La figura femminile nei mass•media a cura di Sara Potente
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Accademia di Belle Arti di Roma A.A. 2016/2017 Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate Scuola di Progettazione Artistica per l’Impresa Corso di Diploma Accademico di I Livello in Grafica Editoriale Tesi di Laurea La figura femminile nei mass-media
Relatore: Enrico Pusceddu Studente: Sara Potente matricola n:11702
AbstrAct
I Mass-media, e la pubblicità in particolare, usano una comunicazione persuasiva ed oggi è praticamente impossibile non lasciarsi influenzare, anche a causa dell’incessante ondata di informazioni che vengono proposte, molte delle quali vengono recepite al livello inconscio. I Media sono responsabili della propagazione degli stereotipi di genere, solitamente a discapito dell’immagine della donna, svuotata della sostanza e ridotta a mero oggetto di attrazione maschile. Dagli studi emerge che la donna viene rappresentata in tre grandi ambiti: nello stereotipato rapporto tradizionale tra uomo e donna, come idealizzazione della bellezza femminile, e soprattutto come oggetto sessuale. La pubblicità usa la donna, o più precisamente il suo corpo, per vendere qualsiasi bene di consumo, senza alcun riguardo per quale sia l’effettivo target del messaggio, e questa incessante ondata di stereotipi su tutte le piattaforme, ha normalizzato un linguaggio sessista che ormai non viene
neanche più percepito come violenza. A fronte di tale scenario, questo progetto si interessa in primo luogo di approfondire le varie fasi del movimento femminista e la situazione della donna nell’arco del XX secolo, per poi osservare come viene rappresentata sui vari mezzi di comunicazione (TV, cinema e pubblicità); vengono analizzati i rischi sociali che derivano dall’attuale mercificazione della donna, e come il problema dovrebbe essere affrontato. Questo studio tratta un tema molto spesso ritenuto “di frontiera” o addirittura superato, ma che tutt’ora condiziona intere generazioni a determinati stereotipi di genere. La parte progettuale si concentra su una rivista periodica di approfondimento, che tratta dei vari problemi sociali delle donne di oggi, con diverse argomentazioni ad ogni pubblicazione; così da sensibilizzare il grande pubblico su problematiche anche marginali e fornire approfondimenti di interesse specifico. In questo caso il numero tratta di come viene rappresentata dai Massmedia e di cosa questo comporta. 1
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sommArio
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Introduzione • Un primo approccio
11. Il Femminismo • • • •
Prima Ondata - Le origini e le suffragette Seconda Ondata - Gli anni ’60 e ’70 Terza Ondata - Una rete di femminismi Quarta Ondata - La crisi della mascolinità
63. La donna ed i mass media • La rappresentazione della donna nei media di ieri • La rappresentazione della donna nei media di oggi • Analisi riviste
93. Pubblicità emblema della comunicazione persuasiva • Iconografia femminile nella pubblicità di ieri e di oggi • Analisi di pubblicità • Un cambiamento?
115. Rischi e conseguenze sociali • • • • •
Modelli teorici di influenza nei media TV, una cattiva maestra Il mito della bellezza - Disturbi dell’immagine corporea Il Double bind effect Violenza di genere
147. Contrastare Sessismo e Stereotipi • • • • •
Il quadro normativo in Italia e nell’Unione Europea Censura Il web Il culture Jamming Il potere delle parole
165. Conclusione
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1.
introduzione
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I Mass-media, e la pubblicità in particolare, usano una comunicazione persuasiva ed oggi è praticamente impossibile non lasciarsi influenzare, anche a causa dell’incessante ondata di informazioni che vengono proposte, molte delle quali vengono recepite al livello inconscio. I Media sono responsabili della propagazione degli stereotipi di genere, solitamente a discapito dell’immagine della donna, svuotata della sostanza e ridotta a mero oggetto di attrazione maschile. Lo stereotipo femminile nella società è da sempre collegato a quello nella comunicazione di massa, ma mentre in passato la pubblicità era lo specchio della realtà, che vedeva la donna esclusivamente come madre e moglie perfetta, oggi la situazione si è ribaltata, e sono le donne a prendere ad esempio da imitare le figure femminili che ci vengono incessantemente proposte dai media. Nella tesi, in particolare si affronterà il problema per cui la rappresentazione dei media del genere femminile sia fedele ai modelli reali di donne presenti nella società, e dove invece risulti evidente l’introduzione di illustrazioni di fatto stereotipate. In questo senso attrici come Marilyn Monroe sono diventate “icone di sessualità, immagini statiche il cui fascino risiede nelle fantasie che vi vengono proiettate” Le strategie dei mezzi di comunicazione operano soprattutto con lo scopo di costruire dei segni di tipo verbale e visivo che devono essere comprensibili al lettore. Dimostrare il modo in cui il messaggio mediatico trasmesso opera per coinvolgere e fare effetto sul lettore, significa interpretare un preciso codice manipolativo, utilizzato il più delle volte nelle pubblicità. Dagli studi emerge che la donna viene rappresentata in tre grandi
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ambiti: nello stereotipato rapporto tradizionale tra uomo e donna, come idealizzazione della bellezza femminile e soprattutto come oggetto sessuale. La pubblicità usa la donna, o più precisamente il suo corpo, per vendere qualsiasi bene di consumo, spesso senza alcun riguardo per quale sia l’effettivo target del messaggio e ignorando qualsivoglia etica della comunicazione. Va sottolineato che gli stereotipi proposti non solo alterano la percezione delle donne da parte degli uomini, ma anche da loro stesse. Il livello di “perfezione” proposto è lontanissimo dalla realtà, sia per quanto riguarda lo stereotipo di “angelo del focolare” (le donne completamente dedite alla famiglia appartengono ad un altro secolo), che per la donna-oggetto (magrissima, bella e sexy, nella quale possono rispecchiarsi pochissime persone); questa distanza tra “ciò che si dovrebbe essere” e “ciò che si è” porta molte donne ad essere a disagio con il loro corpo o con la loro situazione socio/lavorativa, e di conseguenza con loro stesse,rischiando una serie di dannose conseguenze. Questa incessante ondata di stereotipi su tutte le piattaforme, ha normalizzato un linguaggio sessista che ormai non viene neanche più percepito come violenza. L’effetto di condizionamento psicologico che questi messaggi hanno, sia sulle donne che sugli uomini, sono di fatto una violenza, potenzialmente lesiva sia al livello morale e spirituale, che al livello fisico.
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1.1. un Primo APProccio Prima di analizzare in modo dettagliato la rappresentazione della figura femminile nei mass-media, credo sia doveroso analizzare i passi del movimento grazie al quale oggi le donne sono libere di opinare, di esprimersi e, in breve, di vivere la propria vita in autonomia decisionale: Il Femminismo. Innanzitutto cos’è il femminismo? Purtroppo ancora oggi moltissime persone (molte più di quante credessi), sia uomini che donne, vivono nella convinzione che il femminismo sia il contrario del maschilismo. Ovviamente non è così. Il femminismo indica: La posizione o atteggiamento di chi sostiene la parità politica, sociale ed economica tra i sessi, ritenendo che le donne siano state e siano tuttora, in varie misure, discriminate rispetto agli uomini e ad essi subordinate; • La convinzione che il sesso biologico non dovrebbe essere un fattore predeterminante che modella l’identità sociale o i diritti sociopolitici o economici della persona; • Il movimento politico, culturale e sociale, nato storicamente durante l’Ottocento, che ha rivendicato e rivendica pari diritti e dignità tra donne e uomini e che - in vari modi - si interessa alla comprensione delle dinamiche di oppressione di genere. •
Dunque mentre nel maschilismo è una forma di sessismo, basata sulla presunta superiorità dell’uomo nei confronti della donna, e parliamo quindi di discriminazione, nel femminismo ciò che si cerca non è la supremazia
sull’uomo, ma la parità di diritti e doveri. I primi passi per la conquista dei diritti femminili avvengono già nell’arco del 1700, incoraggiati dal clima illuminista di libertà e uguaglianza; ovviamente i criteri di libertà e uguaglianza tipici di questo movimento non sono estesi alle donne, tuttavia anche loro cominciano a sentire l’aria di rivoluzione ed evoluzione sociale che presto avrebbe cambiato in modo irreversibile tutto il mondo occidentale. Nella seconda metà dell’ ‘800, in una società patriarcale, dove l’uomo è dominante, nasce il movimento delle Suffragette, che rivendica il diritto di voto alle donne, e per la prima volta mette in dubbio la superiorità del genere maschile. Un ulteriore attacco alla sicurezza dell’uomo avviene con la “crisi delle certezze” di inizio ‘900, quando si perdono tutti quei valori e quelle speranze che avevano caratterizzato il positivismo ottocentesco. La filosofia nichilista di Nietzsche, la teoria della relatività di Einstein, la psicoanalisi Freudiana, la maschera di Pirandello, suggeriscono e diffondono un unico concetto: l’uomo è solo, e vive in una realtà frammentata, non esiste una realtà oggettiva, ma tante verità relative. Allo scoppio della Grande Guerra si perde definitivamente fiducia nel progresso, in passato oggetto di grandi aspettative, e ora usato dagli esseri umani per distruggersi a vicenda. Questa crisi si riflette in tutti i campi artistico-culturali: nella musica troviamo suoni disconnessi, in arte troviamo immagini frammentate, ed il linguaggio letterario si impegna a dimostrare 9
l’inesistenza di una realtà oggettiva. In quel periodo una delle penne di maggiore prestigio è quella di Virginia Woolf (1882 1941), grande scrittrice, saggista e attivista britannica, che abbraccia e rappresenta il movimento per la parità dei diritti dei sessi. « Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna? »1 Con molti dei suoi libri, come “La signora Dalloway”, “stanza tutta per sé”, o “Orlando”, indica alle donne la via dell’indipendenza per prendere parte al mondo della cultura e delle idee, conquistandosi l’indipendenza economica e, per l’appunto, “stanza tutta per sé”: «Una donna deve avere denaro, cibo adeguato e una stanza tutta per sé se vuole scrivere romanzi.». Il suo è un canto che si leva alto e che toglie il velo ai “Segreti, silenzi e bugie”. In questo periodo gli uomini sono costretti a partire per la guerra, e le mogli a prendere il loro posto lavorando in fabbrica. È in tale contesto che le donne prendono consapevolezza di loro stesse e delle proprie capacità, che possono offrire molto anche al di fuori del contesto famigliare. Così al rientro in patria dei mariti non sono disposte a tornare ad una vita prettamente domestica e completamente subordinata all’uomo. Negli anni successivi una serie di avvenimenti segna uno dei periodi più
1. Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, 1929
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bui dell’umanità: La crisi economica, la nascita dei totalitarismi, la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, tolgono all’umanità qualsiasi speranza per il futuro. Negli anni ‘50- ‘60 si assiste ad un miglioramento delle condizioni di vita, alla nascita del consumo di massa e di un mercato che si rivolge direttamente alle donne, rendendole sempre più emancipate e consapevoli dei loro diritti. I movimenti studenteschi alla fine degli anni ‘60 sferrano un ulteriore attacco alla società patriarcale, e il ruolo del padre nelle famiglie viene nettamente ridimensionato. Si ricomincia a sperare in un futuro migliore, sono gli anni del boom economico, del miracolo. Tra gli anni ’60, ’70 e per una parte degli anni ’80, il movimento femminista rivendica un “punto di vista femminile” sul mondo. Questi fenomeni si legano a un femminismo sempre più potente. In letteratura, sino a quel momento,erano evidenti le basi di una società patriarcale, in cui l’uomo è il bene, la ragione, l’intelligenza, la forza, il lavoro, mentre la donna è il male, i sentimenti, le emozioni, la vita domestica, la debolezza. Le nuove scrittrici, come Angela Carter (1940 - 1992), cercano di distruggere questa visione della realtà, riscrivendo queste storie appartenenti alla tradizione in chiave femminista, dove la donna ha il ruolo centrale. In questo contesto di crisi culturale si inserisce una crisi identitaria: la crisi del genere maschile.
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il Femminismo
Lady Nancy Astor (1879 1964), prima donna eletta a sedere ad un seggio e a prendere effettivamente parte ai lavori parlamentari.
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Nel 1897, a tre anni dall’inizio del Novecento, in Italia viene pubblicata l’opera di Luigi Fichert dal titolo Femminismo (Terzo sesso). Satira morale. Per la prima volta nello Stivale si pronuncia la parola femminismo. Ma il vocabolo è di origine francese, è un neologismo medico coniato nel 1870 per descrivere il caso patologico in cui un maschio adulto ancora non ha sviluppato la sua virilità. A due anni di distanza lo stesso termine compare in un articolo di Alexandre Dumas figlio, il quale ne fa uso per descrivere il movimento delle donne che agisce per rivendicare la parità con il genere maschile. Inizialmente, questo processo di difesa è legato a singole personalità femminili di spicco. In Francia ad esempio ,Marie de Gournay (scrittrice e filosofa) nel 1622, scrive L’uguaglianza tra uomini e donne; in Inghilterra nel 1702, Elizabeth Mallet fonda il primo quotidiano del mondo, The Daily Courant. Nel 1792, Mary Wollstonecraft, pubblica a Londra la Rivendicazione dei diritti della donna; bisogna precisare che, a quel tempo, la richiesta prevalente non era il diritto al voto (che non avevano neanche tutti gli uomini), ma il diritto all’istruzione e alla conoscenza. La Wollstonecraft si rivolge alle donne di classe media e agli uomini a cui stesse a cuore qualcosa che ci è ancora molto familiare: una riforma morale della vita pubblica, della politica e degli affari: «E’ ora di effettuare una rivoluzione nei modi di vivere delle donne e di far sì che esse, come parte della specie umana, operino...per riformare il mondo»1. Nel corso del XVIII secolo, l’Europa e l’America sono pervase dalla corrente Illuminista di quegli anni; Il ‘700 è infatti 1. “Rivendicazione dei diritti della donna”, di Mary Wollstonecraft, è alla base per comprendere i caratteri del primo femminismo. L’autrice ne focalizza i temi fondamentali; la critica del patriarcato, l’uguaglianza, la questione del soggetto, del sé e dell’identità.
chiamato il secolo della ragione, dove vengono analizzati molti campi, dalla religione, alla politica, alla pedagogia. I valori fondamentali che sottendono questo movimento sono l’esaltazione dell’intelletto e della ragione, e la tolleranza, cioè che tutti gli uomini sono liberi di pensare e dire ciò che vogliono senza essere per questo considerati nemici. Ovviamente questi criteri non sono applicabili alle donne, ma anche loro cominciano a concentrarsi sul problema dell’identità femminile a partire da se stesse. In altre parole ci si comincia a chiedere: “cos’è la donna”, “chi sono le donne”, “cosa vogliono” e non “come deve essere una donna”, “cosa non devono fare le donne” o “cosa mi è consentito fare”. Inoltre si comincia a sentir parlare di Sessismo, ossia del fatto che, a fronte del dato che gli esseri umani nascono di sesso maschile o femminile, si fa corrispondere la supremazia gerarchica di un sesso sull’altro. In altri termini, il fatto della differenza sessuale, funziona come principio di discriminazione tra un sesso dominato e uno dominante, o quanto meno, un sesso che dice all’altro cosa è e come deve essere. Il sessismo è un fenomeno evidente nella nostra storia e non è il risultato di uno sguardo femminista ideologizzato: sin dall’antica Grecia, la supremazia dell’uomo sulla donna viene praticata, ma anche teorizzata come se si trattasse di un principio naturale, e pertanto giusto; la stessa democrazia grecasi fonda sull’esclusione delle donne dalla polis. Da allora, nella tradizione del pensiero filosofico occidentale, troviamo, per secoli, un qualche fondamento teorico che riproduce e giustifica diverse forme di sessismo. Anche se le varie riforme legislative del ‘700 non sono applicabili alle donne, queste cominciano a partecipare alla vita pubblica senza essere necessariamente
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che nonostante apporta qualche piccolo beneficio alle donne all’interno del nucleo famigliare, da corpo all’idea che il suo compito è quello di restare in casa. Portalis, membro della commissione incaricata di stilare il codice, sostenne che «Non è quindi in una nostra ingiustizia, ma nella loro naturale vocazione, che le donne devono cercare il principio dei più austeri doveri che sono imposti a loro maggior beneficio e a profitto della società».
scortate dal proprio marito. Iniziano così a riunirsi nei salotti, che non sempre erano di natura mondana, ma spesso divenivano veri e propri circoli culturali, dove le dame leggono i giornali, prendono parte a dibattiti, scrivono pamphlet e diffondono le loro opinioni; perfino le donne del popolo, non colte o ricche, prendono parte a questa rivoluzione guidando le sommosse e le proteste in piazza, e scrivendo insieme agli uomini le loro rivendicazioni sugli Cahiers de Doléances durante la rivoluzione francese. Nel 1791 in piena Rivoluzione, Olympe de Gouges aveva scritto una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina che dedicò a Maria Antonietta, e venne decapitata due anni dopo; Nel 1904 la sua personalità venne studiata da un medico che la definì un evidente caso di isterismo rivoluzionario e concluse, in base ad alcune sue abitudini come fare il bagno tutti i giorni, la scarsa propensione a riposarsi e una certa libertà sessuale, che il suo interesse per la politica derivasse da una patologica carenza di femminilità. Questo processo di evoluzione fu bruscamente interrotto nel 1804 dall’emanazione del Codice di Napoleone, 14
Così il movimento per l’emancipazione che si era via via allargato fino a coinvolgere le classi più disagiate si ritira, tornando ad essere prerogativa di un’élite politica e culturale. La storia ufficiale del femminismo inizia nell’Ottocento ed è stata divisa in tre diverse fasi, dette “ondate”, che corrispondono ad altrettante generazioni di donne decise a battersi per i propri diritti. Il perno portante del movimento femminista, è da sempre la rivendicazione di pari diritti e dignità tra donne e uomini, e contrastare l’autoritarismo patriarcale che ha portato alla supremazia dell’uomo nelle società; tuttavia ogni ondata ha portato con sé nuove priorità, nuovi metodi e nuove protagoniste. Tutti questi cambiamenti incidono fortemente sulla sicurezza e sul senso di mascolinità dell’uomo, il quale si convince che in realtà le femministe “odiano gli uomini”, etichettandole come misandriche2, ed è per questo che comincia ad odiarle a sua volta.
2. Il termine “Misandria” indica per l’appunto un sentimento e atteggiamento di ostilità, avversione o odio, nei confronti del genere maschile.
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2.1. PrimA ondAtA le origini e le suFFrAgette La prima ondata femminista si propone come scopo il raggiungimento della parità giuridica fra uomo e donna. A partire dal 1820 la situazione femminista ricomincia a smuoversi molto lentamente. In Italia troviamo Bianca Milesi, che tornata nel suo paese natio dopo aver studiato in Austria e Svizzera, crea scuole popolari di mutuo insegnamento, dando vita anche ad una sezione femminile per la diffusione delle idee mazziniane. Tra le sue discepole predilette c’è Cristina Trivulzio principessa di Belgioioso, grande sostenitrice della causa per l’unità nazionale secondo le idee repubblicane di Mazzini. Nel 1849, durante l’assedio di Roma mette insieme un gruppo di “scostumate” popolane, organizzando il pronto soccorso e il servizio ospedaliero per i feriti, come richiesto da Mazzini stesso. Fortunatamente all’epoca vi erano moltissime donne disposte ad aprire i loro salotti a patrioti, letterati ed artisti, permettendo così la circolazione e lo sviluppo delle idee, e che si dedicarono in particolari modo alla causa dell’elevazione culturale della donna, creando asili, circoli, scuole. Verso la metà del secolo, smorzatosi l’ondata maschilista, il femminismo si rianima, uscendo definitivamente dai salotti, passando dalle elaborazioni teoriche individuali ad un’organizzazione più solida. In America assistiamo a decise ma individuali azioni di impronta femminista. Nel 1843 viene redatto il primo vero e proprio manifesto femminista americano da parte di Margaret Fuller, dapprima come saggio dal titolo
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“L’uomo contro gli uomini - La donna contro le donne”, all’interno della rivista “The dial”, ma nel 1845 viene rielaborato e appare col titolo “La donna nel XIX secolo”. Nascono moltissimi giornali fondati e diretti da sole donne, come “La femme libre”, fondata nel 1832 in Francia da Desirée Verret e MarieReine Guindorf, espressione del femminismo della classe operaia, che invita tutte le donne, pagane e cristiane, a collaborare. In seguito il giornale passa sotto la direzione di Suzanne Voilquin, una ricamatrice di Parigi che dopo aver ottenuto il divorzio inizia a travestirsi da uomo per poter studiare. Lei cambia il nome del giornale in “La Tribune des Femmes”, e combatte grandi battaglie a favore dell’indipendenza delle colonie, contro la prostituzione, per l’indipendenza economica delle donne, per l’educazione e la formazione paritaria a quella dell’uomo e il libero amore. Le collaboratrici si firmano con il solo nome di battesimo non solo per restare nell’anonimato, ma anche per rifiutare il cognome del marito, simbolo della prepotenza maschilista. Il giornale chiude nel 1834 a causa della repressione politica. “La Gazette des Femmes” invece è dedicata alle donne della borghesia, che come contribuenti vogliono beneficiare determinati diritti politici e civili: il diritto di petizione, per concedere alle donne un’esistenza legale, il diritto ad essere sostenute in tutte le iniziative da loro intraprese e il diritto a che venissero condannati tutti i delitti contro le donne. Dopo il 1848, con la seconda repubblica, il femminismo francese acquista nuovo
slancio e si può definire a tutti gli effetti di tipo socialista, caratterizzato dalla lotta per il miglioramento delle condizioni materiali e della propaganda delle idee. I più famosi giornali femministi di questo periodo sono “La Voix des Femmes”, che esprimeva il suo slogan in questi termini: «una nuova concezione dell’esistenza implica una rivoluzione per tutti e per tutte», e “La Politique des Femmes”, che assumerà la guida del movimento femminista. Nel giugno del ‘48 una sanguinosa repressione censura tutti i giornali femministi, ma appena un anno dopo “L’Opinion des Femmes” denuncia tutti i soprusi subiti. Questo è anche il periodo in cui scrittori e disegnatori famosi si dilettano nella derisione del personaggio della femminista. Flaubert con il romanzo “L’educazione sentimentale” la mette ridicolo con non poca cattiveria, mentre Honoré Daumier e Paul Gavarni le dedicano sarcastiche caricature. Nel 1849 abbiamo la fondazione della rivista femminista tedesca “Frauen Zeitung”, ad opera di Louise Otto. La redazione del giornale assume un’importanza cruciale, diventando il punto di incontro delle femministe tedesche, ma nel 1852 viene soppressa perché è vietata la presenza di donne nelle associazioni politiche. Nel 1865 la Otto insieme a delle collaboratrici fonda “L’Unione generale delle donne tedesche”, che durerà fino all’avvento del nazismo. Nella prima metà dell’ ‘800 in Inghilterra, nasce un femminismo di natura protestante, incentivato dal movimento antischiavista promosso a Boston dal giornalista William Lloyd George, che aveva fatto appello alla sensibilità femminile per la liberazione delle donne di colore. In quel frangente schiere di donne nel mondo occidentale speravano in una qualunque
occasione per poter far ascoltare la propria voce. In pochissimo tempo vengono fondati tre gruppi antischiavisti femminili protestanti, dove collaborano donne nere e bianche, protestando davanti alle chiese e in mezzo alle piazze. Ovviamente incontrano l’opposizione dei pastori protestanti, che attraverso una lettera pastorale, avvertono le donne di non occuparsi di affari pubblici, ma queste prontamente risposero che: «Non è soltanto la causa degli schiavi che noi difendiamo, ma quella della donna come essere morale e responsabile». Nel 1838 Sarah Grimké, pubblicò il primo manifesto del femminismo protestante contemporaneo, “Letters on the Equality of the Sexes, and the Condition of Woman”. Nonostante tutto queste donne erano ferventi cristiane, per questa ragione esse cominciarono a portare avanti un attento studio sulla Bibbia, per riscontrare nella Sacra Scrittura tutti i punti in cui veniva ribadita l’uguaglianza dei sessi, che hanno stessi diritti e stessi doveri. Il motto più famoso del femminismo protestante rimarrà questo: «Pregate Dio, Lui vi esaudirà». Da questo movimento prenderanno corpo tutta una serie di opere sociali finalizzate al recupero delle prostitute, delle carcerate e degli ospedalizzati. Tornando in Francia, con la Comune di Parigi instaurata nel 1871 (primo storico esperimento di autogestione popolare), le donne hanno di nuovo la possibilità per fare fronte comune. Louise Michel, Léodile Champseix, Paule Minck scrivono e viaggiano di città in città per difendere la Comune: «Se Parigi cade, il giogo della miseria vi resterà sul collo e passerà sulla testa dei vostri figli... La terra al contadino, l’arnese all’operaio, il lavoro a tutti». L’11 aprile un gruppo di donne (prevalentemente
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operaie), crea l’“Unione delle donne”, organizzando in ogni quartiere circoli e club. l’Unione si prefigge compiti di tipo assistenziali e da a tutte le donne la possibilità di esprimersi liberamente sui problemi che le tormentavano. Purtroppo solo dopo pochi mesi le truppe danno inizio ad una guerriglia contro i rivoluzionari per riprendersi il potere, ma nemmeno in questo momento le donne rinunciano all’azione, imbracciando i fucili (come Louise Michel, che incarna la determinazione della Comune) e portando avanti una propaganda per sostenere gli animi (come Caroline Rémy, la prima donna giornalista a vivere del proprio lavoro) : il 6 aprile del 1871 su tutti i muri di Parigi compaiono mille manifestini dell’Unione che recitavano così: «In nome della rivoluzione sociale che acclamiamo, in nome della rivendicazione dei diritti al lavoro, all’uguaglianza e alla giustizia, l’“Unione delle donne” per la difesa di Parigi e per i soccorsi ai feriti protesta con tutte le sue forze contro l’indegno proclama alle cittadine apparso l’altro ieri a cura di un gruppo anonimo di reazionarie» «Il suddetto proclama invita le donne di Parigi ad appellarsi alla generosità di Versailles e a chiedere la pace a qualsiasi prezzo. La generosità di vili assassini! Una cooperazione tra libertà e dispotismo, tra il popolo e i suoi boia! No, non è la pace, ma la guerra a oltranza che i lavoratori di Parigi reclamano! Oggi una conciliazione sarebbe un tradimento!... Sarebbe rinnegare tutte le aspirazioni operaie che hanno acclamato la rivoluzione sociale assoluta, l’annientamento di tutti i rapporti giuridici e sociali ora esistenti, la soppressione di tutti i privilegi, di ogni genere di sfruttamento, la sostituzione del regno del lavoro con quello del capitale, in una parola la liberazione del lavoratore da parte del lavoratore!... Unite e risolute, cresciute e illuminate dalle sofferenze che seguono sempre le
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crisi sociali, profondamente convinte che la Comune, testimonianza dei principi internazionali e rivoluzionari dei popoli, porti in se stessa i germi della rivoluzione sociale, le donne di Parigi proveranno alla Francia e al mondo che anch’esse, nel momento del pericolo supremo - sulle barricate, sulle mura di Parigi, qualora la reazione forzasse le porte - sapranno donare come i loro fratelli il sangue e la vita per la difesa e il trionfo della Comune, cioè del Popolo!» Dall’esperienza della comune scaturisce un femminismo liberale, sulla scia di quello inglese, fondato sul principio: “chi non è rappresentato in parlamento non paga le tasse”. In Italia, a differenza della Francia, sono soprattutto le intellettuali borghesi che si impegnano in campo sociale, organizzando movimenti di sensibilizzazione. Alessandrina Ravizza nel 1868 entra nella “Associazione generale di mutuo soccorso delle operaie di Milano” e fonda, insieme a Laura Mantegazza, le scuole professionali femminili; Nel 1879 crea la cucina per ammalati poveri, a cui si aggiungerà un ambulatorio medico ed un magazzino benefico che offre lavoro e generi alimentari a basso prezzo. Le femministe italiane di fine secolo sono perlopiù senza figli, animate da ideali romantici, vicine ad ambienti socialisti e anarchici; come Sibilla Aleramo, di formazione positivista, che si prodiga per l’alfabetizzazione della popolazione. Parallelamente al femminismo di ispirazione socialista se ne sviluppa uno di ispirazione cattolica: mentre quello socialista rivendica parità giuridica, economica e sociale, l’altro pretende una uguale partecipazione alla missione della Chiesa nel mondo per l’uomo e la donna. Luisa Anzoletti ripropone l’immagine
Emmeline Pankhurst (1858 - 1928), durante uno dei suoi vari arresti.
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della donna forte della Bibbia che si impegna in prima persona per il progresso civile. Comunque sia il problema più importante resta l’educazione, e per la fine del secolo la donna istitutrice che si mantiene da sola, è l’immagine femminista ideale. Nonostante questo anche la donna nubile, cittadina, viaggiatrice e colta costituisce un modello molto idealizzato. Christabel Pankhurst dichiara che il nubilato per lei ha un significato politico come scelta contro la schiavitù sessuale. Le rivendicazioni sessuali femministe, che riguardano specificamente il corpo, prendono piede solo negli ultimi 15 anni del secolo, dato che si è frenati da un qualche senso di pudore e convenzione sociale, le vere lotte contro gli abusi sessuali si scatenano con violenza solo con l’avvento del nuovo secolo, in special modo in Inghilterra e in America dove i progressi giuridici sulla proprietà, sul divorzio, l’educazione e il voto sono maggiori.
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Due tra le femministe ottocentesche che segnano un’epoca, sono Gualberta Alaide Beccari e Anna Maria Mozzoni. Nel 1868 a Padova la Beccari, fonda la rivista “La donna”, una delle più importanti espressioni dell’emancipazionismo femminista italiano del secondo Ottocento. Lo scopo è creare «un organo degli interessi femminili […] l’unico scritto da donne». Sul primo numero la direttrice scrive «Parleremo dei doveri e dei diritti. La donna buona, saggia, onesta cittadina, laboriosa è lo impulso alla civilizzazione di un popolo: ambiziosa, vana, civetta, concorre a formare viziata la società». Lo scopo principale della rivista è di informare ed educare la donna in tutti gli ambiti: politico, letterario, scientifico ed artistico; gli articoli infatti, oltre alla sezione teorica, riportano esempi pratici riguardo le scuole ed il mondo del lavoro, e sono sempre presenti collegamenti che
permettono uno sguardo internazionale. Alla rivista collabora anche la Mozzoni, la più importante femminista italiana dell’Ottocento, che fin da bambina conosce la discriminazione sulle donne. Nel 1864, a pochi anni dall’Unità, pubblica il suo primo libro legato alla problematica femminista, “La donna e i suoi rapporti sociali”, alla quale segue nel 1865 “La donna in faccia al progetto del nuovo codice civile italiano” e nel 1870 “La servitù femminile”; in questi testi chiede istruzione, parità con gli altri cittadini al raggiungimento della maggiore età, diritti elettorali e diritto a svolgere qualsiasi impiego o professione, diritto ad acquistare la cittadinanza anche senza matrimonio, equilibrio tra i coniugi, superamento dei doveri di obbedienza da parte delle donne. Le sue richieste la dicono lunga sullo stato della situazione effettiva della donna nel periodo post- unitario. La Mozzoni rappresenta l’ala più radicale del movimento, poiché considera la questione femminile un problema sociale delle donne di ogni classe. Anna Maria Mozzoni rappresenta un punto avanzato del pensiero femminista: chiarisce bene che le donne non devono mai cedere all’idea di mostrarsi migliori degli uomini, ma devono piuttosto chiedere di essere trattate come loro. Nel 1881, pur essendo nobile di nascita, la Mozzoni aderisce al partito operaio indipendente e insieme alla Kuliscioff costituisce la “Lega per la promozione degli interessi femminili”, e partecipa alla formazione del partito socialista. Nasce nel 1837 e muore il 14 giugno 1920: L’Avanti!, del 18 giugno le dedica un necrologio: «E’ morta a 83 anni Anna Maria Mozzoni, che fu a suo tempo, se non la prima, certo una delle più geniali e più amabili assertrici dei diritti e della emancipazione femminile in Italia. [...] Si è spenta oscuramente, ma le tracce della sua opera di un tempo restano incancellabili nella storia della causa femminile e la sua
Gualberta Alaide Beccari (1846 - 1906)
Anna Maria Mozzoni (1837 - 1920)
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memoria rimane simpatica ed indelebile nell’animo dei vecchi amici che le sopravvivono». Ad ogni modo bisogna precisare che né il movimento socialista né quello marxista abbracciano la causa dell’emancipazione femminile in modo automatico. I marxisti sposano il fine femminista grazie all’opera, lunga e faticosa, di donne come Clara Zetkin, che riesce a far adottare lo slogan “uguale salario ad uguale lavoro”; mentre nell’Internazionale socialista le richieste femminili sono quasi totalmente ignorate, o comunque trattate con superficialità. Intanto nel 1870 a Ginevra si tiene il primo congresso internazionale delle donne, dove, ovviamente oltre l’ingiusta discriminazione sessista, viene esaminata l’inutilità del conflitto franco-prussiano allora in corso. Al congresso internazionale del 1878 di Parigi, partecipano anche le donne inglesi, più agguerrite che mai, dato che in quel periodo combattono la battaglia contro la prostituzione legalizzata, contro il controllo amministrativo e medico delle prostitute, sostenendo che costituiva un “sacrificio delle libertà femminili” alla “schiavitù del desiderio maschile”. Secondo loro la regolamentazione avrebbe protetto e incoraggiato il vizio maschile, senza risolvere il problema delle prostitute. Quest’entusiasmo trascina poi molti altri paesi europei nella lotta contro la regolamentazione, anche se in ogni paese assume forme specifiche: In Germania ad esempio, oltre ad accusare il governo di avallare lo sfruttamento 22
della prostituzione, nasce una lotta di repressione morale della prostituzione stessa. Per quanto riguarda l’aborto invece, le femministe ottocentesche sono schierate pressoché tutte contro la pratica, e lottano perché la legge venga abolita, sostenendo facesse parte dello sfruttamento sessuale e del degrado delle donne, così come la contraccezione, altra pratica messa al bando. Molto probabilmente la causa di queste convinzioni era la diffidenza delle femministe verso i medici, accusati di approfittare del corpo della donna. In questi anni uno dei centri più importanti per lo sviluppo del femminismo europeo, è Zurigo. Questo grazie alla sua università, dove varie facoltà sono aperte alle donne, così molte femministe europee lasciano il loro paese (a volte clandestinamente) per recarsi in Svizzera. Un aspetto caratteristico del femminismo zurighese è la rivendicazione del “libero amore” e la lotta contro il matrimonio, considerato borghese. Continuando a parlare della seconda metà
diritto al voto esteso alle donne. Nel 1897, Millicent Fawcett fonda la “National Union of Women’s Suffrage” (Società Nazionale per il suffragio femminile), cercando di far aderire alla causa anche gli uomini, ossia gli unici cittadini legalmente in grado di votare. Purtroppo però non ha molto successo, e quindi i riconoscimenti sociali in quel periodo sono molto limitati. In America, intorno al 1869, il movimento suffragista si divide in due organizzazioni: la “National Women Suffrage Association” e l’“American Women Suffrage Association”. Entrambi i gruppi hanno come obiettivo il suffragio, la differenza sta nel metodo di raggiungerlo. Il primo è moderato e riformista, e agiva soprattutto nella zona di Boston, mentre il secondo è più aggressivo e radicale, e si muove principalmente nell’area di New York. Solo nel 1890 si uniscono nell’American National Women Suffrage Association, a cui si aggregano anche piccoli gruppi femminili e religiosi. Il primo stato nel mondo ad ottenere il suffragio allargato alle donne è la Nuova Zelanda nel 1893. In Italia già nel 1863, la Camera dei deputati prende in esame la questione giuridica delle donne, e avvenne di nuovo nel 1871, 1876, 1880 e 1882, anche se il movimento suffragista italiano non ha mai la forza e la determinazione di quello inglese o americano. dell’ ‘800, è fondamentale analizzare la storia della lotta per il diritto di voto alle donne. Il movimento delle Suffragette deriva dalla prima associazione per il suffragio alle donne del 1860, ed ha inizio nel Regno Unito nel 1869, è il primo movimento nazionale interamente dedicato ad ottenere il
Con l’inizio del nuovo secolo, in Inghilterra, il movimento prese impeto, la vita delle donne cambia radicalmente, e grazie all’industrializzazione le condizioni di vita migliorarono. Nel 1903, Emmeline Pankhurst fonda la “Women’s Social and Political Union” (l’Unione sociale e politica delle donne), con lo scopo di ottenere il diritto di voto politico per le donne. Emmeline Pankhurst è stato di certo uno
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dei personaggi femminili più interessanti e carismatici fra tutti quelli vissuti a cavallo tra ‘800 e ‘900. Guida indiscussa delle suffragette inglesi, fu condannata e imprigionata molte volte per via della sua grande combattività, una di queste per aver interrotto una riunione del partito liberale chiedendo che venisse posto in discussione il diritto di voto alle donne. In quegli anni, le suffragette combattevano una dura battaglia ideologica nei confronti degli esponenti liberali, ma con il passare del tempo, i metodi di protesta del movimento divennero sempre più accentuatamente forti ed esasperati, a volte violenti, suscitando riprovazione e conseguenti reazioni da parte delle autorità. Le suffragette mettono in atto azioni dimostrative, incatenandosi a ringhiere, incendiando le cassette postali, rompendo finestre; quando molte di loro vengono arrestate, cominciano lo sciopero della fame, e sono spesso sottoposte ad alimentazione forzata. L’8 marzo 1908, 129 operaie di una industria tessile di New York, sono vittime dell’incendio doloso che invade la fabbrica in cui lavorano, dove il possidente ha bloccato tutte le uscite. Le donne, tra cui molte italiane, erano in sciopero da diversi giorni per protestare contro le disumane condizioni in cui erano costrette a lavorare.
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Il movimento femminile ha come scopo il raggiungimento di una parità totale con gli uomini, sotto ogni punto di vista: politico, giuridico ed economico. Le donne vogliono poter insegnare nelle scuole superiori l’uguaglianza dei diritti civili, svolgere le stesse professioni degli uomini e soprattutto godere del diritto elettorale o di suffragio. Le Suffragette diffondono le proprie idee attraverso comizi, scritte sui muri o cartelli, e spesso queste manifestazioni venivano soffocate con la violenza da parte delle Forze dell’Ordine o con l’arresto di molte femministe. Il 4 giugno 1913, Emily Wilding Davison fu uccisa dalla polizia mentre manifestava per il diritto di voto; il sacrificio di questa donna contribuisce a rafforzare gli animi, e accentua ancora di più il desiderio di rivalsa, tanto che questo giorno viene considerato la data dell’inizio della “vera rivoluzione”. Durante la prima guerra mondiale, molte donne ottengono una sorta di “emancipazione” lavorativa, dato che sono costrette a lavorare al posto dei loro mariti, partiti per il fronte, in fabbriche, nelle reti tranviarie, o come ausiliari dell’esercito; a questo però non corrisponde un’indipendenza personale: nonostante l’assenza degli uomini in età da arruolamento, spesso nelle case rimangono gli anziani, che prendono
il posto di patriarca nella famiglia. Inoltre in quegli anni, soprattutto in Italia, è consueto fare molti figli, specialmente nelle famiglie più povere, così che possano contribuire economicamente alla famiglia. Ovviamente raggiunto un certo numero di figli (spesso più di dieci) le madri non riescono a tenerli tutti sotto controllo, e così le figlie femmine più vengono incaricate di badare ai fratelli più piccoli, e quindi costrette a lasciare gli studi giovanissime, durante le scuole elementari. Nonostante ciò, l’impegno delle donne in un contesto diverso da quello famigliare comporta una nuova considerazione delle capacità femminili, soprattutto da parte delle stesse donne, che acquistano mobilità, prendono consapevolezza delle loro vere potenzialità, e del loro spirito di indipendenza; ovviamente non mancano la diffidenza ed il disdegno da parte dei moralisti e tradizionalisti: «Nelle fabbriche metalmeccaniche la presenza femminile era talvolta avvertita, specialmente dai vecchi operai, come un sovvertimento dell’ordine naturale e un attentato alla moralità.»1. Esistono documenti originali nei quali le attività e i comportamenti femminili
1. Antonio Gibelli, “La Grande Guerra degli Italiani”, BUR, Milano, 2009
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fine della guerra. Sono molte le trascinatrici femministe che esprimono lo stesso concetto: «Fintanto che durerà la prova che si è abbattuta sulla nostra patria, non sarà consentito a nessuno parlare dei propri diritti; ora abbiamo solo doveri.»2 È in quegli stessi anni, l’infaticabile Pankhurst intraprese diversi viaggi in vari paesi stranieri, tra cui Canada, Russia e Stati Uniti, promuovendo un’importante campagna di sensibilizzazione sul problema del suffragio universale. «Durante la Grande Guerra, in tutta Europa e soprattutto in Francia, la mobilitazione degli uomini rafforza i sentimenti famigliari e crea il mito dell’uomo protettore […] In Francia, la guerra mette a tacere, a profitto di quasi unanimi consensi, una letteratura antifemminista in cui trovava voce il timore dell’emancipazione femminile, i contemporanei hanno avvertito questa realtà salutando l’avvento di una donna purificata, ormai conscia della propria natura profonda e dei propri eterni doveri; […] in poche parole l’incarnazione dell’ideale femminile borghese del XIX secolo»3.
sono commentati, giudicati, fotografati o rappresentati con sarcasmo. Lo scoppio della Grande Guerra, con le sue inevitabili ripercussioni in ambito umano, politico e sociale, convinse le suffragette ad interrompere la propria attività, ottenendo in cambio dal governo inglese la liberazione di tutte le detenute per reati politici. Il movimento delle suffragette del Regno Unito si scinde in due gruppi: il primo, il “Women’s Suffrage Federation”, è formato da suffragette più radicali, che imperturbabili portano avanti la causa; il secondo, “Women’s Social and Political Union”, il più numeroso, preferisce sospendere la campagna femminista fino alla
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Prendendo in esame la Russia invece, è possibile notare quanto gli avvenimenti tra il 1914 e il 1944 abbiano permesso al paese di diventare un enorme laboratorio di sperimentazione sociale, dove il caso della donna sovietica è esemplare. In un paese in cui la servitù viene abolita soltanto nel 1861, e le prime elezioni nel 1906, la situazione femminile cambia radicalmente, inserendosi in un progetto più ampio. Le donne partecipano più numerose che altrove alla rivoluzione, costituendo fino al 15-20% degli effettivi. Allo scoppiare della Prima Guerra Mondiale vengono mobilitati più di
2. Scritto ds Jane Misme direttrice del giornale “La Française” organo delle suffragette Francesi, con l’entrata in guerra della Francia. 3 Duby e Perrot, Teoria delle donne, 1992, p.30
dieci milioni di uomini, e le donne finiscono per rappresentare circa il 72% della forza lavoro rurale, e circa il 50% nella manodopera. Tra il ’15 e il ’17 c’è molto scontento a causa della guerra, e scoppiano varie sommosse e scioperi, in cui le donne sono dirigenti attive. Alle donne spetta l’onore di scatenare la rivoluzione: il 23 febbraio (secondo il calendario giuliano), ossia l’8 marzo, del 1917, alcune operaie e i loro figli manifestano nelle strade di Pietrogrado, e dato che i socialisti non Hanno ancora scelto le azioni da intraprendere, loro improvvisano reclamando pace e pane. L’indomani gli uomini si aggregano, il movimento cresce rapidamente e il 2 marzo lo zar abdica. Con il nuovo governo provvisorio la donna è elettrice ed eleggibile, prima ancora che in Inghilterra (1918) e negli Stati Uniti (1920).
il parlamento del Regno Unito approva la proposta del diritto di voto politico limitato alle mogli dei capifamiglia con certi requisiti di età (sopra i 30 anni). Il 1º novembre 1919, Lady Nancy Astor (ritratta a destra) è la prima donna ad essere eletta al parlamento del Regno Unito, come deputato per il Partito Conservatore. Originaria della Virginia, ottiene la cittadinanza inglese sposando, nel 1906, il Visconte Astor, da cui poi divorzia. In seguito, con la legge del 2 luglio 1928, il suffragio viene esteso a tutte le donne del Regno Unito, ponendo fine ad un’antica e sacrosanta lotta del genere femminile per il riconoscimento di prerogative fondamentali.
Per quanto riguarda la questione spagnola, il dittatore Miguel Primo de Rivera, porta piccole migliorie alla situazione della donna, accordando a poche scelte il diritto di voto a livello municipale e l’ammissione all’assemblea costitutiva. Nonostante ciò la sua caduta nel 1930 comporta un ritorno allo “status quo ante”, infatti la precedente monarchia dei Borboni, nel 1876 aveva re instaurato l’alleanza con il cattolicesimo grazie alla Costituzione, e istituito un Codice civile erede del Codice Napoleonico. In questo modo i diritti politici femminili erano inesistenti, la situazione culturale registrava ancora il 60% delle donne analfabete,e le vedeva nella duplice dipendenza dalla chiesa e dalla legge. Tuttavia già nel ’31 la Repubblica spagnola inizia ad intraprende la strada che porterà il paese all’avanguardia tra le democrazie parlamentari, concedendo il diritto di voto alle donne. Ad ogni modo, nonostante le varie difficoltà, le Suffragette portano avanti la causa, ottenendo ciò per cui avevano tanto lottato. Nel 1918
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2.2. secondA ondAtA gli Anni ’60 e ’70 La seconda ondata femminista si sviluppa principalmente in America a partire dai primi anni ’60. Il boom economico che invade gli USA, più clamoroso di quello europeo, alla fine della guerra, contribuisce a logorare le vecchie strutture sociali, già messe in discussione durante il conflitto. Il femminismo di questi anni ha caratteristiche diverse rispetto ai primi movimenti, infatti ha lo scopo di distruggere lo stereotipo della “donna ideale” creato nei decenni precedenti; Il nuovo pensiero femminista identifica le differenze sessuali e biologiche come base della discriminazione, peculiarità che si traducono poi in differenze sociali e culturali, relegando la donna a un ruolo subalterno. Vengono ripudiate le teorie di Freud secondo le quali le caratteristiche anatomiche femminili definiscono e determinano la psiche, i sogni e l’intero futuro della donna (si vuole rompere il binomio anatomiaruolo della persona); non si tratta di un movimento unico, ma nascono molti gruppi. Elda Guerra, in un volume dedicato all’argomento parla infatti di femminismi, al plurale appunto, «per tentare di dare conto della pluralità delle forme, della molteplicità delle voci e dei gesti in cui si è incarnata l’espressione della soggettività femminile, in termini di soggettività politica». La studiosa Anna Rossi-Doria invece, divide il femminismo italiano di questi anni in quattro fasi: la nascita dei primi gruppi (1968-1972), la formazione dei collettivi (1972-1974), il movimento di massa (19751976) e infine la crisi (1977-1979).WW
Si tratta di una rivoluzione essenzialmente mentale, che poi arriva ad avere risultati concreti in tutto il mondo. Si cerca una sintonia tra l’ io-donna, il collettivo, l’universo delle donne e la natura femminile e la si contrappone al maschile, alle istituzioni, al sistema patriarcale e capitalistico. Quindi la prospettiva di ottenere una parità con il sesso maschile prefiggeva la necessità che il movimento per l’emancipazione femminile parlasse in nome di un’ unità collettiva, quella delle “donne”. I temi cari alle femministe della seconda ondata sono nuovi, e spesso scandalosi per l’epoca: si parla di sessualità, di stupro e violenza domestica, di diritti riproduttivi, ma anche di parità di genere sul posto di lavoro. Proprio come nel corso della Grande Guerra, anche durante la Seconda Guerra Mondiale la maggior parte degli uomini è mandata al fronte, e le donne assumono alcuni dei tradizionali ruoli maschili, sia con piccole decisioni al livello domestico (come le questioni burocratiche, acquisti o problemi legali), che lavorativo, sostituendo i loro mariti nelle fabbriche. Anche se alcune donne sono già abituate a certi mestieri (come nei campi, o al livello industriale, nel settore tessile), adesso il loro numero aumentata considerevolmente e presenziano in nuovi settori, come la metallurgia, la meccanica, i trasporti e mansioni di tipo amministrativo. Il loro ruolo, per la prima volta, passa da “angelo del focolare domestico” a membro attivo dell’economia e della società collettiva. Tuttavia il processo di presa di coscienza
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delle donne è molto lento, a causa della condizione in cui la donna era costretta a vivere: la dittatura messa in atto da Mussolini in Italia (come da Hitler in Germania), costituisce un episodio particolare e distinto del dominio patriarcale. Il “patriarcato fascista” asserisce che uomini e donne sono per natura diversi, e politicizza per tanto tale differenza a vantaggio dei maschi, sviluppandola in un sistema particolarmente repressivo , che definisce i “diritti” delle donne come cittadine, e ne controlla la sessualità, il lavoro salariato e la partecipazione sociale. Le concezioni antifemministe sono parte del credo fascista al pari del suo violento antiliberalismo, razzismo e militarismo, tuttavia si possono riscontrare modici aspetti positivi, come l’incremento di istruzione per le donne negli anni ’30. È dunque importante distinguere questa concezione rispetto al “patriarcato liberale”, ossia l’oppressivo rapporto tra i sessi in occidente nel diciannovesimo secolo, o al “patriarcato sociale” del secondo dopo guerra, in cui le donne sono considerate “cittadine di seconda classe” . Già dal 1949 con l’uscita del saggio “Il secondo sesso”, di Simone De Beauvoir, si comincia a percepire il disagio delle donne nell’essere sempre subordinate alla figura maschile, che nella società è dominante. Nel suo libro, De Beauvoir definisce la donna rispetto all’uomo: «Donne non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna. […] Tutti sono d’accordo nel riconoscere che nella specie umana sono comprese le femmine, le quali costituiscono oggi come in passato circa mezza umanità del genere umano; e tuttavia ci dicono ‘la femminilità è in pericolo’;
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ci esortano: ‘siate donne, restate donne, divenite donne’. Dunque non è detto che ogni essere umano di genere femminile sia una donna; bisogna che partecipi di quell’essenza velata dal mistero e dal dubbio che è la femminilità. La femminilità è una secrezione delle ovaie o sta congelata sullo sfondo di un cielo platonico? […] Ora, la situazione della donna si presenta in questa singolarissima prospettiva: pur essendo come ogni individuo umano una libertà autonoma, ella si scopre e si sceglie in un mondo in cui gli uomini le impongono di assumere la parte dell’Altro; in altre parole, pretendono di irrigidirla in una funzione di oggetto e di votarla all’immanenza perché la sua trascendenza deve essere perpetuamente trascesa da un’altra coscienza essenziale e sovrana. Il dramma della donna consiste nel conflitto tra la rivendicazione fondamentale di ogni soggetto che si pone sempre come essenziale e le esigenze di una situazione che fa di lei un inessenziale. […] Liberare la donna significa rifiutare di chiuderla nei rapporti che ha con l’uomo, ma non negare tali rapporti; se essa si pone per sé, continuerà ugualmente ad esistere anche per lui: riconoscendosi reciprocamente come soggetto, ognuno, tuttavia, rimarrà per l’altro un altro; la reciprocità dei loro rapporti non sopprimerà i miracoli che genera la divisione dei sessi umani in due categorie distinte: il desiderio, il possesso, l’amore, il sogno, l’avventura; e le parole che ci commuovono: dare, conquistarsi, unirsi, conserveranno il loro senso; quando invece sarà abolita la schiavitù di una metà dell’umanità e tutto il sistema di ipocrisia, allora la “sezione” dell’umanità rivelerà il suo autentico significato e la coppia umana troverà la sua vera forma»1. Per Simone De Beauvoir quindi, l’inferiorità della condizione femminile non è da
1. Simone De Beauvoir, Il secondo sesso,1949
imputare esclusivamente all’uomo. Le donne in primis devono cominciare a lavorare su loro stesse, in modo da conoscersi e amarsi per quello che sono. Tutti i canoni proposti dalla cultura ufficiale, sono identità alienanti, che la mortificano, che registrano il suo stato di assenza culturale e di inferiorità sociale. La donna deve rifiutare di essere “l’Altro” dell’identità maschile. Dopo l’uscita di Il secondo sesso, che ha da subito molto successo, tra le donne della medio borghesia si incomincia a diffondere l’idea che la donna possa realizzarsi anche in un contesto che non sia necessariamente domestico. Negli anni ‘50 è diffusa l’immagine di una “donna-ideale” che non ha altra ambizione nella vita se non quella di soddisfare ogni bisogno del marito e dei figli, e di avere una casa perfetta. Le donne sono quindi esortate a sposarsi presto, abbandonando gli studi e le ambizioni professionali per adempiere al loro ruolo di moglie e madre. A questa critica alla società maschilista si unisce nel 1963 Betty Friedan con la sua “Mistica della femminilità”, una “cronaca” sul malessere delle donne americane degli anni ’50, redatta intervistando molte sue ex compagne di studi per analizzare la condizione di coloro che si conformano allo stereotipo della donna bianca che accetta di rinunciare ad ogni aspirazione personale e lavorativa per dedicarsi esclusivamente alla famiglia ed alla casa; dimostra che dietro la facciata esterna di un mondo perfetto, queste donne non sono completamente soddisfatte. Il termine “mistica” per la Friedan sta ad indicare proprio “il problema che
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non ha nome”: «È una strana inquietudine, un senso di insoddisfazione che la donna americana ha cominciato a provare intorno alla metà del ventesimo secolo. […] Questo malessere corrisponde ad un sentirsi prive di identità e bloccate in una routine soffocante. Se la mia intuizione è giusta, il problema che agita oggi la mente di tante donne americane non si riferisce alla perdita della femminilità o ad un’eccessiva istruzione, o al peso del ménage familiare. La sua importanza è decisiva rispetto alla soluzione degli altri nuovi e vecchi problemi che hanno torturato le donne, e i mariti, e i figli, e turbato i medici e gli educatori. Potrebbe persino essere la chiave del nostro futuro come nazione e civiltà. Non possiamo più ignorare quella voce interiore che parla nelle donne e dice: Voglio qualcosa di più del marito, dei figli e della casa.» 2 La Friedan esorta quindi le donne a perseguire i loro interessi fuori dall’ambito domestico, così da potersi svincolare da questo ruolo in cui la donna dell’epoca è bloccata. Proprio per questo nel ’66, la stessa Betty Friedan fonda la “NOW” (National Organization for Women), «un’associazione liberale con lo scopo di aiutare le donne americane ad emanciparsi e a garantire loro i diritti fondamentali nell’ambito educativo, legislativo e famigliare»3. Nel 1961, il presidente John F. Kennedy, stipula una commissione dedita a studiare la condizione delle donne americane, la “Presidental Commission on the Status of Women”, che nel ’63 pubblica un resoconto che mette in evidenza le differenze di genere presenti nella società. La conseguenza di questa indagine è la fondazione di un comitato con l’incarico di 2. Betty Friedan, Mistica della femminilità,1963 3. Cavarero e Restaino, Le filosofie femministe, 2002
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incoraggiare i singoli stati e paesi a migliorare la situazione legale e sociale della donna. Così, a partire dall’opera di Beauvoir e della Friedan, In America dal 1963, le donne cominciano a partecipare ai primi movimenti rivoluzionari nelle università, e alla protesta degli studenti comincia ad affiancarsi anche quella femminista, e numerose donne decidono ci fare sentire la loro opinione in merito al problema. Inoltre nel 1961 negli Stati Uniti viene messa in commercio la pillola contraccettiva, grazie alla quale le donne possono gestire e avere il controllo della propria fertilità in maniera autonoma. Un’altra opera importante di quegli anni è “La politica del sesso”, di Kate Millett, pubblicata nel ’69. In questo saggio Millett, attraverso una ricerca nella letteratura, dichiara che la causa principale della condizione inferiore della donna è il “sessismo” dominante nella società dell’epoca. «La Millett, femminista convinta e un’altra delle sostenitrici della NOW, con il suo libro ha influenzato fortemente il pensiero della seconda ondata che ha fatto del sessismo imperante della società uno dei punti fondamentali della protesta.»3. Il movimento femminista esplode anche in Italia, dove per la prima volta assume dimensioni di massa. Nel nostro paese, a partire dalla fine degli anni 60, nascono molti gruppi di autocoscienza, o gruppi di parola, dove le femministe si scambiano racconti e riflessioni a partire da quello che per ciascuna componente era percepito come fonte di disagio. La grande novità, per ciascuna, è quella di accorgersi che il proprio disagio era condiviso dalle altre, pur nelle storie di vita diverse; nella pratica dell’autocoscienza, le donne parlano della propria esperienza, le une con le altre, facendo emergere l’inconscio, il loro vissuto. Non si tratta di raccontarsi, confidarsi o ricevere solidarietà (relazioni che comunque si instaurano), ma di formulare delle teorie che restano
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aderenti alla pratica politica di fondo. Da uno di questi gruppi, “il gruppo 4” della “Libreria delle donne di Milano” 4 esce nel 1983 il documento “Più donne che uomini”. Queste donne guardano la realtà e vedono donne che rimangono nel femminile come è definito dagli altri, perché l’abitudine ad essere definite, in quanto donne, a seconda delle esigenze dell’organizzazione sociale e dei costumi delle varie epoche, ha prodotto in loro una sorta di complicità: l’unico modo per vivere con agio è il consenso, l’approvazione e l’accettazione del metro giudicante esistente, quello che di fatto dice ciò che è bene e ciò che è male, e che col matrimonio, elargisce uno status sociale, giuridico ed economico garantito e tutelato. In questo documento si trovano parole, espressioni come «vivere con agio», «voglia di vincere», «far presa sul mondo», «estraneità» che hanno avuto un rapido riscontro empatico e correndo di donna in donna hanno cominciato a liberare o a creare un senso comune. Negli anni ‘70 le piazze del nostro paese vengono invase dalle donne, decise a rivendicare i diritti ancora negatigli.«Migliaia di donne in Italia e in Europa sono scese in piazza per protestare accomunate dallo stesso gesto: con le mani congiunte, a formare il simbolo del sesso femminile, hanno rivendicato con forza e come mai prima di allora il diritto di vivere una sessualità libera e di riappropriarsi del loro corpo. «Se la storia del femminismo si lega a una pluralità di prospettive, teorie e azioni fortemente eterogenee, il “gesto della vagina” ha rappresentato un simbolo nel quale i movimenti delle donne si sono per lo più riconosciuti, nato dal bisogno di dare 4. La Libreria delle donne esiste dal 1975, è una realtà politica tutt’ora in movimento: è autrice di pubblicazioni in proprio e di due riviste trimestrali (Via Dogana e Aspirina), ed è centro di incontro di moltissime donne e anche uomini.
visibilità e forma tangibile alla rimozione del genere femminile. Sul piano della sessualità, del lavoro e dell’immagine delle donne.»5 Durante il ’68, le idee di uguaglianza, alla base delle lotte degli studenti e dei partiti di sinistra, non trovano poi un riscontro reale nel rapporto tra uomo e donna. Le ragazze si rendono conto di essere confinate ad un semplice ruolo di supporto all’interno degli stessi movimenti; vengono definite “gli angeli del ciclostile”, e consapevoli di questa discriminazione, creano gruppi riservati alle sole donne, dove poter portare avanti le loro convinzioni liberamente, e Optando quindi per una politica separatista.
Quello che queste femministe sostengono è che “il personale è politico”, ossia che nella sfera privata di ogni donna, in qualunque tipo di rapporto sociale o famigliare con l’altro sesso, è sempre l’uomo ad avere l’autorità
5. Ilaria Bussoni; Il gesto femminista - La rivolta delle donne nel corpo, nel lavoro, nell’arte; 2014
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ed il controllo della sua indipendenza. «La critica politica delle donne parte quindi da un ambito quotidiano ed extrapubblico per eccellenza, come la sfera della domesticità, per mostrarne gli effetti pubblici e oppressivi. Attraverso la pratica dell’autocoscienza la casa si trasforma da simbolo dell’isolamento delle donne a spazio politico. La cellula-base del femminismo della seconda ondata è proprio il piccolo gruppo di sole donne in cui si discutono argomenti estranei alla concezione tradizionale della politica, le esperienze di vita quotidiana, le relazioni, i sentimenti. Si inizia a porre l’attenzione su temi assolutamente nuovi, come ad esempio il proprio corpo e la propria sessualità. Donne d’ogni età e di ogni condizioni sociale, si raccolgono in “collettivi”, uscendo così dall’isolamento familiare.»6 Oltre ai gruppi separatisti, anche le donne impegnate in politica prendono consapevolezza della gerarchia maschilista che vige in tutti i partiti, così nasce il “Collettivo Femminista Comunista”, che per prima cosa rivendica l’autonomia. In tutt’Italia, dalle più grandi città alle province nascono i Collettivi, fazioni nelle quali non esistono regole gerarchiche, che pian piano non saranno più considerati gruppi separati tra loro, ma un unico grande fenomeno sociale esteso all’intero paese.
chiedere la loro eliminazione tramite apposite leggi che estendessero gli stessi diritti già goduti dagli uomini, anche alle donne. Per quanto riguarda la La libertà femminile, viene operata attraverso l’emancipazione, ma si percepisce il rischio di perdere troppe cose, di dover rinunciare a parti di sé che, pur nella storia millenaria di oppressione, erano diventate “un di più” rispetto alla pura e semplice emancipazione. «Proprio la cura dei corpi che ha occupato tanto tempo della loro storia, ha dato alle donne un’umanità e un’autorità speciali per giudicare la vita, che però gli uomini non vogliono ascoltare. Delle volte penso che i mali della politica siano tutti nel fatto che siamo governati da chi è libero dai lavori di cura: curare la propria casa, i corpi dei bambini, i corpi dei vecchi, insegna molte cose. La nostra cultura ci dice che questo è un compito “naturale” delle donne. Invece non è un compito naturale, è un’opera, la grande opera delle donne».7
Negli anni ’70 si discuteva molto su emancipazionismo e libertà femminile. Vediamo meglio in cosa consistono. Emancipazionismo viene definita la strategia modernizzante del primo femminismo (ma anche quella esclusivamente paritaria o delle azioni positive di oggi), tesa a denunciare l’ingiustizia dell’oppressione e delle disuguaglianze subite dal sesso femminile e a
Si teme dunque di perdere il riconoscimento dell’esperienza femminile, di quello specifico che fa sentire le donne inevitabilmente diverse, e che oggi gli studi neuro-linguistici tendono a mettere in evidenza e misurare. Anzi sulla base di queste ricerche, oggi si sa che le femmine usano entrambi i lobi cerebrali (a differenza degli uomini che ne usano uno solo alla volta) nell’ascolto e nella comunicazione e ciò ha indotto, recentemente, un college americano a predisporre classi separate per sesso, nei primi gradi di scolarizzazione, per utilizzare al massimo i meccanismi di apprendimento diversi. La storia orale da alle sopravvissute degli anni ’70 la possibilità di far sentire la propria voce, e quasi tutte le intervistate esprimono
6. Maria Lombardi, articolo “Il femminismo negli anni ‘70”
7. A. Bocchetti, Dell’ammirazione, Piccola Biblioteca Millelire, 1996, p. 31
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un senso di liberazione e di retrospettivo orgoglio. Nelle testimonianze raccolte dall’Imperial War Museum si afferma «Fuori dalla gabbia», «Si, noi abbiamo fatto questo, e nulla più è stato come prima». Anche il Festival di Woodstock, del ’69, è molto importante per l’affermazione dell’emancipazione femminile: Addobbate da cinturini e nastri, collanine, frange e perline, gli occhi appena socchiusi o proiettati verso il cielo, il sorriso perenne degli angeli appena caduti. Le femmine di Woodstock erano vive e bellissime. Guardate le loro mani piene di anelli e bracciali e voglia di tutto, di toccare, ballare, di fare insieme l’amore. Di farlo coi ragazzi, con le ragazze, di farlo a modo loro, al di là del bene e del male. Questi sono anni di rivoluzionari cambiamenti, anche per il nostro paese. Già nel decennio precedente erano state fatte alcune riforme in campo lavorativo: nel ’61 abbiamo il diritto alla parità di stipendio nel settore industriale, commerciale e agricolo; nel ’63 le casalinghe hanno una pensione, e viene sancito il divieto di licenziamento per matrimonio e il diritto alla donna di accedere a tutte le cariche dello stato; nel ’71 vengono istituiti gli asili nido ed una legge a protezione delle madri lavoratrici. In questo modo viene pienamente riconosciuto il diritto della donna di realizzarsi a livello lavorativo e sociale, tuttavia la cura della sfera famigliare ricade ancora esclusivamente sulla donna, infatti i padri non possono ne hanno motivo di usufruire delle agevolazioni lavorative concesse per la cura dei figli. Vittoria Ballestrero, in un suo libro Oltre la parità, afferma che la legge di tutela della maternità non riconosce l’essenzialità e l’importanza della maternità, ma tutela, protegge le donne e i bambini dal lavoro. La tutela, com’è intuitivo riconoscere, è già ammissione di “debolezza”; il ragionamento è semplice: se il sesso maschile è posto
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come rappresentativo di tutto il genere umano, il sesso femminile risulta secondario, una semplice variante nel genere umano. La legge della Parità di trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro del ’77, che porta con se una serie di importanti novità: vieta la discriminazione sessuale riguardo le assunzioni e l’avanzamento di carriera; offre la possibilità di scegliere il pensionamento regolare a 60 anni o il prepensionamento a 55 ad entrambi i sessi (prima le donne erano costrette alla seconda opzione); è prevista la reversibilità della moglie al marito; cadono i divieti riguardanti i lavori ritenuti insani o moralmente nocivi (come la vendita di alcolici).
nel nostro paese sono quelle per il divorzio, ottenuto nel ’74, e quella per il diritto di aborto, conquistato nel ’78. Per quanto riguarda il dibattito sull’aborto, le femministe rivendicano la libertà di scelta. Sin dal periodo fascista era definito dalla costituzione “delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe”, ma ovviamente le interruzioni delle gravidanze vengono eseguite in modo clandestino, formando un grande giro di affari e un’innumerevole spreco di vite a causa della mala prassi. Per concludere, il movimento femminista che si è sviluppato negli anni ‘60 e ‘70, ha portato ad una lenta ma graduale emancipazione delle donne, le quali hanno ottenuto i riconoscimenti necessari per realizzarsi anche in ambito lavorativo. La lotta delle femministe per la parificazione giuridica, economica e politica ha determinato una profonda rivoluzione anche nel costume, con un radicale cambiamento della cultura occidentale e dei rapporti personali e familiari. Tuttavia bisogna tenere presente che il pensiero proprio della seconda ondata femminista è stato fortemente criticato, in quanto non tiene conto delle diverse caratteristiche di ogni donna. A questo proposito si lega la critica di Bell Hooks a Betty Friedan: «Ha ignorato l’esistenza di tutte le donne non-bianche e delle donne bianche povere»8. Le femministe italiane si battono anche per bilanciare i diritti all’interno della famiglia: nel ’75 con la riforma del diritto di famiglia, vengono equiparate le figure del padre e della madre nel nucleo famigliare, e abolita la patria potestà e la potestà matrimoniale; Inoltre nel 1981 vengono abrogate le disposizioni sul delitto d’onore, che assicurava una pena ridotta all’uomo, padre, marito, fratello, che uccide la donna peccatrice per difendere la propria dignità. Tuttavia le due battaglie più famose
8. Bell Hooks, intervista del 2013
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2.3. terzA ondAtA unA rete di Femminismi In tempi più recenti, in seguito alle critiche mosse durante la seconda ondata femminista, si è sviluppato un terzo femminismo. Ormai, dagli anni ’80 ad oggi, uomini e donne, almeno legalmente, hanno pari diritti ed opportunità, tanto che qualcuno parla di “società post-femminista”; tuttavia le discriminazioni di genere non sono scomparse, soprattutto per quanto riguarda la sfera lavorativa. Ci sono molti conflitti per l’effettivo divario di stipendio ancora persistente tra uomini e donne, per le disparità che ostacolano alle donne di fare carriera, e per le frequenti molestie sessuali sul posto di lavoro. Il movimento rivede anche alcune posizioni fulcro delle ondate precedenti, come la prostituzione e la pornografia. Se negli anni ’60 e ’70 la maggior parte delle femministe si era schierata contro ogni forma di sfruttamento del corpo femminile, ora si comincia a non escludere a priori l’idea che si possa vendere il sesso per libera scelta. Il movimento femminista organizzato entra in crisi quasi ovunque, ma non il movimento generale di liberazione delle donne, che trova diventa sempre più “solidale” con altre situazioni di rivendicazione della “pari dignità”. La terza ondata infatti considera le differenze tra le singole donne, analizzando in particolare la condizione delle donne nere, delle gitane e delle lesbiche. Nelle realtà multietniche (specie negli USA), il femminismo si concentra sulle minoranze razziali, in quanto anche al loro interno la donna ha un ruolo di
subordinazione, ed è quindi doppiamente oppressa rispetto alle donne bianche di classe media; inoltre le lesbiche, considerano l’istituzione eterosessuale non come “naturale”, ma come “costruita socialmente”, e imposta storicamente dagli uomini all’origine dell’omofobia. Il femminismo somiglia così sempre più una rete di femminismi, anche perché il movimento a questo punto si estende anche ai paesi che avevano vissuto in modo marginale le battaglie degli anni ’70, come l’Islam. Anche le donne kurde di Rojava, nel 2011, aprono un’accademia per l’educazione e la cultura femminile, un luogo dove le donne si possano interrogare e studiare, e costruire un modello politico nuovo per tutti. Insomma, si torna a respirare desiderio di ricerca, di studio, di radicamento nell’esperienza e nella sovranità femminile, nella consapevolezza che, oltre al differente modo di pensare e di agire delle donne, non c’è altro sulla scena mondiale di così potente e rivoluzionario. Negli anni ’90 comincia anche a maturare l’obbiettivo del femminismo: dalla lotta per il riconoscimento dell’uguaglianza, all’uguaglianza che deriva dalla consapevolezza delle differenze, concetto base delle teorie sul “genere”. Parlare di genere, vuol dire di per se che i generi sono due e presentano corpose differenze; purtroppo nascere donne piuttosto che uomini significa (ancora oggi) stare al modo con una certa dose di svantaggio, e questo d’altra parte, è il fatto all’origine di tutti i pensieri femministi degli ultimi 200 anni.
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È utile in primo luogo padroneggiare termini quali: sesso, genere, differenze sessuali, differenze di genere, mascolinità, femminilità, stereotipo, sessismo... La prima distinzione terminologica che va affrontata è quella tra “sesso” e “genere”, che rispecchia l’antico dibbattito sulla linea di confine tra “natura” e “cultura”. La questione può essere così espressa: donne e uomini imparano ad essere differenti, oppure la responsabilità delle differenze va attribuita esclusivamente al loro patrimonio biologico ereditario? Le differenze nei comportamenti e nella costituzione psichica sono determinate da dati biologici/genetici/ormonali o sono piuttosto il prodotto di condizionamenti culturali e influenze ambientali? In sostanza, le differenze tra maschi e femmine sono innate o sono apprese? È indubbio e pacifico che maschi e femmine siano biologicamente diversi, la situazione però si complica quando le differenze che connotano i due sessi si allargano ben oltre la sfera biologica, per andare ad investire la sfera dei ruoli sociali e familiari fino ad arrivare a determinare una diversità nei comportamenti, nelle attitudini, nei tratti psicologici e comportamenti che sono ritenuti peculiari di ciascun sesso. Possiamo dire quindi che il “sesso” è la differenza biologica tra uomini e donne, mentre il “genere” (gender) è la costruzione culturale e sociale che nell’immaginario collettivo, definisce l’uomo e la donna nelle varie epoche. In altre parole il genere è un termine che designa i concetti di “mascolinità” e “femminilità” intesi come le attese sociali e culturali nei confronti della donna e dell’uomo. La distinzione tra “differenze di genere” e “differenze sessuali” ha quindi un significato sostanziale perché rimanda a due diversi presupposti teorici.
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Arriviamo quindi alla nozione di “sessismo”, nasce negli anni ‘70 negli Stati Uniti, e si intende discriminazione in base al sesso. Il termine indica quindi qualunque arbitraria stereotipizzazione di maschi e femmine in base al sesso. Questa definizione ci rimanda ad altre tre nozioni che vanno a chiudere il nostro piccolo vocabolario: pregiudizio, stereotipo/ stereotipo di genere, discriminazione. Il “pregiudizio” è un atteggiamento e, in quanto tale, è composto da tre aspetti: una “componente affettiva” (o emozionale), che rappresenta il tipo di emozione collegata all’atteggiamento (es: 44
rabbia, ansia, ostilità); una “componente cognitiva”, che comprende le credenze o i pensieri (cognizioni), che compongono “l’atteggiamento”, una componente collegata alle azioni dell’individuo. “Il pregiudizio” (componente emotiva) è un atteggiamento ostile o negativo nei confronti di un gruppo, basato unicamente sull’appartenenza a quel determinato gruppo. I pregiudizi sono frutto di categorizzazioni sociali. “Lo stereotipo” (componente cognitiva) è un’opinione comune, ritenuta valida, relativa a caratteristiche e credenze di gruppi e/o istituzioni, spesso semplificata e rigida che non tiene in nessun conto le
differenze individuali. Gli stereotipi sono l’effetto di generalizzazioni. Una sua sottocategoria è lo “stereotipo di genere” che attribuisce a donne e uomini ruoli determinati e limitati dal loro sesso. Infine, “la discriminazione” (componente comportamentale) è un’azione ingiustificata, negativa o dannosa verso i membri di un gruppo, semplice- mente a causa dell’appartenenza a quel determinato gruppo. Per lungo tempo gli studiosi hanno sostenenuto che il ruolo di subalternità che la donna riveste nella società sia la diretta conseguenza di una sua inferiorità fisica e mentale. Il movimento femminista inaugura una nuova prospettiva, arrivando a sostenere che le diverse caratteristiche, i diversi ruoli e comportamenti di donne e uomini sono appresi nel processo di socializzazione. Si comincia a rivendicare il concetto di Universalismo, quindi la tendenza da parte di entità politiche, religiose ecc. a ritenersi universali, cioè valide per tutti gli esseri umani. Luce Irigaray, intellettuale con una formazione molto ricca, è più di ogni altra cosa la maggior esponente dell’approccio di genere e della differenza sessuale; così afferma: «La liberazione delle donne va ben al di là del quadro delle lotte femministe, che si fermano spesso, al giorno d’oggi, alla critica del patriarcato e del fra-donne, senza proporre valori nuovi per vivere la differenza sessuale nella giustizia, civiltà e fecondità spirituale [...]Ho capito che l’esigenza di diritti per le donne fa parte di un insieme più vasto, dove si impone il diritto alla differenza. E non si tratta solo del diritto di essere differente(i) da, con cui si incorre nel rischio di suscitare nuove entità o blocchi in conflitto, ma del diritto e del dovere di essere diversi-fra. Dunque non: “sono differente da te”, ma, “siamo differenti fra noi”, il che implica un continuo gioco di limiti e di relazioni, senza
maggiore autorità dell’uno sull’altro».1 Pertanto, il concetto di differenza sessuale significa che i sessi sono due, ben distinti, non esiste il Neutro che nella sua universalità e astrattezza, comprende uomini e donne. Con la Irigaray si apre un’altra pagina della storia delle donne; considera la Storia ed i codici culturali, dei quali da sempre il genere umano si è servito, per interpretarla. Tutti sono codici binari, tensione contro scarica della tensione, guerra contro pace. L’unico modo per evitare la degenerazione verso i poli negativi appena citati è la procreazione. Il rapporto alla base della costituzione della società sarebbe quindi il rapporto tra madre-figlio, uomo-donna e mai madre-figlia. «La sessualità maschile ha nuovamente annientato l’individuazione umana in quanto ha consegnato la responsabilità di Eros all’uomo e non alla donna...La sessualità più comune in Occidente, quella descritta da Freud, quella vietata o biasimata dalle autorità spirituali, ma incoraggiata dai media e dai giornalisti, senza darsi il benché minimo pensiero per gli individui e senza una regolamentazione civile, corrisponde ad una sessualità maschile elementare, che si vuole irresistibile e utile alla riproduzione della specie, sessualità che distrugge la filotes di Afrodite (La filotes è l’attributo specifico di Afrodite: è la tenerezza.). Contrariamente a quello che si dice o che si crede generalmente, Afrodite non è una figura o una divinità che incita all’orgia sessuale, ma manifesta la possibile spiritualizzazione delle pulsioni e degli istinti ciechi tramite la dolcezza, la tenerezza, l’affetto». 1 Afrodite rappresenta l’incarnazione dell’amore. L’amore umano che prende la forma di una donna, nella sua forma sessuata (uomo
1 Luce Irigaray, La democrazia comincia a due, 1994, p. 19
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e donna) ma ancora vicino al cosmo. Luce Irigaray propone una lettura profonda del rapporto tra i generi e dell’evoluzione dei rapporti umani. Dà vita ad una nuovo fremito culturale, dal quale prenderà lettera e corpo un percorso consapevole del genere femminile, esprimendosi nei luoghi della politica e della cultura. La consapevolezza e la cultura sono ala base dell’approccio di genere, e parte dell’universo femminile percorre quella strada, un’altra parte, invece, ancora è parcheggiata nel piazzale di una cultura di genere vecchia ma più rassicurante. La storia della donna è ancora un lungo percorso in salita, un terreno fertile per la crescita collettiva e per un proficuo dialogo culturale tra i generi oltre che per uno sviluppo culturale armonico e sostenibile. È anche vero che nella panoramica delle ricerche femministe ci sono degli studi che, ancorandosi ad alcune figure dei miti, e rielaborando la tesi di Bachofen sull’esistenza del matriarcato, ipotizzano un ordine matriarcale precedente a quello patriarcale. Ciò però non cambia il fatto che la tradizione filosofica, dai Greci ai giorni nostri, seppur con le svariate differenze apportate nelle varie epoche, è sempre stata, in ogni modo, assolutamente androcentrica, cioè fondata sull’uomo. È per questa osservazione pragmatica che il pensiero femminista mostra scarso interesse per le indagini sul mitico “diritto delle madri” e non ha nostalgia per un ipotetico matriarcato delle origini. Anzi Eva Cantarella, esperta dell’antichità e femminista, ha smontato la celebre teoria di Bachofen, attribuendola, come ipotesi, ad una sorta di desiderio di giustizia storica. La domanda che le femministe
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contemporanee per lo più si pongono, non è “come, quando e perché il patriarcato ha vinto”, ma piuttosto “come funziona l’ordine patriarcale e come è possibile modificarlo”; è soprattutto interessato a capire il presente, a svelare i suoi meccanismi oppressivi e a cambiarlo. Il presente è quel che resta dell’ordine patriarcale, che si basa su un meccanismo di discriminazione e/o esclusione: le donne
appartengono alla sfera privata, quella degli affetti e della cura, e gli uomini alla sfera pubblica, quella dei saperi e dei poteri. Le donne appartengono alla natura, gli uomini alla cultura. Il pensiero femminista della differenza denuncia questa contrapposizione, denuncia falso l’Universalismo perché in realtà, provenendo dagli uomini, senza alcun contributo delle donne, è solo maschile. L’Uomo è stato pensato dagli uomini,
a partire da sé, in totale assenza delle donne che sono ancora “non abilitate”. Tuttavia le indagini che vengono svolte su questo falso universalismo, consentono al pensiero femminista, di spaziare a tutto campo, in tutte le epoche e in quasi tutte le discipline. Dalla storia alla filosofia e alla teologia, dalle scienze naturali alla medicina, dal diritto alla
bioetica. A partire dagli anni 90 il pensiero femminista rilegge, con questa chiave interpretativa, tutti i saperi e le tecnologie. Tutti i pensieri femministi concordano nell’indicare che l’ordine simbolico patriarcale assume il sesso maschile come misura per l’intero genere umano: a partire da sé, si pone come modello per entrambi i sessi. Anche l’uguaglianza dei giorni nostri, se
viene “vista”, come peraltro è stata, una estensione alle donne dello stesso regime giuridico già in vigore per gli uomini, si intuisce che possa dare origine a disagio e svantaggio a queste ultime. il ragionamento è semplice: se il sesso maschile è posto come rappresentativo di tutto il genere umano, il sesso femminile risulta secondario, una semplice variante nel genere umano o, al massimo, come è ancora oggi per la dottrina della Chiesa, viene accettato come paritario ma “complementare” a quello maschile. Il concetto di complementarietà impedisce di vedere due soggetti, ciascuno definito e autonomo, che possono entrare in relazione tra di loro. Il pensiero della differenza sessuale invece, “vede” appunto, due soggetti: gli uomini e le donne. Denuncia la logica dell’ o/o (o razionale o culturale, o pubblico o privato, o cultura o natura) per sostituirla con la logica dell’e/e. Verso la metà degli anni ’80, prima in America e poi in Europa, si estende il filone di ricerca dell’etica della cura. L’esponente di questa corrente è la psicologa Carol Gilligan, il cui testo più esplosivo è In a different voice uscito nel 1982 e tradotto da noi in Con voce di donna, nel 1987; Si tratta di uno studio sulla formazione del giudizio morale nei ragazzi e nelle ragazze, prima del quale si crede fermamente che i ragazzi fossero in testa nella scala della maturità morale, le ragazze sotto. Il lavoro di Carol Gilligan mostra invece che maschi e femmine hanno un approccio diverso al giudizio morale, e che questo approccio diverso è radicato nel rapporto con il genitore principale: la madre. Mentre i ragazzi devono staccarsi dalla madre per potersi identificare nel sesso del padre, le ragazze possono rimanere più aderenti al modello materno. Ora, sappiamo che in casa, non sempre le ragioni e i torti vengono stabiliti in base ai diritti. Ad esempio tra due fratelli il
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più piccolo sembra privilegiato non in base alla giustezza delle sue pretese, ma solo in base al fatto che è più piccolo; oppure le decisioni non vengono prese a maggioranza, ma in genere si tenta di mediare fra tutte le esigenze. La Gilligan, in particolare, scopre che le ragazze assumono, quale criterio fondamentale nel dirimere i conflitti morali, le esigenze di cura dell’altro e prestano attenzione alla salvaguardia del contesto relazionale; hanno dunque la vocazione per un’etica della cura piuttosto che per un’etica dei diritti come è prevalente nei ragazzi. L’etica della cura denuncia la scarsa attenzione prestata dalla filosofia a un insieme di relazioni, improntate sulla cura, che sono fondamentali per il sussistere della convivenza umana. La cura è innanzitutto l’attitudine propria di chi assume il compito di accudire una persona particolarmente vulnerabile, come il bambino, il malato, l’anziano, il disabile. In costoro la vulnerabilità è particolarmente evidente, ma essa si può manifestare in ogni essere umano e in ogni epoca della vita. È soprattutto la vulnerabilità dell’altro a suscitare l’attitudine di cura. Un caso diventato classico riguardo questa ricerca, in cui ad un ragazzino e ad una ragazzina viene posto lo stesso quesito: una donna sta molto male e senza una certa medicina morirebbe. Il marito non ha i soldi per comprarla e nessuno può prestarglieli. E’ giusto che rubi la medicina al farmacista? Il maschietto non ha dubbi, è giusto rubarla perché la vita umana vale più dei soldi e l’uomo avrebbe anche l’indulgenza del tribunale per lo stato di necessità, altrimenti dovrà ricorrere alla forza per ottenerla. La ragazzina pensa che non sia bene rubarla, anche perché la donna potrebbe avere ancora bisogno di quella medicina, e sarebbe meglio mantenere buone relazioni con il farmacista. Lei peraltro si dichiara certa
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che sia possibile convincere il farmacista a fare un prestito al marito per permettere alla donna di guarire. Il suo mondo non è fatto solo di regole, ma di rapporti reciproci: se tutti aiutassero gli altri non ci sarebbe bisogno di rubare. Nell’orizzonte etico della ragazzina è centrale il dialogo tra gli individui. Nelle ragazze di diverse età intervistate, Gilligan verifica un significativo atteggiamento morale verso la mediazione e il convincimento, l’attenzione per le situazioni e non solo per i fatti, e una notevole capacità di proiezioni sul futuro. Gilligan introduce la differenza tra “morale della responsabilità”, tipica delle ragazze, e “morale dei diritti”, invece più maschile; ritiene che l’etica abbia bisogno di entrambi gli elementi, che le due etiche non siano alternative, ma che debbano integrarsi e reciprocamente correggersi: «La morale dei diritti e della non ingerenza (può) apparire minacciosa per la donna per la sua potenziale giustificazione dell’indifferenza e del disimpegno. […] da un’ottica maschile, una morale della responsabilità (appare) inconcludente e dispersiva, data la sua insistenza sul relativismo contestuale. […] L’approccio maschile universalistico può correggere il relativismo situazionale femminile; l’approccio femminile può controllare la tendenza alla considerazione della libertà come valore univoco abbandonando la responsabilità dei rapporti. L’etica maschile contribuisce alla universalizzazione della cura; l’etica femminile,
puntando l’attenzione più sugli obblighi che sui diritti (obblighi verso se stessi e gli altri, la famiglia e la società) contribuisce ad integrare la rivendicazione di diritti nella responsabilità di una aiuto solidale»2. Un altro documento epocale è la Carta itinerante delle donne comuniste, del 1986, il cui slogan, che ha mantenuto la sua forza di parola d’ordine fino ad oggi, è “Dalle donne la forza delle donne”. Il nucleo centrale del testo è la tesi del patto fra donne per vincere l’estraneità del genere femminile dalla politica, e conquistare il potere di cambiare le regole del gioco. Nasce la distinzione tra politica delle donne, che si basa sulla consapevolezza della propria differente identità soggettiva, sulla costruzione di un soggetto politico femminile, e politica per le donne, cioè quella tipicamente emancipazionista, tesa ad eliminare le condizioni di debolezza delle donne, la politica delle Pari Opportunità o della Azioni Positive. In base alla teoria emancipazionista, Il motivo per cui, tutt’oggi, ci sono poche donne in politica, è perché ci vuole ancora tempo: si parla di “guardiani dei cancelli” (gli uomini) che impediscono alle donne di entrare; di “soffitti di cristallo” contro cui le donne battono la testa al momento di salire ai vertici. In base alla teoria della differenza ci sono altre risposte: Una è l’ estraneità rispetto ad un modo prettamente maschile di fare politica, l’altra è la diffidenza
2 Carol Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, 1982
rispetto ad un fare politica come lo si vede sulla scena illuminata dai mass-media. Per entrambe le teorie, le donne chiedono alla politica una riforma morale, una maggiore capacità di mediazione fra le posizioni politiche necessariamente diverse. Mediazione e non politiche di scambio. Durante gli anni ’90, l’ONU compie un profondo riesame delle condizioni di disequilibrio di potere tra uomini e donne, portando alla formulazione del nuovo approccio “genere e sviluppo”, il GAD, (Gender And Development). Secondo il GAD le strutture politiche, sociali, economiche e le politiche per lo sviluppo, devono essere analizzate dal punto di vista delle relazioni di genere. Questa revisione concettuale ha portato alla formulazione della nuova strategia di gender mainstreaming come modello di intervento da adottare in tutte le azioni di sviluppo per promuovere l’uguaglianza di genere. L’ECOSOC (Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite) ha definito questo metodo come «il processo di valutazione delle implicazioni per donne e uomini di ogni azione pianificata, includendo la legislazione, rendendo le esperienze e i punti di vista degli uomini e delle donne una dimensione integrale nella definizione, attuazione, monitoraggio e valutazione di politiche e programmi in tutte le spere economiche, politiche e sociali in maniera tale che uomini e donne ne beneficino in maniera equa e le disuguaglianze non siano perpetuate; l’obiettivo ultimo è raggiungere l’uguaglianza di genere». Nel 1986 Susan Faludi, giornalista americana, legge uno sconcertante articolo di Newsweek, il quale affermava che «una donna laureata di trent’anni aveva migliori possibilità di restar vittima di un attacco terroristico che
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non di sposarsi». L’affermazione le pare così assurda che vuole verificarla, scoprì ovviamente che si basava su premesse sbagliate. Comincia ad incuriosirsi riguardo la qualità di affermazioni pessimistiche che stampa e TV diffondono sulla possibilità della donna di emanciparsi e avere ugualmente una vita privata soddisfacente. Il risultato è che nel 1991, Susan Faludi pubblica il suo libro, ”Contrattacco”, che ha come obiettivo la messa in guardia alle donne dal credere reale la fine del patriarcato. Faludi nel suo libro afferma: «il vero cambiamento consiste nel fatto che le donne si sono conquistate la libertà di controllare la propria fertilità senza pericoli o timori, una libertà che a sua volta ha prodotto cambiamenti radicali non nel numero degli aborti, ma nei comportamenti e negli atteggiamenti sessuali. […] il padre biologico ha cessato gradualmente di avere l’ultima voce in capitolo». Tuttavia il fatto che gli aborti siano usciti dalla clandestinità o che la biologia riconosca la maternità “a prescindere dal maschio”, non basta per potersi definire libere; significa molto, certo, ma non la fine del patriarcato. Nonostante in quel periodo la Faludi va controcorrente rispetto a tanto fiducioso
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femminismo europeo, oggi si può constatare se quel richiamo fu o meno “profetico”. Il femminismo va certamente letto come un fenomeno di larghe (ma pur sempre poco universali) vedute, e la sua politica non ha ancora trovato sbocchi soddisfacenti per i “due generi”: la rappresentanza non interpreta le reali esigenze dell’elettorato femminile. È vero che non si sono sentite rumorose proteste dei politici uomini, nel Partito Democratico, che hanno dovuto far posto a donne capolista, ma il “magone” è solo rimosso: gli uomini accettano la parità formale, purché non si cambi il modello che deve restare “unico”, vale a dire inesorabilmente maschile. Non si diceva che tutto cambia perché nulla cambi? La Flaudi nell’Incipit del suo libro, riporta ciò che il Time sostiene riguardo la questione femminista: «Essere donna in America alla fine del ventesimo secolo: che fortuna! O perlomeno, questo è ciò che continuano a dirci. Le barricate sono state smantellate, ci assicurano i politici. Le donne ce l’hanno fatta, inneggia Madison Avenue. La battaglia per la parità è stata vinta in larga misura, annuncia il «Time». Potete iscrivervi a qualsiasi università, farvi assumere in qualsiasi studio legale, chiedere un prestito a qualsiasi banca. Le donne hanno tante opportunità ormai, dicono gli imprenditori, che in realtà non serve più
una politica per le pari opportunità. Adesso che le donne hanno conquistato la piena uguaglianza, sostengono i legislatori, non è più necessario un emendamento sulla parità dei diritti. Le donne hanno ottenuto tanto, afferma l’ex presidente Ronald Reagan, che la Casa Bianca può anche permettersi di non affidare loro le cariche più alte. Perfino la pubblicità dell’American Express proclama che sono libere di fare acquisti con la carta di credito. Finalmente, le donne hanno ricevuto i documenti di cittadinanza. Eppure…»3 Contemporaneamente la stampa americana rilevava che, nonostante tanti benefici, le professioniste e le lavoratrici sono più soggette a depressione, le nubili intristiscono nella mancanza di un uomo stabile; anche Betty Friedan, conferma che le donne sono in crisi di identità e soffrono per “nuovi problemi che non hanno nome”. Il problema però come viene notato, riguarda la donna americana bianca dei ceti medi. Friedan viene criticata perché suggerisce alle donne di mobilitarsi per il cambiamento della loro vita da domestica a professionale, ignorando però, con esso, la categoria di donne meno fortunate che devono disperatamente conciliare casa e lavoro, solitamente a basso reddito, per mantenere la loro famiglia. In realtà comunque, i problemi femminili non hanno mai avuto nome: solo negli anni ’90 viene definito il “femminicidio”, ossia l’omicidio contro la donna “in quanto donna”, operato solitamente dal coniuge o da membri della famiglia. Se ad esempio un ladro uccide una commessa durante una rapina, parliamo di omicidio e non di femminicidio, perché quel ladro l’avrebbe uccisa indipendentemente dal suo sesso; se però un uomo approccia
una ragazza in discoteca, la violenta e poi la uccide, o se un ragazzo uccide la sua ex fidanzata per gelosia o senso di possesso, allora parliamo di femminicidio, perché quelle donne sono state uccise in quanto donne, in quanto “esseri che è possibile (o giusto) sottomettere”. «Nel cammino verso la nostra autenticità avremo bisogno anche di nuove parole: quelle che abbiamo a disposizione non sempre ci aiutano ad esprimere chi siamo e ciò che abbiamo da dire.»4 Anche riguardo l’uso di questo termine, troviamo opinioni contrastanti all’interno dei movimenti femministi, soprattutto negli ultimi anni: c’è chi, come la Flaudi, crede che la sua coniatura potrebbe aiutare a creare una nuova cultura giuridica; infatti fino a quel momento si opera su testi dalle discipline “neutre”, in cui la parola “uomo” comprende anche la donna, e si chiama “omicidio” una delle più antiche e principali cause di morte delle donne, mentre “Femminicidio” è incontestabilmente un vocabolo di genere. C’è poi un’altra linea di pensiero, che considera “Femminicidio”, termine tanto abusato dai media, una “brutta parola”, che al livello concettuale sembra estraniare ulteriormente la donna dall’essere umano: la legge prevede già l’omicidio e l’uxoricidio, quindi non si vede la necessità ricorrere ad un termine appositamente per le donne, che inoltre è anche spregiativo: deriva dal latino “femina” (“fe” e “minus”), ossia “minor fede”, termine molto usato nel medioevo; evoca le donne prive di anima, colluse con il diavolo e condannate come streghe, arse vive nei roghi di tutta Europa: ben nove milioni di donne, il più grande genocidio della storia dell’occidente. In realtà no si vuole distinguere l’omicidio di un uomo da quello di una donna al
3. Susan Faludi, Contrattacco, 1991
4. Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, 2010
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livello assoluto, ma si vuole dare un nome ad un’azione purtroppo molto comune, di omicidio di una donna in quanto donna, come può esse un omicidio a sfondo razziale: non tutte le persone di colore vengono uccisi per un movente razzista, ed in quel caso è un semplice omicidio. Ad ogni modo, che sia adeguato o meno l’utilizzo di quest’espressione, è ormai entrata nell’uso corrente del vocabolario comune, e la lotta contro il Femminicidio è uno dei capisaldi del femminismo contemporaneo. È anche l’obiettivo principale di un nuovo e numerosissimo movimento che negli ultimi anni si è fatto strada:“Non una di meno” affronta tematiche quali i diritti sul lavoro, quelli alla salute sessuale e riproduttiva, l’educazione e la formazione delle nuove generazioni, violenza domestica e come viene riportata dai media. Secondo questo gruppo infatti, contro la violenza è necessaria “una trasformazione radicale della società”, non solamente dei maschi, ma delle istituzioni della convivenza. L’8 marzo 2017, il giorno della festa della donna, questo movimento vuole recuperare lo spirito originale da cui questa festa, così tanto commercializzata dai media, è nata, ed organizza una giornata di sciopero, nominata “Sciopero Lottomarzo”, al livello globale. Italia, Regno Unito, Repubblica Cieca, Polonia, Turchia, Israele, Russia, Corea del Sud, Australia, Messico, Honduras, Cile, e molti altri paesi partecipano alla manifestazione; quel giorno nelle piazze di tutto il mondo, migliaia di donne protestano ad una società che da ormai troppo tempo sminuisce, o finge di non vedere, le discriminazioni che metà della popolazione umana è costretta a subire ogni giorno. Riparte la ricerca di cambiamenti profondi e simbolici. Uno dei più grandi ostacoli del femminismo contemporaneo, è proprio che
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sembra combattere un nemico inesistente; infatti secondo la percezione della maggior parte degli uomini, ma anche di moltissime donne, si è diffusa l’idea che “Ormai siamo tutti uguali”. Il maschilismo odierno è infatti ufficioso, un problema esclusivamente sociale ed interpersonale; uomini e donne sono uguali esclusivamente al livello legislativo, i cui canoni di giustezza però, come abbiamo visto, sono maschili. L’uomo è ancora, spesso inconsapevolmente, reduce di una patriarcale tradizione millenaria, che sta faticando non poco a scomparire del tutto. Per questo i diritti delle donne sono un tema spesso considerato superato, e le femministe reputate “suffragette nostalgiche”, che si ostinano a voler combattere una battaglia ormai vinta. Nella fese “Ormai siamo tutti uguali” possono essere riscontrati due errori: Il primo sta in quella “i” di “tutti” e “uguali”, e non è solo linguistico. C’è una bella poesia di Muriel Rukeyser che dice: «“Molto tempo dopo, vecchio e cieco, camminando per le strade, Edipo sentì un odore familiare. Era la Sfinge. Edipo disse: “Voglio farti una domanda. Perché non ho riconosciuto mia madre?”. “Avevi dato la risposta sbagliata,” disse la Sfinge. “Ma fu proprio la mia risposta a rendere possibile ogni cosa.” “No,” disse lei. “Quando ti domandai cosa cammina con quattro gambe al mattino, con due a mezzogiorno e con tre alla sera, tu rispondesti l’Uomo. Delle donne non facesti menzione.” “Quando si dice l’Uomo,” disse Edipo, “si includono anche le donne. Questo, lo sanno tutti.” “Questo lo pensi tu”, disse la Sfinge». Il linguaggio non è solo qualcosa di “naturale”, è anche una costruzione che ha un soggetto, e che rimanda a un sistema ben preciso. Quel soggetto ha un sesso e quel sistema (di potere), pure: è evidente nell’uso comune del plurale maschile per includere tutti e tutte, nella scelta di assumere l’uomo come paradigma
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universale dell’intera specie umana, o nella scelta dell’espressione “suffragio universale” applicata per lungo tempo a tutti gli uomini con esclusione delle donne. La finzione dell’universale neutro in cui la differenza femminile scompare e viene inglobata (dal due all’uno) è uno dei trucchi più semplici ed efficaci su cui è stata costruita la società patriarcale. Il secondo errore sta nel dire “ormai”. Le femministe sono consapevoli di non poter mai e poi mai abbassare la guardia. Ci sono donne verso cui essere riconoscenti, che hanno combattuto e sono morte per i diritti che oggi si sono conquistati; non è finita, ed ogni diritto non è mai per sempre. L’esempio più lampante è odierno: In Italia esiste una legge che garantisce la possibilità di abortire liberamente e gratuitamente,tuttavia l’enorme presenza di medici obiettori, impedisce a migliaia di donne di poter scegliere per sé. Si deve dunque tener presente che la conquista di un diritto si può perdere senza che sia avvenuta una vera trasformazione. Per Simone De Beauvoir la condizione femminile ha due piani di lettura: uno astratto di eguaglianza e uno concreto di ineguaglianza. In effetti le donne occidentali sono ormai pienamente inserite nella società, ma in situazioni individuali c’è ancora una 54
certa idea di donna, e la critica per le donne che non rispettano questi canoni. Nel corso della storia, la supremazia è stata accordata non al sesso che genera, ma al sesso che uccide. L’uomo ha il “coraggio” di uccidere e di farsi uccidere, e quindi è lui a fondare i valori su cui si basa la società; la donna non ha mai posto dei “valori femminili”, ha solo impostato la sua posizione in seno alla coppia e alla famiglia. Il diritto al lavoro e al voto non bastano per definirsi libere (ancora oggi inserirsi in determinati contesti lavorativi, per la donna, richiede sempre “uno sforzo maggiore”). Si è ancora sottomesse astrattamente ad un sistema apparentemente paritario, ma intrinseco di maschilismo. La sintesi fra femminilità e libertà, fra femminilità e soggettività, è ancora un problema aperto, nonostante le lotte del passato e i tanti libri scritti. Una delle più famose citazioni della filosofa francese è “Donna non si nasce, si diventa”. È dunque la donna a decidere cosa essere, ridefinendo la sua condizione, e costituendo nuovamente i rapporti con l’altro sesso.
2.4. QuArtA ondAtA -
lA crisi dellA mAscolinità Oggi siamo nella quarta ondata del femminismo, il cui pilastro sono propio gli uomini. Nel secolo scorso, anche se con alcune eccezioni, il femminismo era vedeva protagonista esclusivamente la figura femminile, che era sia il sogetto che l’oggetto del movimento. Era una corrente potata avanti dalle donne per le donne. Già alcune correnti nella terza ondata puntavano a coinvolgere gli uomini, ma sempre per il bene ed i diritti femminili, con il nuovo millennio invece, il femminismo comincia a preoccuparsi anche delle problematiche mascili, indissolubilmente legate a quelle femminili. La donna rappresenta il 50% della popolazione mondiale, è dunque inevitabile che la trasformazione del suo ruolo nella società influenzi anche gli uomini, per questo viene chiesto a gran voce il loro contributo. In questa fase c’è una grandissima attenzione alla rappresentazione degli stereotipi di genere da parte dei media, e benchè la figura femminile sia molto più commercializata, come vedremo più avanti, anche l’uomo ha i suoi stereotipi duri a morire. Emblematico per questa fase del movimento è il discorso tenuto da Emma Watson alle Nazioni Unite nel 2014: «Oggi stiamo lanciando la campagna “HeForShe” [LuiPerLei]. E sono qui a parlare con voi perché ho bisogno del vostro aiuto. Vogliamo far finire l’era della disparità di genere, e per farlo abbiamo bisogno che tutti siano coinvolti. Questa è la prima campagna di questo
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genere delle Nazioni Unite: vogliamo provare a convincere il maggior numero possibile di ragazzi e uomini a diventare sostenitori della parità di genere. E non vogliamo semplicemente parlarne, vogliamo essere sicuri di fare qualcosa di tangibile. Sono stata nominata [ambasciatrice] sei mesi fa e più ho parlato di femminismo, più ho capito che lottare per i diritti delle donne è troppo spesso diventato sinonimo di “odiare gli uomini”. Se c’è una cosa di cui sono sicura è che questa cosa deve finire. Per la cronaca, la definizione di femminismo è: «il credere che uomini e donne debbano avere uguali diritti e opportunità. È la teoria della parità dei sessi in politica, economia e nella società”. Ho iniziato a essere confusa dai preconcetti di genere quando avevo otto anni e venivo chiamata “prepotente” perché volevo dirigere la recita che stavamo preparando per i genitori, mentre ai maschi non veniva detto altrettanto. Quando a 14 anni ho iniziato a essere sessualizzata da alcune parti della stampa. Quando a 15 anni alcune delle mie amiche hanno iniziato a uscire dalle squadre sportive in cui erano per paura di apparire troppo muscolose. Quando a 18 anni i miei amici maschi erano incapaci di esprimere i loro sentimenti. Ho deciso che ero una femminista e la cosa non mi è sembrata complicata. Ma le mie recenti ricerche mi hanno fatto scoprire che femminismo è diventata una parola impopolare. A quanto pare, sono una di quelle donne i cui modi di fare sono visti come troppo forti, troppo aggressivi, isolanti, respingenti per gli uomini e non attraenti. Perché questa parola è così scomoda? Vengo dall’Inghilterra e penso che sia giusto che io, come donna, sia pagata lo stesso di quanto sono pagati i miei colleghi uomini. Penso che sia giusto che io possa prendere delle decisioni riguardo al mio corpo. Penso sia giusto che ci siano donne coinvolte per
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mio conto nel processo politico e decisionale del mio Paese. Penso che sia giusto che mi sia dato lo stesso rispetto che è riservato agli uomini. Ma purtroppo posso dire che non c’è un singolo Paese in tutto il mondo dove le donne possono aspettarsi di ricevere questi diritti. Nessun Paese del mondo può dire di aver raggiunto la parità di genere. Considero questi diritti, dei diritti dell’umanità ma io sono una delle fortunate. La mia vita è da privilegiata, perché i miei genitori non mi hanno voluto meno bene perché sono nata femmina. La mia scuola non mi ha limitata perché ero una ragazza. I miei mentori non hanno pensato che sarei andata meno lontano perché un giorno potrei avere un figlio. Queste persone erano gli ambasciatori della parità di genere che mi hanno resa ciò che sono oggi. Forse non lo sanno, ma sono dei femministi inconsci. E abbiamo bisogno di più persone come loro. E se ancora odiate la parola, sappiate che non è la parola ad essere importante ma l’idea che ci sta dietro. Perché non tutte le donne hanno avuto gli stessi diritti che ho avuto io. Anzi, statisticamente ben poche li hanno avuti. Nel 1997, Hillary Clinton ha tenuto un famoso discorso a Pechino sui diritti delle donne. Purtroppo, molte delle cose che voleva cambiare sono ancora oggi una realtà. Ma quello che mi ha colpito di più è che solo il 30% di chi la stava ascoltando quel giorno era maschio. Come possiamo cambiare il mondo quando soltanto metà di esso è invitato o si sente a suo agio a partecipare alla conversazione? Uomini, vorrei sfruttare questa opportunità per farvi un invito formale. La parità di genere è anche un vostro problema. Perché a oggi, ho visto il ruolo di genitore di mio padre essere svalutato società, nonostante io avessi bisogno della sua presenza tanto quanto quella di mia madre. Ho visto giovani uomini soffrire di malattie mentali incapaci di chiedere aiuto per paura che la cosa li facesse sembrare meno maschi
— in Inghilterra, il suicidio è la più grande causa di mortalità per gli uomini tra i 20 e i 49 anni, superando gli incidenti stradali, il cancro e l’infarto. Ho visto uomini resi fragili e insicuri da un’idea distorta di quello che significa successo per un maschio. Nemmeno gli uomini hanno la parità di genere. Non parliamo spesso di uomini imprigionati dagli stereotipi di genere ma io vedo che lo sono, e che quando ne sono liberi, le cose cambiano di conseguenza anche per le donne. Se gli uomini non devono essere aggressivi per essere accettati, le donne non si sentiranno spinte a essere arrendevoli. Se gli uomini non devono avere il controllo, le donne non saranno controllate. Sia gli uomini sia le donne dovrebbero sentirsi liberi di essere sensibili. Sia gli uomini sia le donne dovrebbero sentirsi liberi di essere forti… è ora che iniziamo a pensare al genere come uno spettro, non come due insiemi opposti di ideali. Se smettiamo di definirci l’un l’altro con quello che non siamo, possiamo iniziare a definirci con quello che siamo — possiamo tutti essere più liberi, ed è a questo che è dedicata la campagna HeForShe. Alla libertà. Voglio che gli uomini si prendano questo compito. Perché le loro figlie, le loro sorelle e le loro madri siano libere dal pregiudizio, ma anche perché ai loro figli sia permesso di essere vulnerabili e umani — recuperando quelle parti di loro che hanno abbandonato e diventando così delle versioni più complete e vere di loro stessi. Potreste pensare, chi è questa ragazza da Harry Potter? E cosa sta facendo sul palco delle Nazioni Unite? È una buona domanda e, credetemi, me la sono posta anche io. Non so se sono qualificata per essere qui. L’unica cosa che mi importa è il problema. E voglio migliorare la situazione. E avendo visto quello che ho visto — e avendo ottenuto questa opportunità — sento che è mio dovere dire qualcosa. Il politico
inglese Edmund Burke ha detto: «perché il male trionfi è sufficiente che gli uomini e le donne buoni rinuncino all’azione». Nei momenti di nervosismo e di dubbio per questo discorso mi sono detta fermamente: se non io, chi? Se non ora, quando? Se avete dubbi simili, quando l’opportunità si presenta, spero che queste parole possano esservi d’aiuto. Perché la realtà è che se non facciamo nulla, ci vorranno 75 anni, o per me di compierne 100, prima che una donna possa aspettarsi di essere pagata quanto un uomo. Nei prossimi 16 anni, ci saranno 15,5 milioni di spose bambine. E al ritmo attuale, ci vorrà fino al 2086 prima che le ragazze dell’Africa rurale possano avere accesso all’educazione secondaria. Se credete nella parità, potreste essere uno dei femministi inconsapevoli di cui parlavo prima. E per questo mi complimento. Stiamo faticando per trovare una parola che ci unisca, ma la buona notizia è che abbiamo un movimento che ci unisce. Si chiama “HeForShe”. Vi invito a fare un passo avanti, a farvi vedere, ad alzare la voce, a essere lui per lei. E a chiedervi: se non io, chi? Se non ora, quando? Grazie.» Tutti i cambiamenti sociali avvenuti fino a questo momento incidono fortemente sulla sicurezza e sul senso di mascolinità dell’uomo. Da sempre la società era basata sulla sua supremazia, la tradizione patriarcale era alla base della società, e viene sconvolta dai cambiamenti culturali, economici e sociali dell’epoca. Fino all’inizio delle lotte femministe, l’uomo era visto innanzitutto come rappresentante dell’umanità, e in secondo luogo come soggetto di genere maschile, a differenza della donna che veniva identificata semplicemente come tale. Ora, quando l’uomo inizia a veder
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minacciato il suo primato dalla donna, un essere per tradizione inferiore, reagisce rilanciando quel virilismo classico che è un’invenzione dell’ ’800. La soluzione è «una prospettiva politica il cui asse fondamentale fosse una mascolinità rafforzata nei suoi attributi simbolici di forza, coraggio, vocazione al dominio e, all’occorrenza, disposizione all’azione brutale» 1. Questa prospettiva politica si lega a ideali come la misoginia, il nazionalismo, l’imperialismo, il razzismo e il tradizionalismo. Inutile dire che tutti questi fenomeni ribadivano la superiorità dell’uomo, sia al livello nazionale, che internazionale, per cui la donna non europea aveva zero diritti. In Italia in particolare, questa riconquista di virilità ed autorità trova il suo splendore durante il Fascismo dal momento che «nel Ventennio, “virile” divenne praticamente sinonimo di fascista, e quindi di italiano» 1. Tuttavia, con la fine del Fascismo, questo virilismo inizia a scemare, i grandi cambiamenti culturali di quegli anni, il boom economico, la decolonizzazione, la liberazione della morale sessuale fanno cadere una ad una le basi del virilismo. La donna è sempre più emancipata, e chiaramente non è più possibile conciliare
1. Bellassai, l’invenzione della virilità, 2011
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mascolinità tradizionale e nuovo scenario socio-economico: «Alla fine del millennio il virilismo “classico” appariva nella sua agonia terminale. Tuttavia i suoi fautori rimanevano numerosi , e negli ultimi anni sono sembrati anche aumentare visibilmente. Incapaci o riluttanti ad immaginare un diverso ordine politico e semantico, convinti del loro diritto “naturale” ad un certo grado di supremazia, e atterriti da una libertà femminile che, come i loro antenati, continuano a percepire come sottrazione di benessere a loro stessi, negli ultimi decenni del ‘900 molti uomini hanno adottato un virilismo “informale”, continuando nella pratica ad avere comportamenti, prospettive politiche e linguaggi, al dominio, alla gerarchia, alla violenza, al disprezzo e alla paura delle donne»1. A partire da questo passaggio storico fino ad oggi, nessuno oserebbe più affermare seriamente che le donne sono inferiori o inette ad adempiere a importanti funzioni pubbliche, ma allo stesso tempo nessuno si stupirebbe davvero nel constatare che le donne sono meno libere degli uomini,e che vengano trattate in generale come persone, se non dichiaratamente inferiori, di fatto dotate di dignità e diritti minori ristetti agli uomini. Le strategie per descrivere le donne inadatte al
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protagonismo e al potere, ora devono essere indirette. Le stanze del potere, non solo restano presidiate da uomini, ma continuano ad apparire come adempienti “naturalmente” maschili. In questi ultimi decenni le istituzioni si sono interessate alla questione della differenza di genere, soprattutto in termini di discriminazioni e disuguaglianze. Le Nazioni Unite hanno organizzato incontri internazionali a città del Messico, Copenhagen, Nairobi, Pechino, fino ad arrivare a New York nel marzo 2005, con l’ intento di preparare una piattaforma di azioni volta a favorire una gender equality. Nel 1995 la Commissione Europea ha istituito un gruppo di commissari con l’ obbiettivo di inserire misure per le pari opportunità nelle politiche generali dell’Unione. Ciò ha portato alla stesura della “Carta di Roma” nel 1996 e al “Trattato di Amsterdam” nel 1999, con i quali si afferma la necessità di creare all’interno della U.E. una condizione di parità tra i due sessi. In questa nuova società ricca di possibilità, tutti vogliono avere successo, e l’uomo si trova ancora una volta sotto pressione. Sempre più donne si slegano dal potere maschile, e teme che la modernità lo svirilizzi completamente, tanto più che ora la scienza sembra certificare la sua irrilevanza nella riproduzione. Infatti In Inghilterra sono in corso delle ricerche che permetterebbero di creare sperma dal midollo spinale delle donne. Sembra dunque che in futuro le donne possano diventare autosufficienti nella procreazione. Le ricerche sollevano però molti dubbi sia dal punto di vista etico che da quello scientifico. La tecnica potrebbe essere utile per aiutare gli uomini che hanno perso la fertilità, ma la stessa potrebbe anche essere usata per rendere l’uomo non necessario alla procreazione, e quindi portare il genere maschile all’estinzione. Nessuno mette più in discussione il fatto
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che uomini e donne non sono uguali, che esista cioè una differenza di genere. In Il secondo sesso, Simone De Beauvoir, affermava che «Donna non si nasce, si diventa», mezzo secolo dopo, nel 2000, l’antropologa Helen Fisher pubblica il suo libro Donne: Il primo sesso: «Donne si nasce, e si nasce differenti soprattutto perché diversi sono i cromosomi degli uomini e delle donne. Di fatto la donna, secondo le più recenti scoperte scientifiche, deve essere considerata portatrice dello schema genetico fondamentale» infatti mentre i cromosomi della donna sono “XX”, quelli dell’uomo sono “XY”; il cromosoma “Y” è una mutazione del cromosoma “X”, cui una parte è stata perduta, per tanto è la donna il primo sesso. Nel suo libro la Fisher parla delle varie differenze di genere, concentrandosi perlopiù su quelle di natura biologica. Ad esempio analizza la particolare attitudine delle donne al linguaggio: «da vari studi risulta che le bambine cominciano a parlare prima rispetto ai maschi, e che successivamente, incespicano meno, fanno meno omissioni e ripetizioni, e si esprimono con frasi più complete; sono tre o quattro volte meno soggette alla balbuzie e alla dislessia […] Le donne eccellono nella “scioltezza verbale”, ovvero la rapida ricerca di parole o frasi appropriate. Le donne adulte possono elencare mediamente quasi il doppio dei sinonimi di parole comuni […] Sebbene uomini e donne hanno vocabolari di uguali dimensioni, gli uomini sono meno capaci di sondare rapidamente la memoria per trovare le parole appropriate […] Quando la ricercatrice Sandra Witelson esaminò il tessuto celebrale di 5 donne e 4 uomini defunti, scoprì che i cervelli femminili contenevano l’11% in più di neuroni in zone specifiche specializzate nella percezione e differenziazione dei suoni associati con il linguaggio […] Darwin affermava: “Gli animali inferiori differiscono dall’uomo esclusivamente per la sua capacità
quasi infinitamente maggiore di associare le idee e i suoni più diversi”. In questa dote peculiare dell’umanità, la comunicazione verbale, le donne sono di regola superiori» 2. A questa differenza biologica, si affianca una situazione sociale che influisce accentuando ancora di più. Infatti l’effetto, subdolo ma forte, dello stereotipo femminile, suggerisce alla donna di stare dietro le quinte, di non darsi troppa importanza e di essere modesta; per questo in determinati contesti, la donna viene presa “poco sul serio” rispetto all’uomo, perché si confonde l’opinione personale con il desiderio di essere la primadonna della situazione, così inconsciamente si abitua ad esprimersi in maniera più corretta e dettagliata, mentre l’uomo è abituato al fatto che tutti prestano attenzione alle sue argomentazioni, in qualunque modo vengano espresse (tranne che in un contesto particolarmente formale, dove comunque l’opinione delle donne passa in secondo piano, ed ha meno riscontri positivi). Un’altra differenza analizzata dalla Fisher è quella del desiderio sessuale: «uomini e donne hanno sviluppato nel corso dell’evoluzione, un forte impulso sessuale […] ma la loro libido viene innescata da fantasie e circostanze differenti. Gli uomini si eccitano di più con stimoli sessuali visivi e segni di giovinezza, salute e fertilità nelle donne. Queste sono invece più attratte da segnali di impegno, status e risorse mentali. l’impulso sessuale femminile è più flessibile, perciò le donne hanno una maggiore tendenza verso la bisessualità […] I doppi standard sessuali si stanno sgretolando: le donne si riuniscono in conferenze internazionali, marciano, esercitano pressioni politiche, scrivono o esprimono in altri modi i diritti sessuali e riproduttivi. Le donne stanno
2. Helen Fisher, Donne: Il primo sesso, 2000
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anche intentando la maggior parte delle azioni legali per molestie sessuali, e in molti casi con successo. In tal modo esse costringono avvocati, magistrati, giornalisti, politici e dirigenti d’azienda a ridefinire i codici di decoro sessuale secondo standard femminili. Le donne stanno gradualmente femminilizzando il desiderio sessuale» 2. Negli ultimi quarant’anni si è evoluta anche la tradizionale famiglia patriarcale, che si sta lentamente trasformando in una nuova forma di famiglia che, nonostante sia ancora pregna di un maschilismo latente, ha fatto molti passi avanti. Mano a mano che le donne accrescono il loro potere economico, assistiamo ad un crescente numero di matrimoni tra eguali, i “matrimoni alla pari”. Le donne sono più istruite e indipendenti di quanto siano mai state in qualunque periodo storico, e le relazioni intime sono in corso di ridefinizione in termini femminili; l’adulterio o la libertà sessuale della donna non è più considerata in modo maggiormente severo di quella maschile; prima le donne 62
sole abbandonavano spesso i loro figli in orfanotrofio, oggi invece li allevano sole fino a quando si sposano; è aumentato il numero di persone che convivono in coppia prima del matrimonio. Tuttavia al momento possiamo definire la maggior parte dei matrimoni “quasi paritari”, dato che entrambi i coniugi lavorano, ma la donna continua a fare la maggior parte delle faccende domestiche, ed i compiti sono ripartiti in modo più o meno tradizionale: ad esempio il marito prende ancora la maggior parte delle decisioni finanziarie importanti. Dai timori dell’uomo cominciano a scaturire concezioni distorte, a volte inconsciamente, sui movimenti femministi, spesso senza alcuna base logica. Lo stereotipo più diffuso è senz’altro “Le femministe odiano gli uomini”, ed è per questo che gli uomini odiano le femministe. Si confonde con la misandria, che è il contrario di misoginia, ed è l’argomento che gli uomini usano fin dagli inizi del movimento di liberazione della donna contro il femminismo stesso; in questa definizione tuttavia c’è un fondo di verità, anche se dovrebbe essere cambiata in “Le femministe odiano certi tipi uomini”, ossia quelli sessisti, che pensano ci sia una gerarchia tra i generi, quelli che rivolgono a donne sconosciute “complimenti” tutt’altro che raffinati, che le molestano per strada, che vogliono dominarle, addomesticarle e controllarle in una relazione; sono piuttosto i sostenitori della frase le-femministe-odiano-gli-uomini ad odiare davvero gli uomini, identificandoli tutti, in un sol colpo, come dei misogini. D’altronde “Le femministe odiano anche certi tipi donne”, che presentano gli stessi atteggiamenti discriminatori, che siano verso l’uno o l’altro sesso, dunque l’affermazione non ha molto senso neanche così, e dovrebbe evolversi ulteriormente in “Le femministe odiano il sessismo”. La convinzione che “Le femministe si occupano solo di donne” è assolutamente
falsa. La femminista sa che la sua libertà cambia la vita di tutti, e sa che la misoginia danneggia anche gli uomini: si esprime nel bullismo di chi si sente più virile di un altro; nell’ambito della violenza domestica, nonostante colpisca sicuramente più le donne, vanno però considerati anche gli uomini, come i nuovi compagni che muoiono o vengono aggrediti dai precedenti, o i figli che sin da piccoli sono costretti a subire gli abusi di potere, anche violenti, da parte del “padre padrone”. Anche gli stereotipi che la società collega all’uomo stesso, non sono che una conseguenza della politica maschilista: “gli uomini non piangono”, “sei un uomo, sii coraggioso”, questi sono i messaggi che vengono incessantemente inviati ai bambini, che crescono convinti che l’uomo per definirsi tale, debba necessariamente controllare la propria emotività, essere coraggioso e virile; questa mentalità però porta i ragazzi a reprimere le loro emozioni, e a causa di questo spesso si creano nella persona traumi, complessi di inferiorità e di identità, che sfociano nel desiderio di prevalsa nel tentativo di affermare la propria virilità. È questa, di base, la causa scatenante anche dell’omofobia, e soprattutto del fatto che negli ultimi 20 anni le battaglie femministe hanno raggiunto ben pochi traguardi concreti: è assai difficile cambiare l’immaginario collettivo e modificare la natura dei rapporti del singolo individuo. Un altro preconcetto è che “Le femministe sono violente”; a questo risponde la giornalista e scrittrice Lauerie Penny: «Quelli a cui interessa mantenere lo status quo preferirebbero vedere le giovani donne che agiscono, come dire, nel modo più grazioso e piacevole possibile; anche quando protestano. Sostenere che una femminista è sempre incazzata (o brutta, o con i peli) è una difesa per preservare il sistema che il femminismo potrebbe mettere
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in discussione. Da qui l’operazione di voler glassare il femminismo per renderlo un accessorio desiderabile, gestibile al pari di una dieta disintossicante. […] Purtroppo non c’è modo di creare una “nuova immagine” del femminismo senza privarlo della sua energia essenziale, perché il femminismo è duro, impegnativo e pieno di rabbia (giusta). Puoi ammorbidirlo, sessualizzarlo, ma il vero motivo per cui molte persone trovano la parola femminismo spaventosa è che il femminismo è una cosa spaventosa per chiunque goda del privilegio di essere maschio. Il femminismo chiede agli uomini di accettare un mondo in cui non ottengono ossequi speciali semplicemente perché sono nati maschi. Rendere il femminismo più “carino” non lo renderà più facile da digerire». Troviamo anche la definizione “Le femministe odiano le donne che non la pensano come loro” (oppure: le donne sono le peggiori nemiche delle donne). Se una è femminista per lei è importante che ogni donna sia 64
libera di pensare e di agire in accordo con i propri desideri, e prima ancora, libera di desiderare senza misure stabilite da altri: che sia lei, la singola, ad essere traiettoria di sé stessa: «Vorrei che le donne avessero potere non sugli uomini, ma su loro stesse» 3. La libertà di scegliere però può essere ottenuta solo dalla conoscenza di se, che spesso viene ostacolata dall’abitudine ad un certo tipo di situazione, è importante far capire alle donne la reale posizione che occupano nella società, e quella che potrebbero ottenere, così che possano scegliere consapevolmente. Già degli anni della seconda ondata, il maschio è certamente in crisi, ma non fa la sola cosa essenziale per un futuro di migliori relazioni umane: mettersi in discussione. «Il tema della “crisi del maschio” si ripropose quindi sempre più spesso dalle colonne e dalle copertine dei periodici, e questo stesso fatto costituiva indubbiamente un ulteriore duro colpo alla storica presunzione di trascendenza, assolutezza, ineffabile sacralità della virilità» 1. Per rassicurare l’uomo, bisogna “esorcizzare” lo spettro della donna moderna, e qui entra in gioco la pubblicità, che assicura successo e virilità. A partire dagli anni ‘80/’90 la pubblicità inizia sempre più a screditare la donna, riducendola ad un oggetto sessuale, schiava dell’uomo. È questa una pubblicità ingannevole, che fa credere all’uomo di avere tutto sotto controllo e di poter giudicare e determinare la vita e le scelte di quelle melense creature chiamate donne, come essere superiore qual’ è. È, infine, una pubblicità meschina, che si allinea ai desideri maschili e che, insieme alla TV, ancora oggi è responsabile di una diffusione dell’immagine della donna ingiusta e stereotipata.
3. Mary Wollstonecraft, Rivendicazione dei diritti della donna,1792
3.
lA donnA ed i mAss-mediA
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Il mondo contemporaneo è sempre più influenzato dai media, dall’informazione e dalle tecnologie di comunicazione. WWLe analisi riguardo la rappresentazione della donna nei mass-media degli ultimi decenni, sono state animate dal desiderio di comprendere in che misura immagini e costruzioni culturali mass-mediali, influiscano nella società, diffondendo modelli di disuguaglianza, dominazione ed oppressione. Generalmente, si dedicano molte ore della settimana a guardare la TV, a leggere riviste e altre pubblicazioni, a contemplare cartelloni pubblicitari, al cinema, e quindi si è esposti costantemente alla cultura popolare e alla pubblicità; è evidente quindi che gli individui sono esposti quotidianamente ad una fitta rete di informazioni, e anche se spesso non vengono recepite al livello conscio, vengono assimilate in modo passivo, e senza dubbio rimangono impresse nell’inconscio. Con la terza ondata, il movimento femminista sembra uscito di scena, ma è presente in tutta la società nella misura in cui ha inciso nel profondo sul modo di essere della donna. Sono nati molti gruppi di ricerca, associazioni, sono sorte riviste, sono state fondate università da donne per donne. Dopo aver rifiutato il vecchio modello di donna moglie-madre, diventa sempre più chiara la consapevolezza di non potere avere più modelli, perché è l’ idea stessa di modello che viene messa in discussione. Non viene costruita un’ “altra” identità di un “altro soggetto donna”, ma viene aperta la strada a tante possibili identità. Si acquisisce sempre più chiaramente la consapevolezza che non esiste un’ unica identità, ma tante possibili identità i cui confini sono messi di volta in volta in discussione e con molteplici e contemporanei livelli di appartenenza: sesso, età, classe sociale, cittadinanza, appartenenza etnica. Si può ipotizzare che questa è la fase in cui le donne, in tanti differenti gruppi, elaborano tante diverse identità con cui cominciano
a confrontarsi, con la consapevolezza che non è più possibile immaginare un unico modello di donna, né un unico modello di uomo, ma una situazione dinamica in cui identità e soggettività sono due dimensioni che costituiscono la vita di ognuno. Quando alla fine degli anni ‘80 viene dichiarata la “morte” del femminismo, Nasce un “nuovo femminismo popolare” che celebra l’individualità più che la collettività, che da spazio al piacere piuttosto che alla politica, che viene trasmesso dunque soprattutto dai media: nella tv, nella pubblicità, nelle riviste ecc.. Il femminismo diventa una faccenda culturale e si nota una serie di cambiamenti
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nel rapporto tra donna e mass-media. Nella pubblicità, soprattutto quella mirata ad un pubblico femminile, si offre un’immagine di donne giovani, indipendenti, attraenti e normalmente single. Le rappresentazioni nei media coinvolgono ripetutamente discorsi femministi, ma in modo ironico, scherzoso, stilistico e in una maniera ambivalente. Tale questione è ancora oggi fortemente discussa negli ambienti femministi: di un lato avviene
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la rappresentazione di donne più autonome e con successo nel lavoro, ma dall’altro si tratta di rappresentazioni ancora legate a stereotipi e molto unilaterali, appunto donne giovani, indipendenti, di successo, attraenti e single, oppure donne più anziane, casalinghe, con una tendenza alla mania per le pulizie. Pare anche che avere successo nel lavoro e allo stesso tempo avere un famiglia, sia una combinazione incompatibile per una donna dal punto di vista di chi produce le pubblicità. Più di recente invece, a
partire dal nuovo millennio, si tenta di unire tutte quelle qualità definite “femminili”, per incorporare una nuova “super-donna”, che è intelligente, affermata, bella, madre perfetta e che gestisce anche un lavoro professionale impegnativo. Responsabile per questo cambiamento è stata la comparsa del movimento intellettuale chiamato post-strutturalismo, che ha aperto una pluralità di prospettive, tentando di rompere quell’immagine della società divisa in due parti opposte. Oggi le donne sono entrate in tutti i lavori e in tutte le professioni, ma basta dare un’occhiata alla pubblicità o alle trasmissioni televisive per vedere le speculazioni simboliche che ancora si fanno sulle donne. C’è anche un altro modo di influenzare l’immaginario collettivo; Alessandra Bocchetti scrive: «A Roma il Gianicolo è un bellissimo parco. Lì c’è il monumento ad Anita Garibaldi. Anita era la moglie di Giuseppe Garibaldi, un condottiero, un uomo di avventura e di armi: a lui si deve la parte più spettacolare dell’unità d’Italia, la parte sul campo. Sua moglie era una donna molto coraggiosa, amata e intelligente; lo seguiva ovunque. Morì a Roma. Roma la ricorda con questa statua. Anita è raffigurata a cavallo, con i capelli sciolti. Il cavallo ha le due zampe anteriori sollevate. Nella mano destra Anita imbraccia un fucile, con il braccio sinistro sostiene, incredibile, un bambino: Tutto vuole
comunicare l’eccitazione della battaglia. Anita in verità non ha mai portato il suo bambino in battaglia, non era certamente pazza. Ma chi ha voluto ricordarla lo ha fatto così, esprimendo il paradigma ‘donna sì, ma coraggiosa’...Se facciamo attenzione, ci accorgiamo che spesso ciò che è rivolto alle donne, che sembra celebrarle, ha, invece, la funzione di dividere le donne tra loro, di non permettere alcun moto di riconoscimento, di impedire l’ammirazione. Nella frase ‘è una donna eccezionale ’ c’è un agguato: nella maggior parte dei casi si vuole dire che quella donna fa eccezione alle altre donne, è un’eccezione. La cultura occidentale è ben attenta a rompere legami tra donne, che siano materiali o simbolici e a mantenerli spezzati»1. Ci sono però altre vere e proprie gabbie in cui viene intrappolata la differenza femminile e in cui è palese la supremazia del maschile. Sono molti gli studiosi, come Gaye Tuchman, che hanno analizzato l’immagine della donna nei media, che spesso si riteneva rappresentata come stereotipo. Il resoconto dell’UNESCO del 1979 riassume chiaramente il concetto: «Nella misura in cui la programmazione televisiva rispecchia e fornisce informazioni sui ruoli di genere, la sua rappresentazione delle donne è inaugurata e distorta […]. I programmi d’intrattenimento in qualsiasi tipo di formato enfatizzano l’immagine della donna come oggetto decorativo come persona passiva orientata alla casa e al matrimonio, secondaria e dipendente dall’uomo per un supporto economico, emotivo e fisico.» Perciò, si afferma, secondo numerosi studi femministi, il concetto che Simone de Beauvoir aveva già formulato in una frase nel 1949: «le donne sono anche qui [nei media] il secondo sesso, gli altri».
1. A. Bocchetti, Dell’ammirazione, Piccola Biblioteca Millelire, 1996
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3.1. lA rAPPresentAzione dellA donnA nei mediA di ieri Nel 1978 la pubblicazione dal titolo“The Simbolic Annihilation of Women by the Mass-Media” di Gaye Tuchman ha fornito un importante punto di riferimento per l’analisi di immagini di donne nei media statunitensi, in cui l’ autrice parte dal presupposto che i contenuti trasmessi dai media non sono fedeli alle idee e agli ideali esistenti nella società. Di conseguenza, l’ immagine della donna costruita dai mezzi di comunicazione si proietta nella società e nella vita pubblica influendo così sul “suo status”. Nel suo libro la Tuchman prende come esempio le serie televisive statunitensi degli anni ’50, esse non davano un’immagine realistica della situazione familiare esistente in quell’epoca, che era cambiata parecchio in seguito alla seconda guerra mondiale. In quegli anni in America le donne sposate, non sono più solo casalinga, ma integrate nel mondo lavorativo; nonostante la realtà fosse cambiata i media presentavano il concetto di famiglia “ideale” costituita da una madre casalinga, un padre lavoratore e due bambini. La Tuchman trovava conferma della sua ipotesi, secondo la quale la “donna era legata alla casa e l’ uomo al mondo”, in altri studi dell’epoca. Nei media, alle donne erano dati solo pochi ruoli nei quali la possibilità di carriera, indipendentemente dal marito e dei figli, le era negata. A differenza degli uomini, le donne in TV erano sposate o stavano per sposarsi e trovavano riscontro nei mass-media solo in ruoli “tradizionali”, gestendo lo spazio domestico e provvedendo alla famiglia, la presenza di donne single nella tv era automaticamente legata ad un
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contesto negativo. Per esempio, una scena tipica in tal senso era rappresentata da una situazione di lavoro in cui emergeva la loro incompetenza, oppure il loro destino di vittime senza speranze. A differenza della programmazione proposta dalla TV la carta stampata mostrava capacità di adattamento ai cambiamenti della realtà femminile, e una minore intensità delle donne erano generalmente limitati e considerati affari “curiosi”. Si deduce, riprendendo quanto affermato dalla Tuchman, che il dominio dell’assoluta stereotipizzazione femminile era dovuto all’incessante contributo televisivo caratterizzato dalla diffusione universale di contenuti audio- visivi. Secondo numerose ricerche americane negli anni ’70, il cinema era uno degli ambiti principali in cui si poteva osservare una rappresentazione stereotipa della donna. Duby e Perrot affermano che il cinema classico rappresentava la donna come “oggetto” dello sguardo maschile, prendendo a modello icone come Marylin Monroe. Esistevano, però, anche delle eccezioni, pensando a alcuni personaggi femminili coraggiosi, bravi e ambiziosi, come quelli dei “Women’s film”. Le pellicole in oggetto, avevano come protagonista una donna e trattavano di questioni ed emozioni considerate femminili. Tuttavia, questi generi di film non erano di certo la regola. L’ uomo era, quindi, spesso il protagonista principale, mentre la donna aveva un ruolo passivo e svolgeva la funzione di “ornamento” della scena. Secondo Gitta
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Mühlen Achs e Bernd Schorb, il soggetto del film classico, durante gli anni ’70, era l’uomo borghese-patriarcale, che si prestava da modello di identificazione allo spettatore maschile, mentre il corpo femminile era spesso inteso come oggetto erotico per lo sguardo dell’uomo. Laura Mulvey, un’ illustre studiosa britannica, in un suo articolo aveva teorizzato tre fasi d’ “egemonia della visione maschile” come elemento costruttivo dei film classici del cinema: Lo sguardo della telecamera, condotta da un uomo e quindi dal punto di vista maschile; • Lo sguardo dei protagonisti maschili che vedono gli altri uomini come soggetti e le donne invece come oggetti; • Lo sguardo dello spettatore che conferma la visione della telecamera e della trama. •
Ovunque sembrava che il medium fosse prodotto da uomini per uomini. Questo fatto non è sorprendente, dato che, negli anni ’80, poche donne erano presenti in ruoli decisivi, e avevano poca, se non nessuna influenza su decisioni circa la programmazione e il contenuto. L’ immagine della donna nei media, che ha sollecitato, molti studi sul tema, era in realtà, l’immagine della donna secondo la proiezione maschile. Secondo David Gauntlett, le riviste femminili insegnavano alle donne come compiacere alle loro famiglie, piuttosto che dare suggerimenti utili su come realizzare se stessi. Betty Friedan fu la prima a tentare di andare contro questo dogma “dell’eroina casalinga” nelle riviste: «L’immagine della donna che emerge da questa grande, graziosa rivista è giovane e frivola, quasi come una bambina; tenera e femminile; passiva; gioiosamente appagata in un mondo di camera da letto e cucina, sesso bambini e casa. La rivista non lascia
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certo da parte il sesso; L’unico obbiettivo concesso ad una donna è la ricerca di un uomo. La rivista è piena di cibo, vestiti, cosmetici, mobili, e dei corpi fisici di giovani donne, ma dov’è il mondo dei pensieri e delle idee, la vita della mente e dello spirito?»1 Dalla citazione di Friedan si rileva, che le riviste focalizzavano, generalmente, su un’ identità femminile che si svolgeva tra le mura domestiche, ciò non esclude però che la donna non era apprezzata e celebrata per il suo ruolo sociale. Dopo il libro precursore di Friedan, riviste da donne per donne cominciarono ad essere ispirate dal movimento femminista e focalizzarono, con successo su temi quali la politica, la realizzazione delle donne nel lavoro, affari globali e questioni femministe. Inoltre, lodavano i valori del miglioramento estetico, dell’eterosessualità e del nucleo familiare, e incoraggiavano le loro lettrici ad esprimere la propria individualità e a amministrare in modo più efficiente le loro case. Gli stereotipi nella pubblicità sono stati simili a quelli nelle riviste e in altre forme mediatiche, anche se nel corso del tempo rispondevano più lentamente a cambiamenti sociali, motivo per cui l’ industria della pubblicità è stata spesso accusata di un spirito conservatore, spesso in aperto conflitto con le esigenze del femminismo degli anni ’70 e ’80. Immagini di belle donne come accessori decorativi avevano da lungo potenziato la pubblicità di stampa. Le pubblicità connotavano il corpo della donna, sin dalle prime illustrazioni, alla sessualità per promuovere dei prodotti, dei servizi o delle idee, e creavano così per il pubblico un mondo fatto di erotismo indiretto, promiscuità e di un stile di vita diverso dalla quotidianità. Appellarsi all’ istinto sessuale sembrava quindi essere più efficace che
1. Betty Friedan, La mistica della femminilità, 1963
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un discorso puramente tecnico sulla qualità del prodotto e il concetto di associare belle donne sia ai prodotti da vendere sia alla deferenza femminile nei confronti degli uomini pervadeva le immagini pubblicitarie. Quanto affermato risulta evidente in esempi di pubblicità in cui la donna era appoggiata sulla macchina da vendere, oppure figurava, in abito elegante, accanto all’uomo, a sua volta in abito completo. La funzione in questo caso era di presentare una situazione, e nello stesso tempo la conseguenza logica per l’ acquirente del prodotto: “se compro una macchina come questa, potrò, anche io, avere una donna così”, oppure “se compro questo completo di alta moda posso conquistare, anche io, un partner simile a questa donna”. Gli stereotipi che Betty Friedan aveva rilevato dallo studio di riviste casalinghe, si incontravano lo stesso nelle pubblicità. Anche Gaye Tuchman nel suo libro sull’“Annientamento simbolico delle donne nei mass media” (1978) si basava in gran parte su analisi empiriche per giungere alla conclusione che la donna fino agli anni ’70 era raramente associata all’ambito di un lavoro ben remunerato. Un posto tipico di lavoro era quello della segretaria sorridente, oppure quello della parrucchiera, come ci suggerisce Gauntlett. Nonostante la lenta diminuzione di immagini di donne casalinghe dopo gli anni ’50, queste erano tuttavia molto diffuse negli anni ’60 e ’70. In analisi di contenuto della televisione degli anni ’70, si manifestava un’ estrema evidenza di stereotipizzazione: su un totale di pubblicità in cui raffiguravano donne, tre su quattro riguardavano prodotti di cucina e bagno. Rispetto agli uomini, le donne erano mostrate più del doppio delle volte in ambito domestico, e se mostrate sul posto di lavoro, erano di solito subordinate alla figura maschile. Gli
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studi di fine anni ’70 e inizio anni ’80 hanno visto una continuazione nella tendenza, con uomini mostrati più spesso al lavoro e donne come casalinghe e madri. Nonostante ciò, era diventato più comune vedere anche uomini a casa, perfino nel ruolo del marito o del padre, e l’ occupazione della donna era cresciuta. In uno studio compiuto da Scheibe (1979), che si occupava della questione su cosa si preoccupavano caratteri maschili e femminili nella televisione, si è dimostrato che la donna nelle pubblicità era più dedicata alla bellezza, pulizia, famiglia, mentre l’uomo al conseguimento dei propri obbiettivi e al divertimento. La differenza di autorità tra i sessi è stato dimostrato attraverso l’ esame di voice-overs, in cui la voce maschile era presente nel 80-90% dei casi, mentre la voce femminile era diretta frequentemente a pubblicità con gatti, cani, neonati, bambinipiuttosto che alla popolazione in generale. Altri studi ancora hanno trovato un sessismo particolare nelle pubblicità destinate ai bambini. Se è vero che le pubblicità televisive degli anni ’80 avevano iniziato di prendere in considerazione l’ immagine della donna professionalmente impegnata, secondo Rosalind Gill, è anche vero che allo stesso tempo ci si aspettava da lei di gestire anche lo spazio domestico a casa. Insieme alla questione dell’immagine femminile, è nata negli anni ’70 anche la discussione sul significato del linguaggio del corpo di uomini e donne nelle pubblicità. E’ stato il sociologo Erving Goffman a introdurre negli Stati Uniti, nel 1979, la sua analisi di Gender Advertisement, che testimonia, attraverso l’ analisi dei segni di comunicazione non-verbale, un rapporto di “gerarchizzazione” tra uomini e donne nelle immagini pubblicitarie. Goffman notò la frequenza della versione attualizzata di un rapporto padre-figlio, in cui la donna assumeva largamente lo “status della
bambina”. Secondo l’ analisi di Goffman, quindi, la donna era tipicamente mostrata come più bassa e più piccola rispetto all’uomo. Considerando il codice vestiario, Goffman notò che l’ uomo era generalmente coperto, e abbottonato, mentre la donna, “per compire il suo obbligo di bellezza femminile”, era spesso presentata con un numero inferiore di indumenti. Per esempio, il decolleté scollato e femminile è, nella nostra cultura, un segno attribuito alla femminilità. Inoltre, Goffman osservò delle nette differenze tra il modo in cui uomini e donne toccano i prodotti pubblicizzati. Mentre l’ approccio dell’uomo era funzionale e strumentale, prendendo semplicemente il prodotto, la mossa della donna era soave e carezzevole, sembrando spesso non corrispondere a una funzione specifica. Se il prodotto era per esempio uno shampoo, le mosse dell’uomo erano rapide e accurate, la donna invece era mostrata costantemente mentre faceva movimenti piccoli e carezzandosi la spalla. Generalmente nelle pubblicità la donna si toccava il viso ed era rappresentata muovendo la mano tra un assortimento di prodotti. Le ricerche di Goffman sul linguaggio del corpo nelle pubblicità sono state approfondite da molti altri studiosi, come dagli autorevoli Gillian Dyer (1982) e Rosalind Coward (1984) che hanno rivolto la loro attenzione al cosiddetto “cropping”, ovvero la strumentalizzazione di alcune parti del corpo, utilizzato in campagne pubblicitarie: il corpo della donna è frammentato in parti singole, cosicché l’ osservatore vede solo le labbra, o gli occhi, o il seno, o altre parti del corpo. Questo succede molto spesso in contesti in cui il corpo della donna è presentato come componente di un problema, che necessita di un prodotto risolutivo.
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3.2. lA rAPPresentAzione dellA donnA nei mediA di oggi Secondo Leiss, Kline e Jhally, «la pubblicità è la più consistente materia nei mass media»1, dunque assume un posto centrale nella nostra esistenza sociale, e costituisce forse il campo più adatto per osservare se, e in quale maniera, sono avvenuti dei cambiamenti nei contenuti dei media contemporanei. Tra numerosi fonti autorevoli, risulta prezioso anche il contributo di Mena Mitrano, la quale sostiene che sin dagli anni ’90 ci sono stati dei cambiamenti che si manifestano in altre forme apparentemente più positive nella rappresentazione dei generi. Uomini e donne sono spesso presentati mentre lavorano assieme, pari l’uno all’altro, nei diversi ambiti dei programmi televisivi. Produttori cinematografici hanno aperto la strada alla protagonista donna come eroina attiva della trama, mettendo da parte i ruoli del passato. Anche alcuni pubblicitari si sono adeguati al mutare dei tempi, sostituendo l’ immagine della bella casalinga con un’immagine femminile che affascina invece nell’ambito lavorativo. La causa di questo cambiamento è dovuta alla presa di coscienza per cui non era più adeguato rappresentare la donna solo nello spazio domestico, e alla crescente indipendenza economica delle donne. Lo stesso fatto si rileva anche da uno studio compiuto da Furnham e Skae, in Gran Bretagna nel 1997, secondo cui le donne sono presentate sempre più spesso al posto di lavoro, hanno più autorità e sono più
1. Leiss William e Kline Stephen e Jhally Sut, Social Communication in Advertising, 2005.
indipendenti rispetto a alcuni decenni fa, anche se molti altri aspetti che riguardano la loro rappresentazione rimangono inalterati. Secondo Rosalind Gill i cambiamenti essenziali nella rappresentazione dei generi nella pubblicità contemporanea possono essere sintetizzati in dieci punti: La riconciliazione con la rabbia delle donne • L impiego di modelli più autentici • Il cambiamento da oggetto sessuale a soggetto sessuale • La concentrazione sul essere sé stessi e piacere a sé stessi • L’eloquenza del femminismo e della femminilità nelle diverse pubblicità, • L’erotizzazione di corpi maschili • Lo sviluppo di Queer • L’inversione della funzione dei generi • Temi di vendetta • L’intenzione di rierotizzare la differenza tra i generi.2 •
Per la prima volta, in numerosi casi di pubblicità audiovisive, si vede l’uomo impegnato in attività considerate femminili (vedi punto numero 8), come la preparazione del cibo, anche se, come ci suggerisce Gauntlett, l’azione si colloca sempre in un’ “occasione speciale”, mentre la pubblicità tradizionale mostrava l’attività della donna in cucina sempre come una routine.
2. Rosalind Gill, Gender and the Media, Polity Press, Cambridge, 2007
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Nonostante questi tentativi però, è tutt’ora presente un eccessivo abuso dell’utilizzo del corpo femminile, e di pesanti stereotipi di genere per entrambi i sessi. Il termine “Queer”, indica il gruppo Q nella ormai nota sigla LGBTQ, è una persona che al livello sessuale, etnico e sociologico non vuole rientrare in nessuna delle definizioni create dalla cultura egemone. Se questo concetto si diffondesse, in effetti, in un’ipotesi utopistica, ogni essere umano sarebbe appagato e in pace con se stesso esattamente nel modo in cui è, nel pieno rispetto di ciò che è il prossimo, e senza il bisogno di far parte di un gruppo etichettato, senza doversi conformare alla massa. Non esisterebbero stereotipi. Secondo alcuni studi europei il sessismo sta mutando dalla sua forma precedente a una forma più recente e, in sostanza, più sottile e mascherata rispetto a prima. Esiste oggi quindi una forma più sottile di sessismo? Gill suggerisce che, in generale, l’ immagine di una donna che è ambiziosa e sicura di sé e che esprime la sua “libertà” tramite il consumo, sta via via sostituendo l’ immagine tradizionale della moglie-madre-casalinga. Se l’ immagine femminile come “oggetto sessuale” era una delle possibili rappresentazioni accanto a altri motivi nel passato. Oggi, secondo Gill, la sessualizzazione di immagini è un leitmotiv in tutte le pubblicità che coinvolgono donne: «poco importa se sono al lavoro o nella casa, in cucina o nella macchina, se sono mogli, madri, dirigenti o adolescenti, le donne vengono presentate come essere sessuali affascinanti»2. La divisione che vi era una volta tra la figura femminile rassicurante, materna, protettiva ambientata nella casa, da un lato, e quella giovane, libera, carica di simbolismo seducente nell’ambito professionale, dall’altro, ha aperto la strada ad una forma
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di rappresentazione contemporanea del femminile in cui tutte le donne devono incorporare tutte quelle qualità. Nasce il genere della “superwoman” che è, per dirla con Gill, “intelligente, determinata, generosamente bella, una madre perfetta che sa gestire allo stesso tempo anche un lavoro professionale impegnativo”. Secondo Jean Kilbourne, l’ aspettativa alle donne, oltre quella di conciliare casa, lavoro e famiglia, sta nel seguire canoni di bellezza di perfezione fisica che si manifestano normalmente solo sulla passerella. Il fatto che i pubblicitari ci circondano incessantemente con immagini idealizzate ha un enorme impatto sull’autostima femminile, come rileva da ricerche, e influenza il modo in cui donne e ragazze percepiscono il proprio corpo trasformato in un oggetto. Questo fatto non sorprende per niente, considerato che « Le immagini balzano dalla TV ed entrano nelle nostre case, alimentano le fantasie, occupano gli occhi dei nostri figli, invadono il mondo»3. Fatto sta che nell’epoca presente ci si offrono una pluralità di identità femminili, che testimoniano un cambiamento generale nei media, manifestandosi spesso in una rappresentazione più positiva e determinata della donna. Una sezione dei mass- media che si presta a osservazioni di questo tipo è la stampa, più precisamente, le riviste destinate a donne.
3. Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, 2010
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3.3. AnAlisi riviste Con l’ intento di comprendere meglio come operano i media nella situazione contemporanea, ho consultato tre riviste femminili statunitensi pubblicate nello stesso arco temporale: Cosmopolitan (USA, edizione Settembre 2016) • Vogue (UK, edizione Ottobre 2016) • Good Housekeeping (UK, edizione marzo 2016) •
Attraverso lo studio mi è stato possibile accertare dei metodi di comunicazione distinti per ciascuna delle tre riviste, ed ho potuto constatare allo stesso tempo un approccio molto simile in tutti e tre i casi. Questo sembra suggerire che le donne, indipendentemente dalla loro età, abbiano, in molti casi, gli stessi interessi (al meno nelle menti dei pubblicitari). Una breve analisi dei contenuti mi ha
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permesso di paragonare le riviste e le tecniche pubblicitarie utilizzate per il target di riferimento specifico. Ho potuto rilevare il prototipo di donna creato dai pubblicitari che è stato, in grandi linee, uguale in tutte tre riviste, e quale tipo di donna invece è escluso. E’ stato allo stesso tempo interessante notare come viene preso in considerazione l’interazione della donna con altre persone, ovvero il partner o la famiglia. In alcuni casi si è rinunciato perfino all’immagine femminile, lasciando che il prodotto “parlasse per se stesso”. L’ uomo ha assunto in ciascuno dei tre casi un ruolo sempre diverso, talvolta era il fidanzato o l’ amante, altre volte il partner coniugale, ma solo raramente era il protagonista. Per quanto riguarda la figura femminile ho notato un’ oggettivazione nettamente inferiore nella rivista Vogue.
Womanho od n.2
SOGNO O SON DESTA di Sonia D’Angelo
CON LA TESTA TTRA LE NUVOLE di Laura Angelucci
ESSERE O AVERE di Emma Pecchioli
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Cosmopolitan Una ragazza giovane, attraente, bionda e di pelle bianca ci sorride dalla copertina di Cosmopolitan, la cantante Gwen Stefani. I suoi capelli sono lunghi, il décolleté del suo vestito corto è abbastanza scollato, tanto da poter individuare un seno prosperoso. Si direbbe un tipo di ragazza che negli Stati Uniti viene spesso chiamato “American Darling”. Intorno a lei figurano i diversi strilli, ciascuno accentuato in maniera diversa. Questi sono un primo indice per poter individuare il pubblico della rivista e per trarre prime conclusioni sul profilo demografico delle lettrici. I temi variano tra riferimenti sessuali “come accenderti sul serio”, suggerimenti su come approcciarsi ad un uomo “le mosse per un appuntamento notturno”, e parlano infine anche di moda “bestialmente belle con meno di $10” e di dieta “dimagrisci! In modo divertente”. Presumo che il target di Cosmopolitan sia la donna giovane, dalla fascia d’età che va dai 20 - 35 anni, la quale, a prima vista, si identifica (o vorrebbe identificarsi) con il prototipo veicolato dalla ragazza sulla copertina. La rivista è quindi diretta a donne che sono alla ricerca di svago, di cambiamento (fisico, sessuale, ecc.), di metodi per accontentare il partner, o donne single che sognano il “principe azzurro”. Presumo che la rivista voglia cogliere le visioni e i desideri delle lettrici di vedersi in un rapporto romantico, o di riprendersi da una relazione finita, come per esempio la ragazza sulla copertina la quale, si dice, “sta trasformando il mal d’amore in felicità”.
maniera, soprattutto in altre riviste più tradizionali, suggeriscono alla donna di esprimersi liberamente e danno consigli su come comportarsi da single. Nonostante la promozione di una donna indipendente in Cosmopolitan ho notato che un elemento centrale nello svolgimento degli articoli e dei suggerimenti alla lettrice è molto spesso in riferimento allo sguardo assente dell’uomo sulla donna, e il suo parere su di lei, sul modello “come possono donne giovani e indipendenti diventare ancora più attraenti e interessanti per catturare l’ uomo dei propri desideri?”, come sembra interrogarsi la rivista in continuazione. Ho trovato evidenza di tale punto di vista
Da una prima impressione sembra che la rivista tratti di temi molto audaci e che il piacere sessuale sia uno dei temi cui viene dato molto spazio. Temi intimi che nel passato non erano affrontati in questa
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anche in alcuni slogan pubblicitari, come in quello che promuove la marca di tequila “Silver Patron”. Sull’ immagine appare semplicemente la bottiglia con accanto un bicchiere riempito con la bevanda alcolica. Il testo “Lui vuole sapere cosa stai bevendo. Perfetto.”, è diretto al pubblico femminile. Iniziando con il pronome he, la pubblicità, presuppone subito l’approvazione dell’uomo, anziché fare riferimento, in prima istanza, al gusto della donna. Il tono informale con cui ci si rivolge al lettore è un aspetto tipico del linguaggio pubblicitario. In questa pubblicità è interessante focalizzandosi su i suoi aspetti linguistici, e come essi operano per creare la situazione senza dover ricorre a un’immagine. La pubblicità si basa, infatti, sulla battuta stereotipata e ben nota come tecnica di abbordaggio del modello “Cosa
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stai bevendo?”, di solito chiesto da un uomo a una donna. Possiamo, quindi, immaginare una situazione di approccio tra i due sessi. La descrizione del prodotto, quale “100% Weber Blue Agave selezionata a mano. La tequila di più alta qualità del mondo”, appena sotto l’ immagine, è enfatizzata e riassunta in due parole: “semplicemente perfetta”. Gli aspetti tipografici creano un collegamento immediato tra la qualità del prodotto e la situazione “perfetta” dell’incontro. L’aggettivo “perfect” dal colore verde, segue la frase semplice “He wants to know what you’re drinking”, scritta in nero. È chiaro che la sua funzione primaria è quella di suggerire che la bevanda è una scelta “perfetta”. Ma in seconda istanza notiamo che l’aggettivo nel suo aspetto e significato è giustapposto allo slogan “simply perfect”, in basso all’immagine, il quale riassume la qualità del prodotto. “Perfect” suona allora come la risposta della donna, carica delle caratteristiche del prodotto. Un altro esempio, simile al primo, è quello di “Altoids smalls”, che pubblicizza delle caramelle alla menta. Nell’immagine, in primo piano, figurano il dorso e il fondo schiena di una donna. In secondo piano, si vede appena un pezzo di un tavolo apparecchiato, presumibilmente per una cena romantica tra lei e il suo accompagnatore. La donna è rivolta verso il tavolo, nascondendo dietro la sua schiena un piccolo contenitore di caramelle. Gli aspetti linguistici sono altrettanto ricchi di significato. Vediamo accanto del prodotto pubblicizzato il testo “Quando ti sporgi in avanti assicurati che lui non si ritiri”, espressione che suggerisce di fare ricorso ad Altoids smalls nel caso di alito cattivo, perché lui non si ritiri al momento del bacio. Un significato scherzoso quindi, che è evidenziato anche tramite il gioco di parole tra “lean in” e “lean out”; l’ ultimo infatti significa “sporgersi” piuttosto che
“ritirasi” ed è stato adattato al concetto per creare l’ effetto del parallelismo, anch’esso atteggiamento tipico della pubblicità. Di più, è possibile interpretare il gioco di parole anche solo con “in” e“out” spesso usati nel linguaggio dei giovani americani. Per cui, usare Altoids smalls significa essere “in” al momento del bacio, rinunciarne invece comporta essere “out”. Le due frasi dello slogan “curiosamente forte. curiosamente piccolo” hanno una struttura parallela simile. Sembra ancor una volta che il tema pubblicitario sia l’intenzione di una donna di compiacere l’uomo. Anche le rubriche interne come “Chiedigli qualcosa”, “Mr. September” e “Incontra i ragazzi che ti piacciono”, fanno sorgere l’impressione che la vita di tutti i giorni sia incentrata solo su questo argomento, e ci si potrebbe domandare se le donne non abbiano nient’altro da fare se non chiedersi come compiacere il proprio Lui. Investigando sul contenuto della rivista, ho trovato, tra l’ altro, una presenza esorbitante di pubblicità su prodotti di bellezza. Il target giovanile è bombardato da suggerimenti di diventare ancora più attraente, usando quei prodotti pubblicizzati, per “salvarla” dai tanti “difetti” lesivi della propria bellezza. Dalla mia analisi di contenuto si rileva chiaramente quali sono le caratteristiche delle pubblicità che ho incontrato in Cosmopolitan: su 50 pubblicità, 26 promuovono prodotti di bellezza e benessere (trucco, smalto, lozioni, ecc.), 10 sono correlati alla moda, 7 ai profumi e 8 ad altri brodetti (bevande, cibo ecc.). Nelle pubblicità di bellezza, tra tutte le modelle vi erano solo cinque donne di pelle nera ed una asiatica e tutte, tranne una, comparono in gruppi dove è presente almeno una donna occidentale. La modella che promuove i prodotti è spesso seducente, a volte con un aspetto innocente,
quasi fanciullesco, oppure visibilmente provocante nel suo esprimere sessualità. Queste caratteristiche si dividono secondo i prodotti pubblicizzati. Se l’ oggetto pubblicizzato è un rossetto, dal colore intenso, allora il look femminile corrispondente è il più delle volte sofisticato e elegante, e diventava sempre più giovanile con il chiarire del colore del rossetto. Per i profumi prevale l’immagine della donna seducente, adulta, che sembra essere consapevole del suo fascino. Nei casi in cui uomini e donne sono presentati assieme, lui sembra sempre assumere il ruolo del corteggiatore; in tutti i casi, entrambi erano presentati in una posizione corporale abbastanza stretta.
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Vogue La presente edizione di Vogue si differenzia per il suo aspetto e la sua organizzazione dalla rivista presa in esame in precedenza. Sulla copertina figura l’immagine di Victoria Beckham, che sembra indossare soltanto una giacca color vino, e da l’idea di essere elegantemente seduta sul suo divano. Lo sguardo, che punta diretto all’obiettivo, e il suo portamento altero trasmettono forte sicurezza. Dalla copertina vediamo, che la rivista propone argomenti quali la moda “look sperati dell’autunno”, l’alta moda e il collezionismo “Il più grande collezionista di moda al mondo”, di viaggi “dove andare, cosa vedere”. Suppongo che la rivista sia rivolta alla donna di un’età compresa tra i 30 – 45 anni, proveniente da una classe sociale media o alta, potendosi permettere un certo standard di vita divulgato dalla rivista, e che sia interessata alle continue proposte dell’alta moda. La copertina di Vogue connota un aspetto serio, se consideriamo l’immagine femminile e gli argomenti tematici sulla copertina della rivista. Inoltre, essa sembra rivolgersi a un tipo di donna adulta, dall’identità affermata, che, probabilmente svolgendo un’attività lavorativa fruttuosa, oppure vivendo uno standard di vita elevato, si vuole concedere oggetti di moda e di lusso.
che sembrano svolgere la funzione primaria della pubblicità, quella di promuovere il prodotto, non la donna. Con lo scopo di porre più enfasi sull’impatto del prodotto, ci sono alcuni casi in cui la donna è completamente svestita, la sua nudità non essendo però drammatizzata, non è connotata sessualmente e svolge un ruolo secondario nella pubblicità. Prevalgono i casi, come nelle pubblicità di moda, in cui si rinuncia quasi completamente al testo, affidando l’effetto della pubblicità al legame che lo sguardo dell’osservatore riesce a trarre tra l’immagine e il prodotto. Questa strategia poco esplicita può anche
Questo prototipo di donna si ripete durante tutta l’ edizione. Le immagini di donne corrispondono in tutto ai prodotti di lusso pubblicizzati, quali soprattutto profumi, l’alta moda e gioielli, e rispecchiano per buona parte il target di lettrici che si presume Vogue voglia raggiungere. Sono rari i casi in cui il corpo di una donna è scoperto più del dovuto, ma prevalgono le immagini di donne
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confondere l’osservatore e non rendere molto comprensibile il motivo pubblicitario. Inoltre, ho notato che sulle immagini nella presente edizione di Vogue si svolge molto sul livello interpersonale. Non solo si tematizza spesso il rapporto tra uomini e donne, ma in alcuni casi si fa perfino cenno all’omosessualità tra donne. Un esempio fornisce la pubblicità di “Leon Max?”, che non è accompagnata da un testo e lascia quindi spazio alla fantasia. L’ambientazione è una stanza da letto spaziosa, molto elegante e in stile classico; sulla sinistra vediamo una ragazza indossare un abito nero, che le lascia scoperta la sua spalla sinistra, mentre poggia la gamba destra su un grande letto. Il suo sguardo e il suo corpo sono rivolti vesto una persona sdraiata sul letto, di cui possiamo vedere solo le gambe nude, ma dalla fisicità e le scarpe con i tacchi possiamo dedurre che si tratti di una donna. Nella pubblicità del profumo “Guilty” di “Gucci” c’è un suggerimento alla bisessualità. Troviamo infatti un uomo e una donna in atteggiamento intimo mentre fanno il bagno; lui tiene le braccia intorno al collo di lei, la quale le sfiora il viso con la mano desta, e contemporaneamente con la sinistra tiene la mano ad un’altra ragazza seduta a terra accanto alla vasca. L’ esempio di “Givenchy” rende ancora più palese l’argomento. Sei persone, divise in coppie, figurano sull’immagine. Sia a destra che a sinistra la coppia è formata da un uomo e da una donna, mentre al centro è formata da due donne. Esse si distinguono in maniera visibile dagli altri, non solo per l’intesa del colore rosso dei loro vestiti, ma anche perché simulano un avvicinamento con l’intento di un bacio. Sembra quindi, che si manifesti
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nella pubblicità, una più vasta fluidità di identità sessuali. Tuttavia dovremmo notare il fatto che fra le tre sia proprio questa coppia a baciarsi, e che non sia formata da due uomini, bensì da due donne, come anche quella dell’esempio precedente: non era l’uomo ad avere atteggiamenti bisessuali, ma la donna. In generale le donne Gay sono più accettate della società rispetto agli uomini, probabilmente perché il maschio medio (che fortunatamente sta lentamente cambiando atteggiamento al riguardo) considera una coppia di donne sexy ed eccitante da guardare, nonostante a suo parere potrebbe essere un atteggiamento “moralmente scorretto”, mentre una coppia di uomini viene giudicata più severamente. L’intenzione è quindi quella di divulgare messaggi sì contro l’omofobia, ma tentando di creare meno polemiche possibili e, di nuovo, mercificando la sensualità femminile.
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Good Houskeeping Ancora un’ altra realtà di donne ci offre la rivista “Good Houskeeping”, la più tradizionale tra i tre casi presi in esame. Essa come si può dedurre dal nome, tematizza in primo piano la casa, tratta però anche altri temi, come la salute, l’ età e il benessere. Dall’immagine femminile che figura sulla copertina si può dedurre facilmente a quale fascia d’ età sia rivolta la rivista. Vediamo l’immagine sorridente dell’attrice Chaterine Zeta Jones, donna circa 40 anni che indossa un’elegante ma semplice vestito rosa. “Rendi felici la tua ente e il tuo corpo”, “modi geniali per andare in pensione ricche” e “5 preoccupazioni a cui puoi dire addio per sempre” sono alcuni dei titoli che figurano sulla copertina della rivista e che danno dei preziosi indizi sul profilo demografico delle lettrici: donne probabilmente dai 45 - 50 anni in su, non essendo necessariamente solo casalinghe, ma di certo preoccupate del benessere della famiglia e della casa, che pensano anche al proprio corpo e a come proteggerlo dai segni dell’invecchiamento. Una delle prime e evidenti caratteristiche pubblicitarie che ho potuto constatare sono la presenza quantitativa di prodotti anti-aging che lusingano la lettrice verso la prospettiva di poter tornare ad un aspetto più giovanile e desiderabile tramite il prodotto promosso.
un’ eccezione, ma la regola. La pubblicità trasmette un ideale femminile che in realtà inquadra solo poche, fortunate donne. Da un lato possiamo vedere donne che portano fiduciosamente capelli grigi, dall’altro, esse non hanno, semmai pochi, segni di rughe. Donne di un’età avanzata sono solo presentate sotto aspetti che concernano l’ anzianità, come vediamo dalla pubblicità “Senior Care”, che però, è trattata come problema “Come posso scegliere tra avere cura di lei e avere cura della mia famiglia?” “invece di stressati, c’è Home instead”). La donna che figura sulla pubblicità avrà
Solitamente il tipo di donna scelto dai pubblicitari per promuovere tali prodotti è una giovane donna, intorno ai 35 anni, ma che non superava mai quella fascia d’età. Dato che presumo che il target di lettrici sia la donna cinquantenne, penso che le pubblicità non rispecchino in tutto il pubblico al quale sono dirette. Immagini di donne visibilmente più giovani rispetto il presunto profilo demografico della lettrice non sono
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probabilmente 65 /70 anni, ha mantenuto un buon aspetto e potrebbe perfettamente anche rientrare nel target della rivista. Al contrario, la pubblicità è diretta chiaramente a sua figlia. Inoltre, le immagini che si basano sul supporto di un’ immagine femminile non dominano le pubblicità, come avevo notato, invece, nelle riviste analizzate in precedenza. Più specificatamente, dalla mia analisi di contenuto ho potuto rilevare che la figura femminile, da sola o in gruppo, non appare in modo costante, come accade per le altre due riviste. Ci sono infatti, anche se in netta minoranza, varie pubblicità che ritraggono la coppia o la sfera famigliare (cosa quasi assente negli altri esempi). Molto spesso invece, soprattutto per pubblicità di cibi, alimenti per animali domestici, medicine, istituti bancari, prodotti per la menopausa, e in pochi casi materiale per la pulizia, l’ approccio si basava sul prodotto, rinunciando ad un’immagine femminile.
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È evidente inoltre che Good Housekeeping include una vasta gamma di pubblicità diverse, sia per soggetto che per approccio. I pubblicitari sembrano essere molto consapevoli del fatto che la maggioranza di donne odierne incorpora molte qualità insieme, dovendo conciliare la famiglia, la casa e il lavoro. La rivista deve quindi rispondere a queste esigenze, il che spiega anche la presenza esuberante di qualsiasi tipo di cibo, materiali per la casa, suggerimenti alla scelta dell’istituto bancario, o di un’auto che assicura la sicurezza dei figli. Inoltre, c’è la tendenza per cui, almeno ciò che riguarda la cucina, la donna non è ritenuta la sola incaricata, come invece suggeriscono tutt’ora la maggior parte delle pubblicità di prodotti per la casa.
Conclusioni Dalla consultazione di Cosmopolitan, Vogue e Good Housekeeping, ho potuto notare sia alcune coincidenze, tra le riviste, sia constatare le principali differenze. Innanzitutto, il numero delle pagine dedicate alle pubblicità superava in tutti tre casi quelli dedicati ai temi di rubrica. Da ciò si rileva l’importanza che è data alla pubblicità, tramite cui possiamo avere delle informazioni utili sul genere delle riviste e il loro presunto target. E’ quindi essenziale prendere in esame il metodo con cui operano i pubblicitari per divulgare l’interesse del potenziale cliente, in questo caso le lettrici, al prodotto. Come ho già detto, le tre testate sono rivolte a donne di differenti età e stato sociale. Soprattutto in Good Housekeeping sembra esserci una forte tendenza all’esclusione di realtà femminili che non appartengono all’etnicità dalla pelle bianca, come se le pubblicità fossero dirette solo ad uno specifico pubblico di donne. Di più, se si usa l’ immagine di una donna dalla pelle nera, essa promuove spesso prodotti collocati in un ambiente esotico. Altre etnie, come quelli asiatiche, non sono pressoché inesistenti. Il tema della bellezza gode in tutte le tre riviste di massima considerazione e occupa lo spazio maggiore. E’ soprattutto il caso delle creme contro l’invecchiamento della pelle. A ciascuna fascia d’ età viene attribuito uno specifico “problema” di imperfezione della pelle, a cui la lettrice potrebbe ancora ribellarsi con l’aiuto del prodotto adatto. Più i problemi della pelle sono avanzati (con l’aumento dell’età del target si intende), più radicale è il linguaggio impiegato per promuovere il prodotto. Per esempio, le pubblicità in Cosmopolitan
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(rivolto a giovani lettrici) parlano spesso solo di “idratazione” della pelle, mentre in Vogue si intensifica la questione, volendo “dare una seconda chance alla pelle, [...] rigenerandola e addolcendo i suoi lineamenti”. Ancora, Good Housekeeping si riferiva a donne di età più adulta lusingandole di “eliminare le rughe” promettendo di farla ringiovanire addirittura di 10 anni. Le principali differenze tra le riviste stanno nel modo di approccio alla lettrice e nella rappresentazione non solo di donne, ma anche di uomini. A mio avviso, Vogue si stacca più visibilmente da immagini tradizionali della donna ed è più all’avanguardia nella rappresentazione del rapporto tra i generi rispetto alle altre due riviste, ed è anche l’unica delle tre a toccare realmente le diverse realtà etniche senza stereotipizzarle in funzione del contenuto pubblicitario. Ho notato anche che la donna in carriera è un motivo pubblicitario frequente, sia, per esempio, perché le donne promuovono abbigliamenti professionali, sia perché erano illustrate assistendo ad eventi di moda per motivo di lavoro, il che si colloca perfettamente nel genere della Vogue. Anche il tema dell’omosessualità tra donne è una nuova questione, a cui avevo già fatto riferimento nell’analisi di Vogue. In Good Housekeeping, la rivista più tradizionale tra le tre, l’enfasi rimane sulla casa e sulla famiglia, anche se è sottinteso che la realtà femminile contemporanea comprende molto più che solo questi due aspetti. In Cosmopolitan invece ho riscontrato una contraddizione: Da un lato la rivista promuove un’ identità femminile che è determinata nell’essere single e sexy, dall’altro è romantica e sogna l’uomo giusto. In ogni caso, nelle pubblicità delle riviste,
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sono presenti molte identità femminili che sembrano essere sicure di sé e avere successo nel lavoro, essendo allo stesso tempo dolci e incredibilmente femminili; d onne, che apparentemente, hanno tutto.
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Pubblicità: emblemA dellA comunicAzione PersuAsivA 95
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La pubblicità commerciale è una forma di comunicazione che ha lo scopo di persuadere il consumatore ad acquistare determinati prodotti. Per questo si serve di diversi linguaggi: parole (linguaggio verbale), immagini (linguaggio visivo ed iconico), suoni (linguaggio sonoro e musicale). I messaggi persuasivi della pubblicità sono sia diretti che indiretti. I messaggi diretti sono slogan e parole che lodano la qualità del prodotto, immagini che ne esaltano l’aspetto (primi piani o particolari messi in evidenza) allo scopo di invogliare all’acquisto. Accanto a questi vi sono altri messaggi non direttamente legati ai prodotti, ma che li collegano ad ambienti o situazioni fortemente desiderabili. Essi sono comunicati dall’ambiente in cui è inserita la pubblicità (ad esempio spiagge
tropicali, abitazioni con cucine e bagni enormi e lussuosamente arredati, ecc.) o dall’atmosfera che la pubblicità riesce a creare, spesso trasmettono sensazioni di benessere, sicurezza, prestigio personale. I messaggi indiretti sono più difficili da riconoscere e per questo possono condizionare al livello inconscio più facilmente dei messaggi diretti. I messaggi indiretti spesso trasmettono immagini stereotipate dei ruoli maschili e femminili, cioè modelli prestabiliti e ripetuti sempre allo stesso modo. Un approccio molto utile allo studio della pubblicità è quello dell’analisi semiotica, che ci permette di capire «in che modo una società produce degli stereotipi, ossia degli eccessi di artificio, che essa poi consuma come dei sensi innati, ossia come degli eccessi di natura»1. Una delle figure più autorevoli nel campo dei Media and Cultural Studies è stata Judith Williamson che ha offerto a questo movimento una teoria e una metodologia analitica negli studi sulla pubblicità. L’autrice studia «il processo di trasformazione del significato e del significante»2, e sostiene che il significato degli annunci pubblicitari risiede nelle differenze che questi stabiliscono. La pubblicità è un sistema di comunicazione in cui si crea una differenza mettendo in giustapposizione immagini prese da contesti diversi. Come esempio ha riportato la pubblicità di “Chanel No 5”, che semplicemente giustapponeva una fotografia dell’attrice Catherine Deneuve ad un flacone del profumo. Il lettore è portato a fare una connessione tra l’immagine della Deneuve (raffinatezza, femminilità, eleganza) e quella del profumo. Il concept del testimonial 1. Roland Barthes, Lezione, 1978 2. Judith Williamson, Decoding Advertisements, 1978
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diventa un significante per il profumo. La tesi fondamentale del critico e scrittore John Berger, è che la pubblicità modifica l’opinione che il destinatario ha di se stesso e lo proietta in uno stato di costante desiderio di essere un altro, un desiderio paradossale di essere qualcun altro pur rimanendo se stesso. Il fatto che immagini create nei media entrano facilmente a far parte della cultura popolare della massa, può risultare spesso dannoso e trasmettere valori sbagliati, specialmente a certe minoranze. La pubblicità, come la vediamo nella TV oppure nelle riviste, ha allora come scopo primario quello di vendere prodotti. In realtà però succede molto di più: vengono trasmessi intenzionalmente anche valori, immagini, concetti di amore e sessualità, di successo e romanticismo, aspetti che creano ideali e definiscono quindi cosa siamo e cosa dovremo essere. Specialmente le donne sono colpite da questa penetrazione di concetti venduti come “normali”. Le pubblicità ci circondano incessantemente con una finta rappresentazione della bellezza femminile che è “flawless”. Così la donna già da ragazza impara che deve spendere un’immensa quantità di tempo, energia e soprattutto soldi sforzandosi per poter raggiungere questo ideale
di donna, e vergognarsi quando invece non rappresenta o raggiunge questo ideale. Molte ricerche hanno dimostrato che le immagini di donne idealizzate non solo influiscono negativamente sull’autostima femminile, ma influiscono anche sulla percezione che gli uomini hanno sulle donne. Così la donna nella pubblicità appare come un oggetto ed è trasformata in una proiezione del desiderio dell’uomo. Spesso oggetto da osservare, in coerenza con una certa tradizione iconica occidentale, per cui l’uomo guarda e la donna viene guardata.«Gli uomini agiscono, le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne guardano se stesse mentre sono guardate. Questo determina non solamente la maggior parte delle relazioni fra uomini e donne ma anche il rapporto delle donne con se stesse. L’osservatore della donna è maschile, l’osservata femminile. Così lei si trasforma in oggetto. Più specificamente in oggetto di visione.»3 Un punto di vista simile viene formulato da Janice Winship, secondo la quale il godimento di forme culturali per le donne, come la stampa femminile, è sempre costruito in termini di fantasie e desideri maschili. Basta guardare le copertine di alcune riviste di donne- visi femminili, spesso anonimi, che ci sorridono timidamente- per capire che quello che viene imposto come centrale, cioè discorsi di donne per donne, è allo stesso tempo definito in rapporto all’uomo, è il suo sguardo che assume importanza; la donna, nella sua perfezione, diventa “dell’uomo”.
3. John Berger, Questione di sguardi, 1972
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4.1. iconogrAFiA Femminile nellA Pubblicità di ieri e di oggi Il rapporto tra donna e pubblicità è sempre stato piuttosto stretto. Spot, manifesti e annunci stampa hanno ospitato figure femminili di ogni tipo sin dall’origine della comunicazione pubblicitaria. Donne che «danzano mentre fanno il bucato, donne che scalano grattacieli, donne che giocano a biliardo vestite da uomo, tra mulini e staccionate, piazze e campi di grano, paradisi barocchi, stazioni, cucine super attrezzate». Donne che occupano gran parte della scena. Protagoniste indiscusse dell’immaginario promozionale di ieri e di oggi. Target privilegiato del passato, in quanto responsabili degli acquisti familiari, ma anche del presente, per la molteplicità di prodotti destinati alle varietà dei loro ruoli e dei loro stili di vita, spesso coesistenti. Interpreti di spot o annunci di prodotti indirizzati a femmine e maschi, giovani e anziani. Oggi siamo ormai abituati ad essere esposti ad i soliti stereotipi, sia maschili che femminili, che i media ci propongono costantemente. Questi stereotipi non limitano solo l’evoluzione della società, ma condizionano ognuno di noi nella vita quotidiana. Siamo vincolati da limiti e regole di comportamento e di pensiero che sono assolutamente fuori tempo rispetto all’evoluzione degli altri aspetti della società odierna. È assurdo il fatto che nel 2017 una donna con una posizione di leadership possa far sentire a disagio dei dipendenti uomini perché si sentono devirilizzati, o che un uomo non sia libero di denunciare molestie o abusi sessuali da parte di donne per timore di ottenere risposte come «Bè, non ti ha fatto piacere? Beato te...». Se nonostante la
globalizzazione e il grande innalzamento di livello culturale degli ultimi decenni ancora ci sono questi limiti mentali, è per buona parte a causa di messaggi mediatici sbagliati e falsi. L’immagine della donna, ma anche dell’uomo, che i mass media diffondono non è il ritratto di una condizione reale, ma la rappresentazione simbolica di un modello che segue ideali e aspirazioni collettive, ma che è impossibile da raggiungere. Nella prima metà del novecento invece troviamo lo scenario opposto: gli stereotipi
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come se non fosse già abbastanza chiaro, che la donna non è che una parte dell’arredo di casa, come un mobile o un utensile che fa sempre piacere avere a portata di mano. Altrettanto disturbante è l’inserzione della “Postage Meter” (1947), macchina per i francobolli, dove vediamo un uomo che inveisce contro una donna, l’ottusa creatura infatti non sembra capire come funzioni la macchina. Oltre ad essere una stolta ovviamente, la donna è anche altezzosa e piena di se, e tiene il volto voltato con arroganza, come se fosse stanca di ascoltare quello che le viene detto, mentre il pover’uomo esasperato dalla sua stupidità non può far altro che chiedersi “è sempre illegale uccidere una donna?”.
diffusi dai media non sono ne falsi ne irraggiungibili, sono anzi lo specchio della società fortemente maschilista e patriarcale di quegli anni. Viene riproposto in maniera quasi ossessiva lo scenario in cui l’uomo in carriera e di successo viene assistito o accompagnato da una devota moglie, casalinga e madre di famiglia, o da una donna ottusa incapace di comprendere le esigenze del suo compagno (dunque la donna o è un perfetto angelo del focolare o è inutile). La pubblicità dei pantaloni “Leggs” (1920), vede la donna letteralmente come un “tappetino”. L’immagine è inoltre accompagnata dallo slogan “It’s nice to have a girl around the house”, quindi sottolineando 100
La locandina delle cravatte “Van Heusen” manda invece un messaggio più diretto. “Show her it’s a man world”, quindi tutto il mondo, non solo a casa, ma anche fuori, qualunque aspetto della società, appartiene all’uomo. La donna è solo un contorno, una spalla di appoggio che è l’uomo a scegliere di usare o meno, è l’uomo a prendere qualsiasi tipo di decisione anche sulla sua vita; la donna è praticamente una schiava che dev’essere pronta ad obbedire, non per niente viene rappresentata in ginocchio mentre serve il suo signore e padrone. Negli anni 60/70 era chiaro che il movimento femminile si fosse vitalizzato a tal punto da non poter essere più frenato. Venne denunciato il modus operandi di noti quotidiani, per esempio la Newsweek. La pubblicità ricopre un ruolo decisivo non soltanto all’interno del vasto campo delle comunicazioni di massa, ma soprattutto all’interno del sistema del consumo: la pubblicità, cioè, si caratterizza soprattutto perché cattura i messaggi ed i significati già esistenti nell’immaginario collettivo
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per immetterli direttamente nelle merci vendute sul mercato ai consumatori, affinché esse li ritrasmettano a questi ultimi. In questo periodo ciò che si svolgeva in pubblico nelle strade, era in forte contrasto con l’immagine diffusa della donna in TV: giovane, perfettamente curata, sempre sorridente, che non si lamenta mai, modesta, e con l’ intento di compiacere sempre. Al contrario, l’ immagine reale e caratterizzante di questo movimento era quella di donne furiose, che argomentavano, accusavano e battevano i pugni contro la stereotipizzazione delle donne nei media. Le ostentate rivoluzioni femministe di quegli anni non raccoglievano certo la maggioranza dei consensi, piuttosto erano spesso giudicate inutili, ma soprattutto assurde e senza senso di esistere. La donna non veniva considerata realmente come persona in possesso di pensiero individuale e potere decisionale, una donna doveva seguire e avallare il pensiero di suo marito/padre; per capire quanto assurde apparissero le rivoluzioni possiamo paragonarle ala richiesta di un bambino di 6 anni di avere lo stesso potere decisionale e gli stessi doveri e responsabilità dei suoi genitori. Ovviamente nessuno sarebbe incline a dare queste concessioni, poiché un bambino di 6 anni non ha la maturità, l’intelligenza ne nessuna pratica capacità per potersi autogestire. Ovviamente il paragone è esclusivamente in relazione all’assurdità della richiesta, non alla situazione, dato che il bambino deve essere gestito per poter essere protetto, mentre la donna per semplice senso di possesso da parte del patriarca. Il mondo della pubblicità, e dei mass-media in generale, come è sempre stato ed è tutt’ora, cerca di incontrare il favore del grande pubblico, della massa, e nella fattispecie naturalmente non si trattava delle femministe.
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Inizia così una battaglia neanche troppo velata tra femminismo e la comunicazione mediatica, dove l’oggettivazione della donna veniva esasperata intenzionalmente, di modo non ci fosse dubbio sull’identità ideologica del programma o del prodotto. Un esempio emblematico è la pubblicità del robot da cucina “Chef Kenwood” (1961), il cui slogan rispecchia benissimo la lotta contro il femminismo intrapresa in quel periodo dai mass-media: “Chef fa di tutto, tranne cucinare - per questo ci sono le mogli!”. L’ Italia è uno dei paesi in cui è più evidente come nell’ambito della pubblicità commerciale siano attualmente dominanti un’idea della donna legata ad immagini tradizionaliste e stereotipate e una concezione del rapporto tra uomo e donna in cui quest’ultima ha un ruolo subalterno e inferiore. La pubblicità e le immagini che essa trasmette suggeriscono come stereotipi e pregiudizi verso il mondo femminile siano pervasivi attraverso i vari livelli delle classi sociali italiane: Guido Barilla ha dichiarato di voler utilizzare negli spot solo famiglie tradizionali, escludendo quindi persone divorziate, coppie di fatto e tanto più coppie gay; questo dimostra come anche presso la classe dirigente italiana sia assai diffusa l’idea che la donna generalmente debba assumere un ruolo subordinato e riservato esclusivamente alla custodia della famiglia e della casa. E questa concezione della femminilità emerge, in maniera implicita o esplicita, nelle scelte di comunicazione di tante aziende importanti italiane. La questione inoltre non si limita solo all’amplissima diffusione di immagini tradizionaliste della donna nel contesto familiare, immagini che oggi appaiono a molti (ma non a tutti) trite e superate. Quello cui assistiamo da molti anni è la rappresentazione della donna unicamente
in quanto corpo, oggetto del desiderio sempre disponibile all’uomo di buona volontà. Siamo assediati da immagini pubblicitarie di corpi femminili nudi o seminudi utilizzate in modo completamente scollegato e avulso dal prodotto che si intende promuovere e dal contesto in cui esso è inserito. Un chiaro esempio è la serie di pubblicità dello yogurt “Müller”, che ci accompagna da anni nella vita quotidiana, dove è continuo il richiamo alla sessualità e alla soddisfazione del desiderio attraverso la ripetizione quasi ossessiva di immagini di donne sensuali ed attraenti; già solo allo slogan “Fate l’amore con il sapore”, come se gli ideatori di tale strategia di marketing avessero concepito uno yogurt “per adulti”, vietato ai minori. Chiarendo il fatto che non è negativa la diffusione in sé e per sé di immagini di nudità maschile o femminile e che ogni censura sarebbe inutile e dannosa, oltre che reazionaria, in questo caso però l’uso così massiccio di corpi femminili sessualizzati in ambiti dove la nudità non ha niente a che fare, è sintomo di una
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concezione da parte di chi crea tali messaggi, della donna come oggetto subalterno all’uomo. Tali scelte aziendali diventano poi veicolo di diffusione tra la massa, di questa visione del rapporto tra i sessi. Quando anche nella pubblicità sono presenti entrambi i sessi, ciò spesso è occasione per ribadire la distribuzione dei ruoli, dove è comunque l’uomo ad esser il più forte; questa concezione viene spesso veicolata da immagini che rimandano anche all’idea di affermazione violenta del dominio maschile. Esempi di ciò sono spesso evidenti in filmati o fotografie di molte marche di abbigliamento o di cosmetici.
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Una famosa pubblicità di “Dolce e Gabbana” ritrae ben quattro uomini e una donna: Certamente anche le donne possono trarre piacere nel vedere i prestanti fisici dei quattro uomini, però la ragazza ritratta si trova a terra in posizione arcuata con uno di loro sopra di lei mentre gli altri stanno a guardare; l’immagine nel suo complesso rimanda ad un contesto di aggressività abbastanza inquietante, dove comunque il maschio prevale. In molte pubblicità infatti emerge l’idea del rapporto tra uomo e donna in cui il primo è in una posizione di superiorità legittimata anche attraverso le diverse forme di violenza, sia essa fisica, verbale o psicologica.
4.2. AnAlisi di Pubblicità Resta elemento di discussione stabilire se simili strategie pubblicitarie siano semplici scelte destinate a destare attenzione e attrattiva presso le persone comuni o se invece rappresentino la reale visione del mondo dei dirigenti aziendali che promuovono tali campagne. Nel primo caso si tratterebbe di strategie promozionali e comunicative assai discutibili, nel secondo si parlerebbe di adesione ideologica a tali visioni da parte delle stesse dirigenze, le quali si porrebbero così indietro di qualche decennio nell’orologio della storia rispetto alle scelte aziendali del resto d’Europa. Il tema della rappresentazione della donna nella pubblicità è poco trattato a livello di dibattito pubblico nei media nazionali, ma in ogni caso esso viene invece studiato in diversi convegni ed iniziative pubbliche promosse da università, enti sociali o associazioni. Anche le persone più di buona volontà sono spesso distratte da questa tematica, e il motivo è che la pubblicità nelle sue
diverse forme è talmente onnipresente nella vita quotidiana da scivolare assai spesso sotto il livello della nostra percezione cosciente. In pratica molto spesso non ci rendiamo conto di quali messaggi ci passano accanto sfogliando riviste e giornali, camminando per strada, guardando la televisione. Uno sguardo appena più attento però mostra come certi messaggi veicolati dalla pubblicità diffondano e legittimino stereotipi e pregiudizi velenosi per il benessere di tutta la cittadinanza, non solo per le donne ma anche per gli uomini. Se col tempo sempre più persone prenderanno coscienza di ciò, potranno far sentire la propria opinione discordante. In tal modo anche le dirigenze aziendali comprenderanno come alla lunga possa diventare controproducente continuare ad utilizzare la stessa visione, che ci viene proposta da anni, in cui il rapporto tra uomo e donna è raffigurato in maniera stereotipata e impari. Di seguito riporto l’analisi di pubblicità che rispecchiano i due stereotipi femminili dominanti: la madre di famiglia e la donna oggetto.
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Spot “Barilla” (2013) L’oggettivazione della donna come “angelo del focolare”, può essere riscontrata soprattutto nelle pubblicità per prodotti per la casa o per la cucina. È stato davvero arduo sceglierne una in particolare da analizzare, ve ne erano di davvero clamorose, ma questo spot del 2013 del sugo pronto Barilla è davvero troppo esplicito per non essere menzionato. La scena si apre ai cucina, con la mamma ai fornelli, mentre tiene d’occhio i due bambini davanti a lei che aspettano il pranzo. Poco 106
dopo intravediamo dietro la donna suo marito, che sta tagliando una fetta di pane, e nel frattempo comincia a parlare una voce maschile fuori campo (vedremo poi che la voce apparterrebbe al sugo pubblicizzato). La voce dice «Quando arriva il momento, in cucina tutti prendono posto: La mamma prepara ogni cosa a regola d’arte, con amore; il papà ha sempre fretta;» e nel mentre c’è l’inquadratura dell’uomo che cerca di raccogliere il sugo con la fetta di pane appena tagliata, disturbando sua moglie «i fratellini…sono loro a rendermi il vero protagonista della scena.» mentre i bambini cominciano a disegnare con il sugo «Ecco perché mi piace essere un sugo Barilla.».
In questo spot, come se non fosse abbastanza chiaro dalle immagini che il ruolo della moglie è cucinare ed occuparsi dei bambini, viene anche ribadito dalle parole. La mamma non solo deve preparare da sola il pranzo per tutta la famiglia, ma deve farlo “a regola d’arte, con amore”, ed aggiungerei con il sorriso sulle labbra, visto che non appare mai turbata per tutta la durata dello spot, sfoggiando sempre un sorriso appagato e rilassato, come se stesse facendo esattamente quello che l’appassiona: occuparsi della famiglia. Ad onor del vero per quarto stereotipata al massimo, questo tipo di pubblicità funziona, perché per quanti passi avanti il femminismo abbia fatto nell’ultima secolo (e come abbiamo
visto sono stati molti), tutt’ora ci si aspetta che ad adempiere a certi doveri famigliari sia la donna, e nella maggior parte dei casi è così. Dunque volenti o nolenti gran parte delle madri di famiglia si rispecchia in questo spot costruito per loro. Infatti dall’impronta un po eterea e sentimentale che ha la pubblicità si può dedurre che il target sia prettamente femminile, sia perché come viene esplicitamente detto, è la donna che userà il prodotto, sia perché si dà per scontato che sia anche la donna ad acquistarlo, in quanto è lei ad occuparsi delle spese domestiche. Certo è però che se non si cominciano a diffondere modelli di famiglia dove uomo è donna hanno ruoli paritari, lo stato delle cose resterà invariato. 107
Campagna “Protein World” (2015) Negli ultimi decenni, soprattutto per quanto riguarda le campagne pubblicitarie urbane, è predominante la figura della donna come oggetto sessuale piuttosto che come moglie modello. Con questo non voglio dