Realtà Manipolate

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REALTĂ MANIPOLATE

POLITECNICO DI MILANO Scuola del Design CdLM Interior Design A.A. 2013/2014 Corso di Interni Contemporanei Prof. Fulvio Irace Cultore della materia: Arch. Maria Manuela Leoni Elaborato a cura di: Sara Riva - 797696



indice REALTÁ MANIPOLATE

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COME MENTE LA FOTOGRAFIA?

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Questione di interpretazioni Artificiosità del soggetto Taglio e Inquadratura Limiti del mezzo tecnologico Post-Fotografia Tecnica del collage Questione di distinzioni

SELEZIONE DI CASI STUDIO

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Andreas Gefeller Beate GÜtschow Gregory Crewdson Jeff Wall Joan Fontcuberta Olivo Barbieri Paolo Ventura Pino Musi Sonja Brass

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PERCHÈ MENTE LA FOTOGRAFIA?

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FIDARSI OPPURE NO?

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BIBLIOGRAFIA

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SITOGRAFIA

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REALTÁ MANIPOLATE “Il risultato è sorprendente e la dimostrazione radicale: si può far dire alle immagini tutto e il contrario di tutto.” - Albert Jungerson LA FOTOGRAFIA MENTE?

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edere È sapere? Cosa vediamo quando guardiamo una fotografia o un’immagine video? Cosa CREDIAMO quando guardiamo una fotografia o un’immagine video? Quanta realtà c’è in quello che viene visto e rappresentato? Cosa succede davvero dietro alle immagini che paiono non ritrarre altro che..il vero? La cosiddetta “società dell’immagine” può far risalire le sue origini fin dagli inizi dell’Ottocento: non perché prima 2

non si facesse uso di alcun tipo di comunicazione pittografica e non verbale (locandine, manifesti, disegni, dipinti iperrealistici, stampe ecc...), ma perché da quel momento, con l’invenzione del dagherrotipo prima e della fotografia poi, l’umanità si è sentita in grado di intrappolare la realtà stessa, tale e quale era, tra polveri di ioduro d’argento o getti d’inchiostro. Da lì si è assistito a una escalation, un progressivo lievitare, per numero e qualità, delle informazioni veicolate ai nostri occhi tramite immagini, un bombardamento mediatico che


La fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare. - Lewis Wickes Hine

ha attualmente raggiunto livelli inimmaginabili per gli allora pionieri di questa disciplina, pochi e ancora alle prese con la sperimentazione di tecniche e tecnologie diverse, tutti tesi comunque ad ottenere la massima nitidezza, perfezione, rassomiglianza, in una parola veridicità dell’immagine. Sì, il punto era questo: fermare la realtà, almeno un frammento e fissarlo fedelmente su un supporto, in maniera da averlo a disposizione, riproducibile all’infinito, sempre uguale a se stesso, specchio perfetto dell’originale. Fin dal momento della sua invenzione, la fotografia si è affermata come uno strumento in grado di offrirci uno sguardo nuovo su realtà osservabili -e non- a occhio nudo: essa ha contribuito, praticamente da sempre, ad ampliare la nostra immagine del mondo e a darne una nuova definizione. E, fin dall’inizio, il termine “fotografico” ( in senso figurato) significa per chiunque “accurato”, “oggettivo”: “la fotografia esatta della situazione”, “un sondaggio fotografa le opinioni degli italiani”... Quello era il tempo in cui nasceva l’illusione che la

realtà potesse venire effettivamente catturata in immagini, prodotte con delle riprese (mediante macchina fotografica, macchina da presa o altri apparecchi). Oggi come allora quelle immagini suscitano attorno a sé un alone di oggettività, credibilità, realtà; appartengono per sapere acquisito all’area semantica della verità. Forse non a caso “pic”=”immagine” somiglia tanto a “pick”=”scegliere, cogliere, estrarre” un frammento di realtà. Nasce il postulato che tutto ciò che è reale può essere riportato in una immagine...esattamente come tutto ciò che è immortalabile è -automaticamente- considerato reale a prescindere Anzi, meglio: solo ciò che diventa immagine è considerato reale. In un processo di inversione, la rappresentazione del mondo va a sostituire il mondo stesso, un mondo in cui l’utente opera in modo digitale; come a dire, la rappresentazione del mondo rimpiazza il mondo stesso, eliminando tutte quelle sfumature tra “reale” o “verosimile”, “concreto” o solo “apparente”. 3


Nelle immagini, da sinistra:

Michele Smargiassi (giornalista per Repubblica dal 1989, si occupa di società, cultura e politica, cura il blog Fotocrazia) e Joan Fontcuberta (fotografo, artista concettuale, studioso della cultura visuale)

Le immagini detengono il potere di organizzare preventivamente il nostro approccio al reale, di definire le modalità della nostra visione e quindi di determinare ciò che il mondo è. - Gottfried Böhm

Travolti per secoli da questo entusiasmo, da questo delirio di onnipotenza, spesso scopriamo troppo bruscamente che, soprattutto oggi, nell’epoca del digitale e nella società dell’immagine, essa –l’Immagine, appunto, la nostra principale indagata- non è più affidabile, pura e trasparente come la si pensava all’inizio: smaterializzata in stringhe numeriche, pare ormai passata sul versante della menzogna, non più “immagine”(in senso figurato) fedele della realtà, ma 4

asservita, deturpata, manipolata con gli infiniti mezzi a disposizione, che nel momento stesso in cui “registra” un dato, lo falsifica e altera. “Da esplorazione a spettacolo, da documento a divertimento, da rappresentazione a costruzione, da atto notarile a speculazione creativa” (Michele Smargiassi). E come può farlo mai, qualcosa che per sua natura stessa, in fondo, non è che impressione di realtà, stampa di luce, visione che da eterea, fugace e inafferrabile, si deposita su una lastra o una


La fotografia mente sempre, mente per istinto, mente perché la sua natura non le permette di fare altro” - Joan Fontcuberta

pellicola? Come e perché è avvenuto che la fotografia si sia messa a mentire? Secondo alcuni studiosi (tra i quali si annoverano Fred Ritchin e Joan Fontcuberta), non v’è risposta a tale quesito, perchè posto in maniera inesatta: l’immagine si limita a convocare la realtà al cospetto dello spettatore. Essa non ha mai preteso di svincolarsi dalla sua essenza di pura rappresentazione di ciò che le si pone davanti all’obiettivo, schiava per di più dei suoi stessi limiti tecnici di “macchina”; se fin da subito l’avessimo considerata in quest’ottica, un automa ingenuo, non dotato di malizia (ma spesso in mano a furbi), spesso esposto a trucchi ed espedienti, che ci fa vedere solo ciò che lui stesso vede, nessuno le avrebbe prestato una fede tanto cieca e incrollabile. La fotografia è un’anti-Veggente, l’antiCassandra per eccellenza. L’eroina omerica Vedeva, ma nessuno le credeva, anzi finì sola e isolata; la fotografia vede, ma solo quello che le mostrano, non vorrebbe attribuirsi alcun dono e invece i mortali stessi, senza chiederle il permesso, le

affidano la custodia del sacro Fuoco di Verità, tanto che spesso essa riesce a dimostrarci qualcosa di cui non siamo già in partenza disponibili a essere convinti, giocando sul confine tra ciò che è socialmente e culturalmente accettabile e ciò che non lo può (ancora) essere. Tralasciando le metafore, il nemico più letale e spietato della fotografia è quindi la fiducia incondizionata nel suo potere di resa fedele del vero, che le ha attirato addosso tanti scandali e tante inimicizie nel corso della storia.

È la generalizzazione della convinta e assoluta fede nella veridicità delle immagini ad essere abusiva: ci porta a credere che se alcune fotografie funzionano come equivalenti e testimoni della realtà, allora tutte le fotografie sono sempre equivalenti e testimoni veritiere del mondo. 5


IL CASO DELLE FATE DI COTTINGLEY Cottingley, un villaggio fuori Bradford, nello Yorkshire, è diventato famoso in tutto il mondo quando nel 1917, la 16enne Elsie Wright, scattò una foto in cui la cuginetta Frances era ritratta in compagnia di quattro fate. In realtà si tratta di una delle bufale fotografiche più grandi della storia, che coinvolse anche sir Arthur Conan Doyle, che fino alla morte sostenne la veridicità di tali immagini.

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Le due ragazze organizzarono uno scherzo alla madre di Frances per farle credere che erano in contatto con le fate. Crearono alcune creaturine magiche ritagliando le sagome da un libro di favole e incollandole su un cartoncino che fissarono al terreno con spilloni per capelli. Le foto, un totale di 5 immagini scattate nel corso di anni, accesero numerosi dibattiti diventando un caso mondiale. Il mistero durò 65 anni, solo tra il 1981 e il 1982 le due cugine rivelarono la verità.


Appurato che le fate non esistono, la foto di una fata non dovrebbe costituire motivo di scandalo o una prova necessaria o sufficiente per provare l’esistenza di tale specie. Il dato fotografico non è reale a tutti i costi solo perché “è una fotografia, dunque non può che essere successo davvero da qualche parte”. Va perdonata l’ingenuità di una società ancora inesperta e non avvezza alla manipolazione di immagini...se possiamo usarla come monito per i giorni nostri. Da questi ragionamenti possiamo dunque trarre, per il momento, alcune conclusioni preliminari:

- La Fotografia, di per sé, non mostra esattamente sempre la realtà. - La Fotografia, di per sé, però, non mente nemmeno di proposito. Mentono i fotografi, o la facciamo mentire noi stessi, quando siamo troppo bendisposti alla credulità. - Una fotografia falsa/che mostra il falso e smascherata nel suo inganno, finora difficilmente ha incrinato la fiducia che riponiamo nelle immagini che ci vengono mostrate: dubiteremo per sempre di QUELLA fotografia, ma all’occasione successiva saremo di nuovo pronti a farci ingannare dalLA Fotografia.

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come mente la fotograFia ? Dieci fotografi di fronte allo stesso soggetto producono dieci immagini diverse, perché, se è vero che la fotografia traduce il reale, esso si rivela secondo l’occhio di chi guarda. - Gisele Freund

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n questa breve trattazione, senza pretese, il termine “fotografia” viene usato intendendo qualsivoglia immagine ottenuta tramite un processo di registrazione permanente delle emanazioni luminose di oggetti presenti nel mondo fisico, selezionate e proiettate da un sistema ottico su una superficie fotosensibile. Immagini, dunque, che paiono essere reali, testimoni nude della verità, ma che a volte nascondono trucchi sottili e impercettibili, finendo per trasmettere di tutto...

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tranne proprio quella verità che da esse pretendevamo e in esse cercavamo. Questi -chiamiamoliespedienti, ricercati o meno che siano, sono dovuti sia alla malizia di chi scatta, sia ai limiti insiti nella natura stessa della fotografia e della “ripresa” di immagini, prima, durante o dopo lo scatto stesso. Abbiamo già detto che spesso non è la fotografia a mentire, ma noi stessi ad attribuirle un valore che essa non pretende di avere: un primo, elementare modo di


QUESTIONE DI INTERPRETAZIONI

distorcere la realtà che l’immagine rappresenta è quella di proiettare su di essa gli stereotipi che noi stessi ci formiamo nella mente, oppure un’errata attribuzione di senso, un’interpretazione sbagliata. Ma, anche in questo frangente, la bugia smaschera se stessa: una fotografia falsificata sarà tendenzialmente di univoca interpretazione, poiché appositamente studiata per veicolare QUEL preciso messaggio, ha intenzione di ingannare solo in quel preciso modo e tutto di essa converge a quello scopo, mentre una fotografia autentica riprodurrà le stesse incoerenze e incompletezze

della realtà della quale costituisce lo specchio e si presterà dunque a diverse interpretazioni da parte di un comunicatore abile. È stato ad esempio il caso della famosissima foto di piazza Tienanmen del 1989: icona novecentesca del coraggio libertario e della sfida al potere autoritario, non è stata censurata in Cina, anzi è stata più volte esposta nelle mostre di propaganda, in cui il governo di Pechino cerca di mettersi in buona luce, commentandola come un esempio delle buone intenzioni e dell’inoffensività reale di un esercito che blocca i suoi carri armati per non travolgere uno studente. 9


ARTIFICIOSITÁ DEL SOGGETTO Altro modo in cui obblighiamo invece la fotografia a dire ciò che vogliamo sentirci dire è adottando lo strumento della messa in posa di un

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soggetto fittizio. È il caso -eclatantedella tradizione dei vecchi ritratti di famiglia o dei “paper moon portraits” delle fiere americane


Anni 20-30. Pose ingessate, uguali e dozzinali, col capo-famiglia al centro, tutti uguali, che altro non dicono che l’uniformazione a uno standard ideale di immagine famigliare. Oppure è il caso, più leggero e giocoso dei paraventi dipinti dei vecchi fotografi da fiera, oggi riapparsi nei parchi a tema: le foto che da essi vengono tratte sono

immagini piatte e spudoratamente false, lo scopo non è certo illusionistico ma piuttosto ironico, oscillante tra realtà e fantasia infantile, tra identità storica e quella immaginaria e -magari- desiderata. “Finzione più che falsità, teatro più che inganno” 11


TAGLIO E INQUADRATURA

Schiavo del mirino, il fotografo deve fare una scelta, rinuncia sempre qualcosa, mente sempre un poco. - Janet Malcom

Quando si tralascia per un attimo la questione del soggetto e ci si pone dietro a un obiettivo, in quanti e quali modi la macchina ci pone degli interrogativi, ci mette di fronte a delle scelte da compiere, che vanno a modificare l’esito finale dell’immagine? Già il solo gesto di inquadrare e dunque “scegliere”, “selezionare”, “escludere” va di per sé a “falsificare” la riproduzione della realtà che abbiamo davanti ai nostri occhi e che non possiamo riprodurre nella sua interezza. Una delle “menzogne” della fotografia è 12

dunque l’esclusione: a ben pensarci, è sempre più quello che rimane fuori che quello che rimane dentro l’inquadratura. Una foto può dunque più o meno assomigliare alla realtà, ma in un certo modo la distorce sempre, poiché è impossibile che una parte valga per il tutto...e una fotografia in fondo non è che un possibile frammento in mezzo a milioni di scatti e inquadrature possibili.


