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UN NIDO PER LE CICOGNE come risorsa da (s)fruttare
Proposta di recupero di un immobile nel comune di Varedo (MB)
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Edifici abbandonati come risorsa da (s)fruttare Proposta di recupero di un immobile in disuso nel comune di Varedo (MB)
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Politecnico di Milano Scuola del Design Corso di Laurea Magistrale in Interior Design Tesi di Laurea Magistrale Studente: Sara Riva, 797696 Relatore: prof.ssa Silvia Piardi Correlatore: arch. Mattia Ghezzi A.A. 2013-2014
INDICE 3 6 11 15
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Indice Indice delle immagini Introduzione Abstract PARTE 1 - DA SPAZIO (RI)NASCE SPAZIO
18 22 28 32 34 36 40 46 50 60 61 62 63 64 65 66 68 69 70 72 73 74 76 79 84 87
Vuoti a rendere C’era (e non c’era) una volta...la speculazione Case nuove, case, vuote, case fragili Effetti collaterali? Il caso della Liguria Il caso della Sicilia Recuperare: (solo) quando il gioco vale la candela Nuova consapevolezza del cittadino qualunque Design e Start Up rianimano gli spazi vuoti Casi Studio Paesi Fantasma Edifici Dismessi Archeologia Industriale Stop al consumo di suolo Salviamo il paesaggio Riutilizzi-Amo l’Italia Vuoti a Rendere Mappi[na] Ferrovie Abbandonate Kcity Spazi Indecisi [Im]possible Living Temporiuso Per una Expo Diffusa e Sostenibile Ex-Officine Riva&Calzoni Città delle Culture
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92 94 96 98 100 104
Complesso Ex-Richard Ginori Hangar Bicocca Rotonda della Besana - MUBA Farm Cultural Park I “Perchè“ del progetto L’edificio in Piazzetta S.Maria 1 PARTE 2 - COSTRUENDO IL PROGETTO
108 119 126 130 132 136 137 143 152 163 169 171 180 192 193 194 195 196 197 198 199 200 201 202 203 204 205
Design Process Un nido per le Cicogne? Spazi Gioco e Ludoteche: l’importanza del giocare Ambiente, terzo Educatore Genitore + Insegnante + Ambiente Metodi Pedagogici moderni a confronto Rudolf Steiner Architettura Organica Vivente Maria Montessori Jean Piaget Elinor Goldschmied L’esperienza al Villaggio della Madre e del Fanciullo Loris Malaguzzi e il Reggio Approach Casi Studio (2) Ant House in Shizuoka Yu Yu No Mori Nursery School and Day Nursery Wonder space II House N Jerry House Leimondo Nursery School Slide House Netscapes Interior for students Spordtgebouw Spring Anansi Playground Building Library of Picture Books
206 208 210 211 212 213 214 219 223 231 234 240 244
BiebBus The reading net Temporary Space Observatory Ni単os Conarte Lo-Fi Pixel Wall Livingstone Il Nido delle Cicogne: il Progetto Il progetto La Scatola Il lucernario La rampa e la vetrata sul balcone Le reti Il seminterrato
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Bibliografia Sitografia Ringraziamenti
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INDICE IMMAGINI INTRODUZIONE 10 13
Senza Titolo, Laura re Illustrator Senza Titolo, Laura re Illustrator PARTE 1 - DA SPAZIO (RI)NASCE SPAZIO
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Ritratto di Leo Longanesi Ritratto di Luca Martinelli Ritratto di Carlo Petrini Urban Mandala Foto dell’alluvione 2011 a Vernazza e Aulla Foto di Genova alluvionata, 4 novembre 2011 Foto della frana a Barcellona Pozzo di Grotto Foto delle strade di Barcellona Pozzo di Grotto Vignetta di ElleKappa per “Rottama Italia“ Ritratto di Giovanni Campagnoli Locandina di “Città come beni comuni“ (BO) Centrale idroelettrica di Fies Performance all’interno della centrale di Fies Interni della centrale di Fies Homepage Paesi Fantasma Homepage Edifici Dismessi Homepage Archeologia Industriale Homepage “Stop al consumo di suolo” Logo di Salviamo il paesaggio Logo di Riutilizziamo l’Italia Foto di un rudere ignoto Logo Vuoti a rendere Homepage Mappi[na] e seg.Homepage Ferrovie Abbandonate e Trenord Homepage Kcity
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Homepage Spazi Indecisi Homepage [Im]possible Living e locandina Logo Temporiuso Logo di Per una Expo Diffusa e Sostenibile Homepage di Per una Expo Diffusa e Sostenibile e seg: foto del sito Expo Siviglia 1993 e seg: interni Ex-Officine Riva&Calzoni e seg: foto del progetto Città delle Culture e seg: foto esterne del complesso Ex-Richard Ginori e seg: foto esterne e interne di Hangar Bicocca e seg: foto esterne e interne del MUBA e seg: foto del complesso Farm Culturl Park e seg: foto dell’edificio in piazzetta S.Maria 1 PARTE 2 - COSTRUENDO IL PROGETTO
109 110 121 122 125 137 139 145 146 147 152 154 157 163 166 169 171 173 180 182 191 193
stradario della città di Varedo e seg: grafici demografici della città di Varedo Homepage Le Cicogne Logo e foto delle fondatrici delle Cicogne Intervista a una Cicogna Ritratto di Rudolf Steiner Foto di repertorio, bambini che colorano I Goetheanum I Goetheanum e seg: II Goetheanum Ritratto di Maria Montessori e seg: interni della Casa dei Bambini e seg: materiale educativo Ritratto di Jean Piaget e seg: foto di repertorio, attività dei bambini Ritratto di Elinor Goldschmied Elda Scarzella, Villaggio della Madre e del Fanciullo e seg: gioco euristico Ritratto di Loris Malaguzzi e seg: foto di repertorio Interni del Centro Internazionale Loris Malaguzzi Interno della Ant House a Shizuoka
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194 195 196 197 198 199 200 201 202 203 204 205 206 208 210 211 212 213 214 217 219 220 221 222 223 224 225 226 227
Foto della grande rete alla Yu Yu No Mori School Foto di bambini che giocano nel Wonder space II Foto degli “interni” della House N Foto delle reti sovrapposte nella Jerry House Foto dei lucernari della Leimondo Nursery School Schema progettuale della Slide House + foto degli abitanti che usano lo scivolo Varie foto delle installazioni a Linz, Hasselt e Vienna Foto degli interni della cameretta by Ruetemple Ragazzi alle prese con la palestra di roccia Spordtgebouw Lo spazio comune dell’asilo Spring Due diversi interni dell’Anansi Playground Building Foto delle scale e degli espositori della Library of Picture Books e seg: schizzi di progetto + utilizzazione del BiebBus e seg: i bambini di casa si divertono sulla “rete da lettura” Foto dall’alto e vista dall’ingresso al Temporary Space Observatory Foto della biblioteca per bambini nel centro Conarte Effetto e dettaglio del Lo-Fi Pixel Wall Bambini che si divertono con i prodotti Livingstone Logo de Il Nido delle Cicogne Timetable delle attività suddivise per fasce d’età Pianta del centro storico del Comune di Varedo Riproduzione 3D del centro storico Visualizzazione del principio alla base del progetto Esploso della struttura nei suoi componenti Sezione della struttura ricomposta Schizzi progettusli che evidenziano il cambiamento dell’altezza da esterno a interno Visualizzazione della scatola interna, con e senza pannelli di tamponamento Pianta e dettaglio della struttura portante della scatola Esploso costruttivo della scatola interna
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Proiezione delle aperture della scatola edilizia sulla scatola interna Proposta 1 di utilizzo della scatola interna Proposta 2 di utilizzo della scatola interna Vista del lucernario Dettaglio di costruzione del lucernario Schizzi compositivi del lucernario e stratificazione della copertura Vista della rampa dall’interno Visualizzazione della relazione tra rampa e scatola Visualizzazione dell’ascensore panoramico Sezione notturna della struttura con tipologie di illuminazione Vetrata del balcone vista dalla rampa interna Visualizzazione della vetrata del balcone con schizzi costruttivi e cannocchiale visivo e seg: dettaglio in pianta e schizzi esplicativi del meccanismo delle reti Vista dal seminterrato di reti e lucernario Possibili configurazioni delle reti Vista diurna del locale seminterrato Vista notturna del locale seminterrato Relazione bagni / rampa Vista del lampadario
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INTRODUZIONE
Il presente elaborato, frutto di un processo lungo e impegnativo, giá dal titolo potrebbe suonare banale, me ne rendo conto. “L’ennesima aspirante progettista, piena di ideali socio-ambientalisti e buone intenzioni, che vuole trasformare un rudere qualunque in uno strabiliante capolavoro dell’architettura contemporanea...magari credendo persino di essere originale.” No, non è così, ve l’assicuro: niente originalità a tutti i costi, niente altisonanti paroloni per concludere il mio percorso di studi, né per inseguire sogni di gloria o velleità artistiche di sorta. Non volevo progettare qualcosa di “cool” a tutti i costi, né volevo esibirmi in raffinati arzigogoli teorici che avrebbero fatto girare la testa ai più. Forse non ne ho le capacità. Forse volevo un finale diverso. Forse volevo effettivamente provare a fare, per una volta da zero e da sola, ciò per cui mi sono iscritta a questa facoltà. Progettare UN Interno. Gestire un progetto che fosse MIO totalmente, nel bene e nel male, misurando le mie forze e le mie qualità di progettista con la realtà che tutti i giorni mi trovo davanti agli occhi. E riscoprire che progettare ALL’Interno (di architetture già esistenti), con limiti forti, vincoli dimensionali e concettuali rigidissimi, non è molto più semplice che trovarsi dinanzi carta bianca e progettare ex-novo...ma sicuramente vale il tentativo; così come ideare un alloggio, un bar, un negozio, un piccolo spazio senza pretese, ma funzionale, non ha meno dignità del realizzare un allestimento spettacolare, un enorme museo, una grande biblioteca o un grattacielo. Mi sono convinta di questo. Così come mi sono convinta del fatto che la libertà, l’indipendenza e la maturità intellettuale di un
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professionista stiano anche semplicemente nel rimboccarsi le maniche e sporcarsi le mani. Nel fare qualcosa, anche di piccolo, che, si suppone, POSSA SERVIRE, e non solo qualcosa che “piaccia”. Nel capire cosa si è imparato fin qui e mettere queste conoscenze a frutto per qualcosa di buono e di utile, qui, oggi. Spesso poi si scopre che “utile” fa rima con “umile”, ma a questo punto poco importa. Chiedo quindi sinceramente scusa in partenza a chi riuscirà annoiato da questa lettura, a chi troverà poco innovativo ciò che ho prodotto. Le riflessioni, le ricerche condotte e qui riordinate le ho fortemente volute perché dovevo capire cosa significa “giocare all’Architetto” oggi e come si sta evolvendo il settore in cui ho deciso di vivere e operare. Dovevo aiutarmi a focalizzare il ruolo che, da Progettista, potrò assumere in un mondo che si sta sempre più cementificando, volevo informarmi per diventare cosciente delle responsabilità sociali che si assume la progettazione di spazi per vivere.
[Issey Miyake]
“Design is not for philosophy, it’s for life„
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ABSTRACT
L’assunto da cui sono partite le mie riflessioni è che ormai in Italia (così come in realtà un po’ ovunque) non c’è più superficie per edificare ex-novo: si parla (e si parla da tanto) di cementificazione e speculazione edilizia, di ambiente ‘soffocato’, che soccombe negli spazi residui delle città, di costruzioni che si accavallano e si incastrano sempre più, mangiandosi porzioni enormi di spazio che poteva essere restituito alla Natura o all’uso comunitario, mentre la “corsa al cantiere” lascia dietro di sè una scia di ruderi abbandonati, edifici/involucri vuoti e fatiscenti nei quali nessuno ha il coraggio, la voglia (né tantomeno i fondi) per credere. A me invece piace sperare che anche loro abbiano ancora una possibilità, mi piace immaginare la loro “seconda vita”. L’intenzione primaria di questo elaborato è quella di confrontarmi con un esempio di quello che ritengo essere un ‘vuoto urbano’, una fenditura inerte, senza contenuto o perlomeno senza scopo, come uno strappo dimenticato nel tessuto urbano, che se ripensato con intelligenza, può tornare a dare il suo, piccolo, contributo alla vita di una comunità, rispondendo in maniera fantasiosa ad alcuni bisogni sociali, esattamente come uno spazio neo-edificato. Un ‘vuoto a rendere’, nel senso lato dell’espressione: un vuoto che, se Sfruttato, può tornare a FRUTTARE, ad essere ricchezza, rispondendo a reali necessità.
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La ricerca teorica si è snodata attraverso due macro-aree. La prima orbita attorno alla crucialità del consumo di suolo e del “riciclo degli spazi” e alle potenzialità della progettazione adattativa (cioè di adattamento o revisione di un prodotto già esistente). Citando fatti di cronaca, dati, esempi virtuosi o di particolare pregio in questo ambito, soluzioni intelligenti proposte ma mai realizzate, ipotesi in fase di valutazione, progetti concretizzati, iniziative social, si intende mostrare come la spinta per il recupero e la valorizzazione del patrimonio architettonico dismesso venga direttamente “dal basso”, dagli italiani stessi. La seconda si incentra più sull’identificazione del destinatario del progetto finale -nella fattispecie bambini e ragazzi- e sulla ricerca di eventuali linee-guida da applicare durante la progettazione di spazi appositi per la fascia d’età prescelta (3-13 anni). Tali principi sono stati estrapolati dalla lettura critica delle teorie dei principali metodi pedagogici moderni, sviluppatisi tra fine Ottocento e inizio Novecento, nonché dalla ricerca di casi studio interessanti per la fascia di destinazione (biblioteche, negozi per ragazzi, day-care centers, asili e scuole, learning centers, treehouses e design cabins).
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La progettazione si è poi dedicata alla rifunzionalizzazione di un piccolo immobile nel comune di Varedo, in provincia di Monza e Brianza, situato a pochi km da Milano, di cui è stata brevemente ricostruita la storia grazie agli archivi comunali e parrocchiali e ad alcuni straordinari “custodi della memoria”; la conversione ipotizzata ha trasformato tale edificio da ex-condominio popolare (sua ultima destinazione d’uso) a Spazio Ricreativo e Culturale per bambini e ragazzi. L’immobile è stato arricchito sia nella dimensione ludica -imprescindibile per la suddetta utenza(tramite l’inserimento di reti sospese, pannelli rimovibili e attrezzabili per attività sensoriali o per la costruzione di percorsi di gioco educativi), sia di una vocazione scolastico-educativa più canonica, con la possibilità di trasformarsi in biblioteca, sala letture, spazio polivalente per mostre, laboratori, attività di tutoring o iniziative di qualunque genere riguardanti la dimensione dell’infanzia, della famiglia, della genitorialità e del babysitting. Una sorta di Learning Center giocoso e versatile, uno spazio dove si possa liberamente giocare, studiare, leggere, creare, stare insieme, uno spazio per crescere. Tale struttura è pensata come verosimile offerta formativa a completamento del servizio di baby-sitting proposto in accordo con l’emergente start up “Le Cicogne”, a cui si rifà il titolo dell’elaborato.
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PARTE 1 - DA SPAZIO (RI)NASCE SPAZIO
VUOTI A RENDERE La miseria è ancora l’unica forza vitale del Paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custodite soltanto dalla miseria. Dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitale, ecco che si assiste alla completa rovina di ogni patrimonio artistico e morale. Perché il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato, nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che l’umilia. La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall’imbroglio, da facili traffici, sempre o quasi, imitando qualcosa che è nato fuori di qui. Perciò quando l’Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l’anima. [Leo Longanesi, La sua signora]
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Leopoldo Longanesi (1905 - 1957), è stato un giornalista, pittore, disegnatore, editore e aforista italiano. Ne La sua signora, questo taccuinodiario pubblicato postumo, vi è una raccolta di aforismi che riprendono molti dei suoi editoriali comparsi sul giornale Borghese; in essi Longanesi piange, con molta ironia, la snaturazione dei valori e dell’identità italiana, che per lui rimane quella contadina, ad opera del disordinato sviluppo industriale, del boom economico, della cultura di massa e il consumismo, mentre la classe politica che dovrebbe governare la trasformazione dell’Italia da paese agricolo a potenza industriale, gli appare inetta a conservare un equilibrio tra tradizione e modernità.
Pagine forti, forse troppo severe, vibranti di orgoglioso sdegno quelle di Longanesi, scritte nel 1957...eppure ancora attuali, con le quali l’autore si lancia a difesa della Cultura, intesa come sistema integrato di usi, costumi e bellezze di luoghi, oggetti e ricordi, che rischia di essere soppiantata e dimenticata dal globalizzarsi della società, dalla ricchezza economica e dalla povertà spirituale, dalla moda, dal voler essere al passo coi tempi, dalla corsa forzata al cantiere, alla demolizione e alla riedificazione, dal bisogno di “creare occasioni di lavoro” e “spazi per accogliere”...l’ultima, ambiziosa opera dell’Archistar del momento che cerca di lasciare la sua traccia nella Storia. Nel presente testo, certe parole potrebbero sembrare fuori luogo: lo sbocco progettuale di tutta questa ricerca dopotutto è molto modesto, l’obiettivo non è la salvaguardia di un bene artistico o di un patrimonio architettonico di rilevanza. Tuttavia la riflessione che intendo condurre è di carattere generale e prende necessariamente spunto anche da qui: l’Italia, già ingombra di cemento, non ha bisogno di nuovi cantieri a tutti i costi. Non ha bisogno di abbandonare i capolavori della sua architettura storica così come non può permettersi ancora a lungo di abbandonare i relitti di un’epoca (appena) passata. Non ha bisogno di nuovi ecomostri, di nuovi superedifici, di grattacieli immensi e ammirati, quando finge di non sapere che centinaia di migliaia di piccoli edifici sono lì, ad aspettare di essere abbattuti, vuote facciate che danno volto alle nostre città, senza poter essere partecipi delle nostre vite. L’intenzione è quella di sondare le radici del problema dell’innovazione a tutti i costi, del rinnovamento totale, che disconosce ciò che è “vecchio”
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e lo etichetta come “abbattibile” o peggio “ignorabile”. “Senza un serio impegno politico la situazione non cambierà” – dichiara il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza, riferendosi in particolare alla questione degli alloggi - “Servono subito provvedimenti specifici per frenare il consumo di suolo e per la riqualificazione del patrimonio edilizio con chiari obiettivi di efficienza energetica e sicurezza anti sismica. Non servono altre case di carta in periferia, insicure e invivibili (o, mi permetto di aggiungere, un nuovo maxi-polo culturale come quello che sta sorgendo a Rho in occasione dell’Expo 2015), ma nuove politiche per ripensare periferie degradate e dismesse con procedure che permettano finalmente di avviare progetti innovativi”¹. Bisognerebbe re-imparare a costruire in Italia, rispettando e soprattutto usando ciò che è già stato costruito...perché già abbastanza si è costruito.
1. Tratta dalla comunicazione pubblicata sul sito di Legambiente nel maggio 2014: #stopalconsumodisuolo: ecco tutti i dati e il portale sulla cementificazione in Italia
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[Toro Seduto]
“Quando avranno inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte, pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro„
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C’ERA (E NON C’ERA) UNA VOLTA...LA SPECULAZIONE Quinto leggeva sempre in treno e cercava di ritrovare pezzo per pezzo il paesaggio, le cose viste da sempre di cui soltanto ora, per esserne stato lontano, s’accorgeva che non esistevano più… Valli, colline, giardini… Al loro posto c’erano le case: tutti questi nuovi fabbricati che tiravano su, casamenti cittadini di sei, otto piani… La febbre del cemento s’era impadronita della città. [Italo Calvino, La speculazione edilizia]
Nella prefazione al manuale “Salviamo il Paesaggio!” di Luca Martinelli ¹ (giornalista di Altreconomia), Carlo Petrini², fondatore di Slow Food, cita una celebre frase del poeta Andrea Zanzotto, che negli anni’50 scrisse: «Dopo i campi di sterminio, si assiste allo sterminio dei campi». Un gioco di parole paradossale, ma proprio azzeccato: nell’arco degli ultimi vent’anni, soprattutto per effetto della cementificazione selvaggia, il Bel Paese ha perso ben il 15 per cento della propria superficie coltivata. Per citare un po’ di cifre, nel 2011 sono stati censiti quasi 15 milioni di edifici costruiti ad uso vario (14. 515.795 per la precisione), il 13,1% in più rispetto al precedente censimento del 2001;
1. Martinelli L. (2012), Salviamo il Paesaggio - Manuale per cittadini e comitati: come difendere il nostro territorio da cemento e grandi opere inutili, ed. Altreconomia
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l’84,3% di questi è destinato ad uso abitativo (in essi sono dislocate 25 milioni di unità abitative), il 18,9% del rimanente invece è destinato ad un uso produttivo, il 16,2% ad uso commerciale e l’11,7% per i servizi. Più ridotta è la quota di edifici ad uso turistico/ricettivo e direzionale/terziario (4% circa in entrambi i casi)³. Vediamo i dati riassunti nel grafico sottostante:
2. Carlo Petrini, gastronomo e scrittore, fondatore di Slow Food, un’associazione in difesa della biodiversità e dei diritti dei popoli alla sovranità alimentare, che si batte contro l’omologazione dei sapori, l’agricoltura massiva e le manipolazioni genetiche. 3. Dati riferiti al censimento degli edifici 2011, pubblicato sul sito www. istat.it, Edifici e abitazioni. Nuovi dati del 15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni
Uso abitativo Uso produttivo Uso commerciale Per i servizi
Uso turistico/ ricettivo Uso direzionale/ terziario Altro uso
Secondo le datazioni rilevate inoltre, solo 12 milioni circa di quelle unità abitative sopra citate sono state realizzate prima degli Anni ‘60.
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Il rimanente, un “patrimonio” di ben 13 milioni di unità abitative (e dunque più della metà degli edifici), è stato realizzato dagli Anni ‘50/’60: 13 milioni di gabbie, è facile immaginarlo, di cemento, nuove di zecca che si sono insediate ovunque si trovava spazio...e anche dove non ve n’era affatto. Il fenomeno della cementificazione è iniziato con la ricostruzione del secondo dopoguerra e il boom economico: in quegli anni l’industria edilizia è diventata un settore fondamentale per l’economia nazionale, c’era un paese intero
Nell’immagine sotto: un cosiddetto “urban mandala“, ironica raffigurazione di un pocket park (nuova categoria di verde pubblico, piccoli parchi, solitamente non più grandi di un lotto residenziale, incastonati nel bel mezzo di una zona urbana), che ben ci fa capire come viene percepito il problema della cementificazione selvaggia.
5. Considerazioni emerse dalle indagini effettuate per la compilazione del dossier TERRA RUBATA - Viaggio nell’Italia che scompare, contenente analisi e proposte di FAI e WWF sul consumo del suolo e presentato nel gennaio 2011, sulla base di una ricerca coordinata dall’Università degli Studi dell’Aquila
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4. Si fa riferimento all’art.12 della legge n. 10 del 28/01/1977 e successive modifiche in merito alle percentuali di utilizzazione degli oneri di costruzione per opere di risanamento pubblico, per finanziamenti di spese correnti, manutenzione ordinaria del verde pubblico, delle strade e del patrimonio comunale
bombardato e ridotto a un cumulo di macerie che doveva essere rimesso in piedi. Questo processo, però, si è trasformato in problema quando, per coprire i buchi di bilancio statali, sono stati tagliati i trasferimenti di fondi agli enti locali, ma si è data la possibilità di utilizzare gli oneri di urbanizzazione (cioè le somme da versare per il permesso di costruire) per finanziare le spese locali⁴. Sulla carta doveva essere una norma transitoria, eppure nella realtà essa è ancora in vigore; ciò ha in un certo senso legittimato la svendita di immobili in disuso e appezzamenti di terreno, che è continuata ed è diventata pratica comune, alimentando quella fetta cupida del mercato del mattone che mira a trarre da ogni centimetro quadrato di suolo il massimo profitto possibile: case, condomini, appartamenti, capannoni, spazi commerciali affittabili a non finire, in aree già (sovr)abbondantemente sfruttate (vedasi l’ormai unica grande conurbazione padano-veneta, dove rarissime porzioni di territorio non ospitano conglomerati urbani e dove, nonostante tutto, è impossibile fermare l’ondata di cemento che segue di pari passo scelte infrastrutturali e produttive spesso dissennate) ma anche in aree dove non sarebbe consentito ospitarne (perché zone non sicure dal punto di vista idrogeologico o perché sottoposte a tutela ambientale/paesaggistica). Nel nostro paese è stata registrata⁵, negli ultimi 50 anni, una conversione urbana media del suolo di quasi 90 ettari al giorno, una urbanizzazione lineare della costa adriatica di quasi 10 km all’anno e si è sottolineato un fatto allarmante: già oggi non è possibile tracciare in Italia un cerchio del diametro di 10 km senza intercettare un insediamento urbano.
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Il nostro è un Paese a rischio, visto che ancora c’è chi irresponsabilmente propone di guardare con condiscendenza a condoni e sanatorie dell’abusivismo edilizio, che dal 1948 ad oggi ha ferito il territorio con 4,5 milioni di abusi edilizi (75 mila l’anno, 207 al giorno), favoriti dai 3 condoni che si sono succeduti negli ultimi 30 anni (nel 1985, nel 1994 e nel 2003). Il rischio dunque ce lo procuriamo, com’è ormai triste consuetudine, da soli: siamo un Paese in cui, nel corso del tempo, è stata smarrita la capacità di governare i processi e di pianificare gli interventi urbanistici, abbandonando alle dinamiche spontanee del mercato e agli interessi speculativi il governo del territorio. A parte il fenomeno radicato dell’abusivismo⁶, è a partire dagli anni ’80 del secolo scorso che si accentua, come ricordato in alcuni contributi del rapporto Riutilizziamo l’Italia, una tendenza generalizzata alla frammentazione degli equilibri insediativi e dei processi produttivi. E’ questa tendenza⁷ che ha portato alla sub-urbanizzazione del territorio ancora libero e alla disseminazione di funzioni produttive e commerciali che hanno di fatto riscritto, rendendoli illogici e incomprensibili, gli assetti delle nostre sempre più incongrue aree metropolitane. Ora il problema, di cui si ha una lenta presa di coscienza (se vogliamo legata alla nuova fase di de-industrializzazione e di profonda crisi economico-finanziaria), è come procedere ad una nuova, grande stagione di ripensamento culturale, sociale ed economico – come fu quella del recupero dei centri storici negli anni ’60 e ’70 del ‘900 -che sappia non solo limitare il nuovo consumo di suolo, ma riqualificare le nostre città a partire dai considerevoli spazi e manufatti edilizi vuoti per la progressiva dismissione degli
6. Fenomeno tipico non soltanto delle aree marginali del Sud ma che ha condizionato lo sviluppo di aree urbane importanti come Roma o l’hinterland partenopeo 7. Tendenza che è sempre andata di pari passo con lo sviluppo esponenziale della motorizzazione privata nonché con le conseguenti e sciagurate scelte infrastrutturali che hanno favorito lo sviluppo delle autostrade e la progressiva decadenza del servizio ferroviario sulle medie e corte distanze
Anche se nell’ultimo periodo abbiamo assistito a un –minimoridimensionamento del settore edilizio, costretto a riorganizzare i progetti di cementificazione del territorio (sia perché le banche non possono più permettersi investimenti fallimentari come si sono dimostrati quelli nel settore delle costruzioni, sia perchè gli stessi enti locali sono molto più cauti prima di concedere permessi a costruire, dopo che alcuni di loro sono stati costretti a restituire oneri di urbanizzazione già incassati a causa di progetti edilizi mai partiti), tuttavia resta il problema di una produzione legislativa perversa, che favorisce il consumo di suolo. Insomma, occorre ammettere che nemmeno l’attuale crisi economica è riuscita a fermare del tutto la corsa al cantiere: lo testimoniano gli oltre 720 chilometri quadrati di suolo cementificati negli ultimi 3 anni e che, tuttavia, hanno fornito opere edilizie di scarsa qualità e che non risolvono il problema abitativo. 720 chilometri quadrati di cemento spalmati in Italia che portano il Paese in testa alla classifica europea per la produzione e il consumo del suddetto materiale. I dati riportati nell’ultimo dossier di Legambiente, datato maggio 2014, dicono che il 30% del suolo cementificato è stato utilizzato per la costruzione di case che, probabilmente, rimarranno vuote.
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insediamenti produttivi nei grandi centri a vocazione industriale del Nord e del Sud (Milano, Torino, Genova, Napoli, ecc.), dal patrimonio edilizio pubblico e privato lasciato in abbandono e in degrado nelle aree centrali e periferiche e dai relitti territoriali (infrastrutture incompiute o rottamate, capannoni, aree industriali e commerciali, cave e caserme dismesse) che hanno contaminato il nostro paesaggio. Ma occorre fare presto.
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CASE NUOVE, CASE VUOTE, CASE FRAGILI
Paradosso dei paradossi: se si è tanto costruito e si costruisce ancora tanto, come è possibile che in Italia sopravviva il problema abitativo? Calcolando che la media di persone riscontrata per unità abitativa è 2/3 abitanti (e che dunque non tutti vivono da soli), e i 59 milioni di italiani hanno a disposizione 25 milioni di abitazioni (varie, nella definizione rientrano appartamenti,ville, condomini...), il rapporto dovrebbe essere a nostro favore. E invece, è sempre più emergenza casa. Negli ultimi 5 anni¹ sono stati emessi oltre 311 mila sfratti, 67mila nel 2012 (rispetto ai 52mila del 2008). Milioni di famiglie vivono condizioni di grave disagio per pagare le rate del mutuo o dell’affitto: anche un affitto da 400 euro al mese per una famiglia è troppo costoso, a Nord come a Sud. Sono 68mila le famiglie che quest’anno vedranno recapitarsi un avviso di sfratto, nove su dieci per morosità incolpevole: quando hanno sottoscritto il contratto avevano un lavoro, che ora non c’è più. Dopo l’impiego, la crisi sta portandosi via anche le case.
1. Dati numerici rintracciati grazie all’articolo de Il Fatto Quotidiano del 3 Novembre 2013, a cura di Lorenzo Bagnoli: Emergenza sfratti, ma in Italia ci sono 30-40mila case popolari sfitte
2. Legambiente, dossier sulle case italiane e sulla cementificazione: Basta case vuote di carta, maggio 2014
E rimangono 2milioni e 700mila le case vuote su tutto il territorio italiano (contro le 700mila nel Regno Unito per fare un esempio). Di queste, circa 30-40 mila² sono alloggi popolari sfitti, perché le agenzie che si occupano della gestione delle case popolari non investono per i lavori di ristrutturazione. E perché lo Stato ha smesso dagli anni Ottanta di investire in politiche abitative. Senza uno sfogo, la fame di case a basso costo in Italia aumenta vertiginosamente: in fila per una casa popolare in Italia ci sono 650mila persone. In una città come Milano, a fronte di una richiesta stabile sulle 20mila domande, riescono a entrare in una casa popolare appena 700 famiglie ogni anno.
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Le sentenze di sfratto a Roma sono 7.743, a Milano 4.924 e a Torino 3.492. Gli sfratti con la forza pubblica ogni anno sono circa 30mila: in pratica ogni giorno 140 famiglie, rischiano di finire in mezzo a una strada, e non solo nelle grandi città. In relazione al numero di abitanti con un canone di locazione, sono Prato e Lodi le maglie nere dello sfratto. Nella città Toscana, l’avviso di sfratto raggiunge una famiglia ogni 25, in quella lombarda una ogni 34. Sul terzo gradino del podio Novara, con uno sfratto ogni 40 affittuari. In 50 città italiane, le sezioni del sindacato hanno chiesto al Governo di bloccare gli sfratti e recuperare gli alloggi popolari chiusi in tutta Italia per dare una prima risposta all’esigenza di casa...ma la responsabilità è di nuovo sulle spalle di chi non ha voluto investire nel pubblico per tempo: in Italia solo il 6% è di edilizia residenziale pubblica. In Francia si arriva al 18%, in Germania al 21%. Così finisce nel mercato privato anche chi non ha un reddito per permettersi un canone.
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Stando al dossier di Legambiente² il tasso di consumo di suolo negli Anni ’50 era pari al 2,9%, mentre oggi è al 7,3% l’anno, con una crescita giornaliera di 0,7 chilometri quadrati, 255 chilometri quadrati all’anno. Una volta e mezza il Comune di Milano. L’Italia, in confronto agli altri paesi europei, spicca in negativo, in una posizione nettamente peggiore di Regno Unito e Francia, lontano dai livelli della Spagna e vicina ai dati della Germania, che però conta una popolazione decisamente superiore. Lo stivale risulta, crisi o non crisi, tra i maggiori produttori e consumatori di cemento in Europa, con una media di oltre 432 chili pro capire di cemento per ogni cittadino a fronte di una media europea di 314. Questo in parte è dovuto anche al fatto che continua a essere impossibile realizzare progetti ambiziosi di riqualificazione di aree degradate o dismesse, perché più facile ed economico costruire nuovi palazzi, specie se in aree agricole. “Si è continuato a costruire senza soluzione di continuità migliaia di abitazioni – si legge nel dossier – che con una dinamica di prezzi che prescinde totalmente dai costi di costruzione hanno permesso di far guadagnare moltissimo proprio da una fame di case che non trova risposta”. Il motivo di tanto cemento “inutile”, secondo Legambiente, è quindi nella certezza del guadagno, “perché come tutti gli studi confermano – si legge – mettendo a confronto il periodo 1999-2009 investire sul mattone è risultato molto più vantaggioso che farlo in borsa”. E quindi si continua a costruire per convenienza. Dei 22mila chilometri quadrati urbanizzati in Italia, il 30% è occupato da edifici e capannoni. Sono circa 5,4 milioni le abitazioni realizzate
2. Legambiente, dossier sulle case italiane e sulla cementificazione: Basta case vuote di carta, maggio 2014
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negli ultimi 20 anni in Italia, a cui si aggiungono quasi 750mila costruzioni abusive. La curva di crescita delle costruzioni ha visto il suo picco nel 2005 e ora sta mostrando una progressiva flessione. In questi anni sono infatti crollate le compravendite ed è cresciuto l’invenduto, che se nel 2010 si “fermava” a 40mila abitazioni e nel 2013 è arrivato al numero record di 120mila. Ma questi immobili, costruiti in fretta, senza soluzione di continuità e senza badare a chi poi ne dovrà usufruire, non solo solo costruiti “per convenienza”, ma con “un occhio alla convenienza”, risultando di scarsissima qualità. “Non esistono controlli e sanzioni rispetto ai consumi delle abitazioni – scrive Legambiente – e quindi si condannano le famiglie a spendere migliaia di euro per case energicamente inadeguate. Malgrado dibattiti e impegni, ancora non è in vigore il libretto del fabbricato e non si hanno controlli mirati relativi ai materiali e alle tecniche di costruzione utilizzate né informazioni per edifici in zone a rischio sismico e idrogeologico”.
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EFFETTI COLLATERALI? Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. [Teoria del Caos dal film “The Butterfly Effect”]
Un ascoltatore -anche disattento- dei telegiornali, può rendersi conto delle ripercussioni che questa edilizia di basso profilo, selvaggia e sconsiderata, ha dal punto di vista ambientale: natura e suolo, stressati dall’eccessiva e indiscriminata cementificazione, ci stanno presentando il conto sotto forma di eventi catastrofici, frane, smottamenti, crolli ed alluvioni, che mietono centinaia di vittime, causano danni incalcolabili e sono ormai diventati presenza fissa nei notiziari. L’Italia, “il Bel Paese” per definizione, che per secoli è stato Giardino d’Europa e possiede il 70% dei beni culturali di tutto il mondo, ha perso gran parte del patrimonio paesaggistico inteso nella sua unità di arte, urbanistica e natura, in barba alla tradizione normativa che valorizza i beni comuni, di cui il paesaggio è allegoria e summa. Mettendo nel contempo a repentaglio la vita di molti cittadini, che in questo “bene prezioso” ci vivono ogni giorno. Per quanto concerne la riqualificazione di zone urbane, nel nostro Paese continua a risultare impossibile realizzare ambiziosi progetti in aree degradate o
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” [Art. 9 della Costituzione italiana]
In questo documento, un istant book gratuito, 16 autorevoli firme (quali per esempio Massimo Bray, Salvatore Settis, Luca Martinelli, Vauro, Staino, Carlo Petrini...) smontano pezzo per pezzo il decreto Sblocca-Italia elaborato dal governo di Matteo Renzi che, pur di costruire, favorire la speculazione, oliare il binario degli interessi privati, si propone di scardinare un intero sistema di tutele non dell’inerzia, ma della salute dei cittadini e di quella del territorio e del paesaggio. La convinzione che accomuna tutti questi autori (giuristi, urbanisti, illustratori, giornalisti, scrittori) è che lo Sblocca Italia sia “un doppio salto mortale all’indietro: un terribile ritorno ad un passato che speravamo di aver lasciato per sempre. Un passato in cui «sviluppo» era uguale a «cemento»”.
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1. É il caso, secondo alcuni, anche del decreto Sblocca-Italia, rinominato per l’occasione: Rottama Italia perché il decreto Sblocca-Italia è una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro
dismesse, a causa di normative che impediscono o rendono costosi e complicatissimi interventi invece fondamentali, per andare piuttosto a favorire gli interventi di nuova costruzione¹. Sono oltre 2.500.000 gli edifici residenziali sui quali sarebbe urgente intervenire. 865mila sono gli edifici residenziali in aree ad alto rischio sismico, per un totale di circa 1,6 milioni di abitazioni, mentre il totale degli edifici residenziali a rischio medio ed alto raggiunge i 4,7 milioni, con punte elevatissime in Sicilia (oltre 1,2 milioni di edifici) ed in Campania (quasi 800 mila edifici). Gli edifici residenziali a rischio frane ed alluvioni sono oltre 1,1 milioni (2,8 milioni di abitazioni e 5,8 milioni di persone che ci abitano), in particolare in Campania ed EmiliaRomagna dove si trovano rispettivamente 442 mila e 416 mila abitazioni, per un totale di oltre 300.000 edifici residenziali e 2 milioni di residenti coinvolti. Il rischio idrogeologico interessa praticamente tutto il territorio nazionale: sono 5.581 i comuni a rischio, il 70% del totale dei comuni italiani, di cui 1.700 a rischio frana; 1.285 a rischio alluvione e 2.596 a rischio sia di frana che di alluvione. 7 comuni su 10 si trovano nelle così dette “zone rosse”. Al momento, lo strumento principale per frenare quest’irresponsabile ondata di cemento resta il vincolo paesaggistico, che finora però non è riuscito a contrastare in maniera incisiva il crescente consumo di suolo. Le tappe del “pasticcio” legislativo che gradualmente hanno portato allo svuotamento dell’art.9 della Costituzione e alla privatizzazione del patrimonio storico-artistico e naturale sono le origini sia dell’attuale dissesto idrogeologico sia dell’esasperata cementificazione del territorio.
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IL CASO DELLA LIGURIA La Liguria, secondo l’Istat, è la Regione d’Italia che nel quindicennio 1990 – 2005 ha cementificato la maggior superficie libera del suo territorio ed è anche tra le regioni con il più alto numero di vittime e danni materiali causati dal dissesto idrogeologico. Un caso? La cosa certa è che l’Italia è (e sa di essere) caratterizzata da una conformazione geologica e geomorfologica fortemente predisposta a frane ed alluvioni, ma ciò non le ha minimamente
Qui sotto, in alto a sinistra: l’alluvione invade con violenza inaudita le strade di Vernazza In basso: Sala della biblioteca di Aulla, i giorni immediatamente successivi al disastro
Sopra, la situazione a Genova, il 4 novembre 2011: allora si contarono sei vittime, oltre ai danni ingentissimi
impedito di essere il primo produttore/ consumatore di cemento d’Europa, come dicevamo; l’esigenza di “vivacizzare” l’economia attraverso l’edilizia è più forte di qualsiasi altro argomento e tale “clima” è favorevole alle ecomafie che, col ciclo del cemento, riciclano il denaro sporco nell’edilizia e nelle infrastrutture di tutta Italia. Alcuni casi di cronaca ben noti: tra il 25 e il 26 ottobre 2011 si è verificata, a seguito di una forte precipitazione che in sei ore ha riversato 542 mm di pioggia, un’alluvione che ha interessato Val di Vara (SP), Lunigiana (MS) e Cinque Terre (SP), rimediando dodici vittime. Paesi come Borghetto di Vara, Vernazza, Monterosso, sono stati parzialmente distrutti , il paesaggio ne è uscito completamente stravolto.
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Nel capoluogo ligure il nubifragio ha fatto esondare il Bisagno e altri torrenti, le strade come fiumi, le macchine trasportate alla deriva, i treni e l’autostrada inutilizzabili. Nelle Cinque Terre alcuni tra i paesaggi più conosciuti e apprezzati d’Italia si sono sfaldati. Nel paese di Vernazza, che è a picco sotto la collina, le pendenze del terreno e la quantità d’acqua caduta hanno trasformato un torrente in un fiume, con conseguenze disastrose. In Liguria le varianti ai Piani di Bacino Provinciali hanno permesso in questi ultimi decenni di costruire in prossimità di fiumi, torrenti e rii minori. Senza un’attenta politica di riqualificazione e, soprattutto, senza una messa in discussione delle concessioni edilizie, le cose non possono che peggiorare. Così come ci è stato nuovamente dimostrato, quasi con le medesime modalità, nell’ottobre 2014. Anche lì, la causa scatenante dell’evento stette nelle forti precipitazioni (395 mm di pioggia in 24 ore) verificatesi in un’area ristretta tra il 9 ottobre e il 10 ottobre e in diverse zone di Genova e provincia, causando le esondazioni del torrente Bisagno e degli altri corsi d’acqua coinvolti. Senza voler nominare gli sconsiderati lavori per la tombinatura del Bisagno stesso².
IL CASO DELLA SICILIA Oltre la Liguria e la Toscana anche la Sicilia è stata funestata dalle alluvioni nel 2011. Tre vittime a Saponara tra cui un bambino di 10 anni, mentre Barcellona Pozzo di Gotto è diventata un fiume di fango. I torrenti straripati, Longano e Idria, erano stati coperti d’asfalto
2. A partire dalla seconda metà degli anni 1920, il territorio genovese è stato interessato dall’espandersi della città. Per ricavare spazi su cui costruire edificie e strutture, si ricorse persino alla tombinatura di rivi. Purtroppo però vi furono diversi errori durante i lavori, il più madornale dei quali fu la sottostimatura della portata di piena del Bisagno (sulla base della Relazione Fantoli del 1907, si stimò una portata massima di 500 m³/s, quando nel 1998 accertamenti stimarono la portata di piena sui 1300 m³/s circa), che fu interrato e tombinato e nei tratti scoperti vennero addirittura abbassate le sponde da 5 a 3.5 metri. L’insufficiente capacità di smaltimento del tronco terminale del Bisagno, canalizzato e coperto, aumenta notevolmente la criticità della zona, ponendo a rischio alluvione il tratto della foce, così come può comportare pericolosi effetti di rigurgito a monte. I lavori richiesti per sopperire alle mancanze degli anni ‘30, già di per sè lunghi, difficoltosi e costosi, tardano ancora ad iniziare per la lentezza dei processi burocratici.
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Sopra: non fu riscontrata alcuna responsabilità per la tragedia di Saponara, la cittadina messinese, devastata nel 2011 da un’alluvione che causò la morte di Luigi Valla, 55 anni, del figlio Giuseppe (28), e del piccolo Luca Vinci (10). Il gip, basandosi sulle relazioni dei geologi, “stabilendo l’eccezionalità e l’imprevedibilità dell’evento, non ha rilevato profili di natura penale, disponendo il non luogo a procedere [...]”.
ed in parte ostacolati nel loro deflusso da lavatrici, frigoriferi, laterizi e altro materiale da cantiere. Nonostante l’esondazione del 2008 e la tragedia della vicina Giampilieri, la risposta delle istituzioni locali è stata la sanatoria della cementificazione. Guardandoci alle spalle e prendendo in considerazione gli ultimi 30 anni di storia, vediamo che la frequenza di episodi del genere è la più alta registrata e la distanza temporale tra un evento e l’altro è più breve. La causa primaria è sempre la stessa: il cemento non assorbe l’acqua e su territori fragili dove non è
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stato lasciato neppure un lembo di superficie permeabile e dove sono stati abbattuti alberi, arbusti e tutto il substrato vegetale che contribuiva a mantenere saldo e compatto il suolo, esso non può che essere deleterio.
Purtroppo questi sono effetti dell’urbanizzazione: le periferie delle principali aree urbane stanno crescendo senza un progetto metropolitano, la città continua dilaga, inghiottendo e frantumando in porzioni residue e biologicamente impoverite le migliori aree agricole del paese, mentre la periferia postindustriale si ramifica a vista d’occhio e i centri storici e le aree montane si svuotano. Lo sgretolamento delle comunità umane produce a sua volta l’abbandono di quelle pratiche agricole che sono state da sempre deterrenti fondamentali del dissesto idrogeologico. In più, l’industria delle costruzioni mangia il territorio, non solo nella fase di cementificazione diretta dei cantieri (costruendo magari in aree
Qui sotto: Barcellona Pozzo di Grotto trasformata in un fiume di fango dall’alluvione che la colpì il 22/11/2011
sovrastanti falde acquifere superficiali o zone franose a rischio smottamento o a elevato rischio sismico) ma anche nel prelievo degli inerti: montagne, pianure, suoli agricoli e argini dei fiumi d’Italia lasciano il posto alle cave.
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Sotto, la vignetta dell’illustratore satirico ElleKappa per la copertina della versione ebook di “Rottama Italia”
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RECUPERARE: (SOLO) QUANDO IL GIOCO VALE LA CANDELA Sarebbe bello potersi permettere di pensare che (per fermare questa politica edilizia cieca e distruttiva del territorio), convertire la mentalità comune all’importanza del recupero e del riuso sia la metà del lavoro da svolgere. Nella realtà, tutte queste buone intenzioni presentano non poche difficoltà pratiche.
Partiamo da un esempio concreto: la natura per lo più speculativa di molte abitazioni realizzate prima degli Anni ‘80 ha fatto si che la struttura, le fondamenta e tutti gli apparati che le (tenevano) tengono in piedi siano stati costruiti proprio al limite di quello che le normative dell’epoca consentivano per “essere in regola”. Per questo ci si trova oggi di fronte a strutture che, se progettate secondo le attuali norme, pur non cambiando né a livello funzionale né sostanzialmente a livello formale, avrebbero, ad esempio, sezioni di calcestruzzo quantomeno abbondantemente più generose. Oltre alla questione del sottodimensionamento dimensionale, dagli Anni ‘70 ad oggi i materiali e le tecnologie impiegate per gli impianti hanno fatto passi da gigante, tanto che gli elementi impiantistici di un fabbricato con 40 anni di età appaiono oggi assolutamente inadeguati agli standard (sia quelli idraulici, che elettrici).
Ma tutto questo che costi ha? Una ristrutturazione risulta più o meno conveniente di una demolizione o di una neo-costruzione su terreno vergine? E soprattutto, in caso di eventuale aumento dei costi, chi oggi, sia esso ente pubblico, privato cittadino o impresa, si sobbarca spese supplementari se non viene promesso un ritorno economico diretto e immediato? La problematica si ripresenta uguale, anzi amplificata, per progetti più vasti e ambiziosi: un qualsiasi progetto che miri al recupero di manufatti o porzioni di città compromesse e degradate non è solo un progetto ambientale, ma anche economico.
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Riscaldare un appartamento di quarant’anni fa può costare, secondo recenti stime, anche fino a tre / quattro volte più rispetto a un analogo appartamento costruito ai minimi di legge attuali. Se pensiamo che ciò si applica anche a numerosi casi di edilizia popolare, dove sta la convenienza per le famiglie che fanno richiesta di alloggi popolari?
In più se effettivamente in Italia esistessero efficaci controlli e operazioni di verifica degli attestati di prestazione energetica, si eviterebbe a tantissime famiglie di spendere migliaia di euro per case fredde d’inverno e calde d’estate. Malgrado dibattiti e impegni, ancora non è in vigore il libretto del fabbricato e non si hanno informazioni nemmeno per edifici in zone a rischio sismico e idrogeologico, o controlli mirati relativi ai materiali e alle tecniche di costruzione utilizzate e tutto questo passa inosservato. In casi come quello sopracitato, una “buona ristrutturazione” implica almeno il rifacimento di tutti gli impianti (quantomeno nei tratti all’interno dell’appartamento), la bonifica di eventuali materiali nocivi (per es. lo smaltimento dell’eternit), la sostituzione degli infissi e l’aumento della coibentazione termica delle pareti: tutto questo perché essi possano durare ed essere nel contempo utilizzabili in maniera ammissibile.
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Enormi sono le quantità di edifici, opere e in generale manufatti che costellano il nostro territorio non utilizzati o utilizzabili: il tentativo da fare è quello di recuperarli, riportarli a una nuova funzionalità, a una capacità produttiva utile per la collettività.Oppure , se lì sta la convenienza, demolirli, eliminando il danno insito nella loro presenza e avviando così un’opera di rinaturalizzazione delle aree interessate. Si tratta di concepire interventi che servano a restituire beni alla comunità, recuperandone l’utilità e garantendo la possibilità di una fruizione collettiva. Operare sull’esistente, recuperare l’energia grigia (per realizzare le trasformazioni, siano essi edifici, infrastrutture o aree industriali, è stata impegnata una quantità di energia che è rimasta accumulata in esse), eliminare manufatti degradanti, ripristinare aree, ridare alla produzione edifici e parti di territorio è un progetto economico perché rimette alla comunità un patrimonio (non solo economico) che al momento è latente e perché mette in moto un comparto, quello edilizio, che può non essere concentrato esclusivamente sulle nuove costruzioni. Non è più concepibile, viste le condizioni di questo paese e del pianeta intero, costruire un metro cubo nuovo fin quando non sia stato utilizzato tutto quello che abbiamo già costruito e non si siano eliminati tutti gli sprechi ed i sovradimensionamenti prodotti. Non sfruttare questo “deposito energetico” oggi disponibile implica di fatto la perdita di tale patrimonio e ciò costituirebbe un inutile ulteriore spreco, e in un quadro di risorse limitate appare del tutto insostenibile, oltre che illogico, non tentare di usare un capitale di tale entità. E’ necessario verificare se questi manufatti possano essere riutilizzati o se per la loro localizzazione e qualità non sia
Date le dimensioni e la diffusione del problema sembra difficile ipotizzare che l’intervento pubblico abbia la disponibilità economica di sostenere l’investimento richiesto per il recupero, ripristino, riqualificazione di tutti i manufatti dismessi. Alla stessa maniera non è possibile ipotizzare che l’investimento imprenditoriale privato possa interessarsi di manufatti il cui recupero ha scarse possibilità di produrre profitti. L’ambito di azione del pubblico e dell’imprenditoria privata è pertanto limitato ad un numero di situazioni ridotte; ciò fa si che edifici ed aree rimangano in attesa di nuove destinazione per decine di anni, fin quando non si concretizzino quelle condizioni di mercato che producano il massimo vantaggio economico nel loro recupero, condizioni queste che raramente si riscontrano in zone di scarso valore immobiliare, estranee al tessuto urbano consolidato ed in contesti degradati.
“Per cambiare le modalità operative che hanno portato all’attuale situazione e per comporre una maniera di agire che conduca al recupero quell’identità del paesaggio e quella qualità dell’ambiente così strettamente connessi al benessere sociale, è necessario avviare un grande progetto di carattere culturale, economico, sociale e ambientale, che non sia delegato a tecnici ed amministratori, ma che trovi in essi uno dei vettori attuativi di un sentire comune, di una qualità ricercata e valutata positivamente da gran parte della comunità. Una rivoluzione che riporti al centro dell’attenzione valori - qualità
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opportuno eliminarli, recuperandone i materiali e ripristinando l’area. Ma se il danno apportato dalla trasformazione non fosse tale da dovere essere imprescindibilmente rimosso, questi manufatti dovrebbero in qualche maniera tornare a servire per altre attività o per altri soggetti.
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dell’AMBIENTE e del PAESAGGIO, eliminazione degli SPRECHI, conservazione della NATURA - oggi marginali, a causa della ignoranza del contributo che possono dare al benessere delle persone e delle comunità, ma che sono alla base del RIEQUILIBRIO dei rapporti tra comunità e risorse, elemento indispensabile per il raggiungimento di un duraturo benessere.”¹ Senza contare che questa “rivoluzione del riutilizzo”, qualora venisse avviata, avrebbe il potere di connettere e far sì che grandi questioni irrisolte si appianassero l’un l’altra: il riavvio del settore edilizio e l’aumento dell’occupazione, la diminuzione del consumo di suolo, la risoluzione dell’emergenza casa e la rigenerazione urbana. Un esempio: per una attività produttiva o commerciale, il peso della costruzione, l’acquisto, l’affitto degli spazi, sono elementi che spesso mettono in crisi le attività stesse (si veda l’aumento del numero degli ambulanti, a fronte della riduzione del numero dei negozi). Mettere a disposizione il capitale dei manufatti esistenti è una dote che potremmo fornire agli operatori senza penalizzare il proprietario che non svolge più attività, consentendo al bene di tornare all’uso della comunità e rifondendo in tal maniera i costi sostenuti. Tutto ciò aiuterebbe imprenditori e le famiglie, riducendo il carico economico oggi necessario per disporre di spazi e indirizzerebbe il settore delle costruzioni verso le riqualificazioni riducendo al contempo le nuove costruzioni e il consumo di suolo. Ma si potrebbe fare anche di più: chi impedisce che, per esempio, ex- caserme diventino abitazioni, o capannoni diventino negozi, ambiti di artigianato, atelier di moda o artistici o qualunque altra cosa? L’importante è che ciò non abbia la finalità di aumentare il valore immobiliare, per
1. Citazione tratta da Riutilizziamo l’Italia - REPORT 2013 del WWF, che si proponeva, attraverso il censimento del patrimonio dismesso, di far scaturire proposte e idee per il futuro del Belpaese
Milioni di ettari di proprietà pubblica o privata non utilizzati, se non posseggono un particolare qualità ambientale, possono essere recuperati all’agricoltura con affitti sociali, così come enormi sono le quantità di edifici residenziali non utilizzati che potrebbero essere immesse nel mercato.
E’ necessaria FANTASIA per trovare nuove soluzioni; una fantasia che questo modello non ha alcuna capacità di esprimere perché segue gli stessi percorsi che ne hanno evidenziato i limiti: cercare profitti rapidi, enormi, individuali e non soddisfare gli interessi comuni se essi non rispondono a tali requisiti. A questa “mancanza di fantasia”, una delle risposte possibile può essere il Design: la progettazione consapevole, informata, fondata su ricerche, sondaggi, attività con e per la comunità, quel co-design che è la progettazione “partecipata” e “condivisa” con la comunità di riferimento, progettazione che rimane aderente alle reali necessità espresse n maniera più o meno diretta dalle persone che, vedendosi interpellate, collaborano e intervengono.
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consentire speculazioni che appesantirebbero ulteriormente le attività produttive. Ma qualora fossero trasformazioni promosse da comunità e individui al fine di rispondere a necessità o desideri non sarebbero forse delle buone utilizzazioni? Queste tratteggiate ipotesi sono certo un panorama migliore della privatizzazione per cifre irrisorie di un tratto di costa in Sardegna, fatto realmente avvenuto nel 2012. Meglio sarebbe stato concederla in gestione ad una cooperativa di giovani locali, finalizzata alla promozione del turismo; l’avrebbero valorizzata con tutte le attenzioni per l’ambiente che la natura dei luoghi avrebbe richiesto, creando nel contempo nuovi posti di impiego. Per quanto piccoli i vantaggi sarebbero stati immensamente superiori ai 90.000 € che lo Stato ha incassato da questa cartolarizzazione.
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NUOVA CONSAPEVOLEZZA DEL CITTADINO QUALUNQUE Abbiamo appurato che il Pubblico non ha fondi nè energie per finanziare interventi su larga scala di recupero/riqualificazione di aree urbane degradate. E spesso neppure la volontà di investire in settori diversi dall’edilizia (e ugualmente cruciali per lo sviluppo della nostra economia), come ad esempio l’agricoltura di qualità o il turismo. D’altro canto, Privati e aziende, se non hanno certezze di profitto, per la legge di mercato non si avventurano in investimenti a rischio.
E allora Chi può fare qualcosa? Chi rimane? Il cittadino? Forse questa è l’unica risposta sensata. I cittadini non sono destinati ad assistere impotenti alla devastazione del (loro) territorio, ma hanno un potere immenso, di azione e di sensibilizzazione: sono loro le sentinelle del Paese, che ogni giorno si trovano di fronte agli abusi e sempre loro devono essere consapevoli della gravità della cosa, loro che li devono denunciare o devono muoversi perché siano risolti. Sono tante le storie di successo dei cittadini nella lotta alla cementificazione selvaggia e a favore del riuso e del riciclo degli spazi¹, personali e collettive, pratiche o ancora solo teoriche, di intervento o di denuncia di consumo irresponsabile di suolo, di abusivismo, di riqualificazioni tentate o persino riuscite.
1. Basti pensare al caso della Valle del Mis, nel Parco nazionale delle Dolomiti bellunesi, dove i comitati cittadini sono riusciti negli ultimi anni (dal 2013 in qua) a bloccare un cantiere per la costruzione di una centrale idroelettrica che avrebbe devastato il paesaggio incontaminato di quei luoghi.
Nella tabella sottostante viene riportato uno dei principali esiti dell’indagine campionaria alle famiglie che il CRESME (Centro Ricerche Economiche Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio) ha effettuato nei primi mesi del 2012.
Per esempio, dal 2001 al 2011 il 58,6% delle abitazioni ha subito almeno un intervento di manutenzione straordinaria/ ammodernamento, impiantistico o edilizio, rispetto al 43,5% coinvolte in interventi di rinnovo negli anni ‘90. Si tratta di 17,6 milioni di abitazioni interessate, su un complesso di poco oltre 30 milioni di unità.
Stock e attività di riqualificazione nelle abitazioni nel 2001 e nel 2011 2001
Abitazioni esistenti..................... Interessate da riqualificazione nei precedenti 10 anni................. - impiantistica................ - strutture...................... - estetica........................
2011
migliaia
%
migliaia
%
27.269
100
30.038
100
11.871 9.729 1.833 7.825
43,5 35.7 6.7 28.7
17.613 12.524 2.756 9.214
58.6 41.7 9.2 30.7
C’è quindi una certa propensione delle famiglie a investire nella propria abitazione, nonostante la vetustà del patrimonio edilizio e l’obsolescenza di alcune sue componenti, dato che il 55% delle abitazioni in Italia insiste su edifici di oltre 40 anni (la quota sale al 70% nelle città di media
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C’è una nuova tendenza, una persistente diffusa, silenziosa attività di micro-riqualificazione che viene dal “basso”, dalla gente comune, dalla sensibilità collettiva, dalle persone e dalla voglia che hanno di conservare la memoria del passato, di rimediare a errori commessi tempo fa, per necessità o volontà propria. Anche a partire dal proprio “piccolo“.
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dimensione e al 76% nelle città metropolitane). Questa propensione deriva da diversi fattori: la volontà di personalizzare un’abitazione appena acquistata; l’adeguamento alle normative europee in alcuni settori (impianti elettrici, di riscaldamento, etc.); il breve ciclo di vita degli impianti di climatizzazione; le politiche incentivanti (la detrazione del 36% e del 55%) ma anche l’aumento dei prezzi delle case che ha indotto non poche famiglie ad “accontentarsi” della propria, intervenendo con episodi di ristrutturazione e/o abbellimento. In particolare quelle famiglie (e sono circa il 16%) che, avendo avuto accesso all’abitazione di proprietà fra il 1980 e il ’95, hanno estinto il mutuo ipotecario lo scorso decennio e si sono ritrovate con un reddito aggiuntivo spesso da reinvestire. Ma a far da cornice al tutto è la percezione, da parte delle famiglie, della necessità di “manutenzione” della propria ricchezza che, quasi sempre, coincide esclusivamente con il proprio alloggio...e perché no, dalla speranza di poter risparmiare qualcosa dall’adeguamento alle norme stesse. E se questa è la tendenza dominante a livello individuale, a livello sociale e comunitario cosa può succedere?
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DESIGN E START UP RIANIMANO GLI SPAZI VUOTI Sarebbe bello potersi permettere di pensare che (per fermare questa politica edilizia cieca e distruttiva del territorio), convertire la mentalità comune all’importanza del recupero e del riuso sia la metà del lavoro da svolgere. Nella realtà, tutte queste buone intenzioni presentano non poche difficoltà pratiche.
Il design sociale e il co-design possono essere tuttavia la risorsa complementare, il tassello mancante per far funzionare questi progetti di riuso. Iniziative e progetti di VOCAZIONE SOCIALE, che si mantengono e AUTOALIMENTANO tramite processi di COWORKING, CROWDFUNDING, che badino innanzitutto al BENESSERE e alla FATTIBILITÁ, prima che al profitto economico, ecco qual è il punto. Oppure la progettazione creativa, associata al tipo di neo-imprenditorialità che si sta diffondendo in questo momento, quello delle start-up innovative, culturali e sociali: idee originali, ad alto contenuto tecnologico, low budget, che non hanno timore di rischiare e che vanno a rivitalizzare spazi obliati per ospitare servizi alla comunità. Ecco forse la ricetta più convincente per educare alle buone pratiche di riuso degli spazi. Tema attuale, in quanto oggi l’Italia è piena di “spazi vuoti”,
1. Giovanni Campagnoli, bocconiano, lavora in spazi “non convenzionali” di incubazione di start up giovanili innovative, a vocazione sociale, culturale e di sviluppo locale. Docente di economia dai Salesiani, si occupa di ricerca come direttore e blogger della Rete Informativa Politichegiovanili.it e su questi temi opera anche consulenze e formazione a Enti Pubblici ed Organizzazioni No Profit. Lavora a Enne3network ed in Vedogiovane, oltre a far parte di diverse organizzazioni. É inoltre autore del libro Riusiamo l’Italia - Da spazi vuoti a start up culturali e sociali, ed. Il Sole 24 ORE (2014).
Nel libro di Giovanni Campagnoli¹, si analizzano queste “buone prassi” che si stanno diffondendo nel Paese, per individuare modelli organizzativi efficaci anche rispetto alla capacità di CREAZIONE DI POSTI DI LAVORO, CREAZIONE DI VALORE ECONOMICO E INCENTIVAZIONE DELLO SVILUPPO LOCALE, a partire dalle specifiche funzioni sociali e culturali che emergono dal territorio stesso. Il valore aggiunto è proprio questo: salvare gli spazi può essere la molla per salvare anche quella larghissima maggioranza di giovani appena affacciatisi al mondo del lavoro e che, tra uno stage o un contratto a progetto che sfuma in volontariato, subito rischiano di cadere nella categoria dei NEET (Not in Education, Employment or Training). Questo nuovo modo di fare impresa e riattivare il territorio costituisce un laboratorio dove si mescolano sperimentazione, ricerca della propria vocazione, apprendimento, formazione. Siamo giunti dunque a formulare una ipotesi più definita su chi potrebbe avere interesse a riattivare spazi inutilizzati e perché.
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come abbiamo visto, e riuscire a riusarne anche solo una minima parte affidandoli a delle start up può diventare una leva a basso costo per bloccare il consumo indiscriminato di suolo e favorire l’occupazione giovanile. Oltre ad essere, ovviamente, un’azione che contribuirebbe, dal basso, allo sviluppo del Paese, ripartendo da quelle “vocazioni” artistiche, creative, culturali, artigianali che hanno fatto apprezzare l’Italia nel mondo e che interessano oggi ai giovani, sempre più capaci di re-interpretarle sulla base dei paradigmi contemporanei.
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La soluzione proposta è “riempire” di talento, innovazione e creatività degli spazi vuoti, dando vita a delle start up culturali/sociali giovanili per creare occupazione, migliorare il contesto urbano, favorire lo sviluppo locale e il benessere della comunità, limitando nel contempo il consumo di suolo e il degrado di aree abbandonate. Ma si può fare? E come si procede per passare dalla teoria alla pratica? L’obiettivo è quello, dopo aver individuato uno spazio idoneo, di definire la “formula” dello spazio, individuando la SPECIFICA VOCAZIONE DI CIASCUN LUOGO. Ogni spazio deve infatti avere un suo “concept”, originale e diverso così come originali e diverse possono essere le tipologie, i contesti, le destinazioni; individuata tale vocazione, da essa si estrapolerà l’idea che diventerà ipotesi da confermare o meno durante il processo creativo. Spesso infatti la soluzione è già sotto i nostri occhi, ma non ce ne accorgiamo, come ci insegna Bruno Munari nel suo “Da cosa nasce cosa”. Certi edifici che hanno cessato di svolgere la funzione per la quale sono nati, contengono già alcuni dei presupposti sui quali sarà opportuno e possibile COSTRUIRE IL NUOVO PROGETTO, senza disperdere L’EREDITÁ di chi ha vissuto o caratterizzato quel luogo prima di noi.
[Bruno Munari]
L’arte è ricerca continua, assimilazione delle esperienze passate, aggiunta di esperienze nuove...
Non è insignificante che queste attività stiano trovando una casa nei tanti luoghi abbandonati disseminati per l’Italia, all’insegna della sostenibilità. É proprio in questi luoghi marginali, in questi residui della storia che si stanno scrivendo pezzetti di futuro, fatto di innovazioni, micro-impresa e talenti creativi, accompagnata sempre dall’entusiasmo delle comunità.
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Il processo di ideazione della nuova attività puó nascere così, direttamente dall’analisi del contesto (un bisogno individuato dalla lettura del territorio) o del singolo complesso (cos’era prima, come dare una nuova lettura del messaggio incorporato nella sua determinata tipologia di edificio), può fondarsi su simboli capaci di sottolineare l’identità di un luogo (“simbolismo evocativo”), può essere invece totalmente creativo (“intuizione pura”), “importato” da altre realtà locali vicine o lontane e facilmente replicabili (il “copia/incolla”)... oppure altro ancora. Ma, in ogni caso, questo è un percorso (più o meno lungo) che procede per ipotesi e successive conferme, integrato anche da uno studio di fattibilità. Un percorso di “economia civile” portato avanti da gruppi di cittadini (giovani) interessati alle sorti di uno spazio che da “vuoto urbano” puó divenire bene comune. Senza contare che questi “luoghi dell’innovazione e della creatività” (fablab, coworking, incubatori, esposizioni d’arte, cohousing, nuove residenze d’artista, luoghi di nuovo welfare) saranno quelli che disegneranno il profilo delle città del futuro, così come le ciminiere disegnavano lo skyline dell’Ottocento e della prima Rivoluzione Industriale.
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Sempre secondo Giovanni Campagnoli, economista e saggista che ha raccolto le migliori best practice sul sito www.riusiamolitalia.it, «non è più la grande industria, l’infrastruttura che in altre epoche cambiava i destini di un paese. Si tratta di nuove nicchie di mercato, magari piccole e locali, ma che funzionano». Da questo quadro emerge un’Italia in fermento, con luoghi marginali che tornano a rinascere grazie soprattutto alla spinta di giovani. Non si tratta solo di presidi sociali sul territorio ma di vere e proprie attività economiche nell’ambito del welfare, dell’educazione, del turismo, della green economy. «I giovani mettono in campo piani di sostenibilità economica con startup sociali e culturali, puntano alla diversificazione delle entrate, dipendono sempre meno da enti pubblici e sono più autonomi, grazie alla raccolta fondi, alle fondazioni ex bancarie, alla partecipazione a bandi»². Così ad esempio a Rovereto lo spazio giovani Smart Lab, gestito da un’associazione di promozione sociale, nei primi sei mesi di avvio ha oltre 3.200 soci, l’80% under 35, e si occupa di programmazione musicale, artistica, incubazione di imprese, spazi co-working, sale prove, culture giovanili (generando un fatturato previsto, per questo primo anno, di circa 250mila euro). «Questi spazi sono veri e propri “beni comuni” – scrive Campagnoli nel suo libro – che possono rappresentare una piccola, ma significativa misura “anticiclica”, perché producono occupazione giovanile, risorse economiche, socialità, cultura, aggregazione, sviluppo locale». L’autore ha anche stimato l’impatto di queste iniziative sull’occupazione: l’intervento anche solo sull’1 per mille degli immobili indurrebbe la creazione di 73mila
2. Giovanni Campagnoli in un’intervista rilasciata a Alessia Maccaferri, per Il Sole 24 ORE, pubblicata il 21 dicembre 2014
Sotto: Una locandina di propaganda dell’iniziativa bolognese
posti di lavoro, con un contributo al calo dell’occupazione del 4,8 per cento. La stima potrebbe certamente crescere laddove il pubblico agisse da facilitatore. E proprio con questa consapevolezza il Comune di Bologna ha approvato a febbraio 2014 il “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”³, col supporto di Labsus (LABoratorio per la SUSsidiarietà), del Centro Antartide (Centro Studi e Comunicazione Ambientale) e con il sostegno della Fondazione del Monte. Altri 15 Comuni lo hanno adottato e un’altra cinquantina ci stanno lavorando. E intanto a Bologna da due anni il Comune offre gratis gli spazi abbandonati nei quartieri. Sono un centinaio di palazzi e 1.200 aree di edilizia pubblica concessi a costo zero o a bassi canoni per far ripartire l’aggregazione e l’economia. Esempi simili sono in realtà molteplici in molte parti d’Italia: anche Trieste, Trento e Novara sono state interessate da fenomeni di riappropriazione –più o meno temporanea- da
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3. Il Comune di Bologna sta sperimentando una nuova modalità di cura dei beni comuni fondata sul modello dell’amministrazione condivisa. Il progetto “Le città come beni comuni” intende fare della partecipazione attiva dei cittadini alla cura dei beni comuni urbani un tratto distintivo dell’amministrazione bolognese. Tale obiettivo sarà perseguito agendo da un lato sul funzionamento dell’amministrazione comunale per rendere organigrammi, procedure e regolamenti orientati alle possibilità dei cittadini di attivarsi per la cura dei beni comuni, dall’altro la sperimentazione operativa di forme di gestione civica di spazi pubblici su tre aree della città, selezionate attraverso il pieno coinvolgimento dei quartieri.
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parte dei cittadini, degli spazi inutilizzati nel territorio urbano. Nulla è stato “risparmiato” da questo nuovo impeto “riciclone“: ex-centrali idroelettriche (vedi la Centrale Idroelettrica di Fies⁴ in Trentino), lotti non edificati, luoghi
4. La Centrale idroelettrica di Fies (sotto e a pagina seguente) è stata “adottata” fin dal 2002 come spazio per performing art, esibizioni dal vivo, concorsi ed eventi professionali.
abbandonati, spazi di risulta, ex campi da tennis, case del popolo, mense scolastiche, o semplicemente costruzioni incomplete, pause temporanee tra una costruzione e la successiva. Utilizzando spazi esistenti ma inaccessibili come luoghi sociali da vivere, si potrebbe rispondere all’esigenza dei cittadini di avere dei LUOGHI D’INCONTRO, all’esigenza delle amministrazioni di LIMITARE IL DEGRADO AMBIENTALE e all’esigenza dei proprietari di COMPENSARE I COSTI DI GESTIONE di una proprietà che non possono più utilizzare per produrre profitto.
Negli anni ha visto la luce uno spinoff, Fies Core, specializzato nei servizi per le imprese culturali. L’obiettivo è una ricerca multidisciplinare che guidi sul mercato le startup con una valutazione affidabile su valore del concept e margini di crescita per la commercializzazione del prodotto
Tutto questo permette il conseguimento di un obiettivo importantissimo: compiere un salto culturale grazie al quale, agli occhi dello Stato, i cittadini diventano portatori di capacità, di risorse, non più semplicemente oggetto di bisogni da soddisfare.
Anche lo Stato, a livello centrale, inizia a comprendere la potenza che questi apparentemente piccoli interventi possono scatenare e inizia a muoversi, timidamente, in loro favore. L’anno scorso il ministero della Difesa ha annunciato la concessione gratuita di 700 tra caserme, depositi, fortificazioni, bunker, terreni e rifugi alpini. La formula prescelta dovrebbe essere la valorizzazione d’onore con una concessione gratuita per dieci anni a chi presenterà un adeguato progetto.
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Un’ultima questione: quali sono (se sono categorizzabili) le caratteristiche dei siti che, per quanto in uno stato “grezzo”, momentaneamente inadatto allo sfruttamento commerciale tradizionale, li rendono comunque appetibili per una vivace rete di potenziali fruitori che li vogliono rivitalizzare, magari temporaneamente, ma con successo, non per
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riempire un vuoto ma per riappropriarsene, rianimarlo, riportarlo alla fruizione come spazio pubblico, come luogo d’incontro? In generale più sono intatte le attrezzature di un sito, più il luogo è accessibile, più è probabile che risulti suggestivo e impiegabile; al contrario, se il luogo è troppo distante dalle principali vie di comunicazione, se sono necessari grandi investimenti per cominciare o se non s’individuano possibili fruitori, anche con incentivi straordinari, sicuramente il sito rimarrà in disuso. Se il sito è di grandi dimensioni, presenta qualche ostacolo in più rispetto a luoghi parcellizzati, che si prestano a tante piccole acquisizioni di spazio. La possibilità di insediare tante attività diverse, seppur piccole, apporta grandi vantaggi per lo sviluppo di un polo forte. Un altro aspetto da valutare è la topografia: luoghi attraenti dal punto di vista topografico, come ad esempio le rive di un fiume, sono propizi per le attività temporanee, così come siti nel centro cittadino con buoni collegamenti offrono migliori condizioni di altri situati nelle zone più esterne, garantendo maggiore visibilità e accessibilità.Una volta che un sito d’uso temporaneo ha raggiunto la notorietà i progetti tendono ad aggregarsi a catena: gruppi di progetti simili attraggono sul luogo consumatori interessati a tutte le differenti attività e quindi man mano che il sito nel complesso rafforza la sua immagine, si amplia il bacino d’attività temporanee ad esso destinate. Queste attività non si stabiliscono arbitrariamente ovunque nella città, ma sono necessariamente limitate a specifici contesti
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Qui sopra, ancora un locale della Centrale idroelettrica di Fies, dove la rifunzionalizzazionedel complesso ha saputo sapientemente inserire ufici laddove c’era posto solo per le turbine
spaziali che determinano anche se il progetto rimarrà isolato o potrà attrarre attività simili. In fin dei conti, l’architettura, in tutte le sue tipologie di intervento è un’arte fortemente geolocalizzata, che intesse relazioni fondamentali col contesto in cui è calata e che non può prescindere da un luogo e un tempo precisi e senza i quali fondamentalmente non avrebbe senso. Nessuna architettura funziona ovunque, come nessuna architettura funziona nel vuoto.
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CASI STUDIO Ci rendiamo conto che quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma l’oceano senza quella goccia sarebbe più piccolo. [Madre teresa di Calcutta]
Il Web, così come i giornali e i notiziari di attualità, abbonda di notizie, riguardanti iniziative, progetti di riuso effettivamente realizzati e i cui esiti fanno ben sperare... oltre a permetterci di constatare l’aumentata sensibilità sociale e individuale rispetto ai problemi di recupero, riqualificazione e denuncia dei reati contro l’ambiente e contro lo spreco di suolo. Nelle pagine che seguono, viene proposta una panoramica di alcuni casi in cui si è riusciti a mettere in relazione con successo SPAZI e IDEE. Progetti ritenuti interessanti, di grande o piccolo impatto, temporanei o permanenti, brevemente presentati ma sui quali può essere utile soffermarsi a riflettere. Sono suddivisi in
INIZIATIVE DI SENSIBILIZZAZIONE E DIVULGAZIONE
INIZIATIVE SU SCALA NAZIONALE
INIZIATIVE LOCALI
PAESI FANTASMA
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(http://www.paesifantasma.it/)
Il portale Paesi Fantasma nasce nel 2011, grazie alla passione del geologo napoletano Fabio Di Bitonto, che con la sua abilità di lettura delle mappe satellitari ha scoperto ad oggi oltre 1500 borghi abbandonati in tutta Italia: passione che vuole condividere con gli utenti del web, tramite foto, filmati e altri documenti dei ritrovamenti. Dissuaso dalla sua convinzione che le città abbandonate fossero un fenomeno tutto straniero e molto raro in Italia, ha voluto divulgare e far “rivivere” quei luoghi nella fantasia degli utenti, aiutandosi col racconto delle origini, della storia, dei personaggi più importanti e della loro fine, per recuperare quella parte di memoria storica d’Italia abbandonata a se stessa.
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EDIFICI DISMESSI
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(http://www.edificidismessi.it/)
Raccontare Massa Carrara attraverso gli edifici che hanno fatto la storia della provincia: ecco l’obiettivo del nuovo contest “Edifici Dismessi”, ideato da Annalisa Guerisoli e Chiara Basile di Instragramers Massa Carrara insieme a Silvia Nicoli di Gams, in collaborazione con l’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Massa Carrara. Challenge fotografico lanciato su instagram che vuole valorizzare e trasmettere, attraverso le immagini raccolte dagli utenti, il fascino degli edifici abbandonati ma anche sensibilizzare il mondo web al concetto di riuso sostenibile come risorsa al posto del consumo di nuovo suolo. Momento di riflessione sullo stato di abbandono di tutti quegli spazi che spesso fanno parte della nostra storia industriale ma anche del nostro patrimonio culturale. Un viaggio virtuale nell’Italia della fatiscenza, tra ciò che non bello, ma attraente, ciò che conserva un potenziale grande per il cambiamento dei nostri luoghi di vita.
ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE
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(http://archeologiaindustriale.net/)
L’Archeologia Industriale è una disciplina nata in Inghilterra durante la prima metà del XX secolo che studia, recupera e valorizza l’intero patrimonio industriale del passato più o meno recente e tutte le testimonianze materiali ed immateriali ad esso collegate. Archeologiaindustriale.net vuole dare rilievo al Patrimonio Archeologico Industriale italiano attraverso la condivisione di informazioni ed il coinvolgimento di esperti ed estimatori, sfruttando le applicazioni web 2.0: forum, commenti, social media. Il portale mira a diffondere la conoscenza del patrimonio archeologico industriale italiano, l’informazione sulle attività extranazionali in materia,tramite promozione di eventi, corsi, libri, conferenze e garantire visibilità ai professionisti del settore.
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STOP AL CONSUMO DI SUOLO
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(https://stopalconsumodisuolo.crowdmap.com/)
#stopalconsumodisuolo è un portale nazionale che raccoglie informazioni, foto, video per creare una mappa condivisa delle aree da salvare, alla cui redazione tutti i cittadini sono invitati a partecipare con reportage e segnalazioni. Un sito nato per monitorare luoghi che rischiano di scomparire se non si cancellano previsioni di piani urbanistici, progetti di grandi infrastrutture, piccole e grandi lottizzazioni che minacciano il suolo superstite di mezzo secolo di aggressioni alle terre fertili e alle aree naturali. Damiano Di Simine, responsabile di questa campagna di Legambiente ha dichiarato:«L’obiettivo è far capire l’urgenza di intervenire per fermare il consumo di suolo, attraverso politiche che puntino anche sulla rigenerazione urbana come opportunità per uscire dalla crisi economica. Con questo portale vogliamo far conoscere le tante situazioni in Italia di progetti edilizi e infrastrutturali che cancellerebbero aree agricole e paesaggi...continueremo a mobilitarci con i cittadini per fermare il consumo di suolo e contribuire ad avviare serie politiche per recuperare le periferie dando una casa a chi ne ha bisogno».
SALVIAMO IL PAESAGGIO
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Il Forum Nazionale “Salviamo il Paesaggio - Difendiamo i Territori” è un aggregato di associazioni e cittadini di tutta Italia che intende salvare il paesaggio e il territorio italiano dalla deregulation e dal cemento selvaggio. Nato su impulso dell’associazione Slow Food e del Movimento “Stop al Consumo di Territorio”, si è subito arricchito della presenza di numerose organizzazioni nazionali, di oltre 350 associazioni e comitati locali e più di 9000 adesioni individuali (urbanisti, docenti universitari, sindaci, architetti, giornalisti, produttori agricoli, etc). Il Forum vuole coinvolgere il maggior numero possibile di soggetti in una rete che condivida gli stessi valori e sensibilizzare sul consumo del suolo libero e fertile a favore di cemento e asfalto. L’obiettivo è mettere in campo azioni concrete per contrastare la deriva edilizia che sta privando per sempre i cittadini dei territori italiani e della loro bellezza, la cui salvezza è legata alla nostra qualità della vita; tra le tante iniziative promosse si possono riscontare una proposta di legge di iniziativa popolare per un nuovo Piano Urbanistico a Crescita Zero, il censimento degli immobili sfitti o non utilizzati e l’introduzione nel programma ministeriale d’insegnamento nelle scuole dell’Educazione Ambientale.
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(http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/)
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RIUTILIZZI-AMO L’ITALIA (http://www.wwf.it/il_pianeta/impatti_ambientali/suolo/ riutilizziamo_litalia/)
La campagna RiutilizziAmo l’Italia è un progetto culturale, ambientale, economico finalizzato a impiegare al meglio le risorse disponibili (ambientali ed umane), per mantenere e creare posti di lavoro, avviando attività utili per il Paese, rispondere alle necessità delle comunità e promuovere attività sostenibili autofinanziate. L’enorme quantità di edificato, inutilizzato e sottoutilizzato, che pesa negativamente sulle potenzialità italiane, può rappresentare una risorsa, che può e deve essere valutata in termini energetici, di potenzialità connesse al riuso produttivo o residenziale, di qualità ambientale e culturale. Dopo una prima fase di censimento delle aree dismesse (a cui c’è stata diffusa partecipazione popolare) RiutilizziAmo l’Italia si è dedicata a sollecitare, segnalare e realizzare (attraverso i Laboratori territoriali promossi dal WWF) idee, proposte e
Il censimento delle idee e progetti ha caratterizzato la prima fase di RiutilizziaAmo l’Italia (condotta dal giugno al novembre 2012) ed ha permesso di raccogliere 575 schede di segnalazione in cui sono state illustrate proposte di recupero e riutilizzo di altrettanti edifici ed aree dismesse, abbandonate, sottoutilizzate. Circa metà delle schede, provenienti da tutta Italia, propongono forme di riutilizzazione e riqualificazione green (verde pubblico, ricomposizione della rete ecologica, orti urbani e conservazione degli usi agricoli) e per l’altra metà forme di riutilizzo sociale del patrimonio urbanistico (per abitazioni, centri di aggregazione, servizi sportivi e culturali, ecc.). Questa domanda sociale conferma come non sia possibile insistere su criteri di crescita materiale, né su industrializzazioni assistite, né su diffuse terziarizzazioni: è opportuno individuare quelle potenzialità creative ed economiche autonome che ogni individuo ed ogni comunità hanno al loro interno, stimolare la fantasia, perseguire soluzioni che riconducano all’unità dell’abitare, trovare soluzioni che possano essere gestite direttamente dalle comunità e che puntino ad una loro autonomia economica, all’aumento della naturalità, al riequilibrio tra popolazione e risorse.
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progetti creativi che consentano, da un lato, di non riproporre modelli sbagliati e, dall’altro, di interpretare adeguatamente e correttamente i desideri e le necessità delle comunità, promuovendo operazioni che abbiano la capacità di portare risultati concreti anche in termini di sviluppo di nuova occupazione stabile, oltre che di tutela o incremento della naturalità.
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VUOTI A RENDERE
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(http://www.vuotiarendere.com/)
I “vuoti a rendere” sono luoghi abbandonati, sottoutilizzati, locali sfitti, spazi aperti, grandi strutture, ruderi. L’ iniziativa nasce dal desiderio di rivalutare questo patrimonio degli edifici abbandonati a Gravina di Puglia (BA), permettendo loro di avere una “seconda vita”, vedendoli come risorse da valorizzare e riattivare con iniziative temporanee. Dall’abbandono di un luogo al suo riuso definitivo si crea quasi sempre un gap temporale in cui esso resta inutilizzato: in questo “limbo” è possibile sperimentare attività e progetti temporanei, proponendo nuovi scenari di rigenerazione urbana, avvio di economie informali e di nuovi servizi auto-organizzati per i contesti locali. I “Vuoti a Rendere” rappresentano così riserve urbane per la sperimentazione dei sogni collettivi, spazi liberi di accogliere e lasciare riemergere un capitale sociale e di favorire la ripresa economica. Questa piattaforma social connette coloro che vogliono mettere a disposizione (o conoscono) spazi da rivitalizzare e coloro che hanno idee, creatività, energie per farli rivivere. Il duplice effetto è quello di ottenere una mappatura del territorio e degli immobili e di connettere spazi e idee.
MAPPI[NA]
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Mappi[Na] è un progetto che nasce a Napoli nel 2013 e mira a realizzare una mappa alternativa della città: è una piattaforma di comunicazione urbana, di “collaborative mapping” e vuole costruire una “mappa alternativa” della città, intercettandone la varietà di linguaggi, per mostrare attraverso un contributo critico e collettivo, un’immagine diversa dai soliti stereotipi. Il progetto si rivolge ad abitanti, studenti, operatori in campo culturale, tutti coloro che catturano – attraverso foto, video e testi – l’esperienza quotidiana della città; mira a comporre, attraverso la loro esperienza, una rappresentazione collettiva che tracci una nuova narrazione urbana, che apra ad un diverso sguardo e sia una occasione dove sperimentare modi alternativi di trasformare la città. Mappi[Na] è un tentativo di costruzione collettiva dell’immagine di una città da parte dei suoi abitanti, non più cittadini utenti e/o utilizzatori degli spazi pubblici, ma protagonisti dei loro luoghi di vita, capaci di ridare senso e significato all’esperienza urbana: un esperimento tanto riuscito che l’iniziativa si è espansa e si è messa a disposizione anche per la realizzazione di mappe alternative di Milano e di Roma.
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(http://www.mappi-na.it/)
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FERROVIE ABBANDONATE (http://www.ferrovieabbandonate.it/) (http://www.fsitaliane.it/fsi/Impegno/Per-le-Persone/ Riutilizzo-Patrimonio-FS-Italiane/Riutilizzo-PatrimonioFS)
Due iniziative direttamente collegate tra loro hanno preso vita negli ultimi anni. A partire dagli anni ‘40-50, lo sviluppo dell’industria automobilistica ha portato alla dismissione anche nel nostro paese di migliaia di chilometri di linee ferroviarie, cui si aggiungono i tratti di linee attive abbandonati in seguito alla realizzazione di varianti di tracciato. Si tratta di un patrimonio importante, fatto di sedimi continui che si snodano nel territorio e collegano città, borghi e villaggi rurali, di opere d’arte (ponti, viadotti, gallerie), di stazioni e di caselli (spesso di pregevole fattura e collocati in posizioni strategiche), che giacciono per gran parte abbandonati in balia dei vandali o della natura che piano piano se ne riappropria. Un patrimonio da tutelare e salvare nella sua integrità, trasformandolo in percorsi verdi per la riscoperta e la valorizzazione del
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territorio o ripristinando il servizio ferroviario con connotati diversi e più legati ad una fruizione ambientale e dei luoghi. Il progetto “Ferrovie abbandonate” vuole portare a conoscenza di tutti i tracciati ferroviari non più utilizzati esistenti in Italia (con dati tecnici, mappe e immagini), contribuendo a conservarne la memoria e promuovendone nel contempo la valorizzazione, continuando a documentarne la presenza e lo stato di conservazione in un open-database.
L’iniziativa invece di Ferrovie dello Stato Italiane è più mirata e concreta: l’azienda di trasporti è in questi anni impegnata in un profondo sforzo di riorganizzazione e riqualificazione del patrimonio immobiliare inutilizzato, linee ferroviarie dismesse e stazioni impresenziate. Queste ultime attualmente sono circa 1.700 e il Gruppo FS Italiane le sta concedendo tramite contratti di comodato d’uso gratuito alle associazioni e ai comuni affinché siano avviati progetti sociali che abbiano ricadute positive sul territorio e per la qualità dei servizi offerti nelle stesse stazioni. Di queste, circa 345 stazioni, corrispondenti ad una superficie di oltre 63.683 mq già sono state assegnate. Un esempio importante e recente di progetto di riqualificazione del patrimonio è stata la trasformazione di parte della stazione di Ronciglione in casa di accoglienza per famiglie con bambini affetti da malattie oncologiche.
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KCITY
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(http://www.kcity.it/)
KCity ha fatto del recupero e del riuso un lavoro e uno stile: è una società di progettazione specializzata nel campo della rigenerazione urbana, che riunisce professionisti con competenze afferenti diversi ambiti disciplinari per garantire un approccio integrato e attento ai diversi aspetti di qualità e fattibilità dei progetti. KCity è una società a responsabilità limitata (srl) che lavora per conto di istituzioni pubbliche, soggetti privati e del terzo settore, ai quali offre servizi e prestazioni professionali per la definizione di piani e progetti e la gestione di interventi e iniziative nel campo della rigenerazione urbana, mobilitando competenze analitiche, progettuali, economiche e valutative nel campo della pianificazione del territorio e delle politiche urbane e abitative, dell’architettura e del disegno urbano, dell’economia e del management dei processi, necessarie per affrontare i diversi aspetti da cui dipendono qualità e fattibilità dei progetti di rigenerazione.
SPAZI INDECISI
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Sono spazi “indecisi” i luoghi abbandonati, dismessi o deantropizzati, che pur nella loro attuale condizione raccontano storie, mostrano riflessi di un trascorso vitale. Luoghi sia fisici, sia della mente, dimenticati dalla società per noncuranza o perchè in attesa di un utilizzo migliore, che intanto però si avviano al progressivo deterioramente fisico e all’oblio. Per ovviare a questa lento processo di degrado e per reagire con urgenza all’implacabile consumo di territorio, il progetto tenta di valorizzare questi spazi, innescando processi di rigenerazione urbana attraverso interventi che spaziano e ibridano i diversi linguaggi contemporanei. I dispositivi culturali che ne derivano trasformano i luoghi in abbandono in un campo di indagine e di ricerca per artisti, fotografi, architetti, urbanisti, paesaggisti e cittadini, mettendo in relazione passato, presente e futuro e producendo una riflessione contemporanea che solo le Arti possono generare, in un percorso aperto a chiunque voglia contribuire alla riappropriazione simbolica degli spazi comuni, attraverso attività di esplorazione, segnalazione, mappatura e riuso leggero, reversibile e temporaneo.
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(http://www.spaziindecisi.it/)
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[IM]POSSIBLE LIVING
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(http://www.impossibleliving.com/)
[Im]possible Living è una iniziativa partita da Milano nel gennaio 2011 e poi ampliata world-wide, che guarda allo sviluppo delle città con un occhio critico: i suoi associati sono convinti che non sempre una costruzione ex-novo abbia senso in determinati contesti, ma che piuttosto sia conveniente, in termini economici, di salute, di salvaguardia della memoria, rifunzionalizzare il patrimonio esistente di immobili sfitti, degradati, abbandonati che popolano silenziosi le nostre strade, sia in maniera complessa e permanente, sia invece anche solo in modo temporaneo. [Im]possible Living è una sorta di social network nato per promuovere
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tale riuso, che riesce a progredire e svilupparsi grazie al contributo dei soci stessi; tutti gli aderenti al progetto operano, senza fini di lucro, una mappatura dei ruderi esistenti in tutto il mondo, documentandone lo stato, le dimensioni, il quadro in cui sono inclusi, inserendo tutte le opportune informazioni e/o eventuale materiale fotografico/storico in apposite schede, compilate e man mano aggiornate da chiunque abbia novità a riguardo del singolo edificio. Tale archivio di “proprietà vacanti” è esplorabile gratuitamente: il sito mette inoltre in contatto –tramite concorsi, bandi, blog e forum- aziende, professionisti, progettisti, creativi e gente comune e fornisce servizi e supporto a chi discute e propone potenziali soluzioni al problema rappresentato da questi vuoti urbani, ai quali va concessa una seconda vita. Un sacco di persone in tutto il mondo, hanno compreso l’importanza di questo progetto e stanno investendovi le loro energie. [Im]possible Living vuole essere una facilitazione, uno strumento per semplicemente spazzare via gli ostacoli che rendono difficile la realizzazione di progetti di salvataggio di questo patrimonio immane, dalla fase di mappatura alla riqualificazione. Tutto è possibile, bisogna cercare di capire come.
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TEMPORIUSO
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(http://www.temporiuso.org/)
Uno sguardo attento e ravvicinato ad alcune città europee mostra come, in assenza di sviluppo commerciale, molte aree abbandonate sono diventate un terreno di sperimentazione per differenti popolazioni, nuove forme di arte, musica, cultura pop, come pure il luogo di avvio per associazioni legate al sociale per l’abitazione temporanea, o ancora associazioni per eventi ludici, per il giardinaggio, per il commercio informale dei mercatini. L’incertezza e apertura di questi luoghi ha attratto e ispirato economie informali, nuovi servizi autorganizzati per la città. Spazi e terreni vuoti che non hanno ancora un nuovo utilizzo, possono trovare un uso temporaneo in quel tempo di mezzo (di anni e spesso decenni) che intercorre tra vecchia e nuova destinazione d’uso. Da alcune stime nella sola Milano si conta oggi un’offerta di oltre 1 milione di mq di scali ferroviari abbandonati, circa 50 cascine e capannoni agricoli in disuso, oltre 70 edifici vuoti in città, e le agenzie immobiliari lamentano
Temporiuso è una Associazione, spin-off del Politecnico di Milano, che ha preso a cuore e si occupa proprio di questo problema: essa è convinta che gli spazi vuoti possano essere intesi come riserve urbane per la sperimentazione dei sogni collettivi…luoghi che divengono un laboratorio dove osservare le tattiche di autorganizzazione della città post-capitalista. Temporiuso si propone di avviare progetti che utilizzano il patrimonio
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che circa 885.000 mq di uffici risultano sfitti. E ancora, come in tutta Europa: arsenali portuali, fabbriche e centri commerciali dismessi, palazzi e appartamenti vuoti in città, slarghi e spazi interstiziali tra infrastrutture, campi incolti e terrain vacue, edifici, aree urbane e spazi aperti sono soggetti a cicli di alto e basso utilizzo, nel corso dei quali vi sono dei momenti di transizione, di incertezza e di immobilismo...Le crisi economiche, l’instabilità del mercato finanziario, la deindustrializzazione, i cambiamenti politici, portano spesso al collasso delle vecchie destinazioni d’uso e quando ancora non vi sono nuovi programmi e progetti di riuso, si verifica un “gap temporale”, nel quale diventa possibile sperimentare attività e progetti temporanei, che possono offrire nuovi scenari di rigenerazione urbana: progetti di abitazioni temporanee per studenti, spazi per eventi ludici, per il giardinaggio, per il commercio informale dei mercatini. L’incertezza e apertura di questi luoghi ha catalizzato nuove forme di città (Oswalt 2003), ispirato attività e progetti temporanei, ha permesso l’avvio di economie informali e nuovi servizi autorganizzati per i contesti locali. Usi inaspettati che hanno spesso accelerato processi di ripresa economica.
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edilizio esistente e gli spazi aperti vuoti, in abbandono o sottoutilizzati di proprietà pubblica o privata per riattivarli con progetti legati al mondo della cultura ed associazionismo, allo start-up dell’artigianato e piccola impresa, dell’accoglienza temporanea per studenti e turismo low cost, con contratti ad uso temporaneo a canone calmierato. Temporiuso invita soci, simpatizzanti e tutti coloro che vogliono sostenere il progetto tramite volontariato a percorrere la città, fotografare e segnare su una mappa gli spazi in abbandono, incontrare abitanti, associazioni, artigiani, artisti, city users e a prestare orecchio alle loro richieste e proposte di riuso. Il personale di Temporiuso (attivisti e ricercatori dell’associazione culturale Cantieri Isola e del gruppo Precare.it, che promuovono la ricerca-azione TEMPO RIUSO sulla base di esperienze e sperimentazioni di progetti di riuso temporaneo a Milano e all’estero) provvede poi alla compilazione di schede tecniche sulle condizioni e sulle lavorazioni necessarie per rendere accessibili e dignitosi quei luoghi; alla fine di tale processo si emettono bandi per la creatività e calls-for-proposals. Gli spazi vengono assegnati ai vincitori di tali bandi, i progetti vengono accuratamente selezionati da una giuria scientifica, che soppesa sia il valore insito nella proposta, sia il livello di fattibilità. Ogni mese è previsto un “baratto creativo” di tempo e servizi che i nuovi usufruttuari dedicheranno al quartiere e comunità locale. Trasparenza, visibilità, contatto e scambio tra Istituzioni, proprietari, usufruttuari e cittadinanza sono la base per ragionare e avviare ogni anno nuovi progetti di riuso temporaneo e valorizzazione del patrimonio immobiliare e paesaggistico.
Altri progetti simili, qui non presentati per brevità ma comunque interessanti e da segnalare, sono: Urban Reuse (http://www.urban-reuse.eu/) Tutur (http://tutur.eu/) Cityhound (http://www.tspoon.org/cityhound/il-progetto/)
PER UNA EXPO DIFFUSA E SOSTENIBILE
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Una menzione a parte merita la proposta che era stata avanzata a fine marzo 2009, ai tempi in cui erano ancora lungi dal partire i lavori per l’attuale sito in cui sarà ospitata la manifestazione. L’iniziativa “Per una Expo diffusa e sostenibile” ha preso le mosse da quattro incontri organizzati dall’Ordine degli Architetti di Milano per documentare la condizione dei siti che ospitarono le precedenti edizioni dell’Esposizione Universale, organizzate a Lisbona, Hannover, Siviglia e per vedere realmente quanto resta ancora oggi di spazi abbandonati e di padiglioni in rovina. L’iniziativa si è successivamente concretizzata nella petizione “Milano Expo 2015: città sostenibile dopo la crisi” di Emilio Battisti e Paolo Deganello e sottoscritta da oltre 1400 firmatari. Dopo un primo incontro del marzo 2009 tenuto presso lo studio di Emilio Battisti, in cui si è discusso di come la cultura milanese avrebbe potuto far fronte all’EXPO del 2015, sono seguite nuove occasioni di discussione, in cui sono state affrontate altre tematiche attinenti, riguardanti i trasporti, l’arte pubblica, l’architettura e l’urbanistica. Da quanto emerso, si è quindi sentita l’esigenza di portare avanti l’iniziativa per cercare di ottenere, da parte del commissario Letizia Moratti e del BIE (Bureau International des Expositions), una sostanziale revisione della formula della manifestazione, per impedire a Milano di fare lo stesso errore
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(Progetto finalizzato a promuovere l’Esposizione Universale Milano 2015 come manifestazione diffusa nel territorio con interventi ecosostenibili www.eds.dpa.polimi.it)
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di Siviglia, Lisbona, Hannover e di altre città, che, per l’evento che avrebbe portato le luci del mondo ad accentrarsi su di loro, si sono indebitate, realizzando un vero e proprio luna park di padiglioni che a manifestazione ultimata sono poi stati demoliti o sono andati inevitabilmente in rovina, trasformando quella sorta di palcoscenico mediatico in una landa desolata e senza vita, facendo scempio di quasi due milioni di metri quadri di prezioso territorio agricolo (una clausola del concorso è appunto che il sito dell’Esposizione universale sia predisposto e sorga per l’appunto su un terreno vuoto). L’invito, caldeggiato dai sostenitori di “Expo diffusa e sostenibile”, era quello di prendere atto una volta per tutte, dopo i recenti fallimenti,
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che così come il BIE la concepisce, la manifestazione è totalmente anacronistica, soprattutto se realizzata nel tempo della crisi economica che investe l’intero pianeta, recando gravissime conseguenze a tutti i paesi partecipanti, ricchi e poveri, alcuni dei quali avevano già manifestato la propria volontà di non realizzare un proprio padiglione per evitare lo spreco di risorse, privilegiando invece l’impegno per una migliore presentazione dei contenuti. La proposta vedeva come alternativa all’inutile spreco di ingenti capitali, territorio, cubatura, lavoro e progetto, per costruire, in tempo di crisi, padiglioni più o meno sostenibili, un investimento delle risorse destinate all’Expo per la cura e la promozione di un percorso virtuoso verso una sostenibilità sia ambientale che sociale, sfruttando e valorizzando la presenza di quanto esiste di già edificato e urbanizzato per evitare di costruire un nuovo insediamento, con conseguente accentuazione degli squilibri, della congestione e dell’inquinamento. L’idea era quella di delocalizzare (come spesso è successo a Milano, città policentrica per eccellenza) le iniziative di Expo in giro per una città che avrebbe usato i fondi messi a disposizione per il recupero ecosostenibile delle sue strade,
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dei suoi spazi pubblici, dei monumenti, dell’architettura e del maggior numero possibile di edifici esistenti, completando i lavori in corso, anche demolendo e ricostruendo quelli valutati “irrecuperabili”, nel rispetto di una rigorosa politica di piano. Per recuperare, per valorizzare le ricchezze del territorio, per introdurre tecniche di costruzione autosufficienti dal punto di vista energetico o che facciano ricorso a fonti di energie rinnovabili, per migliorare le condizioni di vita e benessere dei suoi cittadini (che rimarranno anche dopo Expo), per rimediare al degrado urbano, per mostrare che policentricità non significa necessariamente una limitazione alla capacità di impegnarsi in imprese e progetti complessi e complessivi. Questa concezione innovativa del progetto Expo permetteva di usare l’evento come occasione di riqualificazione dell’abitabilità complessiva del territorio e non di esserne invece succube. Per fare qualche esempio, si ipotizzava che i visitatori attesi non fossero costretti all’interno di un “parco a tema”, decontestualizzato dal resto, ma che potessero (dovessero) invece muoversi liberamente in tutta la città e nel suo hinterland, anche visitando le rappresentanze nazionali ospitate nei padiglioni esistenti della Fiera di Rho-Pero dove, percorrendo la sua lunghissima galleria si sarebbe potuto apprezzare come i tetti dei padiglioni fossero diventati degli enormi collettori solari, quale inizio di una riqualificazione dell’intera Fiera verso la autosufficienza energetica. Le iniziative che non avessero trovato posto a Rho-Fiera, avrebbero potuto essere ospitate in altri contenitori: dal monumentale hangar di viale Sarca; ai capannoni dell’ex Ansaldo, al nuovo Velodromo Vigorelli; dalla Fondazione Pomodoro, alla Permanente, al Castello Sforzesco, agli spazi espositivi del FuoriSalone, alla Triennale, al Museo della Scienza e della Tecnologia, con tutti gli altri musei e le sette università milanesi, potenziati
Nella pagine precedenti e qui sopra: fotografie (©Thomas Pololi) del sito dell’Esposizione Universale di Siviglia nel 2013: si può vedere nella città spagnola uno scorcio di quella che, in mancanza di una regia lungimirante, potrebbe diventare l’area Expo di Milano. Percorrendo le strade deserte dell’Isla de la Cartuja, dove nel 1992 ebbe luogo l’Esposizione Universale di Siviglia, sembra di stare all’interno di un set cinematografico in via di dismissione. Ciò che resta dei padiglioni smantellati, circondato da una vegetazione rigogliosa e incolta, ha in alcuni casi assunto le fattezze di rovina archeologica.
da strutture espositive che poi sarebbero rimaste a loro disposizione per una immediata riutilizzazione. Oltre alla prevista trasformazione delle cascine in una rete di luoghi per la ristorazione a basso costo gestiti dai diversi paesi espositori, per attrarre soprattutto i giovani visitatori e per assecondare la partecipazione giovanile all’EXPO. Alla fine della manifestazione sarebbero rimaste come attrezzature residenziali e di ristorazione a prezzo calmierato, residenze studentesche e giovanili, offerta di ospitalità in una nuova Milano che investe per diventare meta imprescindibile di quella nuova modalità di apprendimento che, grazie ai voli low-cost, è il viaggiare come bisogno di vivere il mondo Insomma la proposta mirava a rimanere fedele integralmente al tema dell’Esposizione di quest’anno, “nutrire il pianeta”, una gigantesca riflessione sulle modalità di miglioramento della qualità dell’abitare del mondo intero, sull’alimentazione e sulla sostenibilità, sul risparmio delle risorse del pianeta. Senza contare poi l’enorme vantaggio di non avere, a fine Expo, un’enorme area da smantellare e alla quale cercare un acquirente (che dovrò sottostare alle condizioni stipulate in precedenza con lo Stato e il BIE per il riutilizzo dell’area Expo) in maniera da rientrare delle enormi spese sostenute per l’acquisto del terreno (prima privato) e per la realizzazione delle opere.
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EX-OFFICINE RIVA&CALZONI
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(Fondazione Pomodoro) La Riva & Calzoni era un’industria metalmeccanica fondata dall’ingegner Alberto Riva nel 1889, a partire da un nucleo di officine del 1861. Diventò ben presto la prima industria italiana produttrice di turbine idrauliche, a cui si affiancarono, nel 1911, le pompe per iniziativa di Guido Ucelli di Nemi e successivamente si assistette alla fusione con la società Alessandro Calzoni di Bologna. Estesa tra le vie Solari, Savona e Stendhal, a Milano, l’officina ha prodotto turbine e pompe di grandi dimensioni per le centrali idroelettriche di tutto il mondo, compresi gli impianti per le cascate del Niagara, fino alla fine degli 1. La Fondazione Pomodoro nasce nel 1955 per volere dell’artista anni Cinquanta, quando la stesso: Pomodoro vuole creare un centro di raccolta e produzione dei getti di ghisa documentazione non solo della propria opera, ma della scultura fu concentrata a Bologna; contemporanea in generale. Tra il 1999 e il 2004 la Fondazione negli anni Ottanta gli impianti ha sede a Rozzano, in una ex-fabbrica di bulloni. nel 2005 viene milanesi furono dismessi. Nel inaugurata la nuova sede in Via Solari a Milano, anche’essa 1992 la Riva Finanziaria della all’interno di una ex-fabbrica, la Riva&Calzoni appunto. famiglia Ucelli vendette l’intero complesso alla Voith tedesca che pochi anni dopo, nel 1998, eliminò tutto, disperdendo anche disegni e progetti che avrebbero fatto la felicità degli storici.Quegli immensi spazi industriali, circa 40 mila metri quadrati, sono stati abbandonati fino al 2005, quando l’artista Arnaldo Pomodoro, alla ricerca di un nuovo spazio per la sua Fondazione¹ (che aveva già una sede a
Nestlè, quartiere generale di Armani.
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Rozzano, in una ex-fabbrica di viti), si innamorò di questi spazi. «Ho aperto quella porta e sono impazzito, mi sono detto ‘Che meraviglia!’ Non mi pareva vero di aver trovato a Milano uno spazio che di solito trovi a New York — esordiva lo scultore — Da noi le fabbriche le demoliscono per ricostruire, ma in via Solari c’era un vincolo, la Riva & Calzoni doveva rimanere come monumento esemplare di architettura industriale». «Avevo avuto l’incarico dall’allora sindaco Rutelli di realizzare per Roma «Novecento», una grande scultura per l’inizio del nuovo millennio, una colonna conica a spirale di 21 metri che nel mio studio non ci stava — ricorda Pomodoro — . Qualcuno mi indicò la Riva & Calzoni, in disuso da oltre 20 anni, un’immobiliare l’aveva messa in vendita. Era così a buon mercato che ne comprai una porzione, 3.000 metri quadrati. Non ebbi dubbi, anzi, mi pento di non averne presi di più. Ci ho trasferito la mia Fondazione e l’ho resa sede museale con un restauro di Pierluigi Cerri che ha rispettato l’identità di questa struttura 2. Da un articolo apparso su bellissima»². Durante la rifunzionalizzazione Repubblica Milano del 17 agosto 2011, sono state conservate inalterate le altezze di di Anna Cirillo “Quando in via Solari quindici metri e le stesse vetrate sul tetto e si costruivano turbine - Dalla Riva & Calzoni a Pomodoro”. La nuova fronte strada, a prendere la luce finché non vita dell’officina è il simbolo della diventa notte. L’edificio è composto da due riconversione dell’antico quartiere navate con strutture a capannone, di cui una operaio. In zona è rinata anche l’ex più bassa su fronte strada, l’altra, interna, più
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alta. L’ingresso principale è rimasto da Via Solari, mentre da Via Stendhal si hanno gli accessi carrabili. All’interno il volume è attraversato da tre livelli di passerelle che danno accesso ad altrettante terrazze espositive di circa 110 mq ciascuna. La dislocazione delle terrazze può assumere diverse posizioni e quote grazie a due carroponte (utilizzabili anche per il trasporto delle opere) presenti nella navata principale. La galleria principale, più alta, è costituita da una leggera struttura in acciaio con travi reticolari che reggono la copertura a shed. La parte più bassa, che si affaccia su strada con un fronte in laterizio scandito da ampie vetrate, ha invece una copertura a doppia falda. Nella zona di ingresso troviamo la reception, il guardaroba e un bookshop, mentre al livello superiore vi è una piccola biblioteca. Le murature perimetrali sono tinteggiate di bianco, mentre le strutture metalliche sono in grigio scuro, le passerelle sono finite in resina trasparente e a piano terra il pavimento è in cemento verniciato. Tale intervento ricevette nel 2006 il premio nazionale di architettura IN/ ARCHANCE come «migliore opera di ristrutturazione edilizia realizzata». Prima dell’inaugurazione della Fondazione in via Solari, nel 2005, la vecchia fabbrica fu usata dall’artista per assemblare la monumentale scultura romana, collocata all’Eur nell’anno del Giubileo. Poi come spazio per mostre dedicate prevalentemente alla scultura: da qui sono passati Jannis Kounellis, Giuseppe Penone, le antologiche sulla scultura italiana del XX secolo e del XXI secolo. Un esempio interessantissimo di archeologia industriale e di scelte urbanistico-architettoniche intelligenti: preservare la memoria storica di quei luoghi, il loro carattere industriale, spoglio e povero nei materiali, ma affascinanti, flessibili e in grado di adattarsi a praticamente qualunque tipo di manifestazione o evento vi si voglia svolgere.
CITTÁ DELLE CULTURE
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L’area ex Ansaldo è un luogo storico della Milano moderna e industrializzata. L’impianto originario del complesso industriale Ansaldo (società industriale siderurgica, sorta a Sampierdarena, quartiere di Genova, nel 1853 con la ragione sociale di Gio. Ansaldo & C., la cui produzione era orientata all’ automotive, alla produzione di componenti meccanici per ascensori, metropolitane, treni, sottomarini, navi e simili), nella sua sede milanese, si estende per 70.000 mq ed è compreso tra le vie Bergognone, Tortona e Stendhal. Il complesso risale al 1904 ed è riconducibile all’impresa automobilistica di Roberto Zϋst. Già nel 1908 però le officine vengono rilevate dall’AEG per la produzione di componenti elettriche e dinamo, giungendo, dopo una serie di passaggi, al gruppo Finmeccanica-Ansaldo, nel 1966, che si occupava qui della costruzione di locomotive, carrozze ferroviarie e tramviarie. Negli anni Novanta l’area venne acquistata dal Comune di Milano con lo scopo di promuovere e diffondere iniziative culturali. È infatti ormai in fase di ultimazione un grande progetto di recupero di parte dell’area, che ha coinvolto il famoso architetto inglese David
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by David Chipperfield
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Chipperfield, e che porterà alla nascita della Città delle Culture. Tale progetto, vincitore di regolare concorso, rientra nella strategia di recupero di parte del patrimonio immobiliare cittadino dismesso, voluta dal comune di Milano. Questo intervento rispecchia le nuove strategie urbanistiche che cercano di giungere al rallentamento del consumo del suolo, alla rifunzionalizzazione di aree abbandonate, anche disegnandone nuove porzioni per far riacquistare alla città una sua parte importante e storica. Sotto la spinta di questa nuova sensibilità, il cuore dell’immenso quadrilatero occupato un tempo dai capannoni dell’Ansaldo di via Bergognone, in zona Tortona, è stato destinato, nel 1999, a trasformarsi da archeologia industriale del primo Novecento a “Città delle Culture”. Il concorso per l’assegnazione del progetto, bandito dall’allora assessore a Cultura e Musei Salvatore Carrubba con il direttore centrale Alessandra Mottola Molfino, premia David Chipperfield, stimando la proposta
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dell’architetto di fama internazionale la soluzione che “meglio risolve il rapporto tra nuovo e vecchio, senza dissonanze, ricercando i propri valori in un non facile contesto”. L’idea del progettista è in sostanza quella di recuperare la lunga cortina edilizia su via Tortona, dentro la quale ricavare con disposizione sequenziale gli spazi destinati al Museo archeologico, al Casva, al Laboratorio di marionette Colla e alla Scuola di cinema, con un colonnato in cemento aperto verso il lato interno e di costruire invece una parte nuova da dedicare al centro delle culture extraeuropee. Questo nuovo volume nasce per essere la vera e propria immagine distintiva dell’intero intervento, un grande corpo ondulato, polilobato, in contatto diretto con la luce. Tra il 2001 e il 2003 vengono redatti e consegnati i progetti preliminare, definitivo ed esecutivo. Ad oggi il lavoro è completato al 90%, tutte le strutture sono state terminate, mancano solo gli arredi interni. L’edificio si mostra sostanzialmente fedele al progetto iniziale imperniato sulla ricerca di leggerezza da instillare nell’originaria imponenza del lotto, attraverso la creazione del corpo centrale caratterizzato, in opposizione all’esterno dell’edificio senza aperture, dall’atrio completamente vetrato messo in opera con una particolare forma organica a sagoma ondulata; una sorta di piazza coperta, attorno alla quale si apriranno le sale espositive di tagli diversi e modificabili in modo flessibile. Il volume, costruito in vetro acidato con superfici paraboliche, fungerà da lanterna per la città nelle ore serali. Costretta su tutti i lati da edifici e strutture nate nel tempo per
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necessità lavorative senza un previo studio urbanistico, l’architettura gioca sull’introspezione e l’introflessione, sul raccoglimento quasi meditativo. All’esterno la struttura si può leggere come un allineamento di massicci volumi squadrati, interamente rivestiti in zinco-titanio, atto di riverenza nei confronti del contesto industriale dell’Ansaldo. Questi corpi spigolosi e rigidi circondano, quasi a proteggerlo, il cuore dell’intervento, la struttura quadrilobata dell’atrio di vetro opalescente. Un cristallo di luce, inaspettatamente flessuoso e dagli ampi respiri, introduce le retrostanti sezioni del museo, organizzate in cluster di sale rettangolari adiacenti che si susseguono in ordine gerarchico di grandezza, studiate per dare la possibilità di scegliere chiusure selettive degli ambienti e assecondare la rotazione delle collezioni a museo aperto, tutto ciò mantenendo la filosofia della continuità del percorso del visitatore. A occuparsi dell’atrio centrale, delle facciate e di tutto l’involucro in generale è stata la Stahlbau Pichler con un team di ingegneri e tecnici impegnati su questo progetto, tanto ambizioso quanto appagante. Questo alto e luminoso corpo di vetro opaco, una sorta di fiore dalle forme fluide e accoglienti, è lo snodo dei percorsi che di qui portano all’auditorium, agli spazi per le esposizioni temporanee, dove l’insolita altezza è illuminata dalla luce zenitale, intercettata da lucernari in copertura e integrata da lampade a regolazione automatica. Sempre partendo da quest’anima centrale è possibile recarsi ad altre sale destinate a ospitare piccoli nuclei delle raccolte etnografiche, pensati per instaurare di volta in volta un dialogo con le mostre di contemporanea che si terranno nelle aule contigue.
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COMPLESSO EX-RICHARD GINORI
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Il complesso ex Richard Ginori occupa un ampio isolato tra via Ludovico il Moro e via Morimondo. L`edificio originale, una villa suburbana del Settecento, fu acquistato nel 1809 e convertito in stabilimento industriale, usando le acque del Naviglio come forza motrice. Nel 1830 la fabbrica fu adattata alla produzione di porcellane, avviata da Gindrad e Billet. Nel 1842 Giulio Richard, piemontese di origine svizzera (Nyon), giunse a Milano e rilevò la fabbrica di ceramiche e porcellane. L’intraprendente Richard aveva grandi idee per la piccola fabbrica, e così dai forni dello stabilimento cominciano a uscire non solo manufatti pregiati, destinati ad abbellire il salotto di qualche ricca signora, ma anche vasellame e terraglie per un uso quotidiano. La Società Ceramica Richard viene costituita dallo stesso Giulio Richard il 23 febbraio 1873, con sede in Milano e con gli stabilimenti di S. Cristoforo, di Palosco, di Sovere -questi ultimi due poi abbandonati. L’11 ottobre 1896 la Società Ceramica Richard acquisì la Manifattura dei marchesi Ginori, facendo nascere la Richard-Ginori. Dopo una lunga e intensa attività, nel 1986, per le profonde trasformazioni economiche che interessarono il sistema metropolitano, lo stabilimento venne dismesso. Negli anni 1996-98, la parte d’angolo della ex Richard Ginori tra via Morimondo e via Ludovico il Moro è stata interessata da un intervento
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di recupero conservativo, progettato da Studio Milano Layout, che ha convertito questa zona dell’ex fabbrica in una serie di spazi articolati, di chiara memoria industriale, affacciati su piccoli giardini interni. Questa operazione ha avviato un processo spontaneo di insediamento di operatori collegati alla moda e al design nell’area e nei suoi dintorni: Strenesse, Momo Design, Della Rovere, la Fornarina, MDF, oltre a studi professionali, agenzie di pubblicità, laboratori di fotografia. In continuità con le tipologie di trasformazione dei grandi ex complessi industriali di Savona-Solari, il nuovo destino della ex Richard Ginori viene tracciato nel 2002 con l’intervento del gruppo Cajrati Crivelli: nasce un progetto di grande complessità, che interessa oltre 60.000 mq dell’area dismessa, per la realizzazione di una nuova cittadella della creatività, moda, design, pubblicità ed arte, stabilendo nuove sinergie, grazie all`insediamento di attività a elevata possibilità di integrazione. Il complesso Richard Ginori si presta straordinariamente allo scopo prefissato dal programma Cajrati-Crivelli. Il progetto architettonico, elaborato da Luca Clavarino, con contributi di Studio Milano Layout, considera il recupero di tutti gli edifici, secondo il vincolo ambientale imposto dal vicino Naviglio; la valorizzazione dei fronti più pregevoli; ampi spazi verdi, connessi tra loro, che creano una nuova dimensione urbana; la sostituzione dei muri di recinzione con siepi, per aprire nuove visuali sulla città; una galleria coperta sulla quale si affacciano le attività comuni, in corrispondenza della piazza su via Morimondo; la sistemazione delle coperture piane con giardini pensili; parcheggi in superficie e un parcheggio interrato lungo il Naviglio.
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HANGAR BICOCCA
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(Fondazione Hangar)
HangarBicocca è uno spazio dedicato alla produzione, esposizione e promozione dell’arte contemporanea, nato nel 2004 dalla riconversione di un vasto stabilimento industriale appartenuto all’Ansaldo-Breda. La programmazione di mostre personali dei più importanti artisti internazionali si distingue per il carattere di ricerca e sperimentazione e per la particolare attenzione a progetti site-specific in grado di dialogare con le caratteristiche uniche dello spazio. La storia dell’edificio di HangarBicocca è strettamente legata alla Breda, società fondata nel 1886 dall’Ingegner Ernesto Breda che a partire dal 1903 sposta l’azienda nel quartiere Bicocca. Nei 200.000 metri quadrati dei suoi stabilimenti, la Breda produceva soprattutto carrozze ferroviarie, locomotive elettriche e a vapore, caldaie, macchine agricole e utensili a cui, durante il primo conflitto mondiale, si aggiunge la fabbricazione di aerei, proiettili e altri prodotti di impiego bellico. Tra questi stabilimenti c’è anche l’attuale HangarBicocca, allora diviso in corpi di fabbrica diversi per tipologia, origine ed estensione. Lo Shed, per
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esempio, edificio tipicamente industriale realizzato con mattoni a vista, di altezza ridotta, con tetti a doppio spiovente e ampi lucernari, è già riconoscibile nelle immagini risalenti alla prima metà degli anni Venti ed è luogo di produzione di componenti per locomotive e macchine agricole. Nel 1955 la Breda Elettromeccanica e Locomotive espande i propri spazi con l’aggiunta di un edificio cubico voltato a botte che oggi presso HangarBicocca è lo spazio espositivo chiamato Cubo. Il monumentale fabbricato che unisce lo Shed al Cubo, oggi chiamato “Le Navate”, viene eretto tra il 1963 e il 1965 per essere destinato al reparto trasformatori. Rimasto intatto nelle dimensioni – 9.500 metri quadrati per circa trenta metri di altezza – l’edificio è caratterizzato da tre navate di cui una, dal 2004, accoglie I Sette Palazzi Celesti dell’artista tedesco Anselm Kiefer (immagine sotto). Depositi e baracche, demoliti attorno al 2000, sorgevano nel giardino dove dal 2010 è situata La Sequenza di Fausto Melotti. Nei primi anni Ottanta la Breda viene ceduta al Gruppo Ansaldo e quasi contestualmente ha inizio un progressivo processo di dismissione delle aree industriali storiche a favore di un quasi totale riassetto urbanistico del quartiere Bicocca. Con la creazione di edifici universitari, centri direzionali e residenze private che si sviluppano attorno al Teatro degli Arcimboldi, il Progetto Bicocca avviato nel 1986 dà inizio alla riqualificazione dei vecchi stabilimenti della Pirelli. Dopo un decennio di abbandono, HangarBicocca (ex Ansaldo 17) è infine acquistato da Prelios, già Pirelli RE, che nel 2004 ne decide la trasformazione a spazio espositivo per l’arte contemporanea.
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ROTONDA DELLA BESANA
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(MUBA - Museo dei Bambini)
La Rotonda della Besana (o “Rotonda di Via Besana”) è un edificio tardobarocco di Milano. Deve il nome semplicemente alla via Enrico Besana dove è situato l’ingresso. La “Rotonda” è un complesso, nato con funzioni cimiteriali, che ha il suo centro nella ex chiesa, intitolata a San Michele, oggi sconsacrata. Tutto attorno, vi è un porticato a segmenti d’arco in mattone a vista che circonda un’area attualmente utilizzata come parco pubblico. Il complesso, di proprietà comunale dal 1958, è usato come spazio verde pubblico e come spazio espositivo per mostre temporanee, proiezioni ed eventi culturali. Dal 2010 al 2012 è stat intrapresa e portata a termine una importante opera di restauro conservativo: sono state restaurate le coperture in coppi antichi, tutti gli intonaci storici, i materiali lapidei; durante i lavori sono state rinvenute, dagli addetti dell’impresa Riva restauri Italia di Enzo Medardo Costantini, interessanti scoperte di lacerti di affreschi. Da gennaio 2014 è sede del Museo dei Bambini di Milano, meglio conosciuto come MUBA. MUBA nasce nel 1995 con l’obiettivo di realizzare il Museo dei Bambini di Milano. Dal 1997 ad oggi, pur non avendo una sede permanente, MUBA ha progettato e prodotto 13 grandi mostre interattive e numerose attività laboratoriali sviluppate secondo specifici criteri pedagogici che intendono
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favorire ed incoraggiare il pensiero creativo dei bambini e prepararli ad una società che richiede sempre maggiori atteggiamenti responsabili. Ha realizzato progetti didattici in oltre 50 città in Italia ed in Europa ed i bambini coinvolti sono stati quasi 800.000, di cui il 50% in gruppi classi con 50.000 insegnanti. Dal 2007 MUBA è una Fondazione senza scopo di lucro, riconosciuta a livello regionale che ha come scopo quello di formare e diffondere espressioni della cultura che intendano promuovere nei bambini un pensiero creativo e libero dagli stereotipi preparandoli ad una società che richiede sempre maggiori attitudini creative. Dal 2013 MUBA, Museo dei Bambini di Milano ha finalmente una sede permanente: Fondazione MUBA si è infatti aggiudicata la concessione per 8 anni della Rotonda di via Besana, uno degli edifici architettonici più rappresentativi del XVIII secolo a Milano. Il suddetto museo è stato inaugurato il 24 gennaio 2014 ed è concepito per essere un centro permanente di progetti culturali e artistici dedicati all’infanzia, un luogo aperto all’innovazione che riunisce le eccellenze nazionali e internazionali della cultura, della didattica, della scienza e delle arti per promuovere lo sviluppo della creatività e del pensiero progettuale creativo.
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FARM CULTURAL PARK
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(Favara) Farm Cultural Park è una galleria d’arte e residenza per artisti situata a Favara in provincia di Agrigento. È il primo parco turistico culturale costruito in Sicilia, ricavato all’interno di un caseggiato in rovina, nel quartiere storico dei Sette Cortili. È una Istituzione Culturale privata, impegnata in un progetto di utilità sociale e sviluppo sostenibile: dare alla città di Favara e ai territori limitrofi una nuova identità connessa alla sperimentazione di nuovi modi di pensare, abitare e vivere. Farm Cultural Park nasce il 25 giugno 2010 dalla intuizione di Andrea Bartoli e Florinda Saieva, una giovane coppia di professionisti che ha deciso di non trasferirsi all’estero, di restare in Sicilia, di non lamentarsi di quello che non accade, di diventare protagonisti di un piccolo ma significativo cambiamento. Sette piccole corti collegate tra loro ospitano una serie di piccoli palazzotti e nascondono alcuni piccoli, meravigliosi giardini di matrice araba, ma anche: un centro di architettura contemporanea, un complesso di residenza di artisti, designer e architetti, un centro di grafica e web design, librerie d’arte e di architettura, alberghi d’avanguardia e spazi per congressi, feste, conferenze, eventi, una ludoteca linguistica e dipartimenti educativi per adulti e bambini. Favara è diventato il nuovo centro artistico contemporaneo del sud Italia, che ospita una intensa programmazione culturale: mostre di arte temporanea, presentazioni di libri, concorsi di Architettura, serate musicali e spettacoli performativi. Lo scopo principale di questo progetto è quello di dare inizio a un processo di recupero globale del centro storico di Favara e trasformare il paese nella seconda attrazione turistica della provincia di Agrigento dopo la Valle dei Templi.Qui l’eco del passato fa da sfondo a atmosfere nuove e multiculturali: lungo le piccole stradine del borgo l’odore dell’arancina fritta si mescola a quello dei prodotti della cucina africana e l’alternativa a un buon calice di vino siciliano può essere una centrifuga vegana.
Sulle mura delle case svettano i murales di Mr Thoms e sotto i tetti degli edifici si nascondono gallerie d’arte e spazi espositivi in cui artisti ed esperti ragionano sui nuovi orizzonti del contemporaneo, luoghi di socializzazione in cui incontrarsi e stare insieme, dove hanno luogo concerti e spettacoli teatrali, eventi legati al mondo enogastronomico. Ma tra le mura del borgo non ci sono solo artisti. Alcune case sono ancora abitate e come racconta Bartoli «può capitare che dopo aver visitato una project room si veda una zietta affacciarsi alla porta per stendere i panni». Loro, gli abitanti, guardano con curiosità al progetto. «Chi ha viaggiato molto lo apprezza, ma non possiamo pretendere che tutti lo capiscano», dice il padre de I Sette Cortili. «È un posto affascinante – conclude – quando si entra all’ interno ci si lascia alle spalle una città degradata e ci si ritrova in uno spazio totalmente proiettato al futuro in cui si discute di nuove visioni del mondo e si respira la multiculturalità.»
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I ”PERCHÉ„ DEL PROGETTO Se si smette di guardare il paesaggio come oggetto di attività umana, subito si scopre una quantità di spazi indecisi, privi di funzione, sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra, né a quello della luce. Si situa ai margini. [Gilles Clément]
Perchè un progetto del genere? Perchè in quell’edificio? Perchè con quella modalità particolare? Al termine di questa lunga disquisizione, dovrei riuscire a dare una risposta a tutti questi “perchè“.
Perchè un progetto del genere? Ho voluto fortemente (e scelto liberamente) di volermi dedicare al tema del RECUPERO e del RIUTILIZZO di uno spazio INTERNO nel senso stretto del termine, nonostante le difficoltà iniziali; perché è un tema che in questi anni di università mi ha sempre più convinto e affascinato ma che non ho mai avuto modo (e tempo) di approfondire in questa maniera, dal punto di vista teorico, sociale, economico, progettuale. Ed ho inoltre voluto che fosse un INTERNO nel senso stretto del termine; si sente sempre più spesso parlare di Interni Urbani, In-
Perchè in quell’edificio? L’edificio in cui vado ad operare -che presento meglio nelle pagine successive- è, ad un primo sguardo, una sorta di cubo intonacato, caduto per caso in mezzo a un paese. Brutto, fatiscente, in rovina, una struttura banale, insignificante dal punto di vista architettonico. Eppure esso era il pretesto ideale per immaginare un progetto che potesse essere utile (o quantomeno, suggestivo) alla mia città, Varedo, e che potesse in qualche modo ricucire uno di quegli strappi (cronici) nel tessuto urbano, di quei famosi “vuoti a rendere” citati all’inizio. Ho voluto mostrare che anche nel piccolo, è necessario agire e anche nel piccolo si possono ricavare (spero) cose belle. Mi sono voluta far carico della sorte di uno di quei luoghi sopracitati: anonimi, abbandonati, che nessuno nota nemmeno più passando, lasciati a se stessi, nel degrado, a diventare casa per scarafaggi. Un edificio piccolo, umile, di nessun pregio, più volte adattato e riadattato alle esigenze della storia. Incastonato in una piazzetta circuita col tempo da palazzi sempre più alti, un angolino buio e dimenticato del tessuto urbano...e
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between-spaces, appaiono sempre più labili e indefiniti i limiti tra ciò che appartiene all’ambito dell’interno vero e proprio e ciò che appartiene all’ambito di ciò che si potrebbe definire “esterno”. Sono convinta che sia ormai difficile stabilire la vera, esatta natura di cò che è Interno e ciò che non lo è...ma mi sono altrettanto convinta che, per gestire al meglio degli spazi “ibridi“, devo essere in grado di gestire innanzitutto con perizia un ambiente “chiuso tra quattro mura“, magari meno appealing ma senz’altro stimolante come sfida.
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tuttavia centralissimo, affacciato sulla piazza del paese, proprio di fronte al Comune, come uno slargo momentaneo dal traffico e dalla strada principale. Uno dei tanti nodi edilizi da sciogliere, seppur in una cittadina così piccola. Un caso disperato? Forse sì. O forse una provocazione: si può recuperare in maniera interessante un luogo del genere? Esiste un modo intelligente di sfruttare questo tipo di spazio?
Perchè con quella modalità particolare? L’unico vincolo progettuale che mi è stato imposto (dalle contingenze, oltre che dalla mia relatrice) è stato quello del rispetto dell’impatto paesaggistico di questo involucro edilizio. Essendo l’area di pertinenza dell’edificio non superiore al suo volume ed essendo così fortemente a contatto con le realtà residenziali circostanti, si è pensato di mantenere inalterato il più possibile l’aspetto esterno, sia formalmente che dimensionalmente, rimandando tutti gli interventi all’interni della struttura. Che in questo modo è diventata una specie di scatola “con sorpresa“.
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L’EDIFICIO IN PIAZZETTA S. MARIA 1 Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. [Cesare Pavese]
Varedo è il paese in cui si situa l’edificio di interesse. “Vareet” -in dialetto brianzolo- è una piccola cittadina della provincia di Monza e della Brianza, che conta circa 12.899 abitanti. Sorge a 16 km da Milano, 9 km da Monza, 28 da Como e 33 dal confine svizzero. È toccata dalla strada statale nr.35, detta dei Giovi, che da Genova conduce a Chiasso passando da Como, da cui il termine, con cui viene comunemente chiamata, Comasina. Il territorio è pianeggiante, ha un’altitudine media di m. 180 s.l.m. ed è attraversato dal torrente Seveso. La sua storia più antica risale indietro nel tempo solo fino all’epoca longobarda, quando iniziò ad essere annoverato sulle cartine: probabilmente esisteva anche in periodi precedenti ma solo come insediamento di minore importanza. L’edificio prescelto si situa in posizione, come detto, centralissima, proprio di fronte alla piazza della Chiesa centrale dei SS. Pietro e Paolo, poco
2. Bernardino Scapi detto Bernardino Luini (Dumenza, 1481 circa – Milano, giugno 1532) è stato un pittore italiano di scuola rinascimentale lombarda, riferibile al gruppo dei Leonardeschi. Già suoi gli affreschi nella chiesa del Monastero di S.Maria Maggiore in Milano). 3. Verbale rinvenuto nell’Archivio Storico Diocesano: Visita di S.Carlo Borromeo, 1579, sez. X, vol.5 4. Verbale rinvenuto nell’Archivio Storico Diocesano: Visita del Card. Federico Borromeo, 1604, sez. X, vol.24
5. Verbale rinvenuto nell’Archivio Storico Diocesano: Visita Pozzobonelli, 1754, sez. X, vol.29
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1. AAVV, (1959) Guida di Monza e della Brianza, Edizioni Grida, Milano, 1959
discosto dall’ingresso del Municipio. La piccola piazza dove sorge l’edificio in questione (al civico 1) deve il nome a un’antica chiesa, la Chiesa di S. Maria, che un tempo vi sorgeva, al posto dell’edificio ad uso abitazione, al numero 2. È riferito nella “Guida di Monza e della Brianza”¹ che in tale chiesa vi fossero affreschi attribuiti a Bernardino Luini² e che essa ospitasse numerose immagini sacre della Madonna con S. Sebastiano, S. Rocco, S. Carlo e S. Francesco d’Assisi, e che fosse fornita inoltre di un campanile pentagonale. Si trattava di una chiesetta molto piccola, che poteva ospitare circa 100 persone, ma che fu sempre molto frequentata nei secoli, nonostante lo stato in cui versava; S. Carlo Borromeo, nel verbale³ della sua visita in loco, avvenuta nel 1579, scrive che tale chiesa era molto spartana, priva di sagrestia, senza pavimento, col campanile al di sopra del presbiterio, da cui “una fune pendeva in modo indecente”. Dal verbale⁴ della successiva visita del Card. Federico Borromeo del 1604 invece si apprende che le pareti erano state affrescate con immagini antiche e che, ad opera dei signori Gallina, che ne avevano il “patronato”, era stata costruita la sagrestia dietro l’altare e la casa parrocchiale subito accanto. In un verbale⁵ del 1754 vengono riferite addirittura alcune migliorie statiche all’edificio: pavimento in mattoni, finestre con vetri, balaustra in marmo. Nel 1878 l’allora sindaco, avv. Piero Volpi, offrì in uso l’appezzamento di terreno accanto alla suddetta chiesa, dove venne costruito l’embrione dell’edificio odierno, quattro locali su due piani: il pianterreno fu adibito ad uffici per uso comunale, mentre al piano superiore furono approntate due aule scolastiche per le classi prima e seconda elementare, che contavano
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un’ottantina di iscritti. Nel 1906, con l’aumento delle leve scolastiche, il comune provvide all’ampliamento dell’edificio, sopraelevandolo di un piano per ricavare altre due aule; poco dopo tuttavia, per non incorrere in sanzioni dovute alle nuove leggi entrate in vigore⁶, il sindaco dispose di traslocare gli uffici comunali nell’antistante Villa Medici, lasciando liberi anche i due locali al pianterreno, dove vennero allestite le aule per la 3a classe maschile e femminile. Purtroppo nella notte dell’8 agosto 1912 un grosso incendio si sviluppò nei solai della scuola, propagandosi anche all’unita Chiesa di S. Maria, che uscì seriamente danneggiata. La chiesa fu abbandonata e successivamente demolita, anche in seguito alla costruzione, avviata nel 1908, della nuova chiesa per la comunità varedese (l’attuale Chiesa dei SS. Pietro e Paolo), mentre le scuole vennero dislocate al di là del ponte sul fiume Seveso, in un nuovo immobile. L’edificio di cui ci occupiamo in questa sede rimase tuttavia in piedi e venne ripreso in uso dal Comune, che vi inserì (in sequenza) l’ambulatorio medico, l’ufficio postale e l’ufficio di collocamento, in epoca
6. La Legge Orlando del 1904, che prolungò l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno di età, prevedendo l’istituzione di un “corso popolare” formato dalle classi quinta e sesta. Essa impose inoltre ai Comuni di istituire scuole almeno fino alla quarta classe, nonché di assistere gli alunni più poveri ed elargisce fondi ai Comuni con modesti bilanci. La legge Daneo-Credaro invece, votata nel 1911 durante il ministero Giolitti, rese la scuola elementare, fino ad allora gestita dai comuni, un servizio statale, ponendo a carico dello stato il pagamento degli stipendi dei maestri elementari, così da poter disciplinare l’obbligo in modo più vigoroso anche in quelle realtà locali molto disagiate in cui i bilanci comunali non avevano consentito, in precedenza, una corretta organizzazione della scuola
7. Gli anziani raccontano che in quegli anni venivano diffusi tramite altoparlante i discorsi del Duce dal balconcino frontale (probabile aggiunta di quel periodo appositamente per quello scopo) alla gente riunita nella piazzetta antistante A pagina precedente: panoramica della piazzetta e dell’edificio così come vengono visti dalla piazza principale Sopra: la facciata frontale dell’edificio, rivolta a nord
fascista la sede del Partito⁷, successivamente la sede dell’Associazione Combattenti e Reduci e la sede dei Vigili Urbani. In anni più recenti, è stato invece riadattato e adibito ad uso abitazione per gli impiegati comunali facenti richiesta. Dal 2000 gli ultimi residenti sono stati spostati negli appartamenti popolari di nuova costruzione accanto all’Oratorio S. Luigi, in piazza S. Giuseppe, mentre l’edificio, ora di tre piani fuori terra e uno seminterrato, affacciato direttamente sulla piazza principale del paese, venne abbandonato e versa tuttora in condizioni di grande degrado, causando disagi (infestazione di insetti, perdite d’acqua e piccoli cedimenti) agli inquilini dei vicini caseggiati.
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PARTE 2 - COSTRUENDO IL PROGETTO
DESIGN PROCESS La creatività ti permette di fare errori. Il Design è sapere, tra questi, quale tenere. [Scott Adams] Il primo passo per decidere cosa fare di questo piccola, preziosa opportunità che mi è capitata tra le mani, è stato quello di analizzare la mia città da un punto di vista anagrafico e dei servizi offerti. Per scegliere la categoria d’utenza alla quale destinare i miei sforzi e le mie attenzioni, mi sono guardata attorno con maggiore attenzione e un pizzico di spirito critico, partendo dalle contingenze locali e cercando di formulare un modello progettuale riproponibile in realtà anche diverse, creando una rete di servizi espandibile a seconda delle richieste.
Monza Inquadramento del sito di intervento in Lombardia, nella provincia di Monza e Brianza e sul territorio comunale di Varedo
Piazzetta S. Maria 1
Varedo
Tralasciando la sua storia più antica, Varedo – che ha conseguito il titolo di “città” dal 2009- ha visto una notevole espansione demografica a partire dagli Anni 50, quando, come tutto l’interland milanese, venne interessata da un forte processo di industrializzazione, al quale
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seguì una forte immigrazione di persone soprattutto dal Veneto e dal Sud Italia, che portò la popolazione dai circa 5.000 abitanti del 1950 ai quasi 13.000 del 1990 su un territorio di 4,8 Kmq. Negli ultimi anni del XX secolo nella cittadina è molto aumentata anche l’immigrazione di cittadini extracomunitari. Attualmente, le classi più numerose nelle quali si distribuisce la popolazione residente sono quelle 0-19 anni (18%) e 40-49 anni (16%). Seguono cinquantenni e trentenni pressoché a pari merito (13-14%), per “chiudere” con sessantenni e ventenni (10%).
Sotto: grafico aumento demografico della città di Varedo dal 1860 al 2011 (fonte: dati Istat)
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Sotto: grafici che riportano la composizione della popolazione varedese per fascia dĂŹ etĂ e a seconda del genere
piĂš di 100 anni da 90 a 99 anni da 70 a 79 anni da 60 a 69 anni
Maschi
da 50 a 59 anni
Femmine
da 40 a 49 anni da 30 a 39 anni da 20 a 29 anni da 0 a 19 anni 0 da 80 a 89 anni 5%
500
1000
1500
2000
2500
Composizione della popolazione da 70 a 79 anni 10%
da 60 a 69 anni 13% da 50 a 59 anni 14%
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da 80 a 89 anni
da 90 a 99 anni 1% da 0 a 19 anni 18%
da 30 a 39 anni 13% da 40 a 49 anni 16%
da 20 a 29 anni 10%
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Inoltre, della classe 0-19 anni possiamo vedere nel dettaglio la composizione nei grafici sottostanti: numerosissimi sono gli estremi, da 0 a 5 anni e da 14 a 19 anni.
da 14 a 19 anni
da 11 a 13 anni
Maschi Femmine
da 6 a 10 anni
da 0 a 5 anni 0
200
da 14 a 19 anni 29%
da 11 a 13 anni 15%
400
600
da 0 a 5 anni 31%
da 6 a 10 anni 25%
800
Volendo analizzare, per conferma, i servizi alla persona effettivamente rilevabili sul territorio, troviamo:
2
importanti arterie stradali che connettono e attraversano la Brianza (la strada provinciale 35 detta “Statale dei Giovi“ o Milano-Meda, e la strada statale 36, comunemente nota col nome di Valassina)
2
linee ferroviarie Trenord e Trenitalia nel raggio di 10 km (stazioni di Varedo, Palazzolo, Bovisio, Cesano, Desio, Seregno), una fermata tramviaria della linea Milano-Limbiate e diverse fermate di Air Pullman e Brianza Trasporti
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Cosa ci dicono questi dati? Che è lecito presumere che Varedo sia abitata soprattutto da famiglie, con bambini mediamente in età pre-scolare e scolare, e che sia stata scelta come dimora per la vicinanza con il capoluogo, per la ricca presenza di infrastrutture e trasporti pubblici e per la posizione che agevola la raggiungibilità di numerosi centri d’interesse, come Milano, Desio, Monza, e ( grazie a importanti arterie stradali) anche Como, Lecco e, più in là, il confine svizzero.
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3
noti centri commerciali (Esselunga di Varedo, Carrefour di Limbiate e Paderno Dugnano)
4
tra aree verdi e luoghi storici (Parco Comunale I Maggio, Parco Sovracomunale Grugnotorto-Villoresi, Viale di Villa Bagatti e Villa Bagatti Valsecchi)
40 5
associazioni attive registrate sul territorio comunale (19 per il volontariato, 12 società sportive, 5 associazioni culturali, 4 per il tempo libero)
Tra Biblioteca Comunale Carugati e strutture scolastiche (I.C.Bagatti Valsecchi, I.C. Aldo Moro, Asilo Nido Comunale “L’Arcobaleno”, asilo privato “Il nido di Wendy”)
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Servizi alla persona, ai lavoratori, agli anziani e alle famiglie così come ai bambini e ai ragazzi sono quindi già numerosi e presenti sul territorio; soprattutto, è evidente il tentativo di rimanere sensibili alle esigenze di quella ormai predominante classe di famiglie composte da genitori che lavorano (entrambi), magari anche fuori città, per 6-8 ore al giorno e non possono dedicare più che le ore serali ai loro figli. Andando a spulciare sul web e a intervistare dal vivo, le iniziative per aiutare i genitori nella cura dei figli si sprecano: - prolungamento di orari delle attività scolastiche e post-scolastiche negli Istituti Comprensivi (che però sono a rischio, in quanto ore straordinarie che non sempre le scuole possono permettersi di pagare alle insegnanti) - occasionali spazi gioco pomeridiani ricavati all’interno degli stessi Asili (ma a nei quali è spesso richiesta la presenza di un adulto che si prenda cura del bambino) - un angolo di biblioteca (pochi mq in realtà) dedicato allo svago e all’intrattenimento dei più giovani - attività sportive e corsi vari dislocati nel territorio comunale, a cui però i bambini e i ragazzi hanno necessità di essere accompagnati.
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2
Luoghi di culto (Chiesa di SS.Pietro e Paolo e la Chiesa S.Maria Regina alla Valera) con annessi Oratori (rispettivamente di S. Luigi e S.Giovanni Bosco)
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E sempre più, essendo la presenza genitoriale vincolata dagli orari di lavoro, si fa affidamento a terzi per la cura della prole. Ma a chi si affida solitamente questo compito? Ai figli maggiori? Ai nonni? A parenti, amici o a baby-sitter? Soffermiamoci per un momento su dati più generali: secondo l’Istat¹ sempre più spesso i bambini sono senza fratelli o sorelle: tra il 1998 e il 2011 la quota di minori senza fratelli è salita dal 23,8% al 25,7%; i minori con 2 o più fratelli sono calati dal 23,1% al 21,2%; sostanzialmente stabili al 53,1% i bambini con un solo fratello. Anche in questo caso ci sono differenze territoriali: nel nord la percentuale di minori senza fratelli supera il 30% e nel centro si attesta al 26,4%, mentre nel sud e nelle isole le quote scendono rispettivamente al 18,6% e al 21,6%. Cambia anche l’organizzazione in casa e raddoppiano i minori che vivono con un solo genitore, a causa di separazioni o divorzi: dal 6% del 1998 si è arrivati al 12% del 2011. Si riduce notevolmente, invece, dal 40,5% al 28,7%, la percentuale di minori con padre occupato e madre casalinga: sono quindi di più i bambini con entrambi i genitori che lavorano (41,5%) rispetto a quelli che hanno la madre casalinga. Il dato, riferito ai 12 anni esaminati, ha avuto un netto calo negli ultimi anni segnati dalla crisi economica. Soprattutto nel Nord del paese poi, i minori che hanno tutti e due i genitori occupati superano il 51%, a fronte del 24,3% nel Sud.
1. Dati relativi al rapporto “Infanzia e vita quotidiana”, riferito agli anni tra 1998 e 2011, pubblicato il 18/11/2011)
Questo comporta una riorganizzazione dei tempi di vita familiare: nei momenti in cui il bambino non è a scuola o con i genitori è necessario ricorrere a figure che sostengano la famiglia nella cura dei figli.
2. Studio curato da Catherine Law del Institute of Child Health e pubblicato sul Journal of Epidemiology and Child Health (Settembre 2009)
Per contro, una recente ricerca britannica² condotta su 12.500 bambini di cinque anni, ha scoperto come i figli di coppie che lavorano per più ore al giorno tenderebbero a mangiare più snack, merendine e cibi spazzatura e a giocare meno all’aria aperta e fare delle attività sane, rispetto ai figli -classico controesempio- di
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Nel 2011 sono 6 milioni e 32 mila (il 79,5% del totale) i bambini tra 0 e 13 anni che vengono abitualmente affidati a un adulto quando non sono con i genitori o a scuola. A risolvere la situazione, sono, nella maggior parte dei casi, i nonni, che si confermano così un anello molto importante della famiglia e del sistema italiano del welfare. Ma quando i nonni non ci sono o sono impossibilitati a “fare da genitori”? Lungi dal volermi lanciare in una apologia della mamma-casalinga, non posso incolpare genericamente padri e madri di famiglia per queste “mancanze”, anzi, per queste “assenze”. Comprensibile il bisogno che essi hanno, oggi più che in passato, di fare tutto il possibile per conservare il posto di lavoro, per avere due stipendi e garantire sufficienti entrate economiche in famiglia, specie in tempi di crisi come questi, dove il potere d’acquisto scema ogni anno; in special modo, in un Paese come questo, dove i figli sono calcolati in base “alle spese per mantenerli almeno fino ai 18 anni”, dove i giovani adulti che vogliono metter su famiglia “non hanno abbastanza esperienza” per trovare e conservare un posto, mentre gli adulti devono, a detta dei politici, “scordarsi il posto fisso, che non esiste più”. Non si può proprio obiettare nulla a coloro i quali decidono di ricorrere all’aiuto di nonni o babysitter per la cura e l’educazione dei figli.
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donne casalinghe. Catherine Law, a capo dello studio, ha precisato che apparentemente vi è una proporzionalità diretta tra l’aumento delle ore di lavoro delle donne e le manifestazioni di disagio e trascuratezza nei bambini.
Ma la Law ha anche tenuto a sottolineare che ciò non vuol dire che le mamme non dovrebbero lavorare, solo che c’è bisogno di IMPLEMENTARE LE POLITICHE DI SOSTEGNO AI GENITORI, per permetter loro di lavorare senza ansia e senza sensi di colpa e per far crescere i bambini in ambienti familiari ed educativi, amorevoli, costruttivi, stimolanti e accoglienti, il più possibile simili a quello che dovrebbero trovare a casa. Insomma, la famiglia non è proscioglibile dal ruolo primario e insostituibile nell’educazione dei figli, i genitori non vi si sentano dispensati, ma piuttosto NON SI SENTANO ABBANDONATI in questa missione: vanno aiutati, hanno bisogno di una RETE DI CORRESPONSABILITÁ E SOLIDARIETÁ SOCIALE CHE SIA LORO DI AIUTO E SOSTEGNO.
Solo i bambini sanno quello che cercano. Perdono tempo per una bambola di pezza e lei diventa così importante che, se gli viene tolta, piangono. [Antoine de Saint-Exupéry]
ido d Il N elle
Cico g ne
Il ragionamento sull’edificio di Piazza S.Maria (ex-edificio per il terziario, ex- complesso residenziale) ha preso le mosse “ricomponendo il puzzle”, mettendo insieme cioè tutte le considerazioni riportate nei paragrafi precedenti. La trasformazione dell’immobile arriva a definire uno Spazio Ricreativo e Culturale per bambini e ragazzi. Uno spazio POLIFUNZIONALE, MALLEABILE, ADATTABILE alle diversificate esigenze che emergono durante la giornata e (anche, volendo) una tipologia strutturale MODULARE e COMPONIBILE, RIADATTABILE facilmente ad utilizzi diversi da quelli previsti. Un modo per RESTITUIRE alla comunità un immobile che per anni è rimasto effettivamente ...“immobile“ e ai margini della vita del paese. La struttura funge da grande SPAZIO GIOCO, nonchè centro “operativo“ e di aggregazione per LE CICOGNE, uno speciale servizio di baby-
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sitting che cerca di far incontrare e soddisfare le esigenze di giovani e famiglie (come spiegato poco sotto). Tale spazio è pensato inoltre per ospitare: - atelier creativi e/o laboratori PER e CON le scuole, le famiglie, i genitori, le/i baby-sitter; -
attività di tutoring e aiuto allo studio;
- la sezione della Biblioteca Comunale, ampliata e riordinata, dedicata a bambini e ragazzi dagli 0 ai 3 anni;
“L’idea che un ragazzo possa avere una idea geniale e si metta in gioco con tutto sé stesso per realizzarla, questo fatto ha una forza narrativa incredibile ed è un antidoto molto efficace contro la rassegnazione dilagante” [Riccardo Luna]
- una bacheca virtuale per rimanere informati sulle iniziative riguardanti la dimensione dell’infanzia, della famiglia, della genitorialità e del baby-sitting in corso all’interno dello Spazio e nel circondario. La proposta di riqualificazione e riutilizzo dell’immobile vede il necessario coinvolgimento di una neonata start-up, da cui ho preso in prestito parte del nome, “Le Cicogne”. Questa nuova società, nata appena 3 anni fa, è già rientrata nella classifica TOP 100 DEL 2015 DI STARTUP ITALIA¹, nel settore SOCIAL INNOVATION. A pagina seguente vediamo le schermate iniziali del sito della start-up, con già dichiarati inequivocabilmente sia il target che i servizi offerti.
1. startupitalia.eu è una testata online (direttore:Riccardo Luna, autori: Marco Pratellesi, Alex Corlazzoli, Giulia Lotti, Alessio Nisi, Martina Pennisi, Emanuela Perinetti, Arcangelo Rociola, Vincenzo Scagliarini, David Wolman) che si occupa di parlare e far conoscere ai lettori il fenomeno emergente delle start up. Ogni anno il direttore Riccardo Luna si occupa di stilare La Top 100 del 2015: storie idee e aziende che cambieranno l’Italia, l’elenco delle 100 migliori neo-imprese italiane, suddivise per area di intervento (mobilità, cibo, turismo, gaming, fintech, medicina, ambiente, design&moda, entertainment, social innovation, sport, making, webservice, marketplace).
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Questa start-up nasce grazie all’intuizione di Monica Archibugi, studentessa 25enne laureata in Economia Sanitaria, che, durante la sua esperienza come babysitter ha verificato la reale necessità da parte dei genitori di avere una persona affidabile e responsabile a cui lasciare i propri figli per essere accompagnati a scuola, sport, feste (necessità nata dal fatto che spesso le tate di una certa età non hanno la patente o non sono automunite), una persona che segua i loro figli quando loro sono impossibilitati a farlo per impegni di varia natura, qualcuno che li aiuti nello svolgimento dei compiti o che abbia qualcosa da insegnare, che renda il tempo trascorso insieme un tempo disteso e familiare ma importante, che dia un senso anche ai pomeriggi “vuoti” e che abbia pretese economiche relativamente contenute. E qui, l’illuminazione: un profilo con queste caratteristiche è spesso rintracciabile nei ragazzi tra i 18 ed i 30 anni: molto spesso automuniti, con tanti talenti da spendere, sempre alla ricerca di lavoretti flessibili, che permettano loro di coniugare piccoli guadagni e studio.
Le Cicogne “Tutto nasce tre anni fa” – racconta Monica Archibugi, fondatrice de Le Cicogne, startup che mette in contatto chi fornisce servizi di baby sitting con genitori sull’orlo di una crisi di nervi - guadagnavo qualche soldo portando e andando a prendere dei bambini che andavano a lezioni di tennis”. Attualmente l’impresa conta una piattaforma online dove domanda e offerta del servizio vengono in contatto, dove ci sono 1000 Cicogne iscritte, 1500 famiglie loggate e, da marzo 2015, l’allargamento della rete anche a Milano e su App per mobile. I servizi di assistenza alle famiglie con bambini vanno dalla semplice presenza come baby sitter, al “taxi”/ accompagnamento dei figli nei vari spostamenti, al “tutoring” per finire con il “babyparty”. Il costo, per le “cicogne” che si iscrivono al servizio, ragazze fra i 18 e i 30 anni, varia fra i 15 e i 60 euro/mese per sei mesi. Nella foto, da sinistra: Valentina Tibaldo, Monica Archibugi e Giulia Gazzelloni
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L’obiettivo de Le Cicogne è appunto di aiutare le famiglie a trovare il ragazzo o la ragazza “della porta accanto”. Da un lato rappresenta un vantaggio per i genitori (che riescono a trovare presto, in modo flessibile e in tutta sicurezza, ragazzi/e selezionati/e disposti/e a lavorare come babysitter a prezzi ragionevoli –dato che non si tratta di professionisti-), dall’altro è anche un vantaggio per le Cicogne, che in tale modo riescono a trovare lavoro, venendo responsabilizzate sin dalla giovane età, con la possibilità di mettere da parte dei risparmi (per ulteriori info vedasi http://lecicogne.net/). In più, i bambini, rimanendo a contatto con persone giovani ma responsabili e impegnate, possono sentire meno il “distacco” da casa e sentirsi sempre come in compagnia di fratelli/ sorelle maggiori, che dedicano loro attenzioni e tempo, creando le condizioni per quello che viene comunemente definito “apprendimento informale”: tutti quei processi per mezzo dei quali, anche inconsapevolmente, si originano nell’individuo fenomeni educativi. Questo evento, altrettanto importante e spesso legato alla quotidianità, permette l’acquisizione di alcuni valori fondamentali, di molte abilità anche sociali e di conoscenze che potranno rivelarsi basilari nelle scelte di vita future. È una forma di apprendimento non fornita da una formale istruzione o istituto di formazione, che si realizza nello svolgimento, da parte di ogni persona, di attività nelle situazioni della vita quotidiana e nelle interazioni che in essa hanno luogo, nell’ambito del contesto del lavoro, familiare e del tempo libero. Modalità per l’ apprendimento informale sono ad esempio le attività quotidiane di vita sociale relative all’istruzione, al lavoro, la socializzazione con gli
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altri o l’esercizio di svago, attività e hobby, come anche il gioco stesso nel caso dei bambini.
Il progetto parte da qui, dalla volontà di innestare e sostenere questa nuova, italianissima, giovane impresa nel territorio di Milano e comuni limitrofi e cercando di dare un luogo fisico dove domanda e offerta possano incontrarsi. Il business per l’azienda, ora come ora, è rappresentato solamente dalla piattaforma web, alla quale le aspiranti Cicogne accedono tramite iscrizione a pagamento. L’obiettivo sarebbe quello di RENDERE FISICO CIÓ CHE AL MOMENTO É SOLO VIRTUALE, dare una “casa“ a quel che ora è solo etere; ampliare sia i guadagni, sia l’offerta (e la valenza) pedagogico-educativa de Le Cicogne, offrendo loro una sorta di base operativa, un “nido”, dove svolgere i colloqui e i corsi di formazione per aspiranti Cicogne, dove dare spazio ai genitori per incontrare i ragazzi a cui affideranno i loro figli, dove le Cicogne potranno portare i bambini loro affidati per svolgere insieme attività di indubbio valore formativo, assistiti nel compito da personale formato e competente (psicomotricisti, educatori...), iniziative che rimangano aperte e disponibili anche ai genitori nel loro tempo libero, fornendo valore aggiunto alla comunità ospitante. L’intento è anche quello di avere un progetto iconico, concettualmente semplice, autonomo e dunque replicabile ovunque se ne riscontri la necessità o l’opportunità, dando una veste meno “locale” all’iniziativa, adottando una visione d’insieme. Nel particolare caso considerato comunque, il comune di Varedo ben si presta all’esperimento,
Sotto: uno stralcio di giornale che riporta l’esperienza di una delle Cicogne che con questa mansione riesce a mantenersi negli studi
dato che, come riscontrato precedentemente dai dati Istat (fonte: http://demo.istat.it), circa il 18% della popolazione comunale ha meno di 19 anni e di questa il 56% ne ha meno di 10 e rappresenta una buona fascia di riferimento del servizio. L’edificio di Piazza S. Maria, sfruttando anche la sua centralità all’interno del paese e la sua vicinanza a luoghi come la piazza principale, il Parco cittadino, l’Oratorio Parrocchiale, e alle strutture pre-scolastiche del paese, risulta in posizione particolarmente favorevole allo scopo.
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SPAZI GIOCO E LUDOTECHE: L’IMPORTANZA DEL GIOCARE C’è sempre qualche vecchia signora che affronta i bambini facendo delle smorfie da far paura e dicendo delle stupidaggini con un linguaggio informale pieno di ciccì e di coccò e di piciupaciù. Di solito i bambini guardano con molta severità queste persone che sono invecchiate invano; non capiscono cosa vogliono e tornano ai loro giochi, giochi semplici e molto seri. [Bruno Munari]
Il gioco è dialogo con l’ambiente che trae origine dalle necessità adattive dell’individuo: attraverso il gioco si genera integrazione tra individuo e ambiente. L’importanza del giocare sta appunto nella ricchezza di relazioni che determina: esplorazione delle cose, degli oggetti, dei materiali, delle loro qualità, di come si possono usare, e degli altri. Obbliga a dover avere reazioni, compiere scelte, elaborare strategie, anche rudimentali, ma che inducono al pensiero e alla riflessione. Anche quando non sono efficaci abbastanza. “Sbagliando si impara”, “ritenta, sarai più fortunato”: la sperimentazione stimola la creatività, la curiosità è la matrice del sapere.
Da qui nasce anche il piacere di superarsi e di possedere la novità. Poter giocare educa alla convivenza, alla tolleranza e alla convivialità, al problem-solving e alla gestione di questioni complesse, ed è dunque utile anche per avere domani adulti responsabili, capaci, autonomi. Giocare significa per il giovane individuo “scuola di vita”, approccio graduale al mondo dei grandi e alle sue mille sfaccettature. Oggi bambini e ragazzi necessitano compagni di gioco, scambio e momenti di incontro libero, considerato che i tempi scolastici e di apprendimento si sono allungati e che i tempi quotidiani familiari sono frenetici e spesso carichi di solitudine. Se l’attenzione verso l’individuo ed il suo tempo per giocare è sufficientemente corretta, l’offerta di occasioni ludiche non deve limitarsi ad essere solo di tipo consumistico (mettere a disposizione giocattoli in quantità), né di tipo direttivo (fornire tanta animazione), né di tipo consolatorio (moltiplicare le proposte di evasione nel fantastico), ma dovrà costituire una multiforme offerta culturale dove autonomia, creatività, socialità, sensibilità ambientale ed etnica siano obiettivi educativi, culturali, sociali irrinunciabili da perseguire.
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Il gioco produce la conoscenza dell’ambiente e la conoscenza porta alla comprensione. Le azioni con le mani e il corpo portano ad operazioni ripetibili; la manipolazione apre la strada all’impiego ripetuto e l’impiego ripetuto genera abilità. In questa progressiva conquista l’individuo evolve e si forma. Il gioco è un pre-allenamento delle abilità e delle capacità indispensabili per le situazioni concrete della vita futura.
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Nelle città lo spazio “di tutti” è sempre meno; usare un qualsiasi spazio in gruppo ed in una qualsivoglia forma organizzata senza averne ottenuto preventivamente una autorizzazione è diventato difficile, se non impossibile. Questioni di sicurezza e di organizzazione. In queste città così piene, di fatto il bambino ha uno “status” marginale, il più delle volte gli spazi pubblici accessibili non tengono conto della sua presenza e della sua propensione all’esplorazione; gli ambienti, che pure sono più presenti oggi che in passato, costruiti e dedicati a bambini e ragazzi, hanno prevalentemente la funzione di istruzione. Ma la convinzione che muove tutto questo discorso è che i centri abitati possano diventare città educative, per la serenità e per richiesta degli stessi genitori, per l’esigenza di bambini, ragazzi, persino adolescenti. Bisogna dunque contestualizzare l’atto del progetto, riconoscendo il filo dello sviluppo che c’è stato, le aspettative del singolo come individuo e le tendenze dei gruppi sociali. Gli ambienti destinati ai cittadini più giovani, nella scarsezza di aree fruibili liberamente, assumono valenza educativa: il ruolo del progettista ha così un’importanza impensabile in passato. Oggi che insegnanti e genitori hanno riconosciuto il valore educativo del gioco, si incomincia a comprendere che devono essere offerti ad ogni bambino e ragazzo, in modo adeguato, tempo e spazio per giocare, come esperienza necessaria per uno sviluppo armonico e completo della personalità. Ludoteca o Spazio-Gioco, questi termini vanno intesi come designatori di un luogo dove vi sia attenzione particolare alla dimensione e alle attività ricreative, luogo da declinare secondo età, tempo di frequenza, spazi disponibili, luogo che può essere inserito o collegato con altri
Le funzioni prioritarie di una struttura del genere sono quelle di offrire un luogo protetto e stimolante per esperienze di aggregazione e amicizia e la possibilità di conoscere e utilizzare attrezzature –o svolgere attività- che non sempre sono a disposizione di un singolo: interagire con tanti bambini nel tempo libero, con altri adulti che non sono né maestre né genitori, ma educatori e “fratelli maggiori”, colorare, costruire, pasticciare, creare con materiali insoliti, manipolabili, disparatissimi e senza le stringenti imposizioni che si avrebbero a casa, attingere a una libreria apposita per le fasce d’età interessate, confrontarsi in caso di bisogno, di compiti o altro, senza parlare dei servizi offerti ai genitori stessi: babysitting con personale giovane, motivato e formato, rassicurante senza essere prevaricante, tutoring, baby-taxi, baby-party, corsi genitori-bambini, primo soccorso e altro ancora.
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servizi culturali, ricreativi, scolastici, sociali, oppure avere vita autonoma.
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AMBIENTE, TERZO EDUCATORE Fin dalla prima infanzia si inizia a costruire il futuro della società.
Una parte fondamentale dello sviluppo mentale del bambino (e dunque dell’adulto che sarà) avviene in quel lasso di tempo –spesse volte sottovalutato- che va da 0 a 3 anni: studi neurologici e pedagogici accurati riferiscono che proprio nei primi anni di vita il cervello attraversa una fase di estrema maturazione che può essere sviluppata o soffocata dall’Ambiente in cui il bambino vive e fa le sue prime esperienze. Infatti, quando il bambino fa il suo ingresso nel sistema scolastico standard, porta già con sé l’impronta, spesso ormai indelebile, dei primi anni di vita, che lo condizionano nel modo di rapportarsi e percepire la società in cui si ritrova. È partendo da questi presupposti che si evince il ruolo cruciale giocato da persone e strutture che si occupano di sviluppare al meglio e in modo equilibrato la sua crescita in questo periodo molto delicato. Tali ‘organismi’ sono, oltre alla famiglia, anche gli asili nido e le scuole per l’infanzia, così come possono contribuirvi spazi esperienziali alternativi (o forse meglio dire ‘complementari’) alle canoniche strutture scolastiche.
L’apprendimento informale consiste nell’imparare facendo (learning by doing): esso consente ai ragazzi di accrescere spontaneamente la propria maturità e di implementare, con spontaneità e naturalezza, partecipando “in prima persona”, le proprie conoscenze. Questa didattica, le cui attività educative si presentano come complementari all’istruzione scolastica e all’offerta del tradizionale sistema formativo, mirando a completarne l’efficacia, favorisce l’attenzione del ‘learner’, stimola e dà spazio al bisogno di partecipazione attiva ed espressione delle proprie opinioni: avvicinare l’Ambiente e le modalità educative a quelle esperienziali della vita quotidiana contribuisce allo sviluppo personale dei ragazzi, al loro inserimento sociale e introduce l’abitudine alla cittadinanza attiva. È dunque opportuno che la progettazione e la costruzione di edifici dediti a scopi pedagogicoeducativi (di natura prettamente scolastica e non) venga basata su principi didatticopedagogici capaci di tener strettamente collegati tra loro gli spazi con la didattica, che sia di natura formale o, come in questo caso, informale. Per questo è necessario superare l’aula come unico spazio per l’apprendimento e puntare a costruire nuovi ambienti, liberi,
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Nel progetto in questione l’intento finale non è infatti la realizzazione di un plesso scolastico: l’ambizione è piuttosto di proporre uno spaziogioco, un atelier di attività, di corsi e iniziative a carattere culturale dove il processo di sviluppo dei bambini dai 3 ai 13 anni possa proseguire al di fuori dell’orario scolastico, in maniera leggera e divertente, attraverso attività di apprendimento non formale svolte a contatto con altri bambini, con le rispettive ‘Cicogne’ o genitori che ne abbiano possibilità e con educatori e artisti formati in tal senso.
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aperti, modulari, polivalenti, multimediali, che permettano la realizzazione di una didattica flessibile e diversificata capace di rispondere ai diversi bisogni di apprendimento degli studenti.
GENITORE + INSEGNANTE + AMBIENTE Dalla fine del ‘900 l’idea dell’importanza del Contesto in cui avviene l’apprendimento è stata sintetizzata in una frase: “l’ambiente è il Terzo Educatore... l’educazione è un atto di interazioni complesse, molte delle quali si verificano solo se anche l’Ambiente vi partecipa” (Loris Malaguzzi). Tale concetto ha assunto nell’ultimo periodo un’importanza sempre maggiore, diventando oggetto di studio e di analisi. Ma cosa si intende con questa dicitura? Semplicemente che la struttura dell’edificio scolastico o l’ambiente in cui si sviluppa l’apprendimento, in altre parole gli spazi, le aule, i laboratori, i corridoi, la forma materiale dell’edificio, i colori delle pareti, la qualità dell’illuminazione, gli arredi, il contesto in cui è collocato, tutto questo crea l’ambiente dove lo studente apprende, vive, fa esperienze, entra in relazione con gli altri. Il “terzo educatore”, quindi, gioca un ruolo decisivo nel determinare la qualità degli apprendimenti. Parlando per un momento di Scuole vere e proprie, questo concetto è molto chiaro nei Paesi del Nord Europa, che in questi ultimi anni hanno investito ingenti risorse nel rinnovare gli spazi e le strutture degli edifici scolastici. Le scuole moderne sono pensate come ambienti di apprendimento innovativi, all’avanguardia e a misura di studente.
1. Le strutture risultano scarsamente innovative, spesso mutuate da caserme e ospedali, corrispondenti a un modello a forma di pettine, basato su lunghi corridoi dove, ai lati, si apre una sequenza di aule, uguali tra loro, di forma quadrata o rettangolare. Questo impianto è funzionale a una didattica di tipo lineare incentrata esclusivamente sulla trasmissione delle conoscenze.
Ma lo stato del nostro patrimonio di edifici scolastici risulta meno appagante. In Italia tali complessi sono circa 43.000; dai dati forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione, il 44% di questi è stato costruito tra il 1961 e il 1980, il 52% prima della seconda guerra mondiale, il 4% prima del 1900. Non sempre risulta conveniente ristrutturare questi edifici, non solo per gli alti costi, ma anche perché costruiti su un modello culturale superato¹. Invece la costruzione di nuovi edifici scolastici dovrebbe basarsi su “un’idea nuova di scuola” che metta al centro lo studente e punti a sviluppare un apprendimento di tipo olistico basato sull’integrazione delle conoscenze e dei saperi. Per questo la progettazione di nuovi edifici deve basarsi su uno stretto collegamento tra spazi e didattica, finalizzato a creare ambienti di apprendimento FLESSIBILI e MODULARI. In questo quadro le parole-chiave che si possono trarre per la progettazione di una nuova architettura educativa potrebbero essere:
POLIVALENZA + ADATTABILITÁ + MOBILITÁ Spazi aperti, flessibili, plasmabili dalle persone stesse (pannelli, pareti mobili, elementi modulari aggregabili in differenti layout funzionali), per rispondere nella maniera più
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Da noi in Italia, la situazione è differente: l’interesse per l’importanza che rivestono le strutture scolastiche nell’innovazione didattica è in crescita, soprattutto tra docenti e dirigenti, c’è anche una forte consapevolezza, da parte di molte amministrazioni locali, riguardo la necessità di rinnovare gli edifici scolastici e di investire risorse, non solo da destinare alla manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici scolastici, ma anche alla costruzione di edifici innovativi in linea con i nuovi modelli pedagogici.
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efficace possibile alla necessità momentanea dell’individuo come del gruppo.
INTERATTIVITÁ + TRASVERSALITÁ Spazi che rispondano alle sollecitazioni delle persone e che sappiano integrare nel minor numero di elementi possibili più dinamiche ambientali, per favorire una forma di apprendimento e svago olistico..
SPAZI RELAZIONALI In ogni architettura del genere devono essere previsti spazi per la socializzazione e il relax, dedicati agli aspetti ricreativi e al potenziamento della creatività e alla creazione di legami.
APERTURA Tali strutture devono rappresentare un punto di riferimento per il territorio in cui esistono, una sorta di CIVIC CENTER non solo dedicato alle attività di apprendimento ma anche attività formative, ricreative e culturali da svilupparsi in una struttura aperta e vissuta per l’intera giornata, un centro che crei SISTEMA, faccia RETE e favorisca i processi di INTEGRAZIONE NEL TERRITORIO.
L’educazione non si costruisce nel vuoto, ma ha luogo in qualche spazio. Per questa ragione esso è un elemento fondamentale ed essenziale di ogni progetto educativo. Un luogo accogliente, stimolante, ricco e propositivo; è una presenza vitale, un contenitore, ma anche un contenuto che viene definito come il terzo educatore insieme a bambini e adulti e assume una forte valenza educativa. Ambiente, quindi, che sostiene e accresce la conoscenza. Ambiente come luogo di incontri, interazione, ascolto, reciprocità, luogo del possibile e dei possibili.
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È partendo da questi elementi che può emergere una nuova idea di scuola aperta, flessibile, adattabile a un’organizzazione della didattica che mette al centro lo studente e che, allo stesso tempo, è centro culturale, di formazione, di aggregazione territoriale.
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METODI PEDAGOGICI MODERNI A CONFRONTO L’esercizio progettuale di questa tesi (colti gli spunti derivati dalle considerazioni fin’ora fatte, tenendo conto dei principi riguardanti l’Ambiente sopracitati così come gli spunti emersi dalle metodologie pedagogiche in questa sede esposte) consiste nell’ applicare questa nuova coscienza in uno spazio reale dato, quello appunto dell’immobile di Piazza S.Maria, tentando di conciliare vecchio e nuovo, bilanciando le esigenze espresse con le potenzialità offerte e andando a immaginare uno Spazio suggestivo per Crescere ed Educare.
Nel capitolo che segue vengono brevemente presentati 5 tra i principali Metodi Pedagogici elaborati da famosi studiosi e pedagogisti nel corso del XX secolo, con una particolare attenzione a come essi percepivano la figura del fanciullo e ciò che suggerivano essere le caratteristiche essenziali per un buon ambiente educativo. Si tratta, nell’ordine, di: RUDOLF STEINER (1861 - 1925) MARIA MONTESSORI (1870 - 1952) JEAN PIAGET (1896 - 1980) ELINOR GOLDSCHMIED (1910 - 2009) LORIS MALAGUZZI (1920 - 1994)
RUDOLF STEINER
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Rudolf Joseph Lorenz Steiner (Murakirály, 25/27 febbraio 1861 – Dornach, 30 marzo 1925) è stato un filosofo, esoterista, pedagogista, artista e riformista sociale austriaco. Laureatosi al Politecnico di Vienna nel 1883, dove aveva studiato matematica, fisica e filosofia, nel 1886 pubblicò un primo libro sulla filosofia di Goethe e fu invitato nel 1888 a lavorare come curatore negli archivi Goethe a Weimar. Nel 1891 ottenne il dottorato in filosofia all’Università di Rostock e nel 1897 si trasferì a Berlino, dove divenne proprietario, redattore capo e autore principale della rivista letteraria Magazin für Literatur, le cui pubblicazioni gli valsero un invito e poi una serie di conferenze alla Società Teosofica, della cui sezione tedesca divenne capo nel 1902. Da lì in avanti divenne un conferenziere attivo e instancabile, tenendo più di 6000 incontri pubblici in svariate città europee. Nel 1912 Steiner uscì dalla Società Teosofica e nel 1913 fondò la Società Antroposofica per portare avanti le idee della cosiddetta Scienza dello Spirito o Antroposofia. Trasferitosi in Svizzera, progettò i due Goetheanum a Dornach in Svizzera. Il primo, costruito in legno tra il 1913 e il 1920, venne distrutto la notte del Capodanno 1922 da un incendio probabilmente doloso (da parte di nazionalisti tedeschi), il secondo fu realizzato in cemento armato dopo la sua morte e completato nel 1928. Fu fautore, prima guida pedagogica e teorico del metodo Waldorf (o Steineriano, che dir si voglia) di insegnamento nelle scuole. Tale metodo prese il nome dalla fabbrica di sigarette Waldorf-Astoria di Stoccarda, che, per volontà del suo direttore, Emil Molt, aprì una scuola interna per i figli degli operai, perché potessero avere una solida istruzione in quegli anni così difficili del dopoguerra. La scuola Waldorf aprì le porte nel settembre del 1919 con circa 250 alunni e 12 insegnanti, sotto la conduzione pedagogica di Rudolf Steiner. Oggi centinaia di scuole in tutto il mondo si ispirano ad essa: il metodo didattico utilizzato si basava più di tutto sullo sviluppo dell’individualità.
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Biografia
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Lo stesso Steiner scelse e preparò gli insegnanti affinché fossero in grado di rapportarsi agli alunni nel modo giusto. Alla morte di Steiner la scuola di Stoccarda vantava circa 900 iscritti e sempre più insegnanti, soprattutto giovani, chiedevano l’iscrizione ai seminari per poter diventare maestri di metodo Steiner. Durante il III Reich la scuola venne chiusa perché ritenuta troppo sovversiva nei confronti del regime nazista ma venne poi riaperta subito dopo la chiusura del conflitto. Le scuole steineriane sono ad oggi circa 900 in tutto il mondo mentre le scuole materne contano circa 1200 strutture.
Pensiero L’impulso sociale che portò alla fondazione della prima scuola steineriana, muove ancor oggi i genitori a fondare e sostenere scuole Waldorf in tutto il mondo. Tali scuole non sono elitarie, ma libere e aperte: si rivolgono a bambini di ogni ceto sociale, razza, religione, indipendentemente dall’estrazione ideologica o economica dei genitori. Non hanno fini di lucro: i genitori, riuniti in associazioni, sostengono le spese e condividono responsabilmente la gestione economica della scuola secondo criteri di solidarietà, attraverso organi democraticamente eletti. Tali scuole, già a partire dagli anni Venti, hanno favorito lo sviluppo di quelle facoltà che si pensava fossero la miglior risposta alle esigenze del mondo odierno: la consapevolezza delle proprie responsabilità, la fantasia, l’interesse per ciò che di nuovo può essere sviluppato nella società, la capacità di immedesimazione, la creatività e capacità decisionale, più che un sapere principalmente specialistico e settoriale. Alla base del metodo Steiner si trova l’Antroposofia, ovvero la convinzione che la pedagogia dovesse basarsi principalmente sulle esperienze di vita: il bambino viene al mondo dopo aver vissuto una esistenza pre-terrena ed il suo spirito deve essere aiutato ad orientarsi nel mondo fisico. Secondo Steiner, l’essere umano entra in difficoltà quando deve far fronte alle prime necessità materiali e morali. Per superare questi ostacoli occorre che ogni individuo ricerchi un suo proprio cammino, mantenendo la sua individualità ed i suoi ritmi: il ritmo di ogni alunno deve essere rispettato dagli insegnanti perché è soltanto attraverso esso che è possibile educare i bambini. Nelle scuole Steineriane il ritmo delle lezioni è sempre lo stesso: esercitazione, elaborazione e acquisizione si alternano durante la giornata
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e la mattina seguente il tema viene ripreso e riprocessato, grazie a quello che il bambino è riuscito a rielaborare durante le ore di sonno della notte precedente. Steiner per mettere a punto il suo metodo identificò 3 fasi nei primi anni di vita e nella crescita degli individui, corrispondenti ai primi tre settenni, in cui di vitale importanza è l’azione educativa della famiglia e della scuola, e per questi settenni individuò le principali facoltà che venivano sviluppate e l’approccio pedagogico e le attività più adatte per favorirle. Il bambino non viene, in questa metodologia, comunque mai considerato in nessun momento del suo percorso come un substrato passivo sul quale imprimere nozioni ed informazioni, ma un essere in divenire, ricco di capacità e talenti da risvegliare, che il maestro stesso ha la responsabilità di risvegliare, così come deve stimolare il gusto per l’apprendimento. Le potenzialità dei bambini, ancora latenti, possono essere di incalcolabile valore per la società e il mondo. L’obiettivo educativo fondamentale è quindi attuare una metodica ed una didattica che consentano al singolo alunno, al singolo essere umano, di scoprire e porre pienamente in atto tali capacità con il minimo di condizionamenti e distorsioni.
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Il maestro non deve ricorrere a regole ferree ma trovare la chiave per inserirsi nel rapporto con ogni singolo alunno: l’esercizio è quindi quello di risvegliare le facoltà del giovane e di educarlo in modo che divenga se stesso, libero da pregiudizi e capace di orientare la sua vita verso le mete che lui stesso si dà. In questo senso la scuola steineriana attua un’”educazione verso la libertà”.
Le materie Nelle scuole steineriane le materie artistiche e manuali hanno pari dignità rispetto a quelle intellettuali: la testa, il cuore e la mano hanno un’importanza qualitativamente uguale per lo sviluppo del bambino. Ecco perché vengono stimolate nella stessa misura le facoltà cognitive, morali, pratiche e manuali. Accanto alle materie tradizionali compaiono: due lingue straniere, lavori manuali, canto, strumento, pittura, modellaggio, disegno, euritmia (arte del movimento legato alla parola e alla musica), ginnastica Bothmer (ricerca ginnica di armonia del corpo con le leggi e le qualità del tempo e dello spazio), teatro, giardinaggio e falegnameria. Tali materie non vengono considerate un “abbellimento” al programma, un’appendice al programma ufficiale, ma sono sostanziali. Attraverso, per esempio, il lavoro manuale (cucito, maglia, ricamo, tessitura) non solo si
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educa l’abilità delle mani, ma si pongono anche le basi per lo sviluppo di un pensiero agile e mobile. Anche per le materie più “intellettuali”, in tutto il processo di apprendimento si fa appello alla corporeità e al movimento, oltre che all’attività percettiva; per esempio le tabelline si imparano con movimenti ritmici del corpo, il programma di geometria poggia su anni di disegno di forme e di disegno geometrico, lo studio della fisica e della chimica è basato sulla sperimentazione.
Il progetto dell’ambiente La Pedagogia Steineriana o Waldorf annovera, nel numero degli strumenti educativi, la qualità dell’ambiente e indica come creare un’architettura, che è non solo in sintonia con i suoi principi e metodi educativi, ma che è anche in grado di rispondere e soddisfare gli attuali e più ampi bisogni dell’uomo: di tipo fisico corporeo, di tipo psicologico ed emotivo, di tipo culturale e spirituale. L’architettura, come ambito fisico esterno che ci ospita e ci circonda, influenza non poco il bambino e poi il ragazzo in formazione, in modo
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mutevole a seconda del periodo d’età e in rapporto alle diverse qualità della sua costituzione umana. L’ambiente scolastico deve essere accogliente e stimolante, con mobili in legno a misura di bambino e giocattoli semplici costruiti da bambini e genitori, che sappiano rispondere alle necessità dei gruppi all’interno dei quali vengono proposte le attività. Le attività collettive servono ai bambini perché è in quei momenti che hanno l’occasione di osservarsi tra loro, aumentando le loro conoscenze attraverso l’esperienza. La socializzazione è uno dei temi fondamentali del metodo Steiner, i bambini imparano a vivere in comunità rispettando gli altri e le loro individualità senza giudicare. Pace, tolleranza, multiculturalismo etnico e religioso, diritti umani e democrazia sono valori importanti che le scuole Steineriane infondono a tutti i loro allievi. I temi principali sono quelli del gioco, delle fiabe, della musica e delle attività artistiche, unite alle prime attività pratiche come la cura delle piante o la preparazione del pane. Attorno a tutte queste attività il progettista deve modellare lo spazio, badando alla funzionalità per gruppi numerosi di persone e alla piacevolezza per ciascuno. Un’architettura che sia in grado di svolgere un mutevole ruolo di stimolo non risponde solo ai criteri di estetica, efficienza ed economicità, comuni per altro ai migliori edifici oggi progettati, ma va oltre: “dialoga” con l’uomo ed esercita un’azione educativa come una sorta di “maestro silenzioso” attivo ed efficace, che fa da concreto supporto all’attività educativa del maestro in carne ed ossa. Le sue forme, i colori, gli spazi, i materiali, se concepiti ed elaborati in modo artistico e sensato, si presentano alla persona e vi suscitano esperienze formative, più o meno inconsapevoli, sia di tipo biologico-organico (educazione sana del corpo per la salute fisica e organica), sia di tipo intellettuale e psicologico (educazione dei sentimenti ed estetica: educazione al bello), sia di tipo morale, sociale e culturale (educazione dello spirito). Un’architettura simile, pensata in sintonia con l’azione educativa della Pedagogia della Scuola Waldorf, è stata chiamata da Rudolf Steiner “architettura organica vivente” ed è stata esemplificata in una serie di edifici di varia tipologia da lui realizzati entro il primo trentennio del Novecento. Da allora il movimento dell’architettura organica vivente si è sviluppato in varie parti del mondo con numerose e significative realizzazioni che hanno proprio nel campo dell’architettura per la scuola alcuni degli esempi migliori e più caratteristici.
Ogni epoca della storia ha sviluppato nell’ambito dell’evoluzione umana una particolare esperienza, un particolare stato di coscienza e quindi una specifica concezione della realtà, l’una nata dalla precedente, per emulazione o per antitesi, in una sorta di percorso consequenziale del cammino evolutivo. Da un’epoca contrassegnata dall’esperienza assoluta della spiritualità, dell’identità con lo Spirito, si è passati man mano a un’epoca religiosa e del Sacro, a una mitologica e del Magico, a una artistica e del Bello, a una razionale e del Vero. L’epoca moderna e, in parte, quella contemporanea, hanno espresso, più delle altre, una concezione della realtà scientifica e tecnica e il modello con cui ci si figurava il mondo e l’uomo stesso è quello della macchina. Com’è naturale, ognuna di queste concezioni storiche ha espresso coerentemente anche un’architettura, ossia un’idea e una pratica di come configurare lo spazio fisico terrestre abitativo; l’architettura moderna è pertanto quello che vede l’edificio, la città come una macchina. Quest’immagine meccanicistica e materialistica dell’architettura è stata affermata e vittoriosamente divulgata dalla seconda generazione dei maestri del Movimento Moderno, con le loro “macchine per l’abitare” (Gropius, Le Corbusier, Mies van der Rohe), ribaltando l’impostazione spirituale e organica della prima generazione (Antoni Gaudì, Louis Sullivan, Henry Van de Velde, Charles Rennie Mc Intosh, Patrick Geddes, Frank Lloyd Wright), gettando le basi per un progettare (e costruire) con accezione prevalentemente tecnicofunzionale. Questa situazione, accanto a indubbi progressi, vantaggi e conquiste in fatto di razionalità, chiarezza, economicità, democraticità dei processi progettuali e costruttivi, di ampliamento dei mezzi e degli strumenti tecnici, delle conoscenze e del dominio della materia, diffusione e controllo dei beni, libertà di espressione e di pensiero, ha però mostrato un lato negativo: la visione meccanico/tecnicistica è ostile all’uomo, estranea al mondo della vita, nemica dello stato naturale. Da qui il problema ecologico, quello sociale e tutti quelli ad essi collegati (risorse energetiche, patrimonio genetico, salute, sostentamento, equilibrio psicologico, valori culturali e sociali, ecc.). Tali questioni hanno giustamente risvegliato un impulso a ricercarne la soluzione o un riequilibrio delle loro conseguenze, una situazione che sia sostenibile dall’uomo e dal mondo. Da qui anche una ricerca di una architettura “sostenibile”, di cui oggi molto si parla, ormai
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Architettura Organica Vivente
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anche in ambiti extra specialistici. Ma anche l’architettura sostenibile, che sia bioecologica, bioclimatica, naturale, passiva, ad emissione zero, ecc. non ha speranza di avvicinarsi al nocciolo del problema; è necessario poter sviluppare invece un’immagine dell’uomo e del mondo che sia aderente alla loro vera natura più ampia e profonda. Una immagine che consideri la realtà e la investighi in modo scientificamente rigoroso ed esatto ma che si estenda alla sua dimensione non materiale, non sensibile, bensì soprasensibile e spirituale. Non si tratta di un ritorno a forme mistiche o visionarie, non a una antica tradizione ormai estranea e inaccessibile alla coscienza dell’uomo moderno, non del ricorso a vecchi manuali simbolici o gestuali, bensì una moderna scienza dello Spirito e un’arte, una capacità di progettare con “fantasia oggettiva”, esatta e consapevole. L’architettura organica vivente si basa su questi presupposti e Rudolf Steiner, il suo promulgatore, nè ha posto con la propria opera gli inizi conoscitivi, artistici e costruttivi. Il fondamento più essenziale del “pensiero architettonico” di Steiner è il riconoscimento del fatto che l’architettura è l’immagine esteriore visibile della natura molteplice dell’uomo, costituita da una complessa totalità in continua evoluzione, in una articolata e dinamica triade di corpo, anima e spirito. Alla base sta quindi una concezione evolutiva del mondo e dell’uomo stesso, che sono per la loro essenza di natura spirituale soprasensibile, ma si manifestano e operano sulla terra in corpi fisici: mediatrice di questa esperienza, di questa relazione tra queste dimensioni opposte di spirito e materia, è la natura animica dell’uomo, la sua anima. Una definizione che Rudolf Steiner fece dell’architettura sintetizza in modo molto chiaro e peculiare questo fatto: ”L’architettura, l’arte del costruire consiste nel proiettare all’esterno nello spazio l’interiore sistema di leggi del corpo umano” (conferenza del 29.12.1914). Da questa affermazione risulta che una vera forma architettonica adeguata e in relazione con la dimensione vivente del mondo e in particolare dell’uomo è quella generata dai processi formativi simili a quelli che operano in natura, nel mondo del vivente, dell’organico. Tra le prime traduzioni di questo pensiero nel concreto troviamo l’architettura, che Rudolf Steiner coltivò a partire dal 1907 con una serie di opere preliminari e secondarie e culminò nel Primo Goetheanum di Dornach (1913-1922) e successivamente nel Secondo Goetheanum, edificio questa volta completamente in cemento armato.
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Qui accanto e a pagina seguente, vista aerea e frontale del Primo Goetheanum completato, a Dornach, in Svizzera
Foto di cantiere, lavori di completamento della struttura lignea del Primo Goetheanum, edificio in gran parte in legno poi andato distrutto per un incendio, si presume di natura dolosa
L’architettura organica vivente propone una QUALITà FORMALE degli edifici ricca, varia, in continua trasformazione dinamica, naturalmente nella dimensione artistica immaginativa. Nelle stesse architetture steineriane la qualità plastica scultorea delle forme, dei volumi, delle decorazioni sono complesse, multiformi ed esprimono essenzialmente la
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qualità esteriore fondamentale del mondo vivente: la metamorfosi delle forme. Un esempio lo possono essere le 7 coppie di colonne della sala del Primo Goetheanum con i capitelli in sequenza metamorfica evolutiva, oppure le superfici esterne del Secondo Goetheanum con gli straordinari episodi volumetrici dei fronti ovest e sud-nord (dove concavo, convesso, spigolo, superfici a doppia curvatura, flessi, selle e linee asintotiche si alternano in interminabile processione).
Sono questi, in parte, anche i motivi per cui ammiriamo l’architettura di alcuni notevoli maestri organici contemporanei: Hans Scharoun nella Filarmonia di Berlino, Alvar Aalto nelle chiese, nei teatri e nelle biblioteche finlandesi, Santiago Calatrava nei ponti e nelle stazioni ferroviarie. In questi esempi notevole è anche l’altro aspetto basilare dell’architettura, il MATERIALE, di cui abbiamo ormai uno sconfinato campionario, grazie all’enorme sviluppo dell’odierna ricerca tecnologica, alla scoperta di sempre
Anche nell’ambito del COLORE il confronto fra architettura organica vivente e le tendenze prevalenti nell’architettura moderna è eloquente. L’approccio al colore nell’architettura organica vivente è radicalmente diverso: il riferimento di fondo è l’esperienza che l’uomo fa, per esempio, di fronte allo spettacolo colorato della natura, dell’arcobaleno, del trascolorarsi del cielo durante la giornata, delle tinte dei fiori, delle ali di farfalla, del piumaggio degli uccelli. Cosa sorge in noi in questi momenti? Sotto, sezione trasversale del complesso del Secondo Goetheanum
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nuovi prodotti, alla concentrazione continua del progetto sul dettaglio, sul particolare, sul frammento. L’architettura organica vivente vede una possibilità nella scelta del materiale non solo per le sue prestazioni presenti, ma in un’ottica temporale tra passato e futuro. E in quest’ottica, fondamentale è la trasformazione che il materiale subisce mediante l’ingegno e l’elaborazione artistica dell’uomo. Questa esperienza, se attuata, è in grado di trasfigurare persino il materiale più ostico e meno “naturale” in senso stretto. Questo è il motivo per cui nell’architettura organica vivente il cemento armato, per esempio, non è bandito, anzi è tenuto in grande considerazione, purchè trattato con qualità formali organiche.
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A pagina precedente: vista aerea del secondo Goetheanum, che emerge come un fuoriscala nel contesto collinare di Dornach. e vista dell’ingresso dal fronte ovest. Sopra: le forme plastiche dell’edificio
realizzato tra il 1925 e il 1928, anno in cui venne aperto benché la costruzione fosse ancora incompleta. Nei settanta anni successivi è stato sottoposto a diversi interventi. Oggi è sede della Libera scuola di Scienze
morali e della Società generale di Antroposofia. Sotto, il lato sud-est del complesso. A pagina seguente: particolare delle possenti forme in cemento del secondo Goetheanum.
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Un’emozione, un interesse, un evento dell’anima che è parte stessa del colore percepito. E allora quando si dà colore a un edificio, a un ambiente, ad un oggetto, quel colore esprime similmente il fenomeno animico, la dinamica psicologica sua propria, che l’architettura veicola e interpreta. Con il colore, se per di più è applicato con la tecnica della velatura, che conferisce trasparenza e luminosità alla tinta, l’architettura organica vivente intavola un dialogo con l’interiorità sensibile dell’uomo. Non è vago romanticismo, non è poesia fine a sè stessa: è nutrimento dell’anima, è terapia della psiche, è infine costruzione di un paesaggio architettonico e urbano che dialoga e collabora con l’uomo. Infine, lo SPAZIO: questo ineffabile costituente dell’architettura, che non è percepibile perchè non è cosa, ma rapporto, concetto, idea. E appunto per questo dà il carattere essenziale all’abitazione, all’edificio, alla città. Lo spazio classico è perfetto ma fermo, immoto, quello moderno è dinamico, in movimento. Ma il dinamismo del futurismo, del costruttivismo russo e ancor più dell’odierno decostruttivismo è all’opposto lacerante, aggressivo, distruttivo. E’ espressione autentica e stimolante del nostro tempo, ma è espressione non dell’uomo, bensì della macchina: e con ciò è essenzialmente contro l’uomo. Ancor prima di questi profeti della meccanizzazione e della dissoluzione del mondo, l’organicismo ha affermato lo spazio in movimento, libero, aperto, fluido, e quindi amico dell’uomo, in particolar modo con il genio di Frank Lloyd Wright. E con Rudolf Steiner lo spazio si configura come elemento in equilibrio dinamico tra movimento e quiete e viceversa. Si guardi la spazialità delle due cupole
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del Primo Goetheanum, o lo spazio che avvolge il fronte ovest e i fianchi del Secondo Goetheanum. Lo spazio nell’architettura organica vivente è strumento per l’uomo per comprendere sè stesso all’interno della complesso evolutivo del mondo. E questa ultima osservazione riconduce alla centralità di una concezione, quella scientifico spirituale di Rudolf Steiner, dove macrocosmo e microcosmo (uomo) sono in stretta correlazione, uno immagine dell’altro. L’essenza dell’Architettura allora è piuttosto l’ambito conoscitivo, creativo e operativo in cui l’essere dell’uomo sperimenta sè stesso nei modi più vari, riflesso nella realtà fisica materiale percepibile e concreta dell’edificio architettonico, e costruisce sè stesso come entità spirituale in un corpo fisico sulla Terra. In merito alle influenze postume di Steiner in architettura, Mateo Kries, direttore del Vitra Design Museum di Weil am Rhein, in occasione della mostra da lui curata Rudolf Steiner. L’alchimia del quotidiano (15 ottobre 2011-1º maggio 2012), ha dichiarato che l’estetica e la pratica architettonica di Steiner hanno segnato il lavoro di molti progettisti. Tra gli estimatori di Steiner si possono identificare due gruppi: il primo è composto da chi, seppure influenzato dalle sue teorie, ha sviluppato una ricerca autonoma: per esempio Herzog & De Meuron, che nel 2002 scrissero una monografia intitolata Natural History in cui dichiararono i propri riferimenti al testo Kunstformen der Natur del filosofo e biologo tedesco Ernst Haeckel e alla materialità delle formazioni geologiche (tratto tipico delle strutture steineriane); gli stessi riferimenti che si possono ritrovare nell’edificio Schaulager a Basilea, a pochi chilometri dal Goetheanum. Il secondo gruppo è formato da chi continua ad applicare dogmaticamente gli insegnamenti di Steiner, come gli olandesi Alberts & Van Huut.
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MARIA MONTESSORI Biografia Maria Montessori, nata a Chiaravalle, in provincia di Ancona, il 31 agosto 1870, è stata una pedagogista, filosofa, prima donna a laurearsi in medicina in Italia, scienziata, educatrice e volontaria nota per il metodo che prende il suo nome, usato in migliaia di scuole materne, elementari, medie e superiori in tutto il mondo. I suoi interessi si rivolsero fin dai primi anni di studio alle discipline scientifiche e matematiche (la madre, Renilde Stoppani, era nipote del celebre geologo milanese Antonio Stoppani), così che alle soglie dell’adolescenza, scelse per i suoi studi secondari la scuola tecnica, per decidere infine di iscriversi alla facoltà di medicina dell’Università di Roma. La sua intelligenza viva e i suoi interessi umani e sociali la condussero rapidamente al conseguimento della laurea, nel 1896, anno in cui rappresentò l’Italia al Congresso del Movimento Femminista che si tenne a Berlino. Nel ’98 partecipò al Primo Congresso pedagogico italiano, dove espose i primi risultati del suo lavoro pedagogico presso la Clinica Psichiatrica romana, sostenendo con forza che il soggetto, il bambino, anormale richiedesse un intervento che fosse prevalentemente educativo, e dunque tale da perseguire come scopo non solo la “cura” e l’”assistenza” del soggetto, ma la modificazione complessiva della sua personalità. La Montessori si ritrovò impegnata in anni di lavoro e studio intensissimi: si iscrisse alla facoltà di filosofia, diresse corsi di formazione per l’educazione dei bambini frenastenici e soprattutto tradusse le opere di Itard e Séguin, primi medici che si siano occupati di educazione nel campo della deficienza mentale. Nel 1907 si completò la prima fase della formazione culturale e del lavoro scientifico della Montessori e si aprì la seconda, quella che la rese famosa in Italia e nel mondo: la Montessori trasferì, coi necessari adattamenti, i
Pensiero La Montessori, per “pedagogia scientifica” non intendeva solo ricercare nuovi metodi di osservazione dei bambini anormali e normali, strumenti e tecniche, ma volevo esattamente modificare la personalità dei soggetti coi quali entrava in contatto, sanando difetti che tenevano l’individuo in uno stato d’inferiorità; non più solo quindi uno studio dell’individuo condotto per mezzo di test di psicologia sperimentale, che conducevano soltanto a una constatazione della personalità mentale, senza modificarla e lasciando immutati i metodi educativi, ma una osservazione che producesse strategie di azione terapeutica/educativa e cambiamento. L’introduzione della scienza nel campo dell’educazione postulò un osservazione
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metodi sperimentati con successo sui bambini anormali a quelli normali, ottenendo grandi successi. Il 6 gennaio, in via dei Marsi, nel quartiere di S.Lorenzo, la Montessori apre la sua prima “Casa dei bambini”, istituzione che si inscrisse all’interno di un vasto progetto di risanamento civile e sociale di una delle aree più povere ed emarginate della capitale e che costituì una svolta fondamentale nella pedagogia del Novecento, perché introdusse una nuova visione dell’infanzia e, soprattutto, una metodologia profondamente innovativa della sua educazione. La Montessori propose l’idea di un bambino laborioso e un’istanza educativa che ruppe ogni ponte con la tradizione dell’asilo infantile, inteso come semplice luogo di custodia, postulando la creazione di una vera e propria scuola dell’infanzia, un concetto tutto moderno. A due anni dall’inizio della sua esperienza nella Casa dei bambini, Maria Montessori pubblicò “Il metodo della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini”. La sua opera, conosciuta e apprezzata anche oltreoceano, la portò a viaggiare molto per seminari, conferenze e training-course in tutto il mondo. Visse in diverse parti d’Europa prima di far ritorno in Italia, dopo la caduta del fascismo e la fine della Seconda Guerra Mondiale. Morì il 6 maggio 1952 a Noordwijk, in Olanda, vicino al Mare del Nord, ma la sua opera continua a vivere attraverso le centinaia di scuole istituite a suo nome (e applicando il metodo che da lei prese il nome) nelle più disparate parti del globo. Sulla sua tomba l’epitaffio recita: “io prego i cari bambini, che possono tutto, di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo”.
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obiettiva del soggetto il quale doveva essere conosciuto ma solo al fine di essere adeguatamente educato. Tutto l’armamentario della psicologia sperimentale doveva pertanto essere trasferito dal laboratorio alla scuola, per potersi tradurre, da semplice strumento di osservazione, a mezzo di trasformazione del modo di essere della scuola e della personalità infantile. E perché lo spostamento del campo di osservazione? Perché l’oggetto dell’osservazione psicologica e antropologica significativo per l’educazione non era più il bambino in sé studiato nel laboratorio ma era costituito dalla scoperta del bambino naturale, sorpreso nella sua autenticità e dunque quello che non solo non si rivelava nella situazione artificiale del laboratorio ma che neppure poteva manifestarsi nella scuola di allora, dato che quest’ultima ne reprimeva coi propri metodi costrittivi ogni espressione di spontaneità. Le sperimentazioni condotte fino ad allora -asseriva la Montessori- non potevano avere scoperto i caratteri naturali e quindi le leggi psicologiche che presiedevano la crescenza infantile perché nella scuola di allora
”Non è certo la scienza “-sosteneva la Montessori-“ad edificare la scuola nuova ma è il rinnovamento della vita scolastica da attuare nel segno della Libertà che pone le premesse per una nuova scienza dell’infanzia”. A suo parere, per giungere alla pedagogia scientifica occorreva quindi passare attraverso una pedagogia della liberazione o della normalizzazione che svelava il bambino segreto, quello che il laboratorio non poteva cogliere, e che la scuola deformava e intristiva. Nel corso del suo lavoro e delle sue osservazioni alla Casa dei Bambini ciò che maggiormente colpì Maria Montessori è il profilo psicologico infantile che emerse. All’immagine tradizionale di un bambino tutto assorbito nel gioco e nell’immaginazione, imprevedibile nei suoi comportamenti, illogico e pressoché privo del senso del dovere, tanto da dover essere guidato con l’impiego di premi e castighi, si va sostituendo sotto i suoi occhi l’idea di un bambino concentrato che ripete senza distrazioni i suoi esercizi, disciplinato nella libertà e calmo, severamente occupato nel suo lavoro e capace di giungere -ancora in età prescolare- alla conquista esplosiva della scrittura e della lettura; è bastato sottrarre il bambino alle influenze negative dell’adulto, alle sue inibizioni e pressioni e collocarlo in un ambiente adatto, costruito in ragione delle sue possibilità d’azione e dei suoi bisogni, perché si rivelasse l’autentica natura dell’infanzia, quella di un piccolo soggetto dotato di una straordinaria energia creativa ed insospettabile potenzialità di sviluppo. Fu la scoperta del segreto dell’infanzia: la scoperta di un soggetto psichico che non richiedeva la semplice custodia dell’asilo tradizionale ma invocava spazio per liberare le proprie tensioni creative nella costruzione della propria personalità. E’ stata quindi la prima studiosa, nonché il primo medico, a riconoscere
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In queste pagine: foto dell’interno della casa dei Bambini
esistevano condizioni di vita così anormali da far risaltare i caratteri di difesa e di stanchezza invece di rivelare l’espressione di energie creative che aspirassero alla vita. Il rinnovamento scientifico dell’educazione partiva dalla costruzione di condizioni di vita scolastica che dessero l’opportunità al bambino di essere libero, di esprimere la sua individualità, di far emergere i tratti spontanei del suo comportamento, per poterne analizzare a fondo la natura.
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ai bambini competenze e abilità fin dalla nascita, contrariamente al pensiero diffuso dei suoi tempi; le sue intuizioni hanno rivoluzionato il modo di pensare all’infanzia, riconoscendo l’importanza di un’educazione a sostegno della progressiva conquista dell’autonomia. “Ti aiuto a fare da solo” è stato uno dei principi fondamentali del suo metodo pedagogico: significava riconoscere le competenze dei bambini e metterli in condizioni di fare da soli, accompagnandoli con fiducia e lasciando che imparassero attraverso tentativi, indirizzati ma non guidati. “La mano costruisce il pensiero” e “i bambini sono maestri nel gioco”, sono altri assunti cardine della filosofia montessoriana, che insegnò fin dal primo Novecento agli adulti a guardare il gioco dei bambini come un lavoro prezioso per la costruzione della loro personalità e ammoniva gli adulti stessi a misurare i loro interventi per non disturbare i processi di apprendimento dei piccoli. Essi dovevano essere lasciati liberi di scegliere e agire come meglio credevano, all’interno di un ambiente appositamente preparato.
Il progetto dell’ambiente Il nuovo metodo di istruzione ideato dalla Montessori si centrava in primis sulla constatazione che i bambini hanno fasi di crescita differenziate, all’interno delle quali sono più o meno propensi a imparare alcune cose per trascurarne delle altre. Da qui ecco allora una consequenziale differenziazione dei piani di apprendimento, “tarati” sulle reali possibilità del bambino, sui diversi “livelli di sviluppo” che la Montessori distinse nello sviluppo umano. Essi si estendono dalla nascita ai sei anni, dai 6 ai 12, dai 12 ai 18 e dai 18 ai 24. In ognuno vide diverse caratteristiche, modalità di apprendimento e diversi imperativi di sviluppo attivo in ognuno di questi piani, chiedendo approcci educativi specifici per ogni periodo. Si tratta di un processo che oggi può apparire scontato, ma che ha richiesto un’evoluzione degli approcci pedagogici e una riflessione attenta, all’interno di questo pensiero, su cosa sia o non sia un bambino e su quali caratteristiche peculiari una creatura del genere, di fatto, abbia. Il risultato di questo sforzo conoscitivo portò la dottoressa ad elaborare un metodo di insegnamento del tutto differente da qualsiasi altro in uso all’epoca. Invece dei metodi tradizionali che includevano lettura e recita a memoria, istruiva i bambini attraverso l’uso di strumenti concreti, il che dava
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risultati assai migliori. Venne rivoluzionato da questa straordinaria didatta il significato stesso della parola “memorizzare”, parola che non venne più legata ad un processo di assimilazione razionale e/o puramente cerebrale, ma veicolata attraverso l’empirico uso dei sensi, che comportano ovviamente il toccare e il manipolare oggetti. La metodologia montessoriana è centrata sull’ambiente e cioè su una struttura puntualmente determinata che adempie al duplice compito di consentire lo sviluppo naturale e creativo del bambino.
“L’ambiente dell’adulto, in questo senso, non è l’ambiente di vita adatto per il bambino ma è piuttosto un cumulo di ostacoli tra i quali egli sviluppa difese, adattamenti deformanti, dove resta vittima di suggestioni, come intrappolato, dove non riesce a esprimersi nel modo in cui potrebbe e saprebbe... C’è un uomo nascosto, un bambino sconosciuto, un essere vivo sequestrato che bisogna liberare”.
È sull’ambiente che Maria Montessori puntò per liberare le manifestazioni infantili: così preparando l’ambiente adatto al momento vitale che i bambini vivevano, risultava spontanea la manifestazione psichica naturale e perciò la rivelazione del segreto del bambino. Nell’accezione montessoriana l’”ambiente” comprende:
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- il materiale scientifico e l’insieme delle attività di vita pratica favorite dalla comunità scolastica; -
la struttura materiale della scuola.
All’EDUCATRICE la Montessori richiedeva una grande umiltà, attributo proprio dell’educatore come dello scienziato. Ad essa spetto il compito di organizzare l’ambiente e di mostrare l’uso corretto del materiale, per poi “assommare in se stessa il senso religioso di attesa della ‘rivelazione’ del mistico e lo spirito di severo controllo critico dello scienziato”: attendere cioè che sia il bambino, tramite reiterati tentativi e coi tempi che gli si rendono necessari, a dimostrare interesse e ad applicarsi alla determinata attività, traendone i giusti spunti. Il MATERIALE DI SVILUPPO COGNITIVO è costruito sul principio dell’isolamento di un’unica qualità, che diventa caratteristica discriminante di ciascun pezzo, e aggregativa di ciascun materiale; è un sistema di oggetti analiticamente raggruppabili secondo una determinata qualità fisica dei corpi (colore, forma, dimensione, suono, stato di ruvidezza, peso, temperatura...) e deve servire a educare i sensi isolatamente, ad abituare il bambino all’autocorrezione e al controllo degli errori commessi nella classificazione (autocorrettivo), ad invogliare il bambino alle attività di gioco-lavoro con esso (attraente). Ad esempio, un gruppo di campane che riproducono i diversi toni musicali, un insieme di tavolette che hanno differenti colori in gradazione, un gruppo di solidi che hanno la stessa forma e dimensioni graduate, altri che invece differiscono tra loro per la forma geometrica ma hanno identico colore, oggetti di differente peso della medesima grandezza, ecc ecc... Ogni singolo gruppo rappresenta la medesima qualità ma con accezioni differenti da elemento a elemento. Tutto ciò è reso didatticamente funzionale in rapporto alla logica della
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- l’educatrice;
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sua costruzione scientifica della sua taratura per graduazioni qualitative sempre più sottili. Una logica simile fa sì che il bambino soddisfi il suo bisogno di ordine e di lavoro e nello stesso tempo possa operare in autonomia, dato che il rigore costruttivo del materiale contiene in sé il controllo dell’errore di una eventuale erronea disposizione. Il bambino rimane comunque sempre libero nella scelta del materiale. Tutto deve scaturire dal suo interesse spontaneo, sviluppando così un processo di autoeducazione e di autocontrollo. Altro carattere del materiale di sviluppo deve essere quello di prestarsi all’attività del bambino. La possibilità di trattenere con interesse l’attenzione infantile non dipende tanto dalla qualità contenuta nelle cose quando dalla possibilità che esse offrono di agire; per rendere interessante una cosa non basta che sia interessante in se stessa, ma occorre che si presti all’attività motrice del bambino, bisogna che ci siano per esempio piccoli oggetti da spostare ed è allora il movimento della mano più che gli oggetti che trattiene il bambino occupato nel fare e disfare, nello spostare e nel riordinare molte volte di seguito le cose, rendendo possibile una occupazione prolungata. Un giocattolo bellissimo, una visione attraente, un racconto stupefacente, possono senza dubbio richiamare l’interesse infantile ma se il bambino deve soltanto vedere o ascoltare o toccare un oggetto immutabile, quell’interesse sarà superficiale e di breve durata. Così, se l’ambiente fosse solo bello ma non combinato in modo da prestarsi all’attività infantile, esso non interesserebbe il bambino che un giorno solo, mentre il fatto che ogni oggetto possa essere rimosso, usato e riportato al suo posto, rende l’attrattiva dell’ambiente inesauribile. Bisogna infine modificare il concetto che molti hanno ancora, cioè che il bambino sia tanto più aiutato quanti più oggetti educativi siano messi a sua disposizione: crediamo erroneamente che il bambino più ricco di giocattoli (=più ricco di aiuti) possa essere il meglio sviluppato. Invece la moltitudine disordinata di oggetti aggrava l’animo: i limiti e gli aiuti conducono il bambino a dare ordine alla sua mente e a facilitare la comprensione delle cose infinite che lo circondano. In ultimo, la scelta della denominazione data alla sua scuola di “casa dei bambini” non fu per la Montessori casuale: era una casa, un ambiente molto simile a quello di vita del bambino, ma una casa speciale, costruita non PER i bambini ma che era DEI bambini, e dunque ordinata in modo
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In questa pagina: esempi di “materiale per lo sviluppo cognitivo“ di produzione industriale ma ispirato agli originali giochi Montessori in uso presso la Casa dei Bambini dal 1907 in avanti
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tale che i bambini la sentissero veramente loro, costruita su misura delle loro possibilità attive e dei loro bisogni. La Montessori insistette sull’ importanza che l’intero arredamento della casa fosse proporzionato alle possibilità del bambino intendendo sottolineare la necessità che l’ambiente, anche nella sua struttura materiale non inibisse l’iniziativa dei bambini, ma all’opposto creasse le condizioni per una vita pratica effettiva: un ambiente educativo su misura per le caratteristiche umane di base e per le specifiche caratteristiche dei bambini in età diverse. La funzione dell’ambiente è quello di permettere al bambino di sviluppare l’autonomia in tutte le aree, in base alle proprie direttive evolutive interne. Oltre ad offrire l’accesso ai materiali adeguati all’età dei bambini, l’ambiente, volutamente strutturato, deve presentare le seguenti caratteristiche: - costruzione in proporzione al bambino e ai suoi bisogni reali - bellezza e armonia - pulizia dell’ambiente - ordine - organizzazione che faciliti il movimento e l’attività - limitazione del numero di strumenti a disposizione Non soltanto gli oggetti per l’educazione sensoriale e per la cultura, ma tutto nell’ambiente va quindi preparato in modo da rendere facile il controllo e l’autocorrezione degli errori; gli oggetti, dal mobilio ai singoli materiali di sviluppo, sono dei denunciatori, alla cui voce ammonitrice il bambino non può sfuggire. I colori chiari e la lucentezza denunciano le macchie, la leggerezza dei mobili denuncia le movenze ancora in perfette e cadendo o spostandosi con poca perizia, rumoreggia sul pavimento, così che tutto l’ambiente è come un educatore severo, una sentinella sempre all’erta e ciascun bambino ne sente gli ammonimenti come se fosse solo davanti a un inanimato e silente maestro. L’estetica è un altro carattere essenziale degli oggetti: il colore, la lucentezza, l’armonia delle forme sono cose che vanno curate in tutto quanto circonda il bambino. Non solo il materiale sensoriale ma tutto l’ambiente è così preparato da attirarlo come in natura i petali colorati attirano gli insetti.
JEAN PIAGET
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Jean Piaget nacque a Neuchâtel nel 1896, primogenito di Arthur Piaget, docente universitario, e di Rebecca Jackson. Dotato di una precocissima intelligenza, all’età di 10 anni, mentre frequentava la scuola Latina, scrisse il suo primo articolo su un passero albino scoperto nella sua città: questo scritto è considerato l’inizio di una brillante carriera scientifica (che lo portò a pubblicare oltre sessanta libri e diverse centinaia di articoli) e testimonia l’interesse per l’osservazione naturalistica, che coronò divenendo, nonostante la giovane età, aiutante del Direttore del Museo di Storia Naturale e iniziando la collaborazione con numerose riviste del settore. Nella tarda adolescenza sviluppò un forte interesse per i molluschi e le conchiglie: ancora prima del termine degli studi i suoi scritti divennero molto noti nell’ambiente dei malacologi tanto che gli venne offerta la cura della sezione molluschi del Museo di Storia Naturale di Ginevra. Dovette declinare l’invito in quanto ancora studente di scuola secondaria. Verso i 15 anni compì una delle letture probabilmente decisive per gli orientamenti del suo futuro pensiero: l’”Evoluzione creatrice”, di Bergson, che lo indusse a credere di poter dare una spiegazione biologica non solo dei fenomenti del mondo naturale ma anche dei fenomeni mentali. Dopo la scuola superiore studiò scienze naturali presso l’Università di Neuchâtel dove ottenne anche il Dottorato. Dopo un semestre presso l’università di Zurigo, nel corso del quale sviluppò un forte interesse per la psicoanalisi, lasciò la Svizzera e si trasferì in Francia. Trascorse un anno lavorando presso l’École de la Rue de la Grange-aux-Belles un istituto per ragazzi creato da Binet. Qui Piaget, dopo un inizio non entusiastico, effettuò una serie di interviste finalizzate alla standardizzazione dei test di Binet, e rimase progressivamente affascinato dai processi di pensiero che parevano guidare le risposte; decise di rimanere, e nei due anni successivi compì i suoi primi studi sperimentali sull’età evolutiva. Nel 1921 Claparède lo chiamò a lavorare presso l’Istituto J.J.Rousseau di
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Biografia
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Ginevra, presso il quale iniziò le sue ricerche sugli schemi mentali dei bambini in età scolare. Fu successivamente titolare di diverse cattedre: psicologia, sociologia e storia delle scienze a Neuchâtel dal 1925 al 1929; storia del pensiero scientifico a Ginevra dal 1929 al 1939; psicologia e sociologia a Losanna dal 1938. Dopo la seconda guerra mondiale divenne presidente della Commissione Svizzera dell’UNESCO. Diresse il Bureau International d’Education (Ufficio Internazionale dell’Educazione) dal 1929 al 1967, e nel 1955 fondò e diresse fino alla sua morte il Centre International d’Epistémologie Génétique (Centro internazionale di epistemologia genetica). Fondò la school of sciences presso l’università di Ginevra e vinse nel 1979 il Premio Balzan per le scienze sociali e politiche.
Pensiero Jean Piaget viene, non a caso, descritto da Howard Gardner come “il primo che ha preso sul serio i bambini”. Egli dice innanzitutto di se stesso: “Naturalista e biologo per formazione, interessato ai problemi epistemologici senza aver mai intrapreso uno studio formale, né aver superato esami di psicologia, la mia preoccupazione centrale è sempre stata quella di determinare il contributo dell’attività del soggetto e gli aspetti limitanti dell’oggetto nel processo della conoscenza. Fondamentalmente è stato il desiderio di risolvere questo problema utilizzando il metodo sperimentale che mi ha condotto nel campo della psicologia dello sviluppo.” Per Piaget, dunque, lo studio della psicologia infantile non è fine a se stesso, ma costituisce il terreno di analisi e verifica dell’epistemologia: il che significa che la psicologia infantile, in quanto psicologia genetica (=studio della genesi e dello sviluppo dei processi cognitivi e della costruzione delle strutture mentali, nonché l’influenza che l’inculturazione esercita sulla organizzazione mentale, dalla primissima età al termine della fase involutiva) costituisce il fondamento sperimentale e la sede di verifica di ogni teoria della conoscenza. L’epistemologia genetica è una particolare prospettiva psicologica che intende ricollegare la validità della conoscenza al modello della sua costruzione. In altre parole, essa mostra che i metodi usati per ottenere e creare la conoscenza influenzano la validità della conoscenza risultante. Essa inoltre spiega il processo tramite il quale un essere umano sviluppa le sue abilità cognitive nel corso della sua vita, a partire dalla nascita ed
- Fase senso-motoria (0-2 anni); nella quale il bambino utilizza i sensi e le abilità motorie per esplorare e relazionarsi con ciò che lo circonda e inizia a distinguere ta sè e l’ambiente, imparando che le azioni hanno degli effetti e che egli può anticiparne il risultato - Fase pre-operatoria (2-7 anni); in questo stadio il bambino è in grado di usare i simboli, intesi come entità che ne rappresentano altre, sviluppando l’imitazione e il linguaggioi verbale (un esempio è il gioco creativo nel quale il bimbo usa, per esempio, una scatola per rappresentare un tavolo, dei pezzetti di carta per rappresentare i piatti ecc.) - Fase delle operazioni concrete (7-11 anni); dai 6/7 agli 11 anni il bambino non solo utilizza simboli ma è in grado di manipolarli in modo logico. Un’importante conquista di questo periodo è l’acquisizione del concetto di reversibilità, cioè che gli effetti di un’operazione possono essere annullati da un’operazione inversa. - Fase delle operazioni formali (dai 12 anni in poi); in questa fase il bambino riesce a formulare pensieri astratti: si tratta del cosiddetto pensiero ‘ipotetico-deduttivo’, grazie al quale può riferirsi mentalmente ad oggetti non presenti nella sua esperienza, ma soltanto ipotetici, e ricavare da essi tutte le possibili conseguenze logiche. Il soggetto è ora in possesso degli stessi schemi di pensiero dell’adulto ed in particolare dello scienziato, che per Piaget rappresenta il punto terminale dello sviluppo cognitivo umano.
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attraversando stadi sequenziali di sviluppo, con particolare attenzione ai primi anni dello sviluppo cognitivo. Piaget dimostrò innanzi tutto l’esistenza di una differenza qualitativa tra le modalità di pensiero del bambino e quelle dell’adulto; individuò poi delle differenze strutturali nel modo con il quale, nelle sue diverse età, l’individuo si accosta alla realtà esterna ed affronta i problemi di adattamento a tale realtà. Sviluppò così una distinzione delle fasi dello sviluppo cognitivo, individuando quattro periodi fondamentali dello stesso, comuni a tutti e che si susseguono sempre nello stesso ordine.
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Il progetto dell’ambiente Per Piaget anche l’ambiente, considerato in senso lato, svolge il suo ruolo fondamentale in quanto i condizionamenti che da esso derivano concorrono a determinare le idee e a formare la conoscenza, che è dunque vista come un concetto dinamico indissociabile dall’interazione soggettoambiente. La teoria piagetiana viene definita “genetica” perché segue gli sviluppi dell’intelligenza e dei sistemi di conoscenza attraverso le fasi proprie di ciascuna età spiegando il passaggio dall’una all’altra. Soprattutto studia lo sviluppo delle funzioni e delle strutture cognitive legato all’intelligenza, come capacità che permette al soggetto di adattare il suo comportamento alle modificazioni dell’ambiente. La formazione dell’intelligenza ha carattere costruttivo, attraverso lo scambio dinamico che il soggetto intrattiene con l’ambiente che implica equilibrazione per modificazioni successive in virtù delle quali ogni struttura mentale entra a far parte della struttura precedente con funzioni di ristrutturazione dell’insieme. Sotto la spinta di nuovi stimoli si formano progressivamente nuove risposte:
a) assimilazione: acquisizione di stimoli esterni;
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b) accomodamento: modificazione della struttura cognitiva in base all’acquisizione di schemi nuovi;
Il soggetto non possiede quindi una struttura a priori, ma essa si costruisce, attraverso trasformazioni, autoregolazioni diverse a seconda dell’età e degli stadi evolutivi. L’educatore deve avere una preparazione psicologica ed è tenuto ad utilizzare questo bagaglio conoscitivo ideando un insieme di tecniche da sperimentare e adattare personalmente. Certo Piaget ritiene che i tempi e la successione delle fasi di sviluppo psicologico siano immodificabili, togliendo efficacia all’intervento dell’adulto che non può né cambiare né accelerare queste fasi. L’educazione dunque può solo preparare l’ambiente alla loro comparsa o al loro rinforzo. L’educatore deve adeguare le sue richieste al livello di sviluppo dell’allievo e costruire situazioni perché questo adeguamento si produca. A tale proposito la centralità del fare costituisce il punto di vicinanza di Piaget con l’attivismo in quanto il motore dell’intelligenza è “il far fare”. Perciò lo scienziato svizzero, se ha sempre insistito sulla necessità di un adeguamento della scuola alle scoperte della psicologia, ha esposto un nuovo profilo professionale degli insegnanti che conciliasse i contenuti disciplinari con una solida preparazione psicologica e un’adeguata capacità di gestione dei metodi e della scuola secondo valenze interdisciplinari. Il metodo utilizzato da Piaget per studiare i bambini non consiste, a differenza dei suoi predecessori, nell’osservazione del soggetto o nella somministrazione di test, ma si basa sul fatto di lasciare parlare il bambino in modo che l’indagine psicologica si presenti come una conversazione. Egli introduce dunque l’intervista clinica, che ha come obiettivo quello di evidenziare i ragionamenti del bambino quando si deve confrontare con situazioni di diversa difficoltà. Ai bambini, di fasce di età differenti, vengono poste alcune domande e si individua cosa hanno in comune le risposte dei soggetti appartenenti a un determinato stadio, poi si confrontano gli stadi successivi trasversalmente e si analizza lo sviluppo della conoscenza.
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c) adattamento: si tratta dell’autoregolazione delle capacità assimilativa e accomodativa.
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Questo metodo comporta una messa in discussione delle affermazioni del bambino al fine di comprenderne la logica. Pertanto Jean Piaget non arriva, nella sua psicologia dello sviluppo, a formulare consigli sulle qualità dell’ambiente in cui è bene far vivere, crescere, interagire i bambini, poiché l’obiettivo dei suoi studi non è tanto quello di giungere a un metodo pedagogico, ma di porre le condizioni teoriche fondamentali perché magari altri possano implementare i loro personali metodi. Non si interessa a come far crescere, ma come cresce spontaneamente il fanciullo e in che maniera si accresce la sua conoscenza e la sua comprensione del mondo. Grazie a lui sono state poste le le basi sulle quali si sono costruite tutte o la maggior parte delle teorie e delle metodologie didattico-pedagogiche del Novecento.
ELINOR GOLDSCHMIED
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Elinor Violet Sinnott Goldschmied nacque nel 1910 a Gloucester, nel Gloucestershire (UK), da una famiglia di campagna molto numerosa, quarta di 7 figli, dei quali 5 femmine. Fin da piccola, anche in virtù del fatto del vivere in una famiglia così grande, si abituò alle larghe compagnie, imparando l’importanza dell’unità e del divertimento di gruppo. Insieme ai suoi cari, riuscì a superare il peso delle gravi perdite che funestarono i suoi primi anni, come la morte della madre prima e della matrigna poi.Nella pubertà si interessò al teatro, ma dopo aver terminato la High School Clifton di Bristol e conseguito un diploma per l’insegnamento nelle scuole primarie a Darlington, iniziò a dedicarsi all’ambito educativo delle fasce infantili. Proseguì gli studi al Dipartimento di Salute Mentale della London School of Economics dove ricevette una borsa di studio e la qualifica di assistente sociale psichiatrico. Proprio qui nel 1937 conobbe Guido Goldschmied, un ebreo di origini bavaresi residente con la famiglia a Trieste, ma che dopo la promulgazione delle leggi razziali fasciste si era trasferito a Londra per seguire corsi di diritto inglese. I due si sposarono lo stesso anno, ma purtroppo il marito venne incarcerato durante il conflitto e, anche dopo averlo riaccompagnato in Italia, non sopravvisse a lungo alla fine dello stesso: morì nel 1955 di cancro, lasciandola con un bimbo piccolo. In questo periodo, Elinor entrò nel pieno dei suoi studi sull’infanzia con l’aiuto di esperti del settore come Anna Freud, Susas Isaacs e Donald Winicott. Iniziò l’esperienza attiva sul campo alla fine della guerra, dapprima aprendo un asilo nido a Cambridge e in seguito un altro a Londra. Qui seguì studi sulla psicologia dei bambini e sulle loro esigenze, studiando la possibile esistenza di danni sensoriali e psicologici dovuti all’inattività e la mancanza di relazioni d’amicizia e affettive. Nel 1948 diviene attiva nella cooperazione internazionale a favore
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Biografia
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dell’infanzia. Nel caso specifico italiano, non mancavano solamente strutture e infrastrutture, ma anche il dialogo culturale e scientifico internazionale, del tutto assente da oltre un ventennio, con vacanze di rilievo anche in sede accademica. Non ci si preoccupava di educazione, pedagogia dello sviluppo e simili: il problema più grosso che s aveva allora nei riguardi dell’infanzia era il rispetto delle norme igieniche. L’impegno di Elinor trovò nuova espressione nella formazione professionale di chi si occupava dei bambini più piccoli, dapprima grazie alla collaborazione con l’American Friends Service Committee (finanziava corsi per operatrici impegnate nei servizi residenziali per bambini senza famiglia), poi con alcuni servizi residenziali italiani, con enti pubblici (l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia e il Comitato provinciale Educazione Sanitaria di Trieste, Milano e Torino, il Villaggio della Madre e del Fanciullo a Milano) e a partire dal 1971 (anno in cui sono istituiti i nidi) operando direttamente presso i servizi comunali. La collaborazione con Elda Scarzella, la responsabile del Villaggio della Madre e del Fanciullo di Milano, tra gli anni ‘50-’60 fu particolarmente significativa nel percorso professionale di Elinor: a lei va riconosciuto il merito di aver, in molti casi, stimolato in questi contesti, buone prassi di lavoro finalizzate a riconoscere la centralità del bambino e l’importanza di relazioni significative con la famiglia. Risale al 1954 il suo primo filmato sullo sviluppo psicologico del bambino ”Lasciatemi almeno giocare”, al quale seguirono altri cinque anni di osservazioni sistematiche sulla concentrazione dei bambini nel gioco in età precoce, prima che inizino a camminare. La conoscenza, ormai molto puntuale, dei bisogni dei bambini e del piacere da loro espresso in relazione a risposte di gioco adeguate, le fecero ideare la proposta del “cestino dei tesori”, grazie al quale è molto nota in gran parte dei nidi italiani del centro nord. Nel ‘59 tornò in Inghilterra dedicandosi alla salute mentale dei bambini piccoli, ma proseguendo anche incessantemente, per circa venti anni, la formazione delle educatrici in Italia, Inghilterra, Spagna. Durante questi anni fecondi, Elinor concepì un’ulteriore proposta di gioco che si rivolge a bambini in età compresa tra 12 e 20 mesi: il “gioco euristico”. Continuò la sua attività di scrittrice e formatrice di nuove generazioni di educatrici fino alla fine; si è spenta a Londra, nel febbraio del 2009.
Il Villaggio era una residenza per mamme sole con bambini piccoli, creato per accogliere le giovani madri che si trovavano in difficoltà alla fine della guerra. Nel 1946 la responsabile del Centro chiese alla Goldschmied di organizzarvi un nido con un duplice intento: perché i bambini potessero avere un luogo di vita diverso dalle stanze delle mamme, incontrare gli altri bambini in un ambiente pensato per loro e perché le mamme potessero sperimentare, attraverso l’osservazione, la competenza dei bambini, le capacità che i bambini esprimono, se si trovano in presenza di un ambiente accogliente e di materiali appropriati. Nell’Archivio del Villaggio della Madre e del Fanciullo di Milano esiste tutt’ora una cartella Goldschhmied che contiene una presentazione del nido. Lo scritto che segue è, probabilmente redatto da Elda Scarzella nella seconda metà degli anni ’50, ma la realtà descritta è precedente al 1952. Ci offre un’immagine vivace di come Goldschmied interveniva nei servizi: “Nel 1949 ci fu l’incontro con Elinor Goldschmied, assistente sociale psichiatrica che offriva la sua collaborazione nell’introdurre per il bambino il gioco come elemento vitale per la crescita, così come il cibo e le cure materne. Si era osservato che quando il bambino è ancora neonato, il sentimento della mamma si esprime spontaneamente in tutte le cure che il Sopra, Elda Scarzella al Villaggio della Madre e del Fanciullo bambino richiede: l’alimentazione, il bagno, il di Milano con una mamma e il suo bambino cambio degli indumenti. Ma quando il neonato passa da uno stadio di completa dipendenza ai primi sforzi di indipendenza, è difficile far capire alla madre che il suo atteggiamento deve cambiare per rispondere alle esigenze del bambino. Si mostrava che il bambino di quattro mesi, messo a tappeto, fa le prime esplorazioni del mondo che lo circonda: una pallina, un oggetto di legno, un sonaglio stimolano l’attività motoria. Le madri, nella loro ansia, vedono il pericolo ovunque e non sanno osservare l’espressione di trionfo
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L’esperienza al Villaggio della Madre e del Fanciullo
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nell’afferrare un oggetto e, più tardi, nell’alzarsi da solo nel box, o la sua profonda concentrazione quando cerca di mettere il cibo in bocca rifiutando gli aiuti. Nel guardare la madre dobbiamo mantenere un equilibrio fra il suo interesse e la possibilità del bambino. [...] Ci rendevamo conto che stavamo introducendo un nuovo modo di stare con il bambino, portandole a capire che il bambino deve avere il tempo necessario per acquistare le nuove conoscenze e conquistare la sua autonomia. Due camere nelle baracche prefabbricate sono state messe a disposizione per il nido; tre sgabelli con dei catini ad altezza dei bambini introducevano la possibilità di dare al bambino il modo di iniziare a lavarsi da solo e di scoprire la gioia di giocare con l’acqua. L’attrezzatura è stata messa insieme con vecchie cassette, con barattoli di Liebig riempiti di sassolini, cucchiai di legno, spolette delle macchine da cucire, ecc. Le madri collaboravano con repressa diffidenza, seguita dalla sorpresa e dalla delusione che quegli oggetti rispondessero agli interessi dei bambini più dei giochi costosi che, con sacrificio, avevano comprato. Una cassetta di sabbia dava al bambino la gioia di immergervi la manina, di osservare, rialzandola, la sabbia che scivola fra le dita; gioia che poteva essere paragonata al piacere di giocare con l’acqua…” Come già citato, il lavoro della Goldschmied si realizzava soprattutto nella formazione delle educatrici, che, all’occasione, come in questo caso, erano le mamme stesse. Tale formazione veniva organizzata sempre attraverso la pratica dell’educazione attiva, coinvolgendosi e chiedendo coinvolgimento: era fondamentale, per Goldschmied, che le educatrici avessero la possibilità di osservare e quindi capire per esperienza, quanta passione, concentrazione, progettualità, perseveranza ogni bambino può sviluppare se messo in condizione di prendere iniziative e svilupparle seguendo un ritmo personale. Offrire ai bambini occasioni di gioco libero non vuol dire chiedere alle educatrici di “non fare”, vuol dire chiedere loro di creare le condizioni perché il bambino “faccia”. Perché il bambino giochi di sua iniziativa è necessario che l’ambiente gli metta a disposizione materiali diversi dai giocattoli confezionati, piuttosto materiali che facciano venir voglia al bambino di “fare”, quindi materiali che forniscano opportunità di percezioni variate e gradevoli e si prestino all’esplorazione e alla combinazione. Praticare il gioco libero dei bambini non è “dare” attività ai piccoli “sottraendola” ai grandi, ma permettere ai grandi di scoprire il senso profondo del termine attività, che non è eccitazione né il fare che appare dall’esterno, ma l’essere impegnati in un progetto e saperlo coltivare, prima di tutto attraverso l’attenzione.Il “Cestino dei tesori” e i materiali per il “Gioco euristico”, le proposte educative per le quali oggi Elinor Goldschmied è nota, sono la diretta eredità di quel lavoro e di quelle esperienze.
Il percorso di Elinor Goldschmied è un’illustrazione esemplare di come progetti di lavoro e anche metodi che oggi sono proposti come importanti riferimenti pedagogici si siano costruiti nel corso del ‘900 in modo non lineare, attraverso un intreccio inestricabile di preoccupazione militante per urgenti bisogni sociali e di preoccupazione educativa nutrita da aggiornate conoscenze scientifiche. Goldschmied come le altre educatrici nominate si è messa al lavoro là dove i bambini apparivano particolarmente in difficoltà e ha affrontato le emergenze che la situazione storica in cui viveva presentava, immaginandosi soluzioni che hanno poi migliorato la qualità dell’educazione per tutti. Elinor Goldschmied si era occupata di bambini allevati senza o lontani dalla famiglia. In quel contesto aveva maturato la convinzione che la possibilità di giocare è, assieme alla sicurezza affettiva che prende corpo in una relazione privilegiata con un adulto di riferimento, l’elemento indispensabile perchè nel bambino si sviluppi la voglia di crescere, la possibilità di essere al mondo come un soggetto autonomo e responsabile. Gli altri punti salienti del pensiero della Goldschmied derivarono tutti da qui. Era per esempio, sua convinzione: - che ogni bambino fosse una persona, competente fin dalla nascita e che dovesse essere libero in ogni momento di poter prendere iniziative e seguire il suo ritmo personale; - che i servizi prescolastici dovessero essere di qualità, non solo per una questione di fondi ma piuttosto grazie all’attenzione continua verso i dettagli della vita del servizio;
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Pensiero
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- che la qualità della formazione delle operatori/operatrici che stanno a contatto coi bambini fosse molto importante e perciò da curare in particolar modo, sia negli aspetti teorici che pratici, tramite il coinvolgimento diretto delle educatrici, le quali dovevano avere la possibilità di osservare e capire attraverso l’esperienza diretta quanta perseveranza e progettualità ogni bambino potesse sviluppare, se messo nelle condizioni adeguate; il vero compito dell’educatrice dunque era quello di predisporre le condizioni perché il bambino “facesse da solo”; - che fosse importante per il bambino poter vivere la giornata in un “piccolo gruppo”; - che il bambino nel gioco fosse “indipendente” e che l’adulto avesse solo un ruolo di regia e dovesse imparare a rimanere sullo sfondo qualora il bambino non richiedesse il suo intervento; - che l’adulto dovesse allenare lo sguardo a riconoscere le capacità creative dei più piccoli;
La Goldschmied inoltre ha riportato l’attenzione sui cosiddetti “materiali di recupero”, che potessero stimolare la curiosità e la voglia di sperimentare del bambino. I giocattoli confezionati non possono fornire le stesse opportunità di percezioni olfattive e tattili, di esplorazione e combinazione, soffocano la creatività e l’inventiva spontanea, poiché guidano e, in un certo senso, limitano le possibilità di gioco che un bambino può avere con quell’oggetto. Le attività elaborate dalla Goldschmied, chiamate, “Cestino dei tesori” e “gioco euristico”, utilizzate in quasi tutti gli asili nido, invece, sguinzagliano la fantasia del bambino e lasciano che sia lui stesso a trovare modi nuovi di utilizzare, scoprire, sperimentare, esplorare l’oggetto, il colore, la forma, il materiale. Il CESTINO DEI TESORI è una tecnica ludica, sperimentata oltre trent’anni fa da Elinor Goldschmied, una psicopedagogista britannica e rivolto ai bambini di età compresa fra i 6 e i 10 mesi. In questo periodo, infatti, il livello di maturazione neuro-muscolare consente al bambino di mantenersi in posizione seduta senza sbilanciarsi; è inoltre in questo periodo che si sviluppa e si affina la prensione manuale che consente di afferrare oggetti di piccole dimensioni. Ecco perchè un’attività da svolgere seduto risulta efficace per appagare la sua curiosità verso gli oggetti. Il cestino dei tesori consiste in un cesto di vimini o altro materiale naturale di circa 35 cm di diametro e circa 12 cm di altezza riempito con circa 60/100 oggetti vari che hanno la caratteristica di essere “non strutturati”, sono cioè oggetti molto semplici fatti esclusivamente con materiali naturali, che offrano la massima varietà di stimoli ai cinque sensi: al tatto attraverso la diversa consistenza, forma e peso degli oggetti, all’olfatto attraverso la varietà di odori dei materiali, al gusto, coi diversi sapori offerti dai materiali, all’udito attraverso i diversi rumori offerti dalla manipolazione degli oggetti, alla vista attraverso il colore, la forma, la lunghezza e la lucentezza degli oggetti. Da notare come nella versione originale, siano banditi gli oggetti di plastica e qualunque oggetto di altro
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- che l’ambiente dovesse favorire l’adulto durante lo svolgimento del proprio lavoro, affinchè egli potesse lavorare con agio, senza doversi interrompere continuamente e senza disturbare, conseguentemente, l’attenzione del bambino verso ciò che sta facendo; - che il pranzo fosse un momento conviviale e affettivo fondamentale.
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materiale sintetico, vivamente sconsigliati dalla Goldschmied stessa, usando parole molto interessanti : “Se guardiamo ai giochi comunemente forniti ai bambini, sia a casa che al nido, essi sono quasi esclusivamente di plastica o di materiale sintetico. Dobbiamo chiederci che tipo di stimolo sensoriale offrono questi oggetti, ricordando che a questa età il tatto e la conoscenza attraverso la bocca sono importanti quanto la vista. Un esercizio che abbiamo fatto con i genitori e le educatrici illustra questo aspetto. Ai partecipanti, seduti in cerchio su delle sedie o sul pavimento, è stato chiesto di chiudere gli occhi. Abbiamo distribuito loro un certo numero di giochi di plastica che ognuno era invitato ad analizzare per un momento, per poi passarlo al vicino, così che ognuno avesse la possibilità di toccare ogni oggetto. Abbiamo chiesto loro, sempre ad occhi chiusi, di comunicare le loro impressioni, che sono state scarse e esitanti: “morbido”, “nodoso”, “duro”, “non profuma di buono”. Alcuni non dicevano nulla. L’esercizio è stato ripetuto con gli oggetti del Cestino dei Tesori. Il passaggio degli oggetti non era più così veloce; essi esitavano ad abbandonarli, volevano sfregarseli sul viso, picchiettarli, scuoterli, annusarli e persino leccarli. Alla fine sono uscite le definizioni del materiale, con discussioni animate sui diversi oggetti e con il tentativo di scoprire cosa fossero. Da ultimo gli oggetti sono stati messi, in due file, sul pavimento e i partecipanti hanno aperto gli occhi. Dopo questa esperienza non hanno avuto difficoltà a riconoscere la monotonia dei giocattoli di plastica dal punto di vista di un bambino, a differenza dei materiali naturali che offrono un’enorme varietà di sensazioni attraverso bocca, orecchie, naso e muscoli, nonché occhi.” Ai bambini, seduti di fronte al cesto viene lasciata massima libertà di esplorare gli oggetti che preferiscono, gli oggetti vengono afferrati,
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toccati, passati da una mano all’altra e portati alla bocca; esaurita l’esplorazione di un certo oggetto, il bambino ne sceglierà un altro. Il ruolo dell’adulto in questo gioco è quello del mero osservatore, la sua presenza ha lo scopo di garantire serenità senza intervenire. Durante il gioco col cesto dei tesori i bambini dimostrano una grande capacità di concentrazione, il gioco riesce a coinvolgerli per intervalli di tempo che, considerata l’età, sono sorprendenti.
Il GIOCO EURISTICO invece consiste nell’offrire ad un gruppo di bambini oggetti di diversa natura con i quali possono giocare liberamente senza l’intervento dell’adulto. Questa attività è stata ideata per bambini d’età compresa tra i 12 – 24 mesi: in questo periodo è più vivo l’interesse per la scoperta e la sperimentazione degli oggetti, di come si comportano nello spazio a seconda di come sono maneggiati, di come possono essere messi in relazione tra di loro. Sicuramente con questa attività possono essere coinvolti e stimolati adeguatamente anche i bambini d’età maggiore, tra 24 e 36 mesi. Il gioco euristico è inteso come attività di esplorazione spontanea che il bambino
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Qui accanto e a pagina precedente: il Cestino dei Tesori. In esso vengono solitamente inseriti oggetti di origine naturale (pigne, conchiglie, castagne, pietre di fiume, spugne naturali, gusci di noce di cocco...), oggetti di materiali naturali (gomitoli di lana/ cotone, sottopentola in paglia, pennelli da barba, spazzolino da denti, pettini in legno, spazzole in setole naturali...), oggetti di legno (sonaglini, mollette da bucato, anelli delle tende, cucchiai, portauova...), oggetti di metallo (mazzi di chiavi, catenelle, fruste da cucina, pentolini, scatole dei sigari, coperchi dei vasetti di marmellata, piccole grattuge, formine per biscotti, tappo da vasca con catenella...), oggetti in pelle, tessuto, gomma, pelo (piumino per cipria, pezzi di tubi di gomma, palla da tennis, borsette in pelle con cerniera, pacchettini ben cuciti di tessuto con lavanda, timo, chiodi di garofano, calzascarpe di osso...)
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compie su materiale di tipo “non strutturato” “ povero”. Materiale “povero” significa che non fa parte dei giocattoli tradizionali, ma si tratta di semplici oggetti d’uso domestico, comune. A scuola, nella raccolta del materiale sono coinvolti anche i genitori e il gioco è arricchito da numerosi oggetti di vario genere, associabili tra loro, con i quali i bambini possono compiere azioni combinate: contenitori piccoli da inserire in quelli grandi, palline da impilare, oggetti che rotolano, rocchetti, teli, tappi di sughero, mollette, nastri di velluto, pizzo, scatole, ecc. Anche durante quest’attività l’adulto osserva: al bambino basta solo un sorriso di conferma per non abbandonare l’oggetto e continuare ad esplorarlo; si viene così a creare una comunicazione tranquillizzante e non invadente tra l’adulto ed il bambino. Proponendo questo gioco in modo costante sicuramente si migliorerà la concentrazione del bambino, ci sarà sempre più coinvolgimento oculo-motorio, si svilupperanno le capacità sensoriali-percettive (caldo-freddo), uditivo (vari rumori), la nascita dei primi concetti logici (dentro-fuori, aperto-chiuso), per poi arrivare a scoprire l’uso e la funzione dell’oggetto in modo creativo. In questa fase, il gioco che i bambini preferiscono è quello di infilare, svuotare, lanciare, battere gli oggetti tra loro, portarli alla bocca. Solo successivamente sperimentano la capacità di allineare, impilare, fare, disfare secondo schemi ripetitivi che conferiscono loro sicurezza. Perché il bambino possa esprimere al meglio la sua creatività, fantasia e, soprattutto le proprie emozioni dal gioco euristico, è consigliabile proporlo in uno spazio delimitato e sgombro da altri giochi o distrazione, per permettere ai bambini a cui è proposto l’attività di muoversi liberamente in un clima di serenità e tranquillità. Il materiale è abbondante e rinnovato sistematicamente in modo da
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permettere al bambino il massimo delle combinazioni ed è contenuto in sacchetti appesi al muro,a casa si possono usare i sacchetti e, una volta finita l’attività, si possono riporre. Per evitare che i bambini si ritrovino tutti concentrati nel medesimo spazio, l’educatrice si preoccupa di preparare precedentemente l’attività, distribuendo gli oggetti in mucchietti separati o misti, saranno poi i bambini a scegliere l’oggetto da esplorare. Quando l’attività volge verso la conclusione, i bambini raccoglieranno gli oggetti dietro l’incoraggiamento dell’educatrice riponendoli nei vari sacchetti e appendendoli ognuno al proprio gancio. Rimettere in ordine fa parte del gioco ed è una delle abitudini più importanti da fare acquisire ai bambini. Riporre ogni oggetto nel proprio contenitore favorisce lo sviluppo di concetti logico-matematici.
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LORIS MALAGUZZI e il REGGIO APPROACH Biografia Loris Malaguzzi è stato un famoso pedagogista italiano, nato a Correggio il 23 febbraio del 1920, laureatosi in Pedagogia presso l’Università di Urbino. Malaguzzi iniziò la sua attività di insegnamento presso le scuole elementari nel 1940, trascorrendo successivamente gli anni dal 1941 al 1943 a Sologno, un borgo sull’Appennino reggiano. Nel 1945 aderì con entusiasmo all’ambizioso progetto di un gruppo di persone comuni, contadini e operai, che, in un piccolo borgo di campagna nei pressi di Reggio Emilia, decisero di costruire e gestire una scuola per i più piccoli, dal cui esempio nacquero in seguito altre scuole in periferia e nei quartieri più poveri della città, tutte autogestite. Nel 1950, al rientro dal corso di Psicologia che seguì a Roma presso il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), iniziò a lavorare come psicologo presso il Consultorio Medico Psicopedagogico Comunale di Reggio Emilia per bambini in difficoltà, affiancando tale attività a quella dell’insegnamento nelle scuole autogestite. Nel 1963 il Comune di Reggio Emilia cominciò ad organizzare una rete di servizi educativi che includeva l’apertura dei primi asili per bambini dai 3 ai 6 anni, un atto mai visto prima che costituisce ancora oggi un importante pietra miliare nella storia della pedagogia e dell’istruzione in Italia: allora per la prima volta la gente affermava il proprio diritto a fondare una scuola laica per bambini piccoli. Negli anni immediatamente successivi (1970) si aggiunsero in più le richieste da parte delle donne, ormai madri lavoratrici, di poter avere degli asili nido, delle strutture che ospitassero i bambini in età prescolare per consentire anche a loro di avere una fonte di reddito personale. Ma la novità rivoluzionaria era che tali strutture non erano più
Pensiero “Tutti quelli che si sono messi ad indagare seriamente sui bambini hanno sempre finito per scoprirne non tanto le debolezze e i limiti quanto la forza sorprendente e straordinaria delle loro potenzialità, dei loro talenti e del loro immediato protagonismo interattivo.” Questo diceva Loris Malaguzzi parlando dei bambini: non “tabulae rasae”, ma persone che hanno in sé tutte le potenzialità per svilupparsi, incontrando ambienti, linguaggi diversi, occasioni di esplorazione ed espressione. L’infanzia va per questo vista e vissuta come un tempo
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soltanto concepite come luoghi dove i bambini venivano custoditi e curati durante le ore di lavoro dei genitori, ma erano finalmente immaginati come Opportunità, per il bambino, di iniziare un percorso formativo di crescita e di esperienze creative insieme ad altri bambini e a genitori o responsabili, dove i piccoli non erano più solo “persone acerbe e immature” ma persone “piene di potenzialità”, che dovevano essere lasciate libere di esprimersi. Nel 1971 Malaguzzi stesso curò il primo testo laico riservato agli insegnanti, ovvero “Esperienze per una nuova scuola dell’infanzia - Atti del seminario di studio tenuto a Reggio Emilia il 18-19-20 marzo, 1971” che racchiudeva tutta l’esperienza delle scuole di cui fu consulente, mentre nel 1980 fondò a Reggio Emilia il Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia. Negli anni ’90 i primi riconoscimenti: nel dicembre del 1991, la rivista americana Newsweek nominò l’asilo Diana, situato all’interno dei giardini pubblici di Reggio Emilia, “la più avanzata istituzione per la prima infanzia nel mondo”, la miglior struttura in cui far crescere i propri figli, portando l’opera di Malaguzzi davanti agli occhi della comunità internazionale, dove suscitò un enorme interesse, soprattutto negli Stati Uniti. A questo riconoscimento fa seguito nel 1992 il prestigioso Premio Lego (Danimarca), mentre nel 1993 riceve a Chicago il Premio Kohl. Purtroppo nel gennaio del 1994 a Reggio Emilia, Malaguzzi morì improvvisamente, ma la sua opera ormai avviata e la sua eredità gli sopravvissero e continuano tutt’ora a dare frutti: lo stesso anno venne fondata “Reggio Children”, centro internazionale per la difesa e lo sviluppo dei diritti e delle potenzialità dei bambini. Il 9 febbraio 2001 l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli conferisce la medaglia d’oro alla memoria al «merito della scuola, della cultura e dell’arte».
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di immense potenzialità nel quale i bambini, attraverso relazioni ed esperienze, possono cominciare a costruire la conoscenza e ad esprimere la propria personalità. Ogni bambino, come ogni essere umano, è costruttore attivo di saperi, competenze ed autonomie, attraverso originali processi di apprendimento e possiede cento linguaggi, cento modi di pensare, di esprimersi, di capire, di incontrare l’altro. E’ responsabilità degli adulti valorizzare tutti i linguaggi, verbali e non verbali, accreditando loro pari dignità, avendo come compito prioritario quello di ascoltarli, riconoscerli favorendo situazioni in cui possano emergere e creare valore aggiunto. Nonostante Malaguzzi sostenesse che gran parte delle sue teorie fossero state mutuate dall’umiltà e dall’eccezionalità delle sue esperienze, una mappa delle letture e degli interessi che ha perseguito può essere stilata. Le personalità con cui si riscontra maggiore affinità sono state Rousseau, Erikson (l’importanza dello spirito del gioco), Gardner (forme di intelligenza e delle menti aperte), Schaffer (rapporto tra linguaggio e interazione sociale), Vygotsky (collaborazione tra linguaggio e pensiero per dar corso alle idee) e Piaget (importanza dello studio sulla prima identità dello sviluppo del bambino). Tuttavia, al di là della cattedraticità di alcuni riferimenti, Malaguzzi può essere a tutti gli effetti considerato un “movimentista della pedagogia”: osservava quotidianamente i bambini, confrontava le proprie conoscenze e teorie con bambini veri, cioè che
I capisaldi del pensiero malaguzziano potrebbero essere riassunti così: - il bambino è al centro del processo educativo, l’attenzione primaria va al bambino e non alla “materia da insegnare”, - il bambino è “soggetto di diritti”, di intelligenza e coscienza e dev’essere sollecitato a esprimere il sé, - al bambino si può insegnare il rispetto per gli altri, insegnandogli che anche gli altri bambini sono “soggetti di diritti”, - i linguaggi attraverso cui è possibile esprimere il “sé” sono numerosi e bisogna proporli al bambino affinché egli possa esprimersi attraverso quello che gli è più congeniale, - si educa attraverso la trasversalità culturale e non con il sapere diviso in modo settoriale (i “cento linguaggi dei bambini”), - il progetto è molto più importante della programmazione a lungo termine e le attività vengono sempre pianificate cooperativamente; in questo è delineabile l’intento di offrire implicitamente ai bambini un modello comportamentale di cooperazione sociale, quale metodo e strumento preliminare per affrontare l’età adulta, - il processo (educativo e di apprendimento) è di cruciale importanza, così come l’osservazione e la documentazione dei processi individuali e collettivi; il prodotto finale non è la sola cosa che conta, - si devono favorire le dinamiche di gruppo e il senso di appartenenza allo stesso, - il confronto e la discussione sono alcune delle strategie vincenti della formazione, - la funzione dell’insegnante è prevalentemente di indirizzo e di orientamento - gli insegnanti imparano dai bambini stessi il modo più adatto di educare e si formano soprattutto “sul campo”. L’importanza dell’esperienza di Reggio va cercata nella sua alterità rispetto alla tradizione scolastica e pedagogica che l’ha preceduta...e che, a tratti, ancor oggi sopravvive. C’è chi afferma che Reggio è un’isola del dissenso, una provocazione verso un discorso sempre più dominante e opprimente dell’educazione per la prima infanzia in particolare e dell’educazione
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giocano, apprendono, lavorano e si sviluppano. Lottava per ottenere l’estensione dei servizi e la qualificazione del lavoro pedagogico.
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in generale, un discorso prevalentemente anglosassone e altamente strumentale che considera le scuole come luogo di controllo dei bambini attraverso l’applicazione di tecnologie per ottenere risultati predeterminati e normativi. Con la sua esistenza, la sua provocazione e il suo pensiero critico, Malaguzzi e il Reggio Approach invece ci ricordano che l’educazione, l’apprendimento, il sapere, l’infanzia, l’insegnante, la valutazione hanno molteplici significati. Reggio mette in discussione l’arrogante idea di separare la teoria dalla pratica, sostenendo che sono inseparabili. Reggio dice che la ricerca pedagogica la possono fare sia gli accademici sia gli insegnanti nella stessa scuola, schierandosi contro tutta quella pedagogia il cui scopo è prevedere il risultato, una sorta di pedagogia predittrice che alla fine diventa una specie di prigione per il bambino e l’insegnante, e l’essere umano in generale. Il modello su cui si reggono le scuole di Reggio Emilia è più spontaneo, imprevedibile, empirico, più vicino a un tipo di vita che si potrebbe svolgere all’interno di grandi famiglie o di comunità. Qui si dà vita a una sorta di pedagogia relazionale, che rafforza in ogni bambino il senso della sua identità attraverso il riconoscimento che viene dai coetanei e dagli adulti, e gli fa sentire quel tanto di sicurezza e di appartenenza che lo abilita ad accettare e a concorrere alla trasformazione delle situazioni. Si dà vigore all’aumento delle reti comunicative, alla familiarizzazione coi diversi codici linguistici, e alla comprensione di come questi sorreggano l’azione e gli scambi individuali e di gruppo. Lo scambio, il confronto, la conoscenza reciproca, sono gli step preliminari, il comprendere passa attraverso il desiderio di conoscere; e dal comprendere, il passo successivo è l’accettare e il rispettare. La condizione necessaria per la pratica pedagogica proposta a Reggio è quindi un’attenzione all’altro nel rispetto: educare – dal latino educere – significa infatti far emergere l’alterità dell’altro, del suo pensiero, che così diviene degno di essere ascoltato; è andare oltre noi stessi per accedere al dialogo al dia-logos, alle due parole, ai due verbi, ai due pensieri dell’essere: io e l’altro che si incontrano, si ascoltano, dialogano. In questo modo una pedagogia dell’ascolto porta a un’etica dell’incontro fondata sull’accoglienza e sull’ospitalità dell’altro, sull’apertura alla differenza dell’altro, alla venuta dell’altro. Ecco cosa si intende con rapporto etico di apertura all’altro. Le implicazioni di tutto questo sull’educazione sono di enorme portata.
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Con questa pedagogia dell’ascolto, con questo atteggiamento, le scuole di Reggio hanno perseguito le aspirazioni dei loro fondatori, primo tra tutti Loris Malaguzzi cui l’esperienza sotto il fascismo aveva insegnato che gli individui che si conformano e obbediscono erano soggetti pericolosi e che per costruire una nuova società era imprescindibile ricordare e tramandare quella lezione conservando la visione dei bambini come soggetti capaci di pensare e agire da soli, nel rispetto altrui. Di tutti gli altri.
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Il progetto dell’ambiente “L’educazione non si costruisce nel vuoto; deve aver luogo in qualche spazio. Un progetto educativo che non cura con attenzione lo spazio non può essere tale, manca di un elemento essenziale...lo spazio deve essere una specie di acquario, dove si rispecchiano le idee, i valori, le abitudini e le culture della gente che vive al suo interno” (1984) Malaguzzi era fermamente convinto che ciò che i bambini apprendono non discende automaticamente da un rapporto lineare di causa-effetto tra processi di insegnamento e risultati, ma è in gran parte opera degli stessi bambini, delle loro attività e dell’impiego delle risorse di cui sono dotati, essi svolgono sempre un ruolo attivo nella costruzione e nell’acquisizione del proprio sapere e del proprio capire. Era infatti solito affermare che “i bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le attività ed il contesto e soprattutto devono essere in grado di ascoltare”.
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L’apprendimento è quindi sicuramente un processo auto-costruttivo, in cui i bambini sono i protagonisti. La scuola, così come tutti gli spazi che sono intesi alla promozione della crescita del bambino, è paragonata a un cantiere, a un laboratorio permanente in cui i processi di ricerca dei bambini e degli adulti si intrecciano in modo forte, vivendo ed evolvendosi quotidianamente. L’obiettivo principale dev’essere quindi quello di rendere questo spazio un luogo amabile, piacevole, dove stiano bene bambini, ragazzi, famiglie ed educatori, dove lo scopo non sia produrre apprendimento ma produrre condizioni di apprendimento. Lo spazio è l’elemento essenziale di un progetto educativo: quando si entra in un ambiente, esso riflette la cultura di chi lo organizza. Se destinato ai bambini, in esso si devono poter cogliere i messaggi derivanti dalla conoscenza dello sviluppo infantile. Una forte impressione che i visitatori di ritorno da Reggio Emilia riportano con sé infatti riguarda il senso di serena laboriosità che trasmettono bambini e adulti che si muovono in questi spazi e l’attenzione al senso estetico che pervade le scuole. Questo risponde a delle scelte precise: anche l’estetica è un fatto che viene rincorso con tutti i mezzi, a volte con fortuna, altre meno. Ne è prova la cura degli ambienti, degli arredi, degli oggetti, dei luoghi di attività, degli ascolti e delle documentazioni dei processi e dei prodotti dei bambini come dei “golfi di raccoglimento” e di libertà che cerchiamo di preservare: qualcosa che va ben oltre la sola funzione. Il cosiddetto Reggio Approach prevede che esista anche un estetica del conoscere prima ancora del conoscere estetico. Nell’impresa di apprendere e capire c’è sempre, consciamente o no, una speranza che ciò che riusciremo a realizzare ci piacerà e piacerà agli altri. Gli spazi concepiti secondo i principi di cui s’è discusso finora (partendo dalla Scuola Diana, la prima fondata da Malaguzzi e poi, via via, nelle strutture successive) devono essere il più possibile luminosi e accoglienti, comunicanti tra loro e (ove possibile) con l’esterno, devono mettere in risalto le attività dei bambini: dev’essere chiaro che sono destinati al gioco, devono favorire occasioni di incontro, ogni bambino deve poter osservare ed essere stimolato dall’osservare gli altri e le attività a lui vicine. Così come in una piccola città, la scuola Diana ha una “piazza centrale” da cui si dipanano diverse strade e locali adibiti alle iniziative più disparate, attrezzati come si conviene. Oggetti e arredi devono essere caratterizzanti e magari personalizzabili, vanno proposti in maniera accattivante ai piccoli utenti, ma senza tralasciare di conservare spazi dove sia possibile camminare,
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scorrere o sostare liberamente, senza far nulla, magari “solo a pensare”... anche i bambini a volte ne hanno bisogno. Occorre lasciare a disposizione sia spazi di lavoro adatti all’apprendimento cooperativo, sia spazi quieti e raccolti, dove poter stare soli o con un compagno/adulto, pur sempre conservando il senso di appartenenza a una medesima comunità. L’attenzione va data alla piacevolezza degli ambienti così come alla loro cura, alla manutenzione e alla sicurezza degli stessi: le norme del buonsenso ricordano di inserire scaffali raggiungibili, angoli smussati e arrotondati, scatole trasparenti, parapetti e dislivelli adeguati alle caratteristiche fisiche di chi poi li andrà a vivere e comporre: è molto gradito il fatto che l’azione stessa dei bambini contribuisca a modellare lo spazio, a renderlo personale, riconoscibile, a lasciare un po’ di sé...fuori di sè. Importante è anche la varietà di ampiezze: i bambini apprezzano l’accostamento di spazi vasti e scenografici con i piccoli rifugi confortevoli, che tanto sanno di casa e avventura. Altro nodo cruciale è la scelta dei materiali da utilizzare: si cerca di limitare il più possibile l’utilizzo di materiali sintetici o comunque “bugiardi” (materiali che, tramite finitura, fingono d’essere altro). Si cerca di lasciare i piccoli a contatto con materiali resistenti, atossici, sicuri e soprattutto “sinceri”, materiali “al naturale”, perché fin da subito imparino che, ad esempio, un tubo di alluminio è duro come uno di acciaio ma molto più leggero, un cubetto di legno può avere diversi colori e odori ma sarà sempre più caldo di un dado di ferro, una stoffa più granulosa alla vista probabilmente è anche più ruvida al tocco, mentre una superficie uniforme potrebbe essere levigata, scivolosa o...
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L’obiettivo è educare, anche in questa maniera –indiretta-, i bimbi a relazionarsi correttamente con forme, pesi, sensazioni e implicazioni che vengono dai materiali e iniziare il loro personale archivio mentale e le prime supposizioni sui fenomeni fisici che li circondano. Ma la rivoluzione più grande che Malaguzzi introdusse nelle strutture per bambini fu l’Atelier, dove si puntava sullo sviluppo delle capacità creative e, in stretta connessione, a quelle di analisi: un luogo dove si colora, non sempre e non solo coi pastelli, si incolla, si tocca, si sperimenta con l’argilla, i colori, i suoni, le forme, le ombre, i materiali, le costruzioni, un luogo dove le mani dei bambini, il fare, il pasticciare, possono conversare con la mente come è nelle leggi biologiche ed evolutive. Anche questo è percepito dai bambini come “gioco” e anche questo diventa strumento di stimolazione dell’apprendimento e di sviluppo psico-sociale. Il bambino inizia la sua attività di gioco molto presto, già nella culla possiamo notare come egli si diverte degli effetti che con piccole azioni produce negli oggetti, ad esempio il far muovere, con le mani, i pupazzetti situati sul carillon che gira. Se inizialmente questa azione è involontaria (cioè il bambino la produce per puro caso), in seguito, dopo aver scoperto il suo “potere” diventa intenzionale. Questa prima forma di gioco rappresenta il preludio per lo sviluppo cognitivo del rapporto di causa – effetto, molto importante per le fasi successive di crescita. Non solo, la relazione causale diventa sempre più discriminata dal bambino, nel senso che volontariamente egli stabilisce delle cause in altri ambiti, aspettandosi degli effetti e gode del fatto che la sua presenza possa modificare in maniera decisiva gli avvenimenti che lo circondano. Ciò avviene in maniera analoga sia nel gioco non strutturato (come vedremo in seguito, con le teorie di Elinor Goldschmied) sia nelle sperimentazioni “artistiche” dell’Atelier. Il bambino impara in modi diversi, usa linguaggi differenti (i famosi “cento linguaggi dei bambini”) e viene incoraggiato a rappresentare la sua comprensione usandone il maggior numero possibile, attraverso il disegno, la scultura, la
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drammatizzazione, la scrittura, la fotografia, la luce, la decorazione e la de-costruzione, ecc. fornendo ricchezze di possibilità combinatorie e creative tra linguaggi e intelligenze non verbali dei bambini (non più sottoposti a logorree, non più concepiti come teste-container da riempire di nozioni). La figura più importante di questo approccio è l’Atelierista, proveniente spesso da percorsi formativi artistici più che pedagogici: suo compito è fare di questo Atelier un luogo dove è possibile sperimentare i tanti linguaggi dei bambini attraverso l’uso di materiali normalmente poco utilizzati. La maggior parte degli Atelier delle strutture reggiane sono forniti di vari materiali: argilla, vernici, carta per scrivere, materiali di recupero. I bambini utilizzano questi materiali, lavorando molto con le mani, per rappresentare i concetti che stanno imparando. È importante ricordare che la figura dell’Atelierista è “solo” una figura propositiva di diverse iniziative, una figura di supporto e stimolo dei processi, in realtà, autogestiti dai bimbi stessi. L’approccio di Reggio “vede il bambino come protagonista molto competente, che interagisce con l’ambiente”; i bambini possono così sempre seguire i loro interessi, perché sono loro che decidono cosa vogliono fare e guidano l’attività. Il punto fondamentale rimane comunque il “lavoro in team”: qualunque cosa faccia, il bambino non lo fa da solo ma con gli altri bambini, con i quali cerca di risolvere i problemi. Gli insegnanti osservano, facilitano e favoriscono il coinvolgimento dei bambini nei processi di esplorazione e
Qui accanto: foto degli interni del Centro Internazionale Loris Malaguzzi - Reggio Children. Inaugurato a Reggio Emilia nel febbraio 2006 e completato nel 2012; un luogo dedicato all’incontro di quanti, in Italia e nel mondo, intendono innovare educazione e cultura. Un luogo internazionale aperto al futuro, a tutte le età, alle differenti culture, alle idee, alle speranze e all’immaginazione. Un grande spazio che produce ricerca, innovazione e sperimentazione sui contenuti e sui processi educativi nei diversi ambiti del sapere. Sorge laddove una volta c’erano i magazzini della Locatelli, acquistati nel 1998 dal Comune di Reggio e destinati a diventare elemento catalizzatore e simbolo della trasformazione della zona nord della città.
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di valutazione, riconoscendo l’importanza dei loro prodotti, che sono in continua evoluzione e che diventano veicolo di scambio. Favorire il lavoro a gruppi favorisce sia lo sviluppo dei rapporti, della collaborazione e della cooperazione, ma anche lo sviluppo e la presa di coscienza della propria individualità: il bambino nel confronto con gli altri scopre di essere detentore di idee, che sono proprio sue e magari non sempre collimanti con quelle degli altri e inizia a delineare i confini del suo Io.
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CASI STUDIO (2) Spesso le idee si accendono l’una con l’altra, come scintille elettriche. [Friedrich Engels]
Di seguito, una raccolta di progetti che hanno ispirato e, in qualche modo, guidato il nascere dell’idea definitiva.
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Ant House in Shizuoka
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MA-style architects, Shizuoka Prefecture, Japan (2012)
Lo spazio all’interno di questa casa si trasforma completamente rispetto all’esterno, sembra che il mondo cambi e non sia più quello convenzionale. Tutto sembra un preteso per giocare a nascondino e a rincorrersi, a sbirciare da finestrelle improbabili, dove ogni spazio è ambiguo, funge sia da stanza sia da passaggio. Un’altra peculiarità di questa “casa delle formiche“ è che quasi sempre tutti possono vedere tutti, così come l’aria, la luce, il vento circolano liberamente in tutta la casa, scavalcando il tradizionale concetto delle partizioni e delle suddivisioni in camere. Cosicchè ogni stanza può avere la funzione di cui l’utente ha bisogno in quel momento.
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Yuyu-no-mori Nursey School and Day Nursery Environment Design Institute, Yokohama, Japan (2005)
Il focus di questa progettazione è stato senz’altro il fornire ai bambini un ambiente che incoraggiasse e supportasse il gioco libero e la relazione, piuttosto che preferire un’organizzazione spaziale che rendesse facile governare i piccoli. L’intento era quello di creare un posto dove i bambini fossero lieti di passare il loro tempo e dove i genitori fossero contenti di iscrivere i loro figli. La pecularità che più salta all’occhio di questa scuola è la grande rete incrociata che unisce il primo e il secondo livello dell’edificio, invitando i bambini a esplorare, giocare, scorrazzare per tutto lo spazio accessibile, sperimentando l’equilibrio, il vuoto e l’altezza senza paura di cadere o farsi male, in un ambiente giocoso, morbido e accogliente.
Wonder Space II
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Toshiko Horiuchi MacAdam + Interplay @ Hakone Open Air Museum.
I lavori dell’artista Toshiko Horiuchi MacAdam sono diversi dai soliti playground e dai normali noiosi parchi gioco: sono dei coloratissimi capolavori architetturali interamente realizzati a mano con la tecnica dell’uncinetto. Sono spazi insoliti, disegnati da sottili tensioni che innervano le reti e dalla forza di gravità che agisce sulla struttura e sui corpi che la abitano. Spazi che intersecano arte e scienza, geometria e organicità della natura. Spazi che invitano a giocare, saltare, a rompere il ghiaccio e a socializzare, a sfidarsi, a ridere insieme, a trovare nnuovi modi di giocare. Il tutto in una sorta di dondolio elastico che ricorda i movimenti della culla ma che limita molto meno i movimenti del bambino e gli restituisce immediatamente l’energia da lui stesso trasmessa, collegandolo con tutti gli altri bambini.E qui per giocare non serve essere atletici, ma si usa comunque tutto il corpo per divertirsi e stupirsi.
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House N
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Sou Fujimoto, Oita, Japan (2007-2008)
Tre gusci di dimensioni progressivamente sempre più piccole, annidati l’uno dentro l’altro, dotati di infinite aperture, allineate o meno tra loro, che filtrano diversamente il dentro dal fuori, che danno diversi sensi di distanza da ciò che sta fuori, dal contesto in cui l’architettura è immersa , dalle strade, dagli alberi, dalle case. I confini di questa architettura sono indistinti e introvabili, come se non si stesse parlando di una “casa“ ma di uno spazio esterno nel quale si sta come al chiuso e uno spazio coperto dal quale si percepisce la vita all’aria aperta, in una struttura nidificata
Jerry House
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Onion + Arisara Chaktranon & Siriyot Chaiamnuay, Phetchaburi, Thailand (2014)
La richiesta del committente era di creare una casa che invogliasse al gioco, allo scherzo e allo stare insieme. Correre, arrampicarsi, nascondersi, appendersi, cadere e lasciarsi cadere: tutte attività che sarebbero impossibili da praticare in una casa normale, con un normale stile di vita. L’ispirazione per l’ideazione di un luogo del genere è stata presa dagli episodi della serie animata per bambini Tom & Jerry, nei quali il topolino scappa dal gatto in questa ipotetica casa piena di buchi e aperture, come una forma di formaggio. In questa struttura è complesso il sistema di collegamento verticali, tra rampe, reti e scale, ma tutto converge a dare il senso di un luogo divertente, complice, che prende in giro e si lascia prendere in giro.
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Leimondo Nursery School Archivision Hirotani Studio, Nagahama, Shiga, Japan (2011)
La copertura dell’intera struttura è sormontata da queste costruzioni tronco-piramidali che alla sommità ospitano tutte dei lucernari che convogliano lame di luce all’interno degli spazi, lasciandole libere di muoversi e illuminarli diversamente a seconda dell’ora e della stagione. Il comportamento della luce all’interno di queste aule è molto particolare e di grande effetto: la luce sembra comparire in ogni angolo e andare in tutte le direzioni, illuminando le pareti velate di colori pastello e i pavimenti di parquet di legno d’acero. I bambini percepiscono chiaramente questi cambi di illuminazione e accolgono la luce come un amico che li rincorre e gioca con loro, accompagnandoli nelle attività quotidiane.
Slide House
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Level Architects, Tokyo, Japan (2009)
Una casa a tre piani, interamente attraversati da uno scivolo che li collega tutti, il sogno di ogni bambino. Un elemento ludico perfettamente integrato come elemento architettonico all’interno della casa, che permette di passare dal terzo al primo piano in pochi istanti. La difficoltà progettuale è stata quella di trovare l’angolo di pendenza più adatto, i materiali più adatti per lo scivolo e il metodo di costruzione ideale per gli angoli - necessariamente curvi- della casa, dove i muri andavano rinforzati.
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NETSCAPES
UN NIDO PER LE CICOGNE
Numen (Hasselt, Linz, Vienna...)
Installazioni temporanee, leggere, che però hanno l’enorme potere di trasformare totalmente uno spazio canonico in uno spazio elastico, mutevole, divertente, accogliente sia per giocare, che per leggere, per riposare, per godere di punti di vista inusuali sullo spazio e per sfidare il vuoto e l’altezza.
Interior for Students
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Ruetemple, Mosca (2013)
Camera per due ragazzini, molto articolata, con diversi componenti, dove però l’elemento chiave è quella sorta di reteamaca posizionata in un’apertura del solaio, giusto sotto un lucernario che fornisce luce e aria a tutta la stanza. Insolita ma gradita presenza: una superficie multiuso che mette in diretta omunicazione i due livelli della cameretta, pur mantenedo inalterata la superficie utilizzabile.
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Spordtgebouw
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NL Architects, Dordrecht, The Netherlands (2011)
impianto sportivo con una grande valenza architettonica/artistica, dove la palestra di roccia è scavata direttamente nel volume dell’edificio, come una grotta nella montagna, conservando perfettamente intatti gli spazi retrostanti per le aule e le palestre. Le aperture riprendono gli stessi profili irregolari di queste “caverne artificiali“ e sono a tutt’altezza, lasciando entrare una quantità enorme di luce, tanto da lasciare l’illusione di trovarsi direttamente all’aria aperta.
Spring
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Joey Ho Design, Centre Point, Wan Chai, Hong Kong (2013)
Un progetto accattivante: colori pastello, rilassanti, campiture piene, equilibrate e ben contrastate, ambienti puliti, essenziali e non ingombri, danno idea di dolcezza e naturalezza, così come le forme, arrotondate e morbide. L’idea chiave del progetto che ho voluto riprendere è quella della creazione di angolini riservati, intimi, stanzette che devono essere raggiunte, in cui si sta in pochi a giocare, leggere, osservare da una quota diversa ciò che succede attorno.
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Anansi Playground Building Mulders vandenBerk Architecten, Utrecht, The Netherlands (2009)
Gli architetti hanno progettato questo edificio - parco giochi all’interno di un parco a Utrecht, nei Paesi bassi. L’intento era quello di emozionare e stimolare la curiosità e la creatività dei bambini. La facciata esterna è rivestita in Corian, inciso con figure tratte dalle fiabe di tutto il mondo. L’interno ha 3 sale gioco distinte, caratterizzate da colori luminosi, arredi semplici e geometrici coi quali interagire, che però non annoiano mai per le infinite possibilità di combinazione che consentono.
Library of Picture Books
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Tadao Ando
L’edificio occupa 492,07 m² di spazio, le decorazioni sono minime, in gran parte costituite dai colori e dalle texture dei libri stessi, che sono i veri protagonisti dello spazio. Gli unici tre materiali utilizzati nella costruzione sono cemento armato a vista, vetro e legno. Alcuni hanno mosso critiche per la scelta di lasciare il calcestruzzo (considerato un materiale sterile) grezzo, i corridoi volutamente più bui dellle sale e per la scarna essenzialità dell’ambiente, così lontana dalle nozioni occidentali di “arredamento a misura di bambino“, meno forte e spigoloso. Ando, per tutta risposta, ha affermato che “il calcestruzzo può essere molto ricco di colore, le sue infinite sfumature creano un senso di profondità ...inoltre, sareste in grado di vedere la luce se non ci fosse il buio?“
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BiebBus
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Childrens’ Library, Zaandam, The Netherlands (2011)
Al fine di risolvere una sfida spaziale e allo stesso tempo fare di una visita in biblioteca una spettacolare esperienza, Den Hollander ha progettato un camion/ container a due camere: una in grado di scorrere sull’altra in senso verticale (lo spazio biblioteca tradizionale con 7.000 libri e un soffitto trasparente), mentre l’altra che scivola verso l’alto è un’emozionante astronave, piena di cuscini, un nido dove i bambini possono stare a leggere, ad andare su internet o per avere una vista a volo d’uccello sul quartiere. Dal settembre 2010 l’idea di Den
Il BiebBus è sempre posizionato nei pressi delle scuole elementari, che collaborano con il servizio di biblioteca. I bambini possono salirci durante l’orario scolastico o per sessioni di lettura postscuola. Il carattere innovativo del bus e la sua aria di incanto, la sensazione di entrare in un’antica biblioteca, il design dello spazio stupisce i bambini e li invoglia a venire sul Biebbus, per esplorare i suoi libri e per prendere tempo per la lettura.
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Hollander è operativa nella regione di Zaan ed è in grado di ospitare 35-40 bambini alla volta.
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The Reading Net
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PlayOffice, Madrid
Questa installazione è stata progettata per una bellissima biblioteca in legno, collocata in una stanza apposita della casa di una famiglia di Madrid. La sfida era di rendere quel luogo “appealing“, attraente anche per i bambini di casa e per invogliarli a entrare e a dedicarsi alla lettura, cosa che fino a quel momento non facevano perchè trovavano quell’ambiente troppo serio e imponente per loro. Il briefing richiedeva totale rispetto per l’architettura e le decorazioni originali e il fatto che l’intervento non interferisse con l’uso regolare della biblioteca da parte
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COSTRUENDO IL PROGETTO
degli adulti. La cosa è stata risolta tendendo (senza l’uso di viti o bulloni) una rete di 21 mq che dal parapetto del ballatoio coprisse l’intera stanza, tagliando a metà lo spazio e fornendo una nuova modalità di gioco e lettura ai bambini. Cosa che ha già interessato anche alcuni “grandi“, che alle loro poltrone hanno preferito la “rete di lettura”.
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Temporary Space Observatory
UN NIDO PER LE CICOGNE
BAG @ Frammenti Music Festival, Roma (2014)
Il progetto prevedeva l’installazioni di un osservatorio astronomico temporaneo realizzato con i pallets di legno forniti dall’azienda sponsor dell’evento, il Frammenti Music Festival. Il team BAG ha ritagliato nel contesto naturale una stanza dalla quale si può godere della vista del cielo notturno e delle stelle. I pallets sono statai smontati e ogni stecca è stata impilata e inchiodata in maniera irregolare a formare una specie di cavea con pareti a diversa densità. All’interno sono state montate delle amache a diverse quote.
Niños Conarte
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COSTRUENDO IL PROGETTO
Anagrama, Monterrey, Mexico (2013)
Monterrey è famosa per le sue splendide montagne e le industrie, spina dorsale della sua economia. Nel cuore della città si trova il Fundidora Park, un esemplare unico di archeologia indistriale (prima il complesso era un’industria metalmeccanica fondata a inizio ‘900), che ospita oggi giardini, musei, centri congresso, auditorium... L’obiettivo era sviluppare nei bambini la curiosità, la voglia di imparare e l’amore per la lettura, valorizzando nel contempo il meraviglioso ex magazzino in cui si doveva operare. Il risultato è stato questa piattaforma di lettura dall’andamento irregolare che imita il territorio montuoso di Monterrey. Gli scaffali fungono da spazio dinamico in cui giocare e accendere l’immaginazione e da supporto confortevole per la lettura. L’estetica geometrica e coloratissima dell’installazione contrasta splendidamente con la natura severa e antica dell’edificio, valorizzando entrambi gli elementi in maniera unica e allegra.
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Lo-Fi Pixel Wall
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Supermachine Studio, Bangkok (2013)
Questa parete facente parte del progetto per lo Student Activity Center della Bangkok University, è formata da tanti elementi simili a pixel. Questi elementi sono di diversi colori: rosa, azzurri e gialli. Gli studenti possono cambiare i colori della parete facendo ruotare i pixel. In questo modo si possono lasciare messaggi per gli amici, fare disegni o divertirsi a cambiare la composizione della parete con il risultato di avere uno spazio in continua evoluzione a seconda della creatività degli studenti.
LivingStone
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Smarin
Pratico come un pouf normale. Dei sassi sovradimensionati, una spiaggia per riposarsi, a geometria variabile, per un interno contemporaneo. Dei sassi come in un paesaggio chimerico di vacanze ideali, permanenti, trasformati in un gioco d’appartamento.
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IL NIDO DELLE CICOGNE: IL PROGETTO Gli uomini comuni guardano le cose nuove con occhio vecchio. L’uomo creativo osserva le cose vecchie con occhio nuovo. [Gian Piero Bona]
“Il Nido delle Cicogne” nasce come Spazio Ricreativo e Culturale, principalmente dedicato a Bambini e Ragazzi dai 3 ai 13 anni. L’idea di connettere questo spazio a una nascente start-up, giovane e italianissima, viene dal fatto che entrambe le parti possono trarre beneficio da questa “cooperazione”. L’edificio, in quanto luogo marginale, senza funzione, che degrada il contesto cittadino su cui insiste con la sua triste presenza di rudere, una vuota facciata chiusa e abbandonata, aveva bisogno di essere rivitalizzato, che gli fosse ridato un senso, un’occupazione, qualcosa che lo riportasse a intrattenere RAPPORTI CON LA VITA DELLE PERSONE e lo rendesse di nuovo componente vivace e arricchente della COMUNITà. D’altro canto, la start-up Le Cicogne nasce primariamente come piattaforma online, PROMOTRICE DI INCONTRI tra domanda e offerta di mercato, tra adulti e ragazzi, tra genitori e baby-sitter, senza sede fisica. Ma allora dove avvengono questi incontri?
ido delle N l I
Cico g ne
Oppure ancora: esiste nelle vicinanze un luogo dove queste Cicogne possano portare i bambini loro affidati in caso di brutto tempo a trascorrere del QUALITY TIME insieme ad altri bambini, con attrezzature insolite e stimolanti, che difficilmente sono a disposizione a casa del singolo? Un posto dove sia bello ed edificante trascorrere dei pomeriggi, scegliendo se rimanere in compagnia o ritirarsi in un angolino confortevole a leggere o pensare? Esiste un contesto in cui essi possano SOCIALIZZARE, al di fuori dell’ambito scolastico, in un unico grande spazio che possono PERSONALIZZARE con le loro mani? Esiste un posto dove il GIOCO si integra con l’ASPETTO CULTURALE, la MOSTRA con la CORSA, la SPERIMENTAZIONE con la TRADIZIONE, la LETTURA con la VIVACITÁ? Ma anche: esiste un centro che sia DELLA comunità, che inviti le persone all’AGGREGAZIONE attorno a queste tematiche, dell’infanzia, della genitorialità, della cura e del baby-sitting, del teaching e del reading? Un luogo dove vengano organizzati incontri, seminari, conferenze, mostre per BAMBINI E GENITORI insieme? Un luogo che crei occasione di scambio e colloquialità anche tra adulti e che offra tante opportunità formative?
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Dove vengono tenuti i CORSI DI FORMAZIONE delle future Cicogne? Dove i corsi di Pronto Soccorso e Disostruzione Pediatrica che vanno a completare il curriculum di questi ragazzi ai quali va affidato un compito tanto importante? Bisogna sempre appoggiarsi e dipendere da altri enti/strutture per queste iniziative?
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Ecco qual è il CONCEPT alla base di questo progetto: fornire a una start-up finora solo telematica una sede fisica che le consenta di COMPLETARE e ARRICCHIRE la sua offerta educativa e RIQUALIFICARE nel contempo un edificio dismesso situato proprio in centro città, in maniera da trasformarlo in uno spazio promotore di VALORE SOCIALE E CULTURALE nel tessuto cittadino/urbano. Per citare il prof. Luciano Crespi¹, il tentativo è quello di fare un primo piccolo passo verso una città “FATTA MENO DI EDIFICI E Più DI OPPORTUNITÁ E RELAZIONI, ANCHE TEMPORANEE”. Gli utilizzi di questa struttura sono molteplici e spesso possono convivere. Secondo l’idea originale, le funzioni che permanentemente rimangono all’interno di questa struttura sono la Biblioteca per Bambini e Ragazzi (decentrando i volumi dalla Biblioteca Comunale Maria Negri Carugati) e lo Spazio Gioco, quasi si trattasse di un “parco al chiuso“; il resto delle attività ospitabili in questa struttura si diversificano a seconda delle diverse fasce orarie della giornata. La struttura rimane aperta dalle 8.00 del mattino fino a mezzanotte, con sempre almeno un educatore professionale presente. Negli orari di pranzo e cena solo le Cicogne che hanno corsi e/o colloqui hanno accesso consentito. Nel resto della giornata l’utenza potrebbe dividersi ragionevolmente come suggerito nel diagramma. Al MATTINO bambini in età pre-scolare, Cicogne, mamme in congedo maternità, al POMERIGGIO, bambini e ragazzi all’uscita dalle lezioni, adulti accompagnatori o Cicogne, mentre alla SERA sono prevedibili ragazzi accompagnati da Cicogne o dalle loro famiglie o mamme in gravidanza. Di conseguenza, si potrebbero organizzare
1. Luciano Crespi, professore straordinario di Design, nonchè presidente del corso di studi di Design degli interni presso il Politecnico di Milano. Membro del collegio di dottorato di Architettura degli Interni e Allestimento. Membro di GIDE -Group International for Design Education
Nella pagina accanto, in alto: ipotetico timetable che affianca utenza e fascia oraria di competenza
TINA AT M
0:00
12:00 SER A
IG PO MER
GI
O
14.
00
0
19:00
:0 21
attivitĂ mirate e diversificate a seconda del tipo di persone che frequentano la struttura durante la giornata. Qui di seguito un elenco di alcuni tra gli utilizzi ipotizzati: MATTINO _corsi formazione aspiranti Cicogne _colloqui e selezioni aspiranti Cicogne _corsi di disostruzione pediatrica
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8 :0 0
Bambini in etĂ pre-scolare Ragazzi Cicogne Mamme in gravidanza Genitori / adulti Famiglie
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_spazio mamma-bambino _corsi di massaggio neonatale _incontri con l’ostetrica _lezioni yoga in gravidanza _lezioni di psicomotricità _atelier creativo/arteterapia _visite/laboratori con le scuole _spazio mostre organizzate POMERIGGIO _baby/teen-tutoring _corsi di lingua _atelier creativo/arteterapia _spazio mostre organizzate _corsi recitazione/danza per bambini e ragazzi _colloqui genitori/Cicogne SERA _colloqui genitori/Cicogne _corsi di disostruzione pediatrica _incontri con l’ostetrica _ lezioni yoga genitori-figli _cineforum a tema (genitorialità, infanzia, ecc..) con dibattiti e incontri con lo psicologo Durante i weekend potrebbero inoltre essere stutturate attività extra come ad esempio un utilissimo mercatino dell’usato, dove i genitori vendono/scambiano vestiti e accessori per l’infanzia , oppure la struttura potrebbe essere affittata a richiesta per ospitare eventi, conferenze, manifestazioni o party privati.
A pagina accanto: visualizzazione in pianta del centro storico di Varedo, dove si intuisce la presenza della Chiesa dei SS. Pietro e Paolo, la piazza centrale con il vicino Parco I Maggio e poco discosta Villa Bagatti Valsecchi col suo stupendo parco. L’edificio interessato è evidenziato in rosso.
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L’edificio si trova in una piazzetta poco ritirata rispetto alla strada e direttamente affacciata sulla piazza principale del paese. È tutto attorno circondato di altri edifici ad uso residenziale o appartenenti a privati, che lo cingono e lo stringono da tutti i lati, eccezion fatta per il lato nord, quello che domina piazzetta S.Maria. L’interno è semplicemente organizzato in tre piani, suddivisi in due appartamenti ciascuno dal corpo scale centrale, che rappresenta l’unico collegamento verticale esistente. Il progetto intendeva vivacizzare questo organismo architettonico così canonico dal punto di vista formale e strutturale senza andare a invadere terreni di proprietà altrui e senza dare adito a grossi cambiamenti sull’esterno stesso della struttura. Villa Medici Comune di Varedo Parco I Maggio
Chiesa SS.Pietro e Paolo
Piazza Centrale
Piazzetta S.Maria 1
Villa Medici Comune di Varedo
L’unica direzione in cui ci si poteva muovere con agio era quella verticale, all’interno dello stabile stesso.
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Piazza Centrale
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Schema riassuntivo degli elementi che compongono il progetto con le loro funzioni principali, poi meglio specificate nelle pagine seguenti. Per ulteriori approfondimenti e/o dettagli in scala, si rimanda alle tavole di progetto allegate all’elaborato.
Lucernario
Reti
Scatola
Rampa
Vetrata balcone
Ascensore
Seminterrato
Scatola muraria originale
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Qui sopra, una sezione trasversale dell’intero edificio con tutti gli elementi inseriti e collaboranti tra loro.
LA SCATOLA Il gesto formale compiuto è molto semplice. Come prima cosa, ho svuotato la palazzina di tutto ciò che essa conteneva, solette e corpo scala, che costituivano vincoli troppo rigidi
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per poter innovare con decisione la struttura; successivamente ho inserito, all’interno di questa “scatola muraria” rimasta, un’altra scatola, più piccola per dimensioni, che andasse a compenetrare il volume del mio edificio, attraversandolo interamente in altezza. Abituati come siamo ad immaginare un edificio fatto da successione di piani orizzontali, questa “scatola dentro la scatola” costituisce un unico volume verticale invece insolitamente e inaspettatamente grande, che da fuori non si percepisce e che, finchè non si varca la soglia, non ci si aspetta. Laddove ci si aspetterebbe un’altezza consueta, si trova un unico grande corridoio verso il cielo
Scatola intera, ben visibile la suddivisione in pannellature rimovibili
Struttura interna portante della scatola, denudata dei pannelli
La suddetta scatola ha le “pareti” spesse 40 cm, non è di muratura e non dipende in nessun momento dalla struttura muraria per la stabilità ma è totalmente autoportante; è costituita da una ossatura di americane e pilastri di acciaio a C e H, sui quali si attacca (tramite profili angolari e magneti) una doppia pannellatura di tamponamento (sulla facciata interna ed esterna della scatola), che lascia delle aperture fisse in corrispondenza delle finestrature originali dell’edificio, come se su di essa vi fossero proiettate.
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Qui sopra, la pianta completa mostra la struttura complessiva della scatola e la copertura delle reti; nel dettaglio sono evidenziati i punti di aggancio delle reti alla struttura stessa. Tali dettagli rendono maggiormente comprensibile l’organizzazione interna della sruttura stessa, altrimenti riportata nell’assonometria a pagina seguente.
Travi a C, ad H e tralicci tipo americane hanno tutti sezioni attorno ai 30 cm
I pannelli sono mantenuti in sede da supermagneti collocati ai quattro angoli, che vanno a tenere i suddetti perfettamente in sede tra le crocette di posizione
Le uniche aperture “permanenti” sono quelle in corrispondenza delle finestre dell’involucro edilizio.
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Struttura metallica costituita da travi metalliche a C 30x10 (spessore 16mm)
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Il resto dei pannelli è sempre e comunque rimovibile e interscambiabile in ogni momento (si tratta di pannelli di cartongesso serigrafati con colori atossici), in maniera tale da personalizzare il resto della scatola con aperture o tamponamenti dove e quando se ne riscontri la necessità. Oppure, un’altra interessante possibilità è quella di poter sostituire a questi pannelli “base”, altri pannelli opportunamente attrezzati, affacciati (a seconda dell’occorrenza) verso interno o esterno, in maniera tale da ricavare delle nicchie attrezzate, che fungano da sedute, da scaffali, da gioco, da specchio, da espositore, da material board per un percorso sensoriale coi bambini stessi, da passaggi, da finestrelle da cui sbirciare, da tutto quello che può essere pensato. Una struttura MODULARE, SEMPLICE, VERSATILE, POLIFUNZIONALE E COMPONIBILE in mille configurazioni.
Sopra: aperture fisse in corrispondenza delle finestre dell’involucro edilizio. Nella pagina accanto: proposta di utilizzo che prevede A) scaffalature - biblioteca, B) pannelli ad uso lavagna C) passaggio verso le reti D) sedute
A
B
C
D
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Qui sotto: proposta di utilizzo della struttura come sede espositiva (mostre di quadri / illustrazioni per bambini o qualunque altro manufatto inerente il mondo dell’infanzia)
IL LUCERNARIO Sotto: la luce zenitale del lucernario viene convogliata direttamente nel volume centrale, può essere schermata se ritenuto opportuno con le tende parasole ma sarà comunque parzialmente filtrata dagli strati di reti che incontrerà sul suo passaggio
Il volume della scatola, per essere veramente indipendente dall’involucro murario che lo contiene, è completato, in cima, da un lucernario che “fora” la copertura, il cui peso viene sostenuto da travi di vetro temprato che scaricano le forze sulla struttura della scatola stessa. Il lucernario è oscurabile –se necessariocon delle tende da sole che scorrono su cavi tesi appena sotto il lucernario e i cui rulli sono nascosti all’interno della struttura stessa. Il lucernario è pensato come necessaria fonte di luce zenitale per l’intero volume che, risultando sempre circondato da altri edifici, dalle finestre riesce a convogliare poca luce verso l’interno.
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Esterno
Copertura vetrata “scatolare“ del lucernario, a completamento della scatola interna sottostante Spazio di intercapedine tra struttura edilizia e inserto progettuale (distinzione tra originale e ciò che è stato aggiunto) Possibilità di introdurre grondaie interne alle pareti della scatola Rullo delle tende parasole Scatola con pannelli
Interno
Funzionamento delle tende parasole
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Schizzo assonometrico della struttura del lucernario
Stratigrafia della copertura: Copertura in lamiera Tavolato legno grezzo Distanziatore di legno Guaina traspirante Isolamento Freno al vapore Solaio in calcestruzzo
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LA RAMPA E LA VETRATA SUL BALCONE Questa scatola è circondata, secondo il principio di percorrenza utilizzato anche da Frank Lloyd Wright nel Solomon R. Guggenheim Museum di New York, da una rampa continua (che si appoggia in alcuni punti alla struttura muraria dell’edificio originale, ma è comunque retta da travi a ginocchio che ne sostengono il peso), con pendenza massima dell’8%, che gli si avvolge attorno e rende raggiungibili diversi livelli della scatola interna, andando a interagire molto liberamente con la struttura muraria e le sue
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Altezza netta del passaggio sulla rampa: variabile da 216 a 228 cm, a seconda della presenza o meno del pianerottolo sul livello successivo
aperture, a volte passandoci di fronte, a volte tagliando una finestra, altre volte ponendo il visitatore a un’altezza inconsueta rispetto alle aperture stesse, cosa che genera nuovi punti di vista sull’esterno e sull’involucro stesso. In aggiunta alla rampa, già di per sé liberamente percorribile anche dai diversamente abili, ho voluto innestare sul lato sud della struttura
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un ascensore panoramico, che velocizzi gli spostamenti da un livello all’altro, costituendo anche durante la salita (o la discesa) un’esperienza di “sguardo sulla città”.
Struttura innestata sull’involucro edilizio, che insieme al lucernario e alla vetrata del balcone costituiscono i tre volumi leggeri che denunciano all’esterno i cambiamenti avvenuti all’interno.
1. A ricordare l’installazione di Lucio Fontanaa ricordare l’installazione di Lucio Fontana “Lucio Fontana, Ambiente Spaziale, 1951, Struttura al neon per la IX Triennale di Milano”. (Neon, tubo in cristallo di 18 mm, lunghezza m 100, luce 6500° K)
Sempre lungo la rampa, affogate in appositi scuretti ricavati nelle pareti perimetrali, scorrono delle file di luci LED che illuminano la rampa per renderla agibile anche nelle ore serali o in giornate particolarmente buie. Completano il corredo illuminotecnico della struttura anche un lampadario costituito da tubo LED posizionato appena al di sotto del lucernario¹ e delle lampade applique a parete a livello del seminterrato.
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In corrispondenza di quello che era l’originario balcone, invece, la rampa fuoriesce dalla struttura con un breve ballatoio, racchiuso in un volume vetrato che ingloba parzialmente il balcone stesso e costituisce una postazione privilegiata per l’osservazione della piazza e della strada, una sorta di cannocchiale visivo verso il centro cittadino.
Sotto: ciò che ssi dovrebbe percepire dall’interno dell’edificio, avendo eclissato per un momento i pannelli di tamponamento che avrebbero ristretto la visuale
Scatola vetrata che all’esterno denuncia il ftto che qualcosa sia diverso. I vetri della suddetta possono essere all’occorrenza serigrafati o vi possono essere applicate delle decalcomanie a scopi promozionali (della mostra o dell’attività in corso)
Cannocchiale prospettico verso la piazza centrale del paese
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LE RETI All’interno della scatola di nuova costruzione sarebbe stato possibile inserire degli elementi orizzontali praticabili, delle solette prefabbricate, in maniera tale da costituire dei locali a diverse altezze, con doppie e triple altezze, affacciati l’uno sull’altro. Questo tentativo è tutt’ora ipotizzabile, in quanto lo stratagemma della scatola permette di slegarsi dalle quote standard a cui erano posizionati i solai originali dell’edificio. Ma io ho preferito mantenere una dimensione più radicalmente ludica in questa ipotesi di riutilizzo, sottolineando comunque la sua caratteristica di REVERSIBILITà e TEMPORANEITà. Ai quattro angoli della scatola e in altri 6 punti intermedi ho inserito dei binari sui quali scorrono –per tutta l’altezza della scatoladei carrelli di scotta della randa, le stesse
Componenti del meccanismo che permette il sostegno e la movimentazione delle reti:
Binario a T Vite di fermo
Grillo Occhiello
Occhiello Vite di fermo
Grillo
Cursore semplice Binario a T
Cordino Dyneema
meccaniche che vengono utilizzate sulle barche a vela per regolare l’apertura della suddetta vela e mantenerla in posizione. A questi carrelli (o cursori), tramite bozzelli di bugna, sono collegate reti tese all’interno della scatola stessa, che possono ospitare i bambini durante i loro giochi, la lettura o il riposo. Esse sono tessute in fibra di cotone rinforzato con PVC e sono attraversabili tramite appositi fori e scalette a pioli, che le collegano l’una all’altra. Esse sono per di più accessibili da ogni apertura della scatola e sono movimentabili, poichè, i carrelli sono collegati, tramite cime Dyneema® a un motorino (nascosto nello spessore delle pareti della scatola interna) che avvolge o svolge la cima, alzando o abbassando la quota a cui si trova il carrello e quindi il capo della rete corrispondente.
Binario
Cursore
Bozzello di bugna con guance in alluminio anodizzato; risolve in modo efficiente il collegamento delle reti al cursore
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Puleggia di rimando
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Qui a lato: un’ipotetica vista dal livello del seminterrato guardando in su, verso il lucernario, in una giornata di sole
Una piccola nota sul DYNEEMA (Gel Spun Polyethylene): è una fibra sintetica particolarmente adatta alla produzione di cavi da trazione. Viene in particolar modo utilizzato per applicazioni sportive quali il kitesurf, il parapendio, l’alpinismo, il tiro con l’arco, la pesca sia sportiva che professionale e la produzione di giubbotti antiproiettile. I cordini in Dyneema hanno una eccezionale resistenza, paragonabile a quella dei cavi di acciaio, ma con il vantaggio di resistere molto bene agli sforzi da torsione e piegamento. La fibra di Dyneema oggi prodotta ha caratteristiche particolari per resistenza rispetto al suo diametro, si parla di qualche kilogrammo per fili con diametri di circa 0,10-0,12 millimetri, ed in particolare risulta un filo praticamente esente da elasticità, dimensionalmente stabile.
Dalla configurazione base è semplice con questo metodo passare ad altre ben più complesse che evocano scenari molto diversi, come nei Netscapes di Numen (vedi cap. Casi Studio)
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Sono perciò possibili infinite configurazioni per queste reti, che costituiscono un terreno di gioco inusuale, dinamico e divertente per svolgere diversi tipi di attività, dalla più seria “lettura sospesa” a una bella battaglia di cuscini.
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IL SEMINTERRATO Lo spazio del seminterrato è l’aula a disposizione della attività che richiedono un piano d’appoggio e delle sedute comode, lo spazio dove si può decidere di consultare i libri presi dagli scaffali della biblioteca, fare i compiti, seguiti dai propri tutor, scambiare quattro chiacchiere in tranquillità, vedere un film serale proiettato sulla parete. È a questo livello che sono collocati i servizi igienici, in un blocco scatolare
Qui sotto e a pagina seguente: visualizzazione di come dovrebbe apparire il seminterrato, nelle ore diurne e in quelle notturne
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Sistemi di illuminazione: lampadario sospeso alla quota del lucernario, lampade applique, vetro LED del blocco servizi e, opzionalmente, lampade da terra a luce diffusa.
di calcestruzzo, che può essere rivestito con pannelli di lavagna, oppure vetri illuminati in spessore da LED cangianti oppure con dei vetri con LED integrati, per effetti ottici sempre diversi. Inoltre, una piccola accortezza ha fatto sì che vi fossero due ingressi diversificati ai servizi, uno direttamente affacciato sull’ultimo tratto di rampa (toilette per normodotati) e l’altro, più grande e comodo al livello seminterrato (toilette per disabili).
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L’intenzione era quella di ottenere uno spazio che fosse il più possibile attento alle esigenze di tutti, polivalente, dal quale, alzando lo sguardo si potesse percepire la maestosità del volume al di sopra della propria testa, e si arrivasse -forse- ad apprezzare e rivalutare anche uno spazio così apparentemente minuto e anonimo come quello di questo edificio.
Due diverse tipologie di percorso: utilizzando la rampa si accede direttamente alla toilette situata appena al di fuori dell’aula al seminterrato
Attraverso l’uso dell’ascensore, occorre fare un ultimo giro di rampa prima di accedere all’aula nel seminterrato e poter usufruire dei bagni (adattati anche per disabili)
“Il bambino è fatto di cento. Il bambino ha cento lingue cento mani cento pensieri cento modi di pensare di giocare e di parlare [...] cento mondi da scoprire cento mondi da inventare cento mondi da sognare.â€? - Loris Malaguzzi
Fine.
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Km 0 - “Che cosa importa l’esito del cammino, se ciò che conta è solo il fatto di averlo percorso? Non siamo noi che facciamo il viaggio, è il viaggio che ci fa, ci disfa e ci inventa.”
RINGRAZIAMENTI Sono arrivata alla conclusione: di un book, di una tesi, di un’esperienza, di una stagione: bene o male che sia andata, sto per girare pagina. Quest’ultima che manca la uso per dire il mio GRAZIE a tutti coloro che sono stati parte, non dico di questo lavoro, ma senz’altro del mio viaggio; chi condividendo qualche passo appena, chi un tratto di strada, chi il cammino intero fin qui. Il primo Grazie va alla Prof.ssa Silvia Piardi: per la fiducia, gli spunti, la cortesia, gli appuntamenti incastrati miracolosamente in agenda tra un aereo e l’altro...e per i caffè a fine revisione. Un Grazie enorme anche all’Arch. Mattia Ghezzi, correlatore e collaboratore vulcanico, generoso e instancabile di questo progetto: già solo per aver risposto a mail inviate il 30 dicembre merita una menzione speciale. Grazie al sig. Giuseppe Ronchi e alla sig.ra Giuseppina, per la simpatia e la disponibilità, per aver messo a mia disposizione materiali, documenti...e per avermi concesso una visita a quella straordinaria Wunderkammer che è casa loro. Ringrazio i miei compagni di studi (in particolare i reduci di questi ultimi due anni di specialistica): Pati, Fra, Vale, Mati, Giacomo, Carla, Manon, Chiara, Giada, Cami, Pepa, Mich, Rennie, Ila, Andre, Marilù, Gian, Alby e chiunque posso aver dimenticato...tra Polisopravvissuti non occorrono troppe parole. In bocca al lupo a tutti :) Grazie in particolare a Elisa e Giacomo, miei compari nella tesi precedente: anche adesso mi tornate in mente. Grazie Prev, per le paturnie e le fatiche condivise, le sedute psicologiche via etere, le risate ignoranti e quelle isteriche, per tutti i “maaaac“, i “no ti devo
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troppo raccontare“ e i “chebotta“, per essere Amica anche se siamo tanto diverse. Grazie Jack, per avermi insultato e aiutato (sì, in quest’ordine) fin dal 1° anno; per avermi insegnato il (poco) marchigiano che so, per esserci sempre stato quando avevo bisogno...e anche quando non ne avevo! Manchi, bischero :) Grazie Giulio, perchè i buoni Amici fanno così: ti aspettano. E ritornano da te, magari non spesso, ma sempre. Magari giusto il tempo di raccontarti una bella storia...la loro. Grazie Dado, Grazie Fo, soprattutto Grazie Ali, soul sister degli anni del liceo: Friends can grow separately without growing apart. É vero, non sono una che “tende tanto la mano”...ma chi la cerca, la trova. Agli Amici di Varedo, assai più meravigliosi di quelli che merito. Il lavoro per questa tesi mi ha sottratto da voi per molto...ok, troppo tempo. Scusate se vi ho trascurato, in questo “finale” ci siete anche voi: Giallo, Akef, Confa, Dani, Eddi, Giulia, Edo, Ely, Ema, Fede, Marco, Melissa, Miriam, Miky, Tommy, Colo, Silvia, Gabri e chi posso (perdono!) aver dimenticato. Se la vostra pazienza ha retto...sono tornata. A don Matteo, Suor Ale e Fra Andrea: per NON avermi lasciato in pace quando era il momento, per avermi donato ricordi che mi strappano sorrisi enormi anche nei momenti più neri :) A don Leandro, per le chiacchierate (tutte, quelle più e quelle meno serie), per la vicinanza, le battute, le canzoni e i “ma come ti pettini!!!“ A don Emanuele e a tutti i pellegrini di Santiago, per il nostro “compartir“ e quello che grazie a voi ancora porto nel cuore. Un ringraziamento particolare ad Arianna e Laura, mie compagne di Mesedas (mi avete insegnato molto sul coraggio e sull’amicizia, a volte venendomi a cercare, altre volte andando via) e a Matteo, compagno di Galizia (per tutti quei “ehi come va?” che...a volte t’avrei strozzato, ma a volte servivano davvero a non impazzire).
Alla mia famiglia. Tutta: nonni, zii, cugini (ma sì, anche quelli “work in progress” :P) compresi: numerosa, incasinata, imperfetta, litigiosa, impegnata, caciarona...Posso solo dirvi: “che bello avervi!“ :) Grazie. Un Grazie particolare a Giorgia, che un giorno saprà leggere queste righe: Grazie perchè mi hai fatto capire una cosa fondamentale: “non importa quanta dignità tu abbia: se un bimbo ti passa un telefono finto, tu DEVI rispondere!” Ultimi ma non ultimi, mi rivolgo a voi, Mamma & Papà. Siete stati con me sempre, anche quando credevate non lo sapessi o non lo volessi. Avete continuato a volermi bene, s(o)upportato con ogni mezzo, in ogni momento, spronandomi, consigliandomi e credendo in me incondizionatamente; anche quando era difficile, quando ero nervosa, quando “..sta su de doss!“. Anche quando prendevo scelte non condivise o quando non lo meritavo affatto. That’s Amore. Non ho modo di ringraziarvi abbastanza. Vorrei solo che sapeste che vi porto con me, che ci crediate o no, in ogni scelta, ad ogni bivio, su ogni strada. Spero di poter essere, non solo oggi, il motivo per cui sorride(re)te. Per sempre / Solo per sempre / Cosa sarà mai portarvi dentro solo tutto il tempo...
Ah già, dimenticavo! Un ultimissimo pensiero per Mauro, per la costanza e la determinazione nel “volerci essere“. Grazie per essermi -materialmente- venuto incontro in questi mesi (e non solo). Grazie per le cose belle (“fa più rumore un albero che cade / di un’intera foresta che cresce“) e le cose meno belle condivise. Grazie per aver suscitato in me tante domande cui rispondere. Per avermi ricordato che avrò sempre un’altra pagina da scrivere. Non so cosa ci sarà sulla prossima ma...lo scoprirò presto.
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“Not gray, exactly. Right before the sun rises there’s a moment when the whole sky goes this pale nothing color -not really gray but sort of, or sort of white, and I’ve always really liked it because it reminds me of waiting for something good to happen.” [Lauren Oliver]
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People ignore design that ignores people