale da far distribuire i liquidi in maniera uniforme. Per la cottura in microonde si dovrà fare attenzione alla pulizia dei ganci metallici dei vasi prima di inserirli nel forno in modo che non presentino residui di cibo o condimenti perché quello potrebbe provocare qualche scintilla. Il cibo all’interno cuocerà in sei minuti perché all’interno si crea il sottovuoto e questo velocizza la cottura. Le guarnizioni dei vasi, in genere, sono di caucciù o di silicone e sono in grado di resistere al calore. Cotti a bagnomaria o nel microonde, i cibi cotti con la vasocottura possono essere conservati in frigorifero per non più di 15 giorni. Bisogna poi sapere che se all’interno c’è formaggio, la durata è inferiore rispetto ad un contorno di verdure. Per tutti coloro curiosi di provare questa tecnica tanto innovativa quanto semplice da realizzare, di seguito proponiamo un menù completo interamente preparato con la vasocottura. Provare per credere.

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Lasagne zucchine e provola Ingredienti per 4 vaso-porzioni da 500 gr • 16 dischetti di pasta per lasagne (ricavati col coppa-pasta) • 200 gr di provola affumicata • 2 cucchiai di parmigiano reggiano grattugiato • 6 zucchine • uno spicchio d’aglio • un mazzetto di basilico • 2 cucchiai di olio extraver. di oliva • sale q.b. Per la besciamella • 1/2 lt di latte • 50 gr di farina • 30 gr di burro • una presa di sale • noce moscata Procedimento Per preparare la besciamella fondete in un tegame il burro, quindi toglietelo dal fuoco ed incorporate la la farina, stemperate con un po’ di latte e mescolate bene fino ad ottenere una cremina (detta roux); unite, sempre mescolando, tutto il latte, il sale e la noce moscata, rimettete sul fuoco e, sempre mescolando, portate a bollore. Spegnete la fiamma appena avrete ottenuto una besciamella cremosa. Lavate, spuntate e affettate le zucchine. In una larga padella riscaldate l’olio con l’aglio sbucciato e tritato,

unite le zucchine, salate leggermente, coprite e cuocete per 15 minuti almeno. Se necessario unite poca acqua. Al termine della cottura delle zucchine unite le foglie di basilico lavate e spezzate. Nel frattempo tritate con una grattugia dai fori larghi la provola. Unite la besciamella alle zucchine, unite anche il parmigiano e mescolate il composto. A questo punto tagliate le sfoglie di lasagna con un coppa-pasta dando loro la forma circolare. Versate un po’ di besciamella nel vaso, adagiate una sfoglia di lasagna, un altro po’ di besciamella ed un po’ di provola, le zucchine e poi mettete un’altra sfoglia di lasagna e proseguite fino a creare 4 strati. Pulite i bordi del vaso e chiudete con il gancio. Preimpostate il forno a microonde a 800W per 480/500 grammi di peso per 6 minuti, inserite un vaso ed avviate la cottura. Intanto preparate gli altri vasi e man mano che estraete un vaso inserite l’altro. Lasciate riposare i vasi estratti dal forno per 10 minuti.

Parmigiana di melanzane

Tortine di mele

Ingredienti per 4 vaso-porzioni da 500 gr • 2 melanzane • una cipolla • 200 ml di salsa di pomodoro • 200 gr di scamorza • 60 gr di parmigiano reggiano grattugiato • qualche foglia di basilico o origano fresco • olio di oliva extravergine q.b. • sale q.b.

Ingredienti per 4 vaso-porzioni da 500 gr • 2 mele • il succo di un limone • 3 uova • 100 gr di zucchero di canna • 10 gr di farina di grano tenero • un cucchiaino di lievito per dolci • 50 gr di burro (o margarina senza grassi idrogenati) • un pizzico di sale • un pizzico di cannella in polvere • poco burro e farina per imburrare i vasetti