OPERAZIONE UPHOLD DEMOCRACY L’ intervento militare svoltosi tra il 19 settembre 1994 e il 31 marzo 1995 da parte delle forze armate statunitensi, mirava a rimuovere il regime militare insediatosi al potere ad Haiti dopo il colpo di stato del 1991 ai danni del presidente eletto Jean-Bertrand Aristide. L’operazione iniziò con la messa in stato di allerta delle forze statunitensi e alleate in preparazione di un intervento armato nell’isola. Nel mentre, una delegazione diplomatica guidata dall’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter e comprendente l’ex senatore Sam Nunn più il generale Colin Powell, persuasero i militari al governo ad Haiti a lasciare il potere e consentire il ritorno dei politici eletti nelle loro posizioni. Lo sforzo diplomatico ebbe successo in parte perché la delegazione statunitense

poté credibilmente annunciare l’imminenza di un intervento militare in caso di blocco delle trattative. L’operazione militare cambiò quindi da intervento armato a operazione di peacekeeping e supporto alle istituzioni. Le foto che vennero rilasciate alla stampa per avvalorare nei sovversivi il timore di un occupazione violenta di Haiti erano simili a quella di pagina precedente: truppe d’assalto appena atterrate sul territorio, che con fare ostile avanzavano inarrestabili contro un invisibile nemico. Ma basta cambiare di 90° l’inquadratura e (vedi sopra) si comprenderà facilmente che ci si è lasciati intimorire da una banalissima messinscena a beneficio dei giornalisti.

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Sopra: Un soldato iracheno attorniato da militari statunitensi durante la guerra in Iraq nel 2003. Un classico esempio di come una fotografia può essere usata per mostrare messaggi radicalmente diversi.

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Sotto: “The Mirror” pubblica “la foto che tutti vogliono”. Lo scatto originale (sulla destra) che ritrae Dodi Al-Fayed e la principessa Diana durante un giro in barca nell’estate del 1997 è molto meno romantico.


WORLD PRESS PHOTO OF THE YEAR 2006 by Spencer Platt “ Young Lebanese drive through devastated neighborhood of South Beirut, 15 August “ La foto che ha fatto vincere al suo autore un così prestigioso premio, ha suscitato un acceso dibattito in Libano. L’immagine sembra riassumere perfettamente le contraddizioni del paese - glamour sfrenato in mezzo alla distruzione, ragazzi ricchi apparentemente incuranti che intraprendono un viaggio voyeuristico. Ma dietro all’immagine c’è molto più

di questi cliché. L’iconografia delle vittime di guerra alla quale ci hanno abituato non ci permette di identificare quei giovani, quei “cool people“ (come sono stati definiti) come dei ragazzi, pur benestanti, che in realtà però stanno attraversando le zone bombardate dalle quali sono dovuti fuggire per vedere cosa è rimasto delle loro case e per avere notizie o portare aiuto agli amici che semplicemente non hanno potuto o voluto andarsene. Questioni di inquadratura e significato, insomma.

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Interessante un breve richiamo alla teoria del cinema, sulla questione del “bordo” e dell’inquadratura, a lungo dibattuta a livello teoretico anche all’interno della Settima Arte, poiché pure il cinema altro non è in fondo che una serie di immagini che scorrono simulando movimento e realtà. L’interpretazione che gli studiosi davano al bordo dell’immagine era più che una sottigliezza e ha dato origine a due contrapposti filoni di pensiero.

Il pensiero di Ejzenštejn è dispotico: toglie l’aria, elimina quella inespressa inafferrabilità che costituisce [...] l’arte come tale - Tarkovskij su Ejzenštejn

L’inquadratura era percepita come FINESTRA o CORNICE e di conseguenza diverso era il modo di rapportarsi con quel che “rimaneva fuori”. Secondo il filone della TEORIA FORMALISTICA/ COSTRUTTIVISTA, cui sostenitori furono Sergej Ejzenstein, Bela Balazs e Rudolf Arnheim, il film è da intendersi come costruzione e rappresentazione: 16


L’originalità della fotografia rispetto alla pittura risiede nella sua obiettività essenziale. [...] per la prima volta un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creatore dell’uomo, secondo un determinismo rigoroso. - André Bazin

si sottolinea cioè l’artificiosità del cinema e la sua natura di artefatto, senza volontà di ingannare o di considerarsi calco del reale. Si parte da una sincera ammissione della propria natura di “opera d’arte”, manipolata, studiata, aggiustata, al fine di parlare in una determinata maniera di un dato argomento. Il film in questo caso è la costruzione di un mondo irreale, nato a partire da una deviazione e da una trasformazione del mondo reale (del quale ci dà solo una impressione), in cui nulla è superfluo poiché tutto concorre alla veicolazione del

messaggio. Il mondo del film è una forma chiusa, centripeta, che non rimanda mai a un “oltre” al di fuori di sé, tende sempre al suo interno ed è, in sé, un’opera compiuta, che impone allo spettatore la sua perfetta coerenza, come un quadro dentro la sua cornice. Ciò che è fuori dall’inquadratura semplicemente non esiste, oltre il bordo non c’è nulla, quel che si vede è frutto di un’attenta pianificazione e di una veduta parziale sugli eventi, dove non c’è casualità, ma solo provvidenza e studiatezza, composizione. 17


E, così come si guarda “dentro” a una cornice, si guarda, si sbircia attraverso una “finestra”. Per quanto concerne infatti la TEORIA REALISTA (Andrè Bazin, Siegfried Kracauer) invece, il film rende possibile intravedere una realtà non-mediata, ponendo l’accento sulla semi-trasparenza del mezzo filmico; esso consentirebbe agli spettatori di essere testimoni diretti di fatti che accadono in un mondo quanto mai reale che prende vita e forma al di là del “quadrilatero” luminoso dello schermo, un mondo che si estende indefinitamente ben oltre il “bordo” della proiezione, assumendo vita

e autonomia propria, un’esistenza che prescinde dalla macchina da presa (quei fatti sarebbero accaduti e continueranno ad accadere anche quando noi non ne saremo testimoni) e si perpetua spazialmente e temporalmente ben oltre i limiti dell’inquadratura. Pertanto, ciò che viene inquadrato, l’immagine, se è organizzata o composita, non lo dà a vedere; mira sempre e comunque alla nonmanipolazione, a rendere il cinema (potremmo leggere: la fotografia) un medium tanto trasparente...quasi fino a farlo scomparire, in un calco perfetto del vero.

LIMITI DEL MEZZO TECNOLOGICO Tornando velocemente al “come” la fotografia può mentire, è interessante notare che essa fallisce nell’avere un rapporto mimetico preciso con la realtà non solo quando ci si sforza di ottenere una resa pittorica, quando si maltrattano le emulsioni o si esplorano le cosiddette tecniche antiche, ma anche quando la si usa nel modo più diretto e puro possibile. Per cominciare si possono citare tutti i difetti delle ottiche: perdita di nettezza sui bordi, resa dello sfuocato ad esagoni (o qualunque 18

poligono disegnato dalle lamelle del diaframma), aberrazioni varie degli obiettivi, vignettatura, distorsioni... Nessuno quando guarda alla realtà la vede con una perdita di luce ai bordi. Quasi nessuno ha negli occhi delle aberrazioni che pregiudicano la nitidezza della percezione del mondo. La visione umana dello sfocato è sempre indiretta, appena si fissa lo sguardo in un punto lo si mette subito a fuoco. A meno naturalmente di essere miopi, ma in ogni caso la realtà, di per se, è sempre a fuoco, sono solo le


immagini ottiche di questa che possono essere più o meno sfocate. Anche la focale degli obiettivi deforma profondamente la realtà. La visione umana corrisponde grossomodo ad una focale di 50mm su una pellicola di 24x36mm. Tutte le focali superiori o inferiori implicano deformazioni importanti dello spazio, della prospettiva, delle distanze. Ad, esempio, con un GRANDANGOLARE spinto si può far sembrare una

stanza infinitamente più grande di quello che è in realtà, esasperare le FUGHE PROSPETTICHE, far “cadere” le linee parallele delle architetture svettanti verso il cielo, far sembrare le nuvole un accavallarsi impetuoso di cavalloni di mare in tempesta. Gli oggetti vicini diventano smisuratamente grandi e quelli lontani minuscoli e irraggiungibili, il naso di una persona diventa grosso come un pallone e le orecchie minuscole.

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I TELEOBIETTIVI invece schiacciano completamente le prospettive, annullando le distanze, oggetti lontani e vicini sembrano tutti alla stessa distanza dal fotografo (trucchetto conosciutissimo da tutti i paparazzi che, con un obiettivo, riescono a far sembrare due persone che camminano a distanza di metri l’una dall’altra a braccetto).

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E ancora, consideriamo i TEMPI di esposizione, altra variante che s’impone al fotografo e non all’occhio umano: se si scatta con velocità troppo basse si rischia di fare una foto mossa di un oggetto che in realtà non si è spostato di un millimetro. Con le lunghe esposizioni invece le persone si trasformano in fantasmi evanescenti, nelle foto notturne le automobili


lasciano lunghe righe rosse; con le lunghissime esposizioni addirittura si riescono a far sparire del tutto persone e macchine in movimento: è il caso delle primissime foto della storia fatte a Parigi, i primi DAGHERROTIPI. In queste immagini non c’è mai nessuno per le strade, non un passante, non una carrozza, non un cane: infatti le pose delle prime lastre fotografiche erano talmente lunghe che tutti gli oggetti in movimento non riuscivano a lasciare nessuna traccia

visibile. Fra quelle primissime foto fa eccezione un famoso dagherrotipo dove un passante, facendosi lucidare le scarpe, è rimasto immobile abbastanza a lungo da lasciare una traccia sull’emulsione sensibile. Volendo credere al rapporto mimetico della fotografia con la realtà bisognerebbe dedurre che nell’Ottocento le strade di Parigi erano completamente deserte, salvo forse un unico personaggio preoccupato dalla patina del cuoio dei suoi stivali...

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JACQUES HENRI LARTIGUE Un aneddoto interessante sui tempi di esposizione e sulle aberrazioni fotografiche, che ci porta a riflettere sia sui limiti tecnici del mezzo fotografico, sia sull’essenza della fotografia, è ciò che accadde a Jacques Henri Lartigue, nel 1912. L’istante dello scatto, la frazione di secondo in cui il meccanismo della fotocamera cattura il flusso luminoso sulla superficie sensibile, l’istante della presa d’immagine è una sottile fetta temporale tagliata via dal flusso degli eventi, uno “spessore” sottilissimo; la velocità di chiusura dell’otturatore fa sì che la macchina fotografica possa intervenire nella composizione e nella struttura dell’immagine, falsandola. Se ne rese conto l’allora diciottenne Lartigue, che si trovava sul bordo strada del Grand Prix dell’Automobile Club de France. Quando la vettura numero 6 gli sfrecciò di fronte, Lartigue la tenne per qualche istante inquadrata nel mirino, seguendone il movimento con una torsione del busto, mentre scattò senza prevedere cosa sarebbe potuto uscire dalla camera oscura. Il risultato fu sconvolgente, quasi miracoloso: pali e spettatori sul ciglio della carreggiata sembravano spinti indietro dalla scia ventosa del bolide, la ruota posteriore appariva ovale e inclinata nella direzione opposta, come piegata sotto lo sforzo dell’accelerazione. Una cosa impossibile da vedere, eppure immortalata, come la si poteva spiegare?

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C’è in me uno spettatore che guarda senza curarsi d’alcuna circostanza, senza sapere se quel che accade è serio, triste, importante, divertente, oppure no. Una specie d’abitante d’una stella venuto sulla terra solo per godersi lo spettacolo. Uno spettatore per il quale ogni cosa è una marionetta, anche – e soprattutto – io! - J.H. Lartigue Tutto in realtà fu presto spiegato dalle performance meccaniche del suo apparecchio: la sua Ica Reflex di medio formato era munita di un otturatore a tendina con apertura orizzontale; al momento dello scatto si creava una sorta di fessura che scorreva orizzontalmente lungo la superficie della pellicola pennellandola di luce dal basso verso l’alto e impressionandola nel tempo di durata della posa. Il movimento della tendina costringeva in pratica i fasci luminosi a depositarsi


sul negativo in frammenti successivi e leggermente sfalsati. Ma in quello spazio di tempo, per quanto breve, la macchina (per velocità propria) e lo sfondo (a causa della torsione del busto del fotografo e il conseguente spostamento dell’apparecchio fotografico) si spostarono rispetto alla superficie sensibile producendo una sfasatura nella forma degli oggetti in movimento. La parte della ruota che tocca terra in realtà era stata immortalata qualche istante prima della parte opposta, che nel frattempo era avanzata. E così funzionò anche per gli spettatori a bordo strada. Questa foto,

per quanto “sbagliata” e “bugiarda” suo malgrado, lasciò una pesante eredità nell’immaginario collettivo della velocità e della rappresentazione del movimento, di cui la modificazione della forma diventerà segno figurativo convenzionale, riscontrabile ad esempio nei fumetti: un’immagine falsa ma dotata di un enorme potere suggestivo introdusse una modifica culturale davvero notevole.

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Altro esempio che ci illustra quanto una fotografia può essere ambigua potrebbe essere quello delle smorfie di Georges Demenÿ, che si scattò più fotografie con tempi brevissimi mentre parlava, trasformando una delle frasi più belle del mondo ( Je Vous Aime) in una imbarazzante successione di espressioni caricaturali.

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Pertanto, così come una fotografia può risultare falsa in quanto unico frame sottratto allo svolgersi degli eventi nel tempo, anche una fotografia selezionata dunque da una serie potrebbe non essere l’impressione fedele del momento reale che aspira a ritrarre: dove una singola immagine può mentire, una serie lo può meno.


Altro caso emblematico è quello successo a Alfred Eisenstaedt, fotografo inviato per la rivista LIFE a documentare a Ginevra l’Assemblea della Lega delle Nazioni nel 1933. Nel ritrarre tutti gli uomini politici che a questa riunione prendevano parte, egli (tedesco di famiglia ebraica) si trovò a dover immortalare anche il Ministro della Propaganda hitleriana, Joseph Goebbels. Anche in questo caso, il filtro della selezione degli scatti da pubblicare (come si vede, molto diversi) poteva fortemente influenzare l’opinione pubblica su questo personaggio.

“Seduto nel giardino dell’hotel, c’era il dottor Joseph Goebbels, ministro della Propaganda di Hitler, per un momento sorrideva con tutti, però appena mi vide smise. Dietro di lui c’erano il suo segretario privato e l’interprete. Qualcuno gli aveva detto che ero un fotografo ebreo. Cominciò a guardarmi con odio e mi fissò addosso lo sguardo. Io, fermamente, non abbassai il mio. Mi considerava un suo nemico? Sembrava che fosse così.” Due scatti, slegati tra loro, possono mostrare due verità contraddittorie...o forse, la complessità del reale. 25


POST FOTOGRAFIA Parlando di fotografia e manipolazione della realtà, come non citare perlomeno tutta la vasta gamma di interventi postfotografia che possono essere operati con i potentissimi mezzi digitali a disposizione di chiunque? Photoshop e Instagram, per citare solo i due più famosi (e famigerati)! Selezione, rifilatura, cropping, timbro clone, cancellature, riallineamenti, regolazioni di ombre, luci, contrasti, esposizione, livelli, saturazione, cambi di tonalità,

ridimensionamento, rotazioni, patchwork, distorsioni, effetti, filtri, spostare profili di oggetti, cancellare dettagli, virare colori o profondità di campo fino a ottenere un’immagine che ha solo vagamente a che fare con quella “presa”...sono solo alcuni dei possibili strumenti di intervento digitale sull’immagine, che può uscire completamente irriconoscibile dopo un “trattamento” di un professionista, ma non per questo meno...verosimile. Solo, non più vera.

Sopra e accanto: i loghi dei due più conosciuti devices per il fotoritocco

Per esempio, con la pratica abituale del cropping (ritaglio di un’immagine) non è facile stabilire quale porzione di fotografia sia da considerare estranea e perciò rimovibile. Ogni pixel eliminato costituisce sempre uno stravolgimento profondo del 26

significato di un’immagine. Paul Sandres, picture editor del Times, dal 2004 al 2011 fece sottolineare nel regolamento etico del giornale che non bisogna “permettere manipolazioni digitali oltre quanto è ragionevolmente possibile per migliorare l’immagine: piccole


alterazioni del colore, del contrasto e, naturalmente, rifilature”. Ma cosa si intende con “ragionevole modifica”? Qual è il contenuto reale dell’immagine? E quali dunque le immagini autentiche sulle quali i lettori dovrebbero fare affidamento? Nel 1994, in piena epoca Photoshop, ci fu un caso gravissimo che dette il via a un dibattito in termini deontologici ed etici, sulla

manipolazione fotografica (in questo caso digitale, ma che trova un corrispondente nel semplice cambio di tonalità e di contrasto ottenibile anche in camera oscura). Il volto di OJ Simpson, campione di football americano, allora arrestato per l’omicidio della moglie, apparve nella stessa settimana su due magazine americani, Newsweek e Time (vedasi immagine sotto).

Time rese il protagonista più colpevole, più pericoloso, più cattivo scurendo la foto segnaletica della polizia che il suo competitor, Newsweek, pubblicò invece in toni corretti. Manipolazione della realtà? Sì. Alterazione del significato della

foto? Assolutamente sì. La neutralità della foto segnaletica fatta dalla polizia fu trasformata in condanna sicura: questo è un omicida. Il medesimo problema afflisse (e probabilmente affligge ancora) la famosissima rivista fotografica 27


National Geographic. Nel 1982 Efraim Arazi, pioniere della computer graphics, stava sviluppando i primi applicativi di Scitex, il primo sistema di ritocco elettronico delle immagini. National Geographic se ne dotò e ne fece uso, proprio in quell’anno, per ritoccare

la copertina a tema “Egitto” del numero di febbraio: uno splendido tramonto si staglia sulla silhouette delle piramidi e di una carovana di cammelli in primo piano...ma la foto originale era di formato orizzontale, perciò inadatta a fungere da cover image.

National Geographic - cover image del numero di febbraio 1982

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“L’idea di un uso moderato delle tecniche di correzione visuale è come l’idea della guerra nucleare limitata: non può esistere.” - Fred Ritchin

Wilbur E. Garrett (direttore) permise che una delle piramidi venisse tagliata e incollata sul lato opposto della sua gemella e giustificò l’intervento affermando che quella sarebbe stata l’immagine che il fotografo avrebbe ripreso se si fosse spostato di qualche metro più a destra. Roba da nulla, penseranno i più. Ma i lettori, a inganno svelato, andarono su tutte le furie per essere stati gabbati. E non avevano proprio tutti i torti. Se un fotoritocco poteva averli convinti che le piramidi si scambiano impunemente posizione, quale poteva essere il passo successivo?

Forse, la trasportabilità di volti e, direttamente, di persone. Dagli usi più giocosi (utenti web che photoshoppano le loro celebrità preferite alle feste casalinghe), agli scandali di cronaca (come nel caso delle gemelle Cappa di Garlasco che aggiungono la defunta cugina Chiara Poggi a una loro foto), ai ritocchi storici, a fini propagandistici o di ostracismo politico, oltrechè fotografico, i fotomontaggi e i fotoritocchi si sprecano. Di seguito, alcuni esempi calzanti, conosciuti o meno, dalla cronaca, dalla storia e dal web per far riflettere e/o sorridere. LE GEMELLE DI GARLASCO Immagine depositata da Paola e Stefania Cappa davanti alla casa di Chiara, ammazzata appena 30 ore prima. Un chiaro fotomontaggio. Sete di notorietà? O anche i sentimenti vanno ritoccati?

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BEAUTY Un’alba tra le montagne: colline, foreste e laghi incantati. Una madre col suo bambino, la manina tenera che si muove appena, l’abbraccio che si stringe impercettibile, il respiro lieve che anima corpi di fanciulli, una porta che si schiude, un battito di ciglia. Piccole cose quotidiane, gesti innocenti, innocui..e inaspettati, fin dal primo momento, dato che il video del regista e animatore Rino Stefano Tagliaferro ha per protagonisti i quadri di Bourguereau, Tiziano, Rembrandt e i loro personaggi che abbiamo imparato ad amare e riconoscere. Ma se prima eravamo abituati ad ammirarli, entità idilliache, nella loro posa immortalata dai pittori, ora possiamo quasi toccarne con mano le carni morbide, le acque scroscianti, i capelli setosi, perchè pare che ci vengano incontro, che le loro emozioni siano le nostre, che la patina invisibile del tempo che li immobilizzava e li consegnava all’immortalità sia caduta. Cenni quasi impercettibili, fissati per sempre su tela dai maestri della grande tradizione pittorica, dal Rinascimento fino al Simbolismo di fine Ottocento, passando per il Manierismo, il Paesaggismo e il Romanticismo. Rino ha voluto liberare questi classici immortali dalla gabbia del tempo e dell’Arte, riconsegnandoli alla vita, mutevole, fluida, mai realmente immobile. In nemmeno dieci minuti di video, la magia del digitale ci rende più

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La paura, l’amore, lo stupore, la rabbia sono racchiusi nei piccoli gesti come una smorfia, un sorriso o una carezza [...] Non si tratta però di un racconto sulla storia dell’arte, ma è un omaggio alla sua bellezza in senso assoluto. - Rino Stefano Tagliaferro

vivi che mai i classici dell’arte. Per comporre questo affascinante collage digitale ogni dettaglio di oltre cento opere è stato scontornato e sono state ricostruite intere parti di corpi e fondali. Un lungo lavoro di fotoritocco portato avanti – a budget zero – nei ritagli di tempo, di notte, nei weekend. Infine sono stati aggiunti l’animazione e gli effetti grafici, come la pioggia, la nebbia e riflessi di luce, e sonori – piccoli gemiti erotici o grida raccapriccianti –, a cura del sound


designer Enrico Ascoli. L’effetto è davvero suggestivo quando la tecnologia squarcia il velo delle apparenze e permette di raccontare “la storia della storia”...Ma tutto questo era davvero necessario? Questo è uno di quei casi in cui la post-fotografia ha contribuito a dare un valore aggiunto a opere già di per sè emozionanti e complete? O forse è solo un tentativo un po’ svenevole e teatrale di carpire l’attenzione del pubblico di massa, che altrimenti percepirebbe questi capolavori come

estranei? Un tentativo che sminuisce il valore artistico della pittura in sè, dovendola trasformare in una caricatura, un cartone animato per farla dovutamente apprezzare? Ogni volta che ammiro un dipinto di Caravaggio sono preso dalla sindrome di Stendhal di fronte a questa straordinaria bellezza e sono contento che il frutto della mia passione possa essere di stimolo anche per altri ad avvicinarsi ai classici e dare nuova linfa vitale all’arte.

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PEDRO MEYER RITRATTO DI FAMIGLIA Pedro Meyer è un campione della fotografia latinoamericana. Ha fondato il Centro di Fotografia di Città del Messico e ha promosso in tutto il mondo l’opera di artisti e fotografi dell’America centrale e meridionale. Ma Meyer è stato anche tra i primi fotografi a fare uso della tecnologia digitale, a ritornare al fotomontaggio...perché la fotografia non è affatto obiettiva, anche quando si tratta di fotogiornalismo.

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L’immagine di cui sopra è poco più di un divertissement, ma molto toccante: Meyer ha digitalizzato e ritoccato una foto che ritrae (coppia a destra) lui da bambino col padre, aggiungendovi (coppia a sinistra) la foto di sè stesso adulto col proprio figlio nella medesima posa. Un commovente mesh up generazionale, che poco vuole ingannare ma tanto ha da dire.


CELEBRITY PARTIES! Il graphic designer Everett Hiller e sua moglie ospitano annualmente a casa una festa per ritrovare i loro amici più cari, colleghi e conoscenti e documentano i fatti della serata con numerose foto. Un’abitudine innocente, che però Hiller ha saputo trasformare in un progetto geniale: quegli album sono stati ritoccati in modo da inserire personaggi famosi accanto ai loro amici; mentre alcuni fotomontaggi possono sembrare un po’ forzati, altri sono quasi impeccabili, grazie all’abilità e alla maestria di Hiller nel regolare illuminazione, bilanciamento del bianco e colore. Altrettanto importante è trovare la foto giusta fonte della celebrità. Trovare la posa perfetta per adattarsi al contesto della scena di festa richiede un occhio attento ed i risultati parlano da soli. E ‘un progetto divertente che ha già fatto il giro di Internet.

Sopra: Reese Whiterspoon Sotto: Tom Cruise Nella colonna accanto: Emma Watson Altre foto su http://imgur.com/a/ s6dgU/all#0

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FOTOMONTAGGI “STORICI” Anche se la manipolazione di foto è diventata più comune nell’ età di fotocamere digitali e software di image-editing, in realtà l’origine di tale meccanismo risale indietro nel tempo sin quasi all’invenzione della fotografia.

Qui di seguito vengono presentati alcuni dei più notevoli esempi di manipolazione fotografica della storia, concentrandosi sui casi più controversi e famosi, o quelli che sollevano questioni etiche più interessanti.

Sopra: il ritratto quasi iconico (in forma di litografia), del presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln è in realtà un composito della testa di Lincoln e il corpo del politico sudista John Calhoun.

civile americana. Un certosino lavoro investigativo di alcuni ricercatori presso la Biblioteca del Congresso ha invece rivelato che questa cartolina altro non è che un composto di tre stampe distinte: (1) il volto di Grant in questa foto è preso da un ritratto; (2) il cavallo e il corpo sono quelle del generale Alexander M. McCook; e (3) lo sfondo è di prigionieri confederati catturati nella battaglia della collina di Fisher.

Pagina successiva: questa stampa (Library of Congress, Prints & Photographs Division) sembra essere un ritratto equestre del generale Ulysses S. Grant davanti alle sue truppe a City Point, Virginia, durante la guerra

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Nella pagina precedente.