Procedimento Lavate le melanzane, affettatele a fette regolari e grigliatele. Salatele e mettetele da parte. Intanto preparate la salsa di pomodoro rosolando la cipolla affettata con l'olio, in un tegame, aggiungete la salsa di pomodoro e fate cuocere per 10 minuti, salate e a fine cottura aggiungete le foglie di basilico. Tagliate la scamorza ed iniziate a realizzare la parmigiana di melanzane. Mettete sul fondo del vaso un cucchiaio di salsa ed adagiatevi tre fettine di melanzana arrostita, poi la mozzarella e continuate, alternando gli ingredienti, fino a creare un totale di tre strati di melanzane. Ultimate con la salsa e un’altra foglia di basilico. Pulite i bordi del vaso e chiudete. Impostate il microonde a 800W per 6 minuti e “infornate”. Una volta sfornata fate riposare per 10 minuti.

Procedimento Preriscaldate il forno a 160°C. In un vasetto mettete il pezzetto di burro più 10 grammi che userete per imburrare, inserite nel forno e fate fondere. Appena sarà fuso il burro, estraete dal forno il vasetto. Pelate e grattugiate, con una grattugia a fori larghi, la mela, fatela cadere in una ciotola e spremete sopra il succo del limone, mescolatela. Sgusciate le uova in una ciotola, unite lo zucchero e montate con una frusta, fino ad ottenere un massa ben montata e chiara, unite a filo quasi tutto il burro fuso continuando a montare. Pennellate i vasetti con il burro rimanente e infarinateli, eliminando la farina in eccesso. Setacciate la farina con il lievito e fatela cadere sulle uova montate, incorporatela con una spatola e unite il sale e la cannella. Infine unite la mela grattugiata e mescolate ancora. Versate il composto della torta di mele grattugiate nei vasetti, cercando di non sporcare i bordi. Infornate per mezz’ora senza tappare comunque prima di sfornare fate la prova stecchino. Nel frattempo preparate i coperchi e i ganci. Sfornate i vasetti con la torta di mele e tappate subito, fermando il tappo con il gancio. Lasciate raffreddare completamente la torta in vasocottura, così avrà tempo di crearsi il sottovuoto. Servitela tiepida.

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In rovina le antiche muciare della TONNARA DI BONAGIA

L

a muciara, la barca dove un tempo il rais impartiva i suoi ordini ai tonnaroti, praticamente non esiste più, ridotta ad una catasta di legname avvolta dalle erbacee. Il primo vascello che apre la schiera delle barche mostra i segni del tempo e dell’incuria: il fasciame ha ceduto e la prua ormai è a terra. Restano le ultime quattro barche, tutte malconce, devastate al loro interno, con rifiuti di ogni genere, il fasciame distrutto, la poppa aperta e le chiglie piegate. Resistono solo le maestose prue. Ma il legno è fradicio, spaccato e letteralmente divorato dal vento e dalla salsedine. È quello che resta della flotta della Tonnara di Bonagia lasciata a marcire a poca distanza dalla torre. Siamo a Valderice: qui gli antichi vascelli usati per la mattanza sono lasciati in secco vicino al mare, e da anni versano in condizioni di degrado e abbandono, tra rifiuti, erbacce in un quadro di generale desolazione. Eppure si tratta di autentici reperti di archeologia navale, testimonianza dell’opera dei mastri d’ascia di un tempo, su cui grava pure un vincolo etno-antropologico della Soprinten denza ai beni culturali di Trapani. Non si tratta insomma di vecchie barche da demolire. Alcuni vascelli hanno più di 100 anni di vita. In altri parti del mondo, l’antica flotta della Tonnara di Bonagia, piuttosto che essere lasciata in queste condizioni, sarebbe stata sicuramente recuperata e inserita in un museo, come • MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •

avvenuto del resto per le loro “cugine” di Favignana. Per rimetterla in sesto servono circa trenta mila euro per ciascuna delle quattro barche rimaste. Per reperire le risorse necessarie i promotori dell’operazione recupero, Nino Castiglione, patron dell’azienda trapanese di conserve ittiche, Andrea Bulgarella, il proprietario della tonnara di Bonagia e Mino Spezia, sindaco di Valderice, hanno lanciato un’operazione di crownfunding tra cittadini, operatori economici e forze imprenditoriali del territorio. Ma non escludono anche altri contributori e si augurano di scuotere le istituzioni e la classe politica locale. «Tutti i contributi sono importanti spiega Nino Castiglione - anche il dono

di pochi euro o la collaborazione al progetto attraverso con la propria attività o azienda». E continua: «Serve davvero l’aiuto di tutti per salvaguardare questo patrimonio storico e culturale che rappresenta l’identità di un’intera comunità, oltre che una opportunità di crescita per l’intero territorio». Il sogno dei promotori dell’iniziativa – non proprio irrealizzabile – è l’inserimento delle barche recuperate in un museo, magari in un percorso a rete con la Torre della Tonnara di Bonagia al cui interno si trovano già due sale in cui sono esposti alcuni plastici in scala del sistema delle reti, gli utensili e le foto di mattanze, rais e tonnaroti.

Michele Riccobene Ph

di Angela Sciortino

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Borghi imp_24 27/03/17 11:10 Pagina 62

Piana degli Albanesi la città degli esuli arbëreshë di Vanessa D’Acquisto dove mangiare e dormire

ristorante La montagnola c.da Brigna, km 22 tel. 091.8571831 Trattoria San giovanni via Giacomo Matteotti, 34 tel. 091.8561025 extrabar piazza Vittorio Emanuele, 4 tel. 091.8571033 info@extrabarpetta.it

agriturismo Sant’agata c.da Sant’Agata tel. 338.4598654 - 338.6707126 info@santagatagriturismo.it

B&B Cavallino rampante via Francesco Crispi, 101/103 tel. 334.3810606 - 328.1086677 bebcavallinorampante@libero.it

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L

a “Chiana” (come la chiamano i palermitani), è un piccolo pezzo di Albania in Sicilia: la più popolosa comunità arbёreshё d’Italia. Piana degli Albanesi fu fondata nel 1488 quando un gruppo di esuli albanesi dovette fuggire dalla propria terra a seguito dell’espansione ottomana. Il territorio su cui si insediarono fu concesso dall’arcivescovo di Monreale ed era posizionato all’interno dell’Isola, soprattutto per evitare i continui attacchi dei loro nemici turchi. La costituzione di insediamenti permise alle nuove comunità di mantenere le loro tradizioni, i loro costumi e i loro riti. I Capitoli di fondazione (ossia gli atti ufficiali) obbligavano gli arbёreshё a non vivere nella condizione di profughi, ma a provvedere al proprio sostentamento, iniziando a coltivare le terre circostanti. Nel 1534 una seconda ondata di esuli si aggiunse alla prima aumentando la comunità e conferendo così la piena autonomia amministrativa, giuridica, economica e religiosa. Col desiderio di mantenere vive le proprie radici e non unirsi ai forestieri (i latini), fu concesso loro di ottenere l’esclusività delle cariche pubbliche. Tale privilegio venne mantenuto fino al 1819 e ciò permise agli arbёreshё di consolidare le proprie tradizioni etno-linguistiche e religiose che sono ancora vive e praticate. L’amministrazione comunale infatti promuove un bilinguismo di base negli atti ufficiali, negli uffici e nei pubblici avvisi. Nonostante ciò, gli arbëreshë parteciparono attivamente alle vicende più significative della Sicilia: la rivolta della Gancia del 1860, la spedizione dei Mille, la costituzione dei Fasci Siciliani dei Lavoratori. Inizialmente il centro, distante soli 24 chilo-

metri da Palermo, venne erroneamente denominato Piana dei Greci perché gli arbëreshë venivano confusi con i greci a causa dell’uso del greco nella liturgia. Il nome Piana degli Albanesi, più indicato a sottolineare l’origine dei suoi abitanti, venne conferito nel 1941. Di analogo significato il nome arbëreshë della città: Hora e Arbëreshëvet traducibile in “Città degli Albanesi”. Ma i suoi abitanti la chiamano comunemente Hora (“borgo”, “regione”) che prende il significato di “città” come ad indicare la sua importanza fra le comunità siculo-albanesi. Il nucleo principale della città deve la sua costituzione alla commistione tra lo stile tardo-medievale (databile alla prima ondata migratoria) e lo stile cinque-seicentesco (a seguito della seconda ondata). La città è costituita da piccole vie e ripide scalinate che convergono verso il corso principale Giorgio Castriota Skanderberg (l’eroe nazionale albanese la cui morte provocò la migrazione dei suoi connazionali) che percorre tutta la città. Questo dualismo stilistico si riscontra anche nel patrimonio artistico e monumentale della città. I due stili, bizantino e barocco, coesistettero per lungo tempo e in alcuni momenti si fusero insieme. Ma è legata al periodo barocco, non eccessivo nelle decorazioni, la realizzazione di chiese, palazzi e fontane. Ne sono d’esempio la fontana dei Tre cannoli e la Chiesa santuario di Maria SS. Odigitria nella seicentesca Piazza Grande o Piazza Vittorio Emanuele. Dal punto di vista delle tradizioni, Piana viene ricordata anche per gli abiti tradizionali che le donne indossano fie• MAGAZINE SAPORI DI SICILIA •


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Cannolo siciliano

ingredienti

Per la scorza (shkorça): 200 gr di farina (miell), 30 gr di zucchero, 20 gr di strutto (o burro), 3 cucchiai di Marsala o vino bianco secco, un pizzico di sale (kripa), strutto o olio di semi per friggere Per il ripieno: 1 kg di ricotta di pecora, 600 gr di zucchero, 200 gr di cioccolato fondente, 100 gr di buccia d’arancia candita Procedimento

ramente durante le cerimonie religiose pubbliche, come la Settimana Santa, e quelle private, come nozze e battesimi. Si tratta di abiti di pregevole fattura realizzati con stoffe ricamate con seta, oro e argento e dai colori accesi per quelli estivi dove prevale il rosso, e meno accesi per gli abiti invernali (dove prevale il nero). Non si può parlare della cucina tradizionale senza menzionare il cannolo. La ricetta non è originaria dell’Albania, ma è stata modificata e resa ciò che è dai siculo-albanesi e che viene fieramente tenuta segreta dai loro pasticcieri. Il cannolo è una delizia grazie alla grande e importante produzione degli allevamenti ovini e dei prodotti caesari di cui, com’è noto, la ricotta (utilizzata soprattutto per i dolci) costituisce un prodotto secondario. Da ricordare poi anche l’ottimo primosale da accompagnare con il pane locale, il pecorino stagionato o “canestrato”, molto più salato del precedente e utilizzato principalmente per condire la pasta e la caciotta. Chi si reca a Piana degli Albanesi non può tornare a casa senza il pane tipico (bukë) che viene preparato con farina di grani duri locali, lievitato tuttora con metodi naturali e cotto negli antichi forni a legna. Vengono preparate solo pagnotte dalla forma rotonda e dal peso di 1 kg o da mezzo chilo. È ideale accompagnarle con il gustoso olio d’oliva locale e dal già citato pecorino. Altro piatto tipico sono gli gnocchi di farina (strangujët) fatti a mano che vengono conditi con il pomodoro e il basilico. Vengono preparati per il 14 settembre, giorno dell’esaltazione della Santa Croce, dove durante la celebrazione liturgica vengono benedetti i

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rametti di basilico che verranno distribuiti alle famiglie che li utilizzeranno per condire gli gnocchi. Un piatto tipico della zona è la salsiccia di maiale condita con sale, pepe e semi di finocchio, il cui sapore viene esaltato in particolare da un contorno di cavoletti selvatici saltati con aglio e olio. Nel periodo di carnevale (kalivari) vengono preparati i loshkat e petullat, ossia delle frittelle di pasta lievitata fritte e zuccherate. I primi vengono preparati con acqua, latte, farina e pasta lievitante (farina inacidita col caglio) e addolciti con zucchero, cannella e vaniglia, mentre i secondi solo con acqua, farina e zucchero. Nel periodo pasquale, la varietà dei piatti tradizionali, come le tipiche uova rosse, rappresentano una fase dei riti della Settimana Santa.

PORTELLA DELLA GINESTRA (PURTELJA E JINESTRËS) A circa 3 chilometri fuori il centro città, percorrendo la strada provinciale 34, si giunge a Portella della Ginestra, ampia distesa verde sovrastata dal monte Pizzuta. Il luogo è tristemente noto per la strage del 1° maggio 1947, quando un gruppo di lavoratori, (ma anche donne e bambini, provenienti principalmente da Piana, San Giuseppe Jato e San Cipirello), che si trovava sul luogo per festeggiare la festa del lavoro, cadde vittima dei colpi sparati dalla banda del bandito Salvatore Giuliano. La strage è ricordata dal memoriale creato tra il 1979 e il 1980, che occupa la distesa ed è costituita da undici pietre sparse, tante quante furono le vittime dell’eccidio.

Versate su di un tavolo la farina a fontana aggiungete lo strutto a pezzetti, lo zucchero, il Marsala e il sale. Impastate bene fino a ottenere una pasta compatta ed elastica. Avvolgete l’impasto con la pellicola e lasciatela riposare per circa mezz’ora in frigo. Poi spianatela sottilissima e tagliate dei cerchi di circa 10 cm di diametro. Arrotolate i cerchi attorno ad un cilindro di alluminio saldando due lembi opposti con una goccia d’acqua e friggete le scorze in un tegame con lo strutto. Lasciateli scolare sulla carta assorbente e togliendo il cilindro quando sono fredde. Setacciate la ricotta con lo zucchero e aggiungete le scaglie di cioccolato. Farcite le scorze ed infine decorate con la buccia d’arancia tagliata a listarelle e lo zucchero a velo.

Petullat

ingredienti

1 kg di farina, ½ cubetto di lievito di birra, acqua, sale, olio d’oliva Procedimento Setacciate la farina e al centro versate l’acqua, aggiungete il sale e il lievito. Impastate fino ad ottenere un composto soffice. Ponete l’impasto in una terrina e coprite con un filo d’olio. Lasciate lievitare per un paio d’ore. In un tegame fate riscaldare l’olio, poi prendete piccole quantità d’impasto che immergerete nell’olio caldo. Con uno spiedino di legno giratele per mantenere una forma circolare. Quando colorite, toglietele dal fuoco, disponetele su di un piatto e cospargetele con lo zucchero.

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Prizzi imp_25 27/03/17 11:10 Pagina 64

Incantevole Prizzi

tra edifici medievali e riserve naturali di Giorgia Iannelli

Il ballo dei diavoli della domenica di Pasqua è il rituale più rappresentativo della cittadina sicana e ricorda l’eterna lotta tra il bene e il male

dove mangiare e dormire

ristorante Tre Torri c.da Santa Barbara (bivio Prizzi) tel. +39 320.2304593 ristorante L’agorà c.da Cerasella tel. 091.8346144 - 338.4804095 azienda agricola Traina c.da Torre Sosio tel. +39 339.4594895 info@aziendaagricolatraina.it Hotel residence 11 Ponti   c.da Canalotto tel. +39 091.8346922

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osto al centro della Sicilia occidentale entro la splendida cornice dei Monti Sicani e abbarbicato, a 1000 metri sul livello del mare, caratteristica che ne fa uno dei comuni più alti di tutta la Sicilia, Prizzi venne per questo considerato il luogo adatto in cui costruire, in epoca bizantina, un castello che fungeva da sistema di segnalazione e ricezione dei segnali di fumo e di fuoco. Di questo castello oggi sono rimasti purtroppo solo i ruderi e la torre di avvistamento. Non si conoscono con certezza le origini della città né è chiara l’etimologia del nome. Secondo alcuni deriva da un verbo greco che significa “bruciare”, con allusione alla funzione del castello, ma è più plausibile che derivi dal termine greco “pyritis”, che significa “di frumento”, coltivazione qui

diffusa già nell’antichità. Quanto alle origini, si pensa che risalgano al III secolo a. C., allorquando gli abitanti della città di Hippana, ubicata sulla Montagna dei Cavalli, proprio di fronte al monte su cui sorge Prizzi, furono costretti a fuggire in seguito ad un’invasione romana nel 258 a. C. Oggi Hippana costituisce un sito archeologico di rilievo e molti reperti in essa rinvenuti si trovano al museo archeologico di Prizzi che, è bene sottolineare, non è l’unica importante attrazione della città. A Prizzi ci si reca, infatti, anche per visitare l’affascinante riserva naturale di Monte Carcaci, e la Montagna dei Cavalli posta a pochi chilometri dove insiste la riserva naturale della Valle del Sosio.


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Prizzi conserva oggi un tipico aspetto medievale, con le sue basse case in pietra dai tetti spioventi e l’intrico di stradine, vicoli e scalinate. Mantengono un sapore medievale anche molti degli eventi che scandiscono il calendario annuale della città, tra cui le quattro fiere del bestiame (la Fiera di San Giorgio, la Fiera dello Statuto, la Fiera di Prizzi, la Fiera della Madonna del Soccorso) e il Convito di San Giuseppe, organizzato in occasione della festa dedicata al santo: tutte le famiglie che hanno fatto un voto imbandiscono una lunghissima tavolata con le pietanze da loro preparate, tra cui non possono mancare finocchi dolci e fritti, carciofi dolci e cardi in pastella, pasta condita con sugo, asparagi e mollica fritta, riso con zafferano e, ovviamente, le “sfinci di San Giuseppe”, i famosi bignè fritti ripieni e ricoperti di ricotta. Ospiti d’onore del convito sono i tre che rappresentano la Sacra Famiglia. Tuttavia l’evento senz’altro più importante, nonché il più noto, del comune di Prizzi è u ballu di li diavuli, che ha luogo durante la domenica di Pasqua e ha inizio già dal mattino, quando all’alba tre personaggi, rappresentanti i diavoli e la morte, corrono per il paese bussando a tutte le porte per svegliare chi vi abita. I due diavoli (ma possono essere anche più di due) sono vestiti con una tuta rossa, portano una maschera anch’essa rossa, con una grande bocca da cui fuoriescono i denti e la lingua, e sono “armati” di catena. Il capo, sormontato da due corna, è ricoperto da un vello di caprone o di agnello, bianco per un diavolo e nero per l’altro, che scende lungo la schiena. La morte indossa invece una tuta color giallo ocra (a Prizzi si chiama “u giallu mortu di Pasqua”), ed è gialla anche la

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sua maschera, dall’aspetto assai inquietante, dalla cui bocca fuoriescono due lunghe zanne (i “scagliuna”) e la sua arma è la balestra. Durante la giornata il trio corre per le strade brandendo le catene per fare chiasso e importunando i cittadini, i quali, per far cessare il rumore, devono offrire un obolo (in denaro o in natura) mentre tutte queste offerte vengono conservate in una borsa di cuoio da un “notaio” che li accompagna. Molte persone vengono invece “catturate” e portate simbolicamente all’inferno (dei locali adibiti per l’occasione) dove alle vittime, in cambio di un obolo grazie al quale ottengono di essere liberate, vengono offerti alcuni dolci tradizionali, i cannateddi detti anche “pupi cu l’ova”, che “racchiudono” un uovo sodo. Ma il ballo vero e proprio, modulato secondo ritmi e movenze precise in accordo con la musica della banda, ha inizio quando comincia il cammino delle statue del Cristo e della Madonna che, provenienti da parti opposte, procedono l’una verso l’altra. L’obiettivo dei diavoli e della morte è infatti quello di impedire u ’ncontru dei due simulacri, ballando ora presso l’uno ora presso l’altro. Il culmine si raggiunge quando i tre si ritrovano intrappolati proprio tra le statue e vengono trafitti dagli angeli che le accompagnano, mentre il manto nero della Madonna cade lasciando il posto a quello azzurro. Il ballo dei diavoli è un evento talmente rappresentativo dell’identità prizzese da essere stato presentato all’Expo del 2015. Si tratta di un antico “rituale” che ha probabilmente origini pagane, laddove alla rappresentazione del trionfo della vita e della natura (la primavera) sulla morte (l’inverno) si è sostituita quella dell’eterna lotta tra bene e male.

Cannateddi ingredienti Per l’impasto • 500 gr di farina • 200 gr di zucchero • 125 gr di strutto • 2 uova • 75 ml di latte • un cucchiaino di ammoniaca • 1/2 bustina di lievito • scorza di arancia o di limone Per la glassa (facoltativa) • 35 gr di albume • 180 gr di zucchero a velo • uova sode (circa 7-8) • zuccherini colorati o altre decorazioni Procedimento Mescolate la farina con la scorza grattugiata e disponetela fontana, fate una conca al centro e versate lo zucchero e le uova leggermente sbattute. Aggiungete lo strutto, mescolate l’ammoniaca con il latte, aggiungendo il composto gradatamente, e amalgamate il tutto. Lasciate riposare l’impasto in frigo per un’ora circa. Passato il tempo di riposo necessario, dividete l’impasto in più parti da lavorare separatamente, stendetelo con un mattarello e date la forma che preferite. Mettete al centro un uovo sodo e ricopritelo con due o più strisce di pasta sovrapposte. Spennellate la superficie con dell’uovo sbattuto e ponete in forno a 200°C per 15-20 minuti (in base alle dimensioni dei biscotti) o finché i biscotti non risulteranno ben dorati. Nel frattempo preparate la glassa, sbattendo velocemente le uova insieme allo zucchero a velo, aggiungendo se necessario qualche goccia d’acqua (o anche di succo d’arancia o limone), in modo da ottenere la giusta consistenza. Quando i cannateddi si saranno raffreddati stendervi sopra la glassa e decorate a piacere con zuccherini colorati o altro, lasciate asciugare e saranno finalmente pronti per essere mangiati.

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Valerianella imp_26 27/03/17 11:11 Pagina 66

songino

l’insalata dai tanti nomi di Martina Comito

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alerianella, galinella, dolcetta, formentino, soncino o songino. Nomi diversi per la medesima specie, la Valerianella locusta o Valerianella olitoria, la pianta selvatica nota come alimento calmante, lassativo, depurativo e che è ormai di moda inserire nelle insalate. La pianta è di piccole dimensioni, possiede foglie piccole, ovali e carnose disposte a rosetta e il fusto unico porta fiori bianchi, azzurri o rosati. Appartiene alla famiglia delle cicorie e cresce prevalentemente nei prati, su terreni sabbiosi ma può essere anche coltivata negli orti. La valerianella è povera di calorie ma ricchissima di fibre, sali minerali e vitamine. Tra questi ultimi spiccano il potassio, il ferro e le vitamine C ed E. A questa pianta sono associate numerose proprietà, benefici, principi attivi e valori nutrizionali. L’assunzione della valerianella è utile per la prevenzione dell’anemia e dell’arteriosclerosi, per rinforzare i vasi capillari e agevolare la circolazione sanguigna. Inoltre ha un effetto stimolante per le attività del fegato, reni e intestino. Alle sostanze in essa contenute si attribuisce anche un effetto disintossicante e diuretico. Ha, inoltre, un’azione lassativa tanto utile ai soggetti che combattono la stitichezza.

Quando viene acquistata bisogna accertarsi che le foglie siano fresche, di colore verde vivo e non troppo bagnate, secche o ingiallite. Durante la conservazione è necessario lavare le foglie e conservarle all’interno di un sacchetto di plastica; poi, di tanto in tanto, è bene scartare quelle ingiallite. Quando la valerianella è giovane e fresca è da consumare a crudo, nelle insalate associandola con altri mix di vegetali; quando invece le foglie non sono giovani e poco verdi si possono bollire,

cucinare a vapore e utilizzare per il minestrone. La specie non è da confondere con la Valeriana officinalis, Questa possiede principi attivi che le conferiscono proprietà analgesiche, antispasmodiche, ipotensive e sedative. Grazie alla valeriana possono essere risolti in maniera naturale vari problemi come insonnia, ansia, palpitazioni, ipertensione, emicrania, nervosismo e stress. Ma il trattamento non deve superare una settimana poiché potrebbe causare mal di testa.

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Anno 5 - Numero 2 - 2017

euro 2,90 La rivista dei prodotti tipici e tradizionali

Itinerari del gusto • DIRETTORE EDITORIALE Peppe Giuffrè


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