Qui sopra:

In alto: Al fine di creare un ritratto più eroica di se stesso a beneficio delle folle, Benito Mussolini fece rimuovere dalla fotografia originale colui che si occupava di gestire la sua cavalcatura.

In questa foto, in cui la regina Elizabeth Bowes-Lyon - madre della regina Elisabetta II - appare insieme al primo ministro canadese William Lyon Mackenzie King a Banff (Alberta), re Giorgio VI è stato rimosso dalla fotografia originale. L’immagine è stata utilizzata come manifesto elettorale dal primo ministro canadese. Si può supporre che l’intervento di cancellazione del consorte della regina, tanto amata dal popolo britannico, sia stato disposto dal primo ministro stesso: un ritratto a colloquio privato con la regina d’Inghilterra lo avrebbe dipinto sotto una diversa luce agli occhi dei suoi cittadini.

Al centro: In questa fotografia ritoccata, Adolf Hitler ha fatto rimuovere Joseph Goebbels (secondo da destra) dalla fotografia originale. Non è chiaro come proprio Goebbels sia potuto cadere in disgrazia. In basso: Stalin era solito cancellare i suoi “nemici” dalle fotografie e dai documenti ufficiali. In questo esempio, un commissario è stato rimosso dalla fotografia originale dopo aver perso i favori del dittatore.

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Sopra: Il Massacro di Luxor ebbe luogo il 17 novembre del 1997 a Deir el-Bahari, un sito archeologico che si estende lungo il Nilo nei pressi di Luxor, in Egitto. Deir el-Bahari è uno dei siti egiziani di maggior interesse a livello turistico per la presenza del monumentale tempio funerario della regina Hatshepsut.

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Dopo che 58 turisti furono uccisi in un attacco terroristico al tempio di Hatshepsut, il tabloid svizzero Blick modificò digitalmente una pozza d’acqua per farla apparire come un rivolo di sangue che scorresse fuori dal tempio e ottenere così un’immagine di maggiore effetto.


Pagina precedente, in basso:

Qui sopra:

Un soldato britannico in missione a Bassora (Iraq) esorta i civili iracheni a cercarsi un riparo, indicando loro dove muoversi. Questa foto apparve sulla prima pagina del Times di Los Angeles subito dopo che gli Stati Uniti ebbero guidato l’invasione dell’Iraq. Brian Walski, un fotografo dello staff del Los Angeles Times, dalla trentennale esperienza nel businness delle notizie, è stato licenziato dopo che i suoi editori hanno scoperto che aveva unito due delle sue fotografie per “migliorare” la composizione.

Oprah Winfrey è apparsa sulla copertina di TV Guide (in alto) seduta con grazia in un elegante abito trasparente in cima a un mucchio di denaro. Una posa molto glamour...se non fosse che solo il capo della Winfrey è veramente “suo“. Il corpo è stato presa da uno scatto pubblicitario del 1979, preso per uno speciale di Rockette, ed appartiene all’attrice Ann Margret. Il COLLAGE è stato creato senza il permesso di entrambe le donne ed è stato scoperto quando lo stilista di Ann Margret ha riconosciuto vestito e gioielli.

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TECNICA DEL COLLAGE

L’uso di Photoshop e la creazione di una realtà virtuale, sia essa fatta di luoghi, oggetti o persone, possono essere considerate azioni lecite se perseguono fini artistici, comici, ludici. Finanche commerciali, se queste non arrivano a ingannare totalmente il pubblico, persuadendolo che si tratti della stessa realtà in cui egli stesso vive. Le ripercussioni possono essere fatali, perché si ha a che fare con la buona fede delle persone e il rischio è di distorcere la loro percezione del luogo in cui vivono. Avvalendosi delle moderne 40

tecnologie di manipolazione digitale delle immagini, infatti, veramente TUTTO diventa possibile. Non solo la “correzione” di immagini preesistenti, ma soprattutto la COMPOSIZIONE manuale di stralci, di pixel, di fotogrammi, anche molto diversi tra loro, al fine di ottenere un’immagine di sintesi, un “tutto” che fornisca un’interpretazione, un significato, che dia un valore diverso a ciascuna delle parti coinvolte e un valore maggiore della semplice somma delle singole.


Alcuni esempi calzanti per far comprendere la potenza comunicativa/espressiva del collage li ritroviamo nel mondo dell’Advertising, come ad esempio nelle recenti (riuscitissime) campagne pubblicitarie di Witte

Molen (produttrice di mangime per volatili e roditori, a pagina precedente), Faber Castell (nota casa produttrice di articoli per bambini e artisti), Benetton (marchio di moda) e Esselunga (nota catena di distribuzione).

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D’altro canto, un altro mezzo comunicativo che oggigiorno fa un grande uso di Photoshop e di tutti i mezzi tecnologici per la manipolazione e la ricreazione di interi mondi, è il Cinema. Una metafora perfetta di tutto il nostro discorso è il famoso film di Peter Weir del 1998, “The Truman Show“: un bambino, nato da una gravidanza indesiderata, viene adottato da un network televisivo che lo rende l’inconsapevole protagonista di uno spettacolo televisivo, il Truman Show, un racconto sulla sua stessa vita, ripresa in diretta sin dalla nascita fino ai suoi trent’anni. Il povero Truman vive convinto di essere nel mondo “reale“, ma in realtà tutto attorno a lui è parte di una finzione: luoghi, rapporti, decisioni, meteo, tutto 42

è una gigantesca messinscena, un collage di eventi e immagini creato appositamente a suo uso e consumo, affinchè non scopra mai che tutto attorno a lui è una mistificazione del reale, una mera rappresentazione con la quale non ha consapevolezza di avere a che fare e che accetta per vera.


Il film ha vari livelli di lettura possibili (filosofiche, antropologiche, sociologiche, teologiche e ontologiche), ma uno è quello che più interessa qui e ora: la pellicola ci mette in guardia dal pericolo di essere inconsapevolmente manipolati dal mondo delle multinazionali, dell’advertising, del marketing e di chi governa i mezzi di comunicazione di massa e può manipolare l’informazione (che viaggia per la gran parte attraverso immagini) a suo piacimento, mostrarci e non mostrarci a seconda degli interessi da tutelare al momento. Ma, mettendo da parte per un momento il senso di

“accerchiamento“ e i possibili vittimismi, The Truman Show è anche una metafora del Cinema stesso, che ricrea mondi fittizi a scopi di intrattenimento. Interessanti sono i risultati che si riescono a ottenere in questo campo: numerosissime volte, andando a curiosare nel making-of delle nostre pellicole preferite, ci rendiamo conto con stupore che magari il Colosseo che tanto ci ha fatto sognare ne “Il Gladiatore” (Ridley Scott, 2000)... era vero solo per un quarto. Nel corso di 19 settimane, oltre 100 tecnici di origine inglese e 200 operai maltesi hanno lavorato - su suolo maltese, nello storico Fort Ricasoli, forte spagnolo del XVII

“Noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta, è molto semplice.” - Christof (Ed Harris) in The Truman Show

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secolo - alla ricostruzione del cuore dell’impero romano, Roma, le vie della città antica e una riproduzione a grandezza naturale del Colosseo, dove è stata poi girata la maggior parte dei duelli, la struttura più importante del set, riprodotto con meticolosa fedeltà. Anche in un set di tali dimensioni la riproduzione ha riguardato in realtà solo un quarto della struttura reale, il resto è stato elaborato con incredibile meticolosità in computer grafica e aggiunto elettronicamente alla parte reale. Con il `motion tracking` (lett. `tracciamento del movimento`), un sistema di set virtuale, è stato permesso al set parziale di adattarsi perfettamente a quanto veniva sovrapposto con la computer 44


A pagina precedente: vista dall’alto di Fort Ricasoli (Malta) e step di costruzione del set Qui sopra e accanto: scene di battaglia nell’arena tratte dal film

grafica. Scott ha infine fatto uso di cineprese portatili e filmato in ogni punto dell’arena durante i numerosi combattimenti del protagonista, con la certezza che il Colosseo e le circa 33.000 comparse `digitali` avrebbero avuto un aspetto realistico. Ugualmente, le duemila comparse in delirio che hanno popolato gli spalti sono state ‘riprodotte’ in modo da realizzare altri trentamila spettatori digitali che hanno così reso un effetto ‘tutto esaurito’. Lo stesso metodo è stato impiegato per gli ampliare i vari altri scenari, oltre che

per catturre scorci dell’antica Roma: Scott ha così potuto infarcire il film di panoramiche a 360° e riprese dall’alto nelle quali è impossibile distinguere gli elementi reali da quelli generati al computer. Numerosi altri film sono stati girati sull’isola mediterranea: ad esempio, anche le vie della città di Troia per il blockbuster Troy (wolfgang Petersen, 2004) sono state ricostruite all’interno di Fort Ricasoli, così come le scene di colloquio tra Achille (Brad Pitt) e sua madre non 45


sono state ambientate sul mar Egeo ma sulle spiagge di Comino, altra isola dell’arcipelago maltese. A destra: l’isola di Comino nella finzione filmica. Sotto: le porte di Fort Ricasoli diventano nel film le porte di Troia

VIGATA COME GOTHAM CITY In fondo, questo è ciò che il cinema ha sempre cercato di fare: convincere gli spettatori che che tutto quel che viene detto è verità, che ciò che stanno guardando è una fedele rappresentazione della realtà. O, al massimo, di ciò che la realtà è stata o sarà. Se le scenette dei fratelli Lumiere pretendevano di riprendere la vita così com’era, quelle di Méliès pretendevano invece di far credere che i trucchi cinematografici fossero vera magia. E nel secolo successivo, il cinema non si è mai veramente discostato da queste due strade: 46

il cinema “realistico” si basa sul tentativo di convincere lo spettatore che ciò che sta guardando è ciò che succederebbe (o è già successo) a quei personaggi nella vita reale, mentre il cinema “fantastico” aggiunge semplicemente una situazione totalmente estranea alla vita reale così come lo spettatore la conosce. In pratica, dunque, l’impressione di realtà – l’illusione di star guardando qualcosa di “vero” – è sempre stata alla base dello spettacolo cinematografico. È il caso in cui l’inganno viene


“Voi state cercando il segreto...ma non lo troverete, perchè in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati.” - John Cutter, The Prestige (Christopher Nolan, 2006) percepito come momento ludico, ricreativo, di evasione. Un momento in cui le persone sono felici di essere ingannate perchè proprio lì, in quell’istante, non importa distinguere vero e falso. Le persone credono di poter notare piccole o grandi incongruenze in ciò che vedono, solo per il semplice fatto che durante la visione porgono viva attenzione a ciò che scorre sullo schermo... ma non sono realmente in grado di notare alcunché. Non solo perché le inquadrature, le luci e tutti gli strumenti dei “tecnici” dell’immagine volutamente consentono l’ottenimento di un inganno il più efficace possibile... Esempi di finzione scenica dove è evidente l’uso del collage tra location molto diverse da quelle dichiarate sono la fiction più famosa d’Italia, Il commissario Montalbano, e The dark Knight Rises (Christopher Nolan, 2012). Le vicende di entrambe le pellicole hanno luogo in posti immaginari, la cittadina di Vigata, in territorio siciliano per l’uno, e la Gotham City

statunitense per l’altro. In casi del genere, all’atto della trasposizione cinematografica, se non si vuole ricorrere alla digitalizzazione totale o alla ricostruzione in studio (a volte la soluzione più costosa) è necessario dare “un volto” a quei luoghi, ritrovarne atmosfera e sensazioni nel mondo reale. Ecco che parte qui la sfida di registi e scenografi, seminati per ogni dove alla ricerca degli scorci più adatti alle inquadrature, alle vicende, alle scene, interni ed esterni magari non corrispondenti, magari posti che nella finzione non distano che pochi metri, nella realtà possono trovarsi a km di distanza. La finzione, come un foglio di carta traslucida, si sovrappone ai luoghi della geografia reale: luoghi immaginari, che però sono rintracciabili su mappa, frammentati in diverse location, spesso distanti km tra loro. É proprio il caso dei luoghi in cui si muove il beneamato commissario Salvo Montalbano: lo scenografo Luciano Ricceri ha preferito la barocca Sicilia orientale 47


piuttosto che la compromessa costa agrigentina, più simile alle descrizioni dei romanzi di Camilleri. Da qui la scelta delle riprese a volo d’uccello di tre città, da poco riconosciute patrimonio dell’umanità, Scicli, Modica, Ragusa Ibla nonchè la spiaggia con il faro di punta Secca a Santa Croce Camerina. I luoghi del commissario sono stati trasfigurati, fino a costituire un mondo totalmente

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autonomo rispetto a quello letterario: un mondo che ricrea una Sicilia “da cartolina” se vogliamo, e che forse era l’unica scelta possibile per attirare il pubblico televisivo. Luoghi ovattati e splendidi nella loro imperturbabilità, incontaminati, che diventano iconici, simbolo -nell’immaginario collettivo- della Sicilia intera.


1 - CASA DI MONTALBANO MARINELLA (fraz. di Vigata) Montalbano si sveglia nella casa all’inizio della spiaggia di Punta Secca, piccolo borgo marinaro, frazione di Santa Croce Camerina in provincia di Ragusa, in Sicilia.

2 - CASA DI BALDUCCIO SINAGRA, COLLINA CIUFFACA (Vigata) La casa del boss mafioso Sinagra si trova in realtà nel castello di Donnafugata, a 15 km a nord del centro di Ragusa.

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3 - COMMISSARIATO DI VIGATA Il commissariato è il Palazzo del Comune di Scicli, in via Mormino Penna e gli interni dell’ufficio del commissario sono quelli dell’ufficio del Protocollo. Sempre in questi interni, precisamente nell’ufficio del Sindaco di Scicli, viene localizzato l’ufficio del Questore di Montelusa.

Interni che dovrebbero essere persino in due paesi diversi si trovano in realtà nello stesso palazzo, a pochi metri di distanza.

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4 - QUESTURA DI MONTELUSA La questura, che nella finzione si trova a circa 30 km da Vigata, è in realtà l’inquadratura di Palazzo Mormino con un angolo di Piazza Italia, sempre a Scicli. Sullo sfondo si scorge la chiesa di San Bartolomeo (XV sec.)

Molto si potrebbe proseguire nella ricerca dei luoghi di Montalbano. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda a “I luoghi di Montalbano - Una guida”, di M. Clausi, D. Leone, G. Lo Boccaro, A. Pancucci Amarù, D. Ragusa (Sellerio Editore Palermo, 2006) 51


Per quanto riguarda invece il film di Nolan, i set sono stati allestiti in praticamente mezzo mondo. Dunque le principali filming location sono state a Jodhpur (India), a Londra e Cardington (UK), a Pittsburgh, Los Angeles, New York e Newark (USA), con un cammeo speciale in Italia, a Firenze, per la scena di chiusura del film.. Presso l’aeroporto di Inverness sono state invece registrate le sequenze con l’aereo militare C130 Hercules, mentre le scene d’azione sono state girate presso Cardinton e Pittsburgh. Quando Finger e Kane (fumettisti) presentarono ai lettori statunitensi il personaggio di Batman, dovettero creare intorno al nuovo personaggio una città che, in un certo senso, lo 52

rappresentasse, ne fosse la naturale casa. Non volendo utilizzare direttamente New York, venne così creata Gotham City, la più oscura città di tutta l’America. A differenza di Metropolis, città della luce e della tecnologia (e di Superman), Gotham rappresenta quei vicoli bui ed oscuri nei quali si nasconde il crimine, dove la polizia, ogni notte, si imbatte in un caso di omicidio, in cui un bambino di 8 anni, all’uscita da un cinema, vede morire di fronte ai suoi occhi, per un tentativo di rapina fallito, i suoi genitori: quel bambino era Bruce Wayne, che a causa di quel traumatico evento giurò che nessun altro avrebbe dovuto soffrire quello che lui aveva sofferto quella notte, preparando, così, la strada a Batman.


1 - VILLA WAYNE La tenuta e la dimora della famiglia Wayne si trova in realtà a Nottingham, nel Nottinghamshire, In Inghilterra ed è la Wollaton Hall, dimora di campagna costruita per volere di Sir Francis Willoughby, realizzata tra il 1580 e il 1588 dall’architetto elisabettiano Robert Smythson.

2 - GOTHAM CITY FOOTBALL GAME Lo stadio dove Bane interrompe bruscamente la partita di football con una enorme detonazione seminando il panico tra gli abitanti di Gotham è in realtà l’Heinz Field - 100 Art Rooney Avenue, a Pittsburgh, Pennsylvania.

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3 - FINAL SCENE La scena finale, che ci mostra Bruce Wayne vivo e sereno nella sua nuova identità , lontano da Gotham e dalla sua vita di prima, è ambientata a La loggia bar & restaurant, a Firenze, in Toscana.

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4 - PIT PRISON La terribile prigione, l’inferno peggiore che esista al mondo, dal quale solo una persona è riuscita a fuggire (prima di Bruce Wayne) è situata nel Mehrangarh Fort, a Jodhpur, nel Rajasthan (India).

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QUESTIONE DI DISTINZIONI Come abbiamo potuto effettivamente verificare nelle pagine precedenti, la questione della visione critica e della distinzione di cosa è Vero e cosa è Falso si fa spinosa, su tutti i fronti. Noi stessi, come progettisti d’interni, o architetti, abbiamo a che fare quotidianamente con la questione della rappresentazione: per lavoro manipoliamo immagini per creare una piattaforma visiva di supporto alle nostre idee, poichè è il modo

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più semplice, rapido ed efficace di comunicare qualcosa che ancora esiste solo nella nostra mente. Non siamo dunque alieni a certe problematiche. Software sempre più sofisticati ed evoluti di grafica, modellazione e renderizzazione, ci permettono di creare simulazioni sempre più realistiche degli spazi, tanto da arrivare a instillare nelle persone il dubbio che quelle immagini non siano creazioni solo digitali.


Nel web sono numerosissimi i professionisti specializzati che offrono tali servizi di renderizzazione...così come abbondano i siti che si ripromettono di aiutare l’utenza a sviluppare un certo senso critico nei confronti di queste immagini “sintetiche“, anche in forma di gioco.

Un esempio su tutti, la piattaforma FAKE OR FOTO (http://area. autodesk.com/fakeorfoto/), dove viene sottoposta all’attenzione del “giocatore“ una serie di immagini, di cui deve riconoscere l’origine, computerizzata (Computer Graphic) o fotografica (Foto) (vedi pagina successiva). 57


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(1) : Computer Graphic (2) : Foto (3) : Foto (4) : Computer Graphic (4)

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Oltre al gusto della sfida, questi giochini cercano di far riflettere: viviamo in un mondo dove le immagini elaborate a computer sono sempre più ricche e dettagliate... riusciremo sempre a distinguere il vero dal falso? Altro esempio divertente e per certi versi opposto al precedente è il sito www.psdisaster.com che raccoglie le segnalazioni degli utenti

sui grossolani errori che vengono commessi dagli “specialisti“ (ma non troppo) dell’immagine, alle prese con le campagne pubblicitarie. Si è dunque aperta sul web, per volontà di denuncia o solo per gioco, una vera e propria corsa a chi individua e posta il fake (il falso) più eclatante, più evidente o più nascosto, ma inconfondibile.

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Quelli riportati non sono che un numero limitatissimo, ma sul web si sprecano gli esempi, lampanti, del fatto che, molto probabilmente, POCHISSIME delle immagini che ci vediamo propinate dai principali mezzi di comunicazione...sono reali. 60

Eppure esse continuano a incantare, hanno il fascino del sofisticato, del diafano, dell’inverosimile, forse. Tant’è vero che anche i nostri canoni di bellezza pare siano stati piano piano modellati a colpi di “brush” e “rubber”.


Ecco che allora le donna più belle del nostro tempo, attrici, cantanti, showgirl (si parla sempre al femminile per lunga tradizione di piccoli “ritocchi estetici”, ma negli utlimi tempi la tendenza ha investito anche la controparte maschile del mondo dello spettacolo e del glamour) si mostrano sempre al top della forma: curve perfette, fisici, scultorei, sinuosi, sensuali, magrissimi, sorrisi smaglianti, labbra tumide, occhi infuocati, pelle levigata e luminosa. O almeno, ciò è quel che ci tengono a mostrare, poichè tutto il loro businness non ruota certo attorno alla “bellezza interiore“...ma quanti “aiutini“ posso vantare?

Sopra, Naomi Watts; sotto, Stacy Ann Ferguson, meglio nota come Fergie.

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In questa pagina, prima e dopo:

Robyn Chalmers,

Madonna

Angelina Jolie 62


Corpi perfetti e desiderabili. Il pensiero che scatta nella mente qual è? “Se loro riescono, posso anche io”. Qui scatta la trappola in cui cadono milioni di donne e ragazzine.

Una vetrina di uno studio fotografico americano ammiccava: “possiamo correggere le vostre fotografie per farle assomigliare alla vostra vita”. Purtroppo, per la maggioranza delle consumatrici di rotocalchi femminili vale spesso il contrario: si cerca di correggere la propria vita per farla assomigliare alle fotografie. A quelle delle sottili modelle con gambe esageratamente lunghe e vitini di vespa, fabbricate magari

anche grazie a colpi di pennello elettronico sugli schermi opalescenti dei photohopper delle riviste di moda ma che “finiscono per distorcere l’immagine che le donne hanno di loro stesse”. Numerosi studi confermano che le ragaze anoressiche fanno un consumo compulsivo di settimanali femminili senza rendersi conto di inseguire un miraggio digitale. 63


Ammirevoli a questo proposito le diverse iniziative promosse da Dove, nota casa produttrice di prodotti per la cura del corpo, che ha lanciato (riuscitissime) campagne di marketing come Dove REAL BEAUTY e Dove EVOLUTION (dove si svela attraverso dei video il lungo e articolato processo di creazione di

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immagini pubblicitarie su visi e corpi di donne, tramite pesanti make up e manipolazione con photoshop delle foto ottenute), Dove REAL BEAUTY SKETCHES (dove un artista forense, specializzato nel realizzare ritratti su descrizione di testimoni, disegna lo stesso volto basandosi prima sulla descrizione che il soggetto da di sè e poi sulle


descrizioni di altre persone che hanno incontrato il soggetto), Dove THOUGHT BEFORE ACT (rivolto a Art Directors, Graphic Designers, Photo Retouchers, che vengono invitati

a non ritoccare la Vera Bellezza), Dove SELF ESTEEM (che promuove campagne di dialogo e sensibilizzazione per donne che non si piacciono cosĂŹ come sono).

Imagine a World Where Beauty is a Source of Confidence, Not Anxiety

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Di tutt’altra pasta, anche se con un obiettivo analogo, è invece l’ormai -tristemente- nota pubblicità Nolita, il fashion brand del gruppo Flash&Partners, che ha messo sotto i riflettori i disturbi alimentari, spettri che (purtroppo ancora oggi) fanno solitamente solo da sfondo allo sfavillante mondo della moda e del glamour; quel mondo che sempre più spesso, all’ombra dei set, incoraggia ragazze giovanissime a perdere chili su chili per rientrare nello stereotipo di fashion victim che aumenta la tiratura dei

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magazine. La modella francese Isabelle Caro è stata la complice del famigerato Oliviero Toscani in questa campagna del 2007, colei che ha dato un volto silenzioso ma potente alla denuncia di questa tragedia del backstage. Una sola foto, drammatica e controversa com’è nella storia dell’autore. Una provocazione, ma soprattutto un allarme. Ancora più sconvolgente perché a interrogarsi sul problema è il mondo stesso delle passerelle, accusato da tempo di diffondere falsi miti di bellezza.


Non lascia spazio a interpretazioni, quest’immagine. O meglio, non ci induce a tutti i costi a pensare qualcosa di prevedibile. Le reazioni, le lascia al pubblico, la foto in sé, per quanto cruda, parla solo in quanto sé stessa, al 100% trasparente, senza forzature. La modella francese ha accettato di esporsi nuda allo scatto di Oliviero Toscani per mostrare a tutti la realtà di una malattia che insieme alla bulimia, vede coinvolte oltre due milioni di persone in Italia. Una malattia che nel caso di Isabelle dura da 15 anni e l’ha ridotta a pesare 31 chili. Oliviero Toscani, intervistato al lancio di questa campagna, spiegava: “Io non credo che la moda abbia grandi responsabilità nel problema dell’anoressia, - conclude Toscani - è una cosa molto più ampia che riguarda tutti i media 67


e in particolare la televisione, che propone alle ragazze modelli di successo assurdi “. Ed è fatalmente vero. Quanto potere ha un’immagine, un’iconografia? Un corpo nudo, fragile, scheletrico, atteggiato in una posa che ricorda la Maya Desnuda di Goya, la Venere di Urbino di Tiziano e l’Olympia di Manet. Esempi in cui la bellezza femminile scivola lungo corpi torniti, morbidi, sinuosi. Non uno scheletro come la povera Isabelle, spigoloso, pungente, ossuto, duro, arido, che non ha più in sé il più vago sentore di vita. Senza veli e senza pudori, questo corpo ci disgusta....mentre casi analoghi vengono ammirati e osannati sulle passerelle di tutto il mondo. E causano fenomeni impressionanti di emulazione, tra ragazzine e aspiranti

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modelle in tutte le parti del mondo. “Thinpiration” o “Thinpo” viene definita l’ispirazione che le ragazze anoressiche traggono dalle modelle eccessivamente magre, per raggiungere il loro obiettivo, per aiutarle e motivarle a perdere altro peso...


Altro progetto sul tema manipolazione e impatto psicologico delle immagini è quello di due giovani fotografi milanesi, Andrea Viganò e Matteo Scarpellini (Alma Photos), in controtendenza al fatto che sia sempre più difficile trovare fotografie che non siano passate sotto l’arma del fotoritocco. Questa, nelle parole degli autori stessi, l’essenza del progetto:

Al giorno d’oggi, siamo circondati da immagini di corpi apparentemente perfetti. Ma siamo sicuri che lo siano? Le immagini che subiamo quotidianamente ci impongono un canone di bellezza che è molto lontano dalla realtà. Bisogna essere alti, magri, con la pelle liscia, gli addominali scolpiti o il seno formoso. Quando queste caratteristiche non sono naturali, quasi sempre si ricorre al fotoritocco per raggiungere questi obiettivi “ideali”. L’intento di “REALITY PROJECT”, come dice il nome stesso, è quello di fotografare persone normali, reali e nude, lasciando che il corpo racconti la loro bellezza naturale, senza trucchi o fotoritocchi, in tutte le sue forme e dimensioni. La vera bellezza si trova in ogni corpo. 69


In sintesi, sia che dietro l’obiettivo o la macchina da presa ci sia un professionista o meno, le immagini possono facilmente alterare la nostra percezione della realtà. La pratica fotografica, per quanto utilizzata in senso “puro”, “diretto” e “incontaminato”, comporta sempre delle distorsioni, modificazioni, approssimazioni e interpretazioni della realtà. Tale deformazione, a pensarci bene, è estrema e implicita nel media. I colpevoli non sono solo i difetti tecnici del sistema fotografico, la sua incapacità a registrare in maniera iconica perfetta il reale è molto più profonda. La rappresentazione fotografica del reale si iscrive in un sistema di percezione del mondo codificata cui siamo abituati, e 70

ormai non ci rendiamo più conto di quanto in realtà le due entità siano profondamente distanti l’una dall’altra. Per dirne una, il bianco e nero, che siamo abituati a leggere come riproduzione della realtà, in realtà è una modifica e distorsione pesantissima di questa. Eppure, secoli di disegno e un centinaio d’anni di fotografia quasi esclusivamente monocromatica ci hanno abituati culturalmente all’idea di una rappresentazione simbolica della realtà in scala di grigi. Di questa ambiguità, spesso inosservata e sottaciuta, possiamo


annoverare infiniti esempi, scelti qua e là nei campi dell’arte, della fotografia, del cinema, del fotogiornalismo, passando per le manipolazioni più casalinghe, ormai alla portata di tutti quanti possiedono un computer o uno smartphone: la gente comune non è più solo “destinatario”, ma anche “fautore” di un certo tipo di comunicazione visiva. Elemento chiave di comunicazione e condivisione è INTERNET, dove fotografie e video vengono caricati spesso circolando senza controllo, alla mercè di chiunque. Questi contenuti sono spesso “postati” su piattaforme digitali come blog, social network e siti personali che ormai hanno raggiunto pari rilevanza dei media e dei canali di informazione tradizionali, soprattutto tra i giovani. Le varie tecniche (prima citate: l’applicazione di filtri, il fotomontaggio, la ricostruzione di set in scala reale, l’adozione di punti di vista ravvicinati o panoramici, le inquadrature), creano immagini che si collocano in un territorio al confine tra verosimile e reale...e di questo tutti paiono coscienti. Tuttavia la consapevolezza di massa della manipolabilità delle immagini non ha ancora prodotto una crisi della credibilità delle fotografie: ci

fidiamo spensieratamente di ciò che i media offrono al nostro sguardo, pur sapendo che noi stessi con un gesto solo sul nostro touch-device saremmo in grado di edulcorare o trasformare quegli stessi dati visibili. Questa ricerca presenta una selezione di prospettive che, con la fotografia o il video, elaborano possibili modelli di realtà: sono raccolti e illustrati meglio possibile alcuni casi, ritenuti importanti per rilevanza storica, impatto sociale, attualità o semplice curiosità; casi nei quali l’immagine della realtà è stata in qualche modo manipolata, sedotta, rimaneggiata in maniera tale da mantenere viva nell’ingenuo osservatore l’illusione della realtà pur senza conservarne (in toto o affatto) i caratteri. Casi in cui l’immagine mente più o meno consapevolmente e colpevolmente, analizzati per cercare di smascherarne trucchi, meccanismi di “mistificazione” e dunque far riflettere, stimolare ad andare oltre una passiva ricezione di immagini, cercando di comprendere come sia stato possibile credervi...o che motivo c’era per mentire.

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selezione di casi studio Dire che «la macchina fotografica non può mentire» equivale semplicemente a sottolineare le numerose frodi che vengono compiute in suo nome. - Marshall McLuhan

C

on i loro lavori (fotografici o filmici che siano), gli artisti si divertono a cavalcare, per poi scalzare definitivamente l’idea - diffusa- dell’autenticità dell’immagine fotografica. La matrice in comune di tutti questi lavori è quel momento in cui traggono in inganno lo sguardo dell’osservatore, indotto a un’interpretazione erronea della “realtà” in essi rappresentata, rimandando, a seconda delle intenzioni, il disvelamento o meno del “trucco”. Uno degli elementi 72

che differenzia tra loro i diversi casi presentati consiste in quanto facilmente, e quanto in fretta, il soggetto ricevente può scoprirne la manipolazione interna. Il contenuto di alcuni lavori appare indubitabilmente chiaro fin dal primo sguardo, mentre altri devono essere attentamente osservati prima che ci si possa accorgere che rappresentano una realtà fittizia e costruita artificialmente. Le forme di manipolazione vanno dall’intervento di rielaborazione digitale, all’uso di una speciale tecnica di messa


Per me la fotografia deve suggerire, non insistere o spiegare. - Gyula Halász (meglio noto come Brassaï),

a fuoco, a inquadrature o ritagli parziali, a collage o rimaneggiamenti digitali, fino alle immagini di modelli artificiali che sembrano in tutto e per tutto interni domestici o paesaggi. Sono per lo più gli artisti stessi a compiere il percorso che porta a smascherare il vero contenuto dell’immagine, visto che, in quanto Artisti appunto, il loro obiettivo non è affatto quello di mantenere inalterata l’illusione mimetica di una rappresentazione realistica. L’osservatore comincia dapprima a nutrire dubbi sulla veridicità dell’immagine rappresentata, quindi sulla riproduzione fotografica stessa. L’effetto irritante che la manipolazione dell’immagine provoca è un obiettivo intenzionalmente perseguito dagli artisti; l’iniziale dubbio dell’osservatore, concentrato sul soggetto della fotografia, si trasferisce a questo punto sulla natura dello strumento fotografico in sé. Viene così inevitabilmente compromessa la generale e diffusa accettazione di un rapporto

analogico tra oggetto reale e immagine fotografica. Nel momento in cui diventa consapevole della manipolazione operata dall’artista, l’osservatore scopre anche un ulteriore piano di significati; inizia così il vero confronto con l’immagine. Attraverso il procedimento fotografico gli oggetti vengono tradotti in rappresentazioni che non offrono all’osservatore alcun accesso alla realtà, in qualunque modo questa sia da intendere.

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andreas gefeller

Andreas Gefeller, Ohne Titel (Plattenbau 4), Berlin, 2004 110 x 131 cm

Il titolo della serie Supervision contiene già un riferimento alla prospettiva prescelta. Soggetto delle immagini sono gli interni disabitati delle case popolari costruite in serie, tipiche dei paesi dell’est. I singoli appartamenti, tutti identici per planimetria, sono 74

deserti, ma recano tuttavia tracce dell’arredamento e della presenza dei loro ex abitanti. La particolarità di queste immagini sta nella prospettiva dall’alto, che ci mostra le stanze come se fossero prive di soffitto. Si viene così a creare una visione irrealistica e quasi spaesante,


Andreas Gefeller, Ohne Titel (Plattenbau 5), Berlin, 2004 110 x 131 cm

in conflitto con il comune modo di vedere un luogo: la macchina fotografica sembra essersi mossa come un satellite sopra gli oggetti e gli spazi ritratti, di cui fornisce una sorta di sorprendente mappatura. Le opere di Gefeller (che spaziano dagli interni abitativi, alle piazza, agli edifici scolastici e così via) non sono ottenute tramite un’unica ripresa, l’artista ha concepito un metodo tecnicamente elaborato per ottenere questa “scansione” degli ambienti: le immagini sono il risultato di un lungo processo di mappatura dello spazio, che l’artista percorre passo per passo. La macchina viene posizionata a due metri di altezza dal suolo e, fissata al corpo dell’artista tramite un’asta, scatta ogni singola posizione, come a scansionare il luogo, per poi ricomporlo al computer in

un fotocollage digitale. Ogni opera arriva a comprendere fino a 2500 diverse singole fotografie. Un’osservazione attenta permette di notare, in prossimità delle pareti, i punti di congiunzione, che ci rivelano così il processo di realizzazione. Non dunque un manipolare la realtà vera, ma manipolare la nostra percezione di quella realtà, mostrandocela in un modo che normalmente non è concepibile, che risulta essere un’astrazione, già familiare solamente a designer e architetti, in quanto avvezzi per professione a piante e prospetti, cioè rappresentazioni ideali della realtà. Mostrare quindi la realtà in una maniera che oseremmo definire “oggettiva” e “minuziosa”...se non fosse totalmente inesistente. In verità. 75


Andreas Gefeller, Ohne Titel (Sieberei) Essen, 2003 148 x 200 cm

Il gesto continuamente ripetuto dello scatto fotografico durante la realizzazione delle fotografie inoltre contiene in sé un aspetto che potremmo quasi definire meditativo. La ripetizione della stessa operazione, la fisicità e la corporeità di questo processo costituiscono un elemento di cesura rispetto alla tradizionale distanza che caratterizza l’intervento del fotografo. In alcune delle immagini si arriva a notare le tracce che l’artista ha lasciato con il suo avanzare nell’ambiente; in Sieberei [lett. “Impianto di vagliatura”], per esempio, possiamo notare le orme 76

impresse nella polvere di carbone, che diventano testimonianza della dimensione temporale che interviene direttamente nel suo lavoro. Non solo, quindi, Gefeller tenta di rielaborare la percezione spaziale all’interno della fotografia, ma compie una rivalutazione del tempo come condizione necessaria per la creazione di un’immagine, in controtendenza rispetto alla sempre maggiore velocità delle tecniche fotografiche moderne. Con le sue grandi immagini ricche di dettagli, Andreas Gefeller mira a elaborare un modo nuovo di guardare la realtà. Utilizzando


spesso soggetti tipici della fotografia contemporanea (il paesaggio urbano, i grandi spazi vuoti e le tracce che l’uomo vi ha impresso), l’artista tedesco raggiunge questo obiettivo non manipolando l’oggetto da ritrarre, ma elaborando una strategia per rappresentarlo in modo nuovo e quasi “impossibile”. Andreas Gefeller, Ohne Titel (NL-Huizinge), NL-Huizinge, 2005 190 x 158 cm

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beate gÜtschow

Beate Gütschow, S#14, Munich, 2008 Light Jet Print, Dibond 180 x 267 cm

Nelle opere appartenenti alla serie S (Stadt, città) i soggetti ritratti in bianco e nero sono per lo più architetture e paesaggi urbani, luoghi che a volte recano tracce di devastazione o che appaiono parzialmente incompiuti. L’allarmante, assoluta staticità degli scenari, in cui non è visibile alcuna traccia di vita, provoca nell’osservatore un senso di oppressione. È un’atmosfera sospesa, 78

Pagina seguente, senso orario: S#10, S#24, S#22, Munich, 2008 Light Jet Print, Dibond (dimensioni varie)

rarefatta, quasi apocalittica quella che regna su queste immagini, un’atmosfera che conosciamo dai reportage fotografici realizzati in zone di guerra. Nulla ci fa sospettare, neppure per un momento che... non esistano affatto. Ci aspettiamo che essi siano lì, immobili, tristi e maestosi in qualche parte nel mondo. Questo perché le singole strutture architettoniche e le singole porzioni dei luoghi ritratti risultano


familiari all’osservatore, credibili in quanto foto di luoghi veri. Tuttavia, l’insolita combinazione dell’insieme rende impossibile contestualizzare questi posti in una realtà geografica o in un tempo preciso. Anche l’agibilità dei singoli edifici appare incerta. Rimane l’impressione di avere a che fare con i relitti architettonici di un’utopia fallita. Le opere di Beate Gütschow mostrano letteralmente dei “non luoghi”. Quello che vediamo non è il risultato di un’indagine documentaria sulla città; piuttosto, l’artista ci propone una sua personale visione dell’ambiente urbano.

Queste immagini sono il risultato di un lungo lavoro di elaborazione digitale delle fotografie di varie città, assemblate a formare una nuova veduta unitaria. Nei suoi collage digitali, Beate Gütschow costruisce delle scene urbane a partire da un’insieme eterogeneo di soggetti da lei stessa fotografati, da motivi prelevati da libri o da immagini d’archivio. Nella composizione degli elementi, l’artista si mantiene vicina alle linee direttive della pittura classica di vedute urbane; essa stessa dichiara che “basta seguire due o tre di queste norme affinché le fotografie ci sembrino quadri, in

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quanto la nostra percezione è stata formata in questo senso”. Le fotografie della Gütschow mostrano paesaggi urbani inesistenti: il suo lavoro diviene simile a quello di un pittore di paesaggio, che parte dall’osservazione della realtà ma che nel proprio studio giunge all’opera finale arrivando ad una sintesi tra realtà e memoria. Ecco come

l’artista descrive il suo intento: “A me interessa lavorare sulla differenza tra la realtà e la rappresentazione. Ciò che vediamo in una fotografia somiglia molto a ciò che si trovava davanti all’obiettivo della macchina fotografica; tuttavia c’è sempre una differenza enorme, anche se sfugge alla nostra percezione. Io vorrei mettere in luce questa differenza”.

gregory crewdson

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La fotografia di Gregory Crewdson è un’instancabile ricerca della foto, dell’istante perfetto, attraverso la cura spasmodica del particolare e un’attenta composizione. Grazie soprattutto a un uso virtuosistico della luce, l’artista crea delle immagini di forte impatto e dotate di un grande fascino visivo. Ogni fotografia richiede la costruzione di una complessa messa in scena realizzata grazie al lavoro di un

team di professionisti che affianca Crewdson al pari di una troupe cinematografica: scenografi, tecnici luce, truccatori, comparse. È impossibile non paragonare queste fotografie al linguaggio visivo di celebri registi americani, come David Lynch, Alfred Hitchcock e Steven Spielberg: ogni sua foto pare un “fermo immagine” ad alta risoluzione tratta da sontuosi film hollywoodiani.

L’atmosfera che avvolge le monumentali “tele” di Crewdson rende la scenografia misteriosa e gli attori come delle apparizioni inquiete, reduci da chissà quali tragedie. Sono dei sopravvissuti che riportano, o nascondono, le ferite delle loro vite senza una manifestazione chiara delle loro esperienze. Ogni cosa rimane compressa in una prigione ovattata di apparenze. L’inquietudine e il tocco delicato della malinconia che si espande dai quadri di Hopper, dai quali Crewdson prende esplicita

ispirazione, si tramuta nelle sue opere in un distacco ancora maggiore tra ciò che si vede e ciò che si agita sotto la superficie. L’artificiosità della costruzione, perfetta e manipolata, senza sbavature, con illuminazioni cinematografiche che frappongono una distanza nell’immedesimazione dello spettatore, ci ricorda che stiamo assistendo ad una narrazione scenica, forzata e simbolica. In questi complessi montaggi digitali, la perfetta messa a fuoco di tutti gli elementi e dei diversi piani spaziali è ottenuta attraverso l’assemblaggio di porzioni di immagini diverse, dotate di specifiche messe a fuoco. L’identica profondità estesa a tutto il campo figurativo conferisce uguale rilevanza e evidenza a tutte le

Pagina precedente: Gregory Crewdson Untitled, 2001 C-print, Diasec 122 x 152,4 cm

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Gregory Crewdson Untitled (Dream House), 2002 C-print, Diasec

diverse parti della scena, producendo un effetto di iperrealtà e di “ipervisività”: ogni singolo dettaglio presente nell’immagine è colto nitidamente come se fosse un’opera pittorica. Pur basando il proprio lavoro su queste contaminazioni di generi, possiamo dire che Crewdson è un fotografo nel senso letterale del termine, laddove “fotografia” significa “disegnare con la luce”, l’evidente protagonista del suo mondo visivo. È così che egli riesce ad alterare e manipolare l’atmosfera di banali luoghi della vita quotidiana 82

o di città della provincia americana aprendo a nuove visioni che vanno al di là di ciò che vediamo e che sono caricate di inediti e profondi valori psicologici e concettuali. Le immagini sono slegate da un possibile contesto o da una supposta concatenazione di eventi, che solo la libera interpretazione dell’osservatore può tentare di ricostruire. Le scene, ambientate nella provincia statunitense, sono cariche di un’atmosfera onirica e inquietante, e sembrano alimentarsi dei fantasmi dell’inconscio collettivo americano.


Sopra: Gregory Crewdson Untitled (Beneath the roses), 2005 C-print, Diasec

Sotto: Gregory Crewdson Untitled, 2006 C-print, Diasec

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jeff wall

Jeff Wall, fotografo canadese, nasce a Vancouver nel 1946. Questo “pittore della vita moderna”, come lui stesso si definisce, stravolge una serie di convenzioni della fotografia, riflette sul linguaggio, sullo stereotipo, sulle abitudini visive. Con una serie di opere che spaziano tra temi sempre diversi, dalle relazioni tra persone, alla politica, ai luoghi, alle tensioni sociali, presenta immagini che ricordano, per il formato e la composizione, i quadri 84

dell’Ottocento. Grazie a scelte consapevoli e studiate, Jeff Wall ha pieno controllo sull’immagine e si trasforma in regista pianificando lo scatto nel dettaglio, dalla scenografia, ai costumi, alla luce, alle azioni dei protagonisti: anche se quello che vediamo è stato effettivamente davanti all’obiettivo, quello che pensiamo stia accadendo – il messaggio, il concetto – è allestito e mediato. Wall si prepara con largo anticipo


per scattare una fotografia: tutte le scene sono interpretate da attori, rappresentate in grandi set, riprese fotograficamente, e qualche volta assemblate o postprodotte digitalmente. Wall mostra i simboli della vita moderna, include le forme del paesaggio urbano come imposizione dell’agire sociale. Gli attori messi in scena da Wall si confondono con gli attori della vita, creando una visione surreale del mondo che rende fragili le certezze dell’agire umano nel nostro tempo. In generale le opere di Jeff Wall mescolano pezzi di quotidianità a tensioni psicologiche interiori ispirate a famose opere letterarie. In alcune fotografie questo è più evidente, in altre il gioco si fa più

fine e il linguaggio imita banali stili di film qualunque o pezzi di semplice vita quotidiana. La grammatica è vicina al linguaggio della pubblicità: il grande formato di molte immagini, la presentazione di alcune di queste all’interno di lightbox (delle cornici retroilluminate) permettono di osservarne i dettagli sottili. Pagina precedente: Jeff Wall, Insomnia, 1994, Lightbox, 172 x 213,5 cm Sotto: Morning cleaning, 1999, Barcelona, Lightbox, 187 x 351 cm

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joan fontcuberta Joan Fontcuberta è un artista concettuale, saggista, storico, critico, giornalista, fotografo, scrittore, editore, insegnante e curatore, un “autodidatta della fotografia”. Nato a Barcellona nel 1955, ha sperimentato sulla sua pelle, durante i suoi primi 20 anni, la dittatura e l’attività di propaganda di Francisco Franco; questo lo ha parecchio condizionato nella sua attività di pubblicitario e artista, portandolo ad essere sempre molto scettico nei confronti dell’autorità e dell’immagine. Sempre a causa di questi trascorsi in tutte le sue opere si può notare una certa sensibilità alla relazione tra fotografia, immagine e verità, sia che questo rapporto sia trattato con leggerezza e ironia o piuttosto con severità. Potremmo quasi definire Fontcuberta il più grande professionista/analista esistente della menzogna visuale, un beffardo maestro dell’inganno. Con le sue foto ci mente facendocelo capire, perché mira non a ingannare, ma a svelarsi, per farci capire che menzogna e verità esistono e convivono quotidianamente, entrambe adiacenti a un sottilissimo confine; è importante rendercene conto, per 86

Sopra e a pagina seguente: scatti da Sputnik, The Odyssey of Soyuz II, 1997 (dimensioni varie). Il viso dell’astronauta è dello stesso Fontcuberta

essere in grado di rivendicare la nostra libertà di scegliere quando è giusto avventurarci da l’una o dall’altra parte del confine e godere della consapevole falsità che è l’arte, perché è forse questa capacità unica, di gioire di cose non vere, che ci fa uomini.


Una delle installazioni più geniali di Fontcuberta è la serie “Sputnik: l’odissea di Soyuz II” del 1997 (vedi immagini sopra), un classico dell’arte fittizia. Questa esposizione aveva la pretesa di narrare attraverso reperti storici, oggetti, documenti, articoli di giornale, video la storia di una fallimentare missione spaziale sovietica della quale ogni traccia fu ostracizzata da parte della burocrazia sovietica stessa, a

cominciare dalle fotografie, però ritrovate e esposte in quella mostra accusatrice, del veicolo spaziale, delle procedure di lancio, dei dettagli della missione e dell’astronauta stesso, misteriosamente scomparso (“Ivan Istochnikov”, traduzione approssimativa di “Joan Fontcuberta”: le foto che pretendono di mostrare Istochnikov sono di Fontcuberta se stesso). Ovviamente la missione stessa era un’invenzione 87


Joan Fontcuberta, Centaurus Neardentalensis e Areofante, dalla serie Fauna, 1987

dell’artista, che riuscì a beffare la presunzione del pubblico di essere vaccinato contro le truffe: tutti sapevano che i sovietici spesso rimaneggiavano le testimonianze fotografiche, nessuno si aspettava che qualcuno potesse mentire le loro menzogne… Con lo stesso spirito sono da visionare lavori come Karelia: Miracles & Co. (2002), viaggio immaginario – ma raccontato con stile documentaristico – verso un monastero dove si manifestano strani fenomeni soprannaturali; Orogenesis (2002), che presenta una serie di paesaggi apparentemente fotografici, ma ottenuti attraverso tecniche digitali e a partire da 88

immagini preesistenti; Googlegrams (2005) dove, attraverso un software per l’elaborazione di fotomosaici, realizza immagini-icone basate sui parametri di ricerca maggiormente utilizzati sul web (rappresentazioni, per es., del World trade center sotto attacco l’11 settembre 2001 o delle torture perpetrate da alcuni soldati americani ad Abu Ghraib)...oppure altri lavori come “Herbarium” e “Fauna”, che, rifacendosi alla lunga tradizione occidentale dei bestiari, mostra fenomeni da baraccone, specie vegetali e animali ibride impossibili o improbabili, in versione appositamente invecchiata e “ri-autenticata”.


Sotto, in senso orario: Joan Fontcuberta, The miracle of correlative deconstruction, The miracle of dolphin surfing, The miracle of femininity, The miracle of ubiquity, The miracle of electrogenesis , dalla serie Karelia: Miracles & Co. (2002)

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olivo barbieri Le riprese del film site specific_LAS VEGAS 05 sono state realizzate dall’artista durante un volo in elicottero sul paesaggio desertico del Nevada e sulla sua città più celebre. Il video si apre con l’immagine di un’auto solitaria in movimento nel deserto, che si contrappone alle dimensioni colossali della diga di una centrale idroelettrica. Con un montaggio repentino appaiono le immagini degli altrettanto giganteschi alberghi e casinò della città, che giorno e notte ne definiscono lo skyline e l’estetica megalomane e assolutamente votata

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ad una esasperata spettacolarità artificiale. In queste immagini panoramiche, solo una minima porzione dell’immagine complessiva è adeguatamente nitida, mentre il resto dell’immagine appare indefinito, secondo la tecnica della messa a fuoco selettiva. Questo genere di visione corrisponde a quella dell’occhio umano, in grado di “mettere a fuoco” solo una porzione del campo visivo. Barbieri si serve della tecnica tiltshift (dall’inglese “to tilt”, inclinare), che consiste in uno scivolamento dell’obiettivo sulla superficie


Sotto e a pagina precedente: still frames dal video Site specific: Las Vegas del 2005. Numerosi altri video simili sono stati eseguiti dall’artista a Milano, Siena, Roma e presso le più importanti cascate del mondo per la serie Falls

dell’immagine fotografica, che ha come conseguenza la messa a fuoco parziale dell’immagine stessa. In mezzo al paesaggio urbano, sfumato come in un’opera pittorica, spiccano singole strutture architettoniche che fanno pensare a plastici e non a edifici reali. Aspetto e materialità delle superfici ottengono nelle riprese di Barbieri una qualità nuova; si rafforza così la sensazione che le strutture mostrate non siano realtà effettive e preesistenti, ma piuttosto modelli che rappresentano

il reale. La prospettiva dall’alto sembra voler conferire all’immagine panoramica un presunto valore documentaristico. L’interesse di Barbieri, al contrario, non è però diretto alla mera documentazione del luogo. Primaria è piuttosto la visualizzazione figurativa di un nuovo modo di vedere e comprendere un luogo, prescindendo da una sua precisa e dettagliata scansione in favore di un più profondo senso di atmosfera. 91


paolo ventura Paolo Ventura, fotografo, illustratore, disegnatore e scenografo, si confronta con la rappresentazione della recente guerra in Iraq diffusa dai media occidentali. Le foto dell’artista non mostrano direttamente delle azioni di conflitto, ma immagini parziali o contenenti solo riferimenti indiretti, a partire dai quali l’osservatore può formulare una

possibile ipotesi sullo svolgimento dei fatti. Anche se alle immagini manca l’accompagnamento della consueta cronaca giornalistica, che spiega il contenuto dell’immagine e lo situa in un determinato contesto di eventi, all’osservatore, le immagini di Ventura risultano note, quasi familiari. Si ha quasi l’impressione di averle già viste, poiché condensano in sé i soggetti,

Qui e pagina seguente: Paolo Ventura Iraq, 2008 C-Prints 120 x 100 cm ciascuna

le prospettive e lo stile fotografico a cui siamo in un certo senso abituati, attraverso, ad esempio, le foto fornite dai cosiddetti embedded journalists, i giornalisti al seguito delle truppe. Ma l’iniziale impressione di riconoscere stile e soggetti lascia posto ben presto 92

al dubbio sull’autenticità della rappresentazione. Diversi elementi suscitano la sensazione di una certa artificialità dell’immagine, sebbene si mantenga un effetto forte di realismo che potremmo quasi definire tattile. In realtà le fotografie di Ventura


non sono state scattate in Iraq, bensì nel suo atelier di New York. I soldati non sono altro che manichini costruiti dall’artista; il mondo che li circonda è un modello preparato e costruito artigianalmente. Le installazioni di Ventura sono una sorta di visione sintetica di tutte le immagini della guerra legate alla memoria collettiva. L’artista non riproduce esattamente delle fotografie scattate sul teatro di

guerra, ma descrive quest’ultimo con immagini che scaturiscono dalla sua fantasia, e che tuttavia risultano estratte e come distillate dal quotidiano flusso di immagini belliche trasmesso dai media. Pur avendo l’aspirazione, fin dalla sua nascita, di restituire maggiore oggettività e autenticità possibile, la fotografia non sembra essere in grado di rappresentare la guerra nella sua vera realtà e dimensione.

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pino musi La Fotografia ha sempre sofferto di un certo complesso di inferiorità nei confronti delle Arti (con la A maiuscola), sue sorelle maggiori, come la Pittura; essa fin dalle origini è stata marchiata come vile pratica ottico-meccanica e per ciò confinata tra l’artigianato e l’industria, sull’opposto versante delle Arti Nobili. E, tra impennate di moti d’orgoglio e cedimenti servili, la volontà di liberarsi una volta per tutte di questa pesante discriminazione, ha fatto sì che la

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Fotografia rinunciasse a se stessa per essere finalmente considerata Arte, levandosi la polpa culturale per vendere più facilmente il guscio estetico. Quelle che ci vengono proposte oggi sono pratiche di produzione di immagini che, pur servendosi di strumenti fotografici, sono pre-fotografiche, come pittura si propongono e vogliono essere ricevute e considerate. In tutto questo non si può dunque ritrovare la benché minima traccia di dignità? In quest’ottica e con questi dubbi


Qui e pagina precedente: Pino Musi Pantheon, Roma, 2010 Sant’Apollinare in Classe, Ravenna, 2010

va guardato il lavoro di Pino Musi. Autentico virtuoso nell’uso dei grandi formati e nella stampa analogica diretta in camera oscura, ma anche dell’elaborazione elettronica dell’immagine digitale e dei vari tipi di stampa a getto d’inchiostro; tutti strumenti sofisticatissimi e all’avanguardia ma funzionali ad una sincera ossessione per un risultato visivo superlativo quanto a restituzione di materia, dettaglio, di ogni sfumatura luminosa del soggetto fotografato.

È questa consapevolezza delle capacità e delle ossessioni tecnologiche di Musi che ci deve guidare alla scoperta della sorprendente novità dell’operazione realizzata in questo lavoro. I luoghi ritratti sono riconoscibili perché diventati dei “loghi” comuni nel nostro immaginario, grazie a una lunga tradizione iconografica che a quelle forme ci ha abituati; ma queste immagini classiche e perfette non ci fanno vedere la realtà di questi luoghi. E non perché “le 95


A sinistra: Pino Musi, Chiesa di San Giovanni Battista, Mogno, Valle Maggia, Svizzera (1986-1996) Sopra: Pino Musi, Fori romani, dettaglio, Roma, 2010

immagini di un grande fotografo mostrano di certi luoghi, di certi monumenti, ciò che i nostri occhi più non sanno vedere”, ma perché, letteralmente, non è oggi più possibile vedere quei luoghi e quei monumenti in questo modo così limpido e incontaminato. Basta avere fatto di recente un giro in uno qualsiasi di questi luoghi straordinari per avere sperimentato la costante operazione di astrazione visiva, di messa tra parentesi psicologica, di autentica rimozione mentale di tutte le aggressive contaminazioni di cui sono 96

infestati: orde di turisti, transenne, luci pessime negli interni, guide ignoranti e aggressive, ignobili cartelli, sfondi offensivi, ogni sorta di sporcizia, per poterli letteralmente guardare, non dico vedere, sentire, per faticosamente tentare di ritrovarne il senso, l’emozione. Lo straordinario lavoro dell’artista consiste nella cancellazione e ricostruzione, dentro il visibile fotografico: nessuna traccia, neanche minima, di tutte quelle volgarità, di quegli stupri estetici. Nemmeno un mozzicone di sigaretta. Tutto è stato meticolosamente cancellato. Ma


non basta. Dopo, con microscopico, amorevole virtuosismo, ogni file digitale, ormai solo punto di partenza di una immagine virtuale, è stato modificato, dettaglio per dettaglio, per ricostruire un’immagine mentale di quegli oggetti e di quei monumenti, fino a restituirli all’emozione romantica di chi forse, viaggiatore del Grand Tour, li aveva incontrati per la prima volta. Operazione stupefacente ed estremamente rivelatrice di un momento storico e di una attualissima inquietudine culturale, un’inquietudine che riguarda anche la situazione in cui si trova oggi la fotografia. L’operazione che potremmo definire

“meta fotografica” di Musi non ha infatti nulla a che vedere con una di quelle tristemente note operazioni di chirurgia estetica fotografica al photoshop, che cancella le rughe di una non più freschissima attrice o allunga le gambe di una starlet, è qualcosa di molto più complesso e drammatico, è un voler restituire ai nostri occhi la forza intatta del messaggio che da essi ancora emana, un viaggio nel tempo, una impossibile resurrezione di quella innocenza dello sguardo, l’innocenza della fotografia. Recuperare un mondo che non c’è più attraverso una fotografia che non c’è più.

Perché la coscienza odierna dell’immagine è la fotografia, e perché il saper vedere di un fotografo è ben altro, e ben più, che la documentazione compita d’un luogo [...]di un luogo, di un monumento, ci restituisce l’anima, la potenza, l’essenza di una bellezza che è la matrice della stessa nostra idea di bellezza. - Marilena Ferrari

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sonja brass Sonja Braas è una fotografa tedesca, nata nel 1968 a Siegen. Nella serie The Quiet of Dissolution, le foto non hanno niente in comune con le consuete immagini di terremoti, incendi, tornadi e inondazioni che ci vengono regolarmente proposte dai media. Siamo abituati a immagini in bassa definizione, spesso scattate con

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telefoni cellulari, filmati vacillanti e quasi amatoriali. Al contrario, le immagini di catastrofi naturali di Sonja Braas rinunciano a qualsiasi intenzione narrativa e trasmettono un senso di serenitĂ ; del tutto prive di contatto e contaminazione con il destino umano, appaiono colte in un tempo immobile. Il tornado non minaccia alcuna cittĂ e il


fiume di lava può essere ammirato in tutta la sua maestosità poiché l’eruzione sembra assolutamente priva di conseguenze. In più, tutto, in queste fotografie, appare perfetto: in Tornado la tromba di un uragano occupa il centro dell’immagine e ne divide il campo secondo le regole di composizione della sezione aurea; il colore scuro del cielo fa sì che il vortice d’aria risalti contro lo sfondo, esaltandone la plasticità. In Lava flow, il campo dell’immagine è suddiviso dalle colate di lava; si direbbero pennellate di giallo oro sullo sfondo nero di una tela. L’osservatore è portato a chiedersi in che modo l’artista sia riuscita a scattare queste immagini, come abbia potuto spingersi così vicino al tornado e in che modo abbia posizionato la sua camera. La risposta è semplice: quel che vedete non sta accadendo o non è accaduto mai in nessun luogo. Le immagini nascono nel suo atelier come modelli idealizzati del reale. Sonja Braas ci presenta delle fotografie di modelli di vulcani e tornado realizzati da lei stessa con straordinaria precisione, al fine di costruire immagini ideali e perfette che simulano eventi naturali.

Pagina precedente: Sonja Brass, Burning oil, 2008

Qui: Lava Flow e Tornado, 2005

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perchè mente la fotograFia ? Che motivi spingono le immagini sull’orlo (o nel baratro) della menzogna? La fotografia può assumere di volta in volta i volti di Ulisse o Giuda.

Il re di Itaca è l’ingannatore, il mentitore scaltro che gioca la sua partita con astuzia perché è lo strumento migliore in suo possesso per raggiungere i suoi scopi. Giuda, invece è il traditore: la sua bugia è vile, colpisce chi lo ama e crede in lui, un bacio bugiardo in risposta a un abbraccio sincero. Per Ulisse la menzogna è un’arte sopraffina, per Giuda una cosa di cui vergognarsi. Ulisse è l’uomo dai mille inganni, farci raggirare da lui è in fondo un piacere, un gioco, lo strano diletto che si prova di 100

fronte a un illusionista: sappiamo che c’ingannerà, semplicemente vogliamo che ci inganni e ci stupisca. Ulisse è l’Arte: mentitrice con la patente. “L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”: l’unica verità a cui un artista debba rispetto è quella della propria visione interiore. La fotografia invece mente come Giuda quando vuole tradire la buona fede (quella che non cerca e non è lì per essere ingannata), quando cerca di spacciare l’incompleto


per il completo, il preciso per l’approssimativo, il molteplice per l’uno, il soggettivo per l’oggettivo. È alla fotografia destinata a documentare, a testimoniare, alla fotografia-informazione che consente al cittadino di prendere decisioni consapevoli in una società democratica, che rivolgiamo le nostre pretese e le nostre critiche. Menzogna è spacciare il vero

per il falso a chi se ne servirà per formulare un giudizio: questa l’insidia vera. La tecnologia digitale rende scivoloso il rapporto tra le immagini e il mondo non perché demolisce il concetto di realtà, ma al contrario perché si camuffa da realtà e dunque le rende un infido omaggio il cui prezzo è di fatto la nostra disinformazione.

Senza la fotografia non esisterebbero i massacri. - Michele Smargiassi

fIdarsi oppure no? La domanda sorge dunque spontanea: possiamo ancora “CREDERE AI NOSTRI OCCHI”? Dobbiamo credere ancora a un’immagine che si presenta come una fotografia ossia, per la nostra cultura, come una “immagine prelevata” direttamente dalla realtà? O dobbiamo crederle meno che mai, perché nella sua digitale malleabilità, essa si presta con facilità infinitamente maggiore rispetto al passato alla manipolazione, alla trasformazione in pittura digitale, in invenzione fantastica?

Sono due gli atteggiamenti più “comodi” o più “facili” in cui rischiamo di cadere. Il primo, quello di chi è disposto a credere a tutto: nonostante sia ormai consapevolezza di massa quella riguardante la probabile nonveridicità delle immagini con cui veniamo a contatto, spesso siamo portati a lasciarci suggestionare, sedurre e fin troppo facilmente a fidarci di quelle che ci offrono i media, create appositamente per il nostro consumo, rischiando di rimanerne vittime e passando sotto silenzio pericolose truffe o deformazioni della realtà. 101


All’opposto, c’è chi rischia di non credere più a niente e consegna in qualche modo la fotografia intera al campo del “falso”. Ma esistono ancora fotografie che assumono un ruolo fondamentalmente Sotto: Robert Knoth, Michael e Vladimir, gemelli vittime delle radiazioni postume di Chernobyl, Minsk, Bielorussia, 2006 A destra, dall’alto: -Jacqueline (nella foto, 8 anni), Ghadi at market, Rwanda, 2001 (foto vincitrice del Camera Arts Magazine Photo Contest) -Stephanie Sinclair, Rajani (5 anni) portata alla sua cerimonia nuziale, India, 2011

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documentaristico e di denuncia, che trattano con grande rispetto i temi trattati..o per meglio dire, riprodotti. Mai più dunque potremo accettare immagini che scuotono, che denunciano, che indagano?

A pagina seguente: Stephanie Sinclair, Surita, (nella foto,16 anni; la bambina piange disperata mentre lascia la casa di famiglia, sul carretto che la porterà fino al villaggio di suo marito), Nepal, giugno 2011


Come spesso accade, “in medio stat virtus”: noi, abitanti consapevoli della società dell’immagine, abbiamo il diritto e il dovere di educare il nostro spirito critico e vaccinare i nostri occhi contro la credulità, rendendoci conto di quanto sono indifesi e ingannabili e convincerci che ormai tutte le foto che vediamo non sono “referenti ma desideranti” (Fred Ritchin), sono una “infografica figurativa” ( Joan Fontcuberta), costruzione artificiale di senso e non calco dal vero. Nostro compito è ridimensionare nel pensiero comune il ruolo della fotografia: da “calco del vero” a “indizio”, da “replica” a “citazione”, da “risposta” a “domanda”. Il che non è per tutti i

versi una perdita, anzi. I casi studio fin qui presentati, ognuno nel suo campo, a suo modo e con diverse finalità, costruiscono nuovi modelli di realtà; spingendo al limite la tensione tra apparenza e realtà, sovvertendo le aspettative.

Essi esigono che lo spettatore assuma un ruolo attivo e responsabile nel definire reale ciò che vede, ripensando e riconsiderando criticamente i propri criteri di realtà. L’osservazione del mondo non è più un atto di fede, è un atto di volontà. 103


bibliograf ia Smargiassi, Michele. Un’autentica bugia – la fotografia, il vero, il falso. Roma, Contrasto, 2009 Ritchin, Fred. Dopo la fotografia. Torino, Giulio Einaudi Editore, 2012 Elsaegger, Thomas; Malte, Hagener. Teoria del film. Torino, Giulio Einaudi Editore, 2009 Luhmann, Niklas. La realtà dei mass media. Milano, Franco Angeli Editore, 2000 Fontcuberta, Joan. La (foto)camera di Pandora - La fotografi@ dopo la fotografia. Roma, Contrasto, 2012 Clausi, Maurizio; Leone, Davide; Lo Boccaro, Giuseppe; Amarù Pancucci, Alice; Ragusa, Daniela. I luoghi di Montalbano - Una guida. Palermo, Sellerio Editore, 2006

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sitografia <http://www.nytimes.com/> <http://life.time.com/>

<http://www.nationalgeographic.it/> <http://www.repubblica.it/>

<http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/> <http://www.libreriamo.it/>

<http://www.co-mag.net/it/2008/fotografia-verita-simbolo-interpretazione/ > <http://www.fourandsix.com/photo-tampering-history/>

<http://www.swissinfo.ch/ita/multimedia/album/Immagini_che_mentono> <http://imgur.com/GpRzM>

<http://it.wikipedia.org/wiki/Portale:Cinema> <http://www.cinemotore.com/>

<http://www.visitmalta.com/en/filming-locations> <http://area.autodesk.com/fakeorfoto/> <http://www.psdisasters.com/>

<http://www.realityproject.net/>

<http://www.artribune.com/2013/04/la-prima-volta-di-jeff-wall/> <http://www.strozzina.org/manipulatingreality/> <http://www.rwandaproject.org/>

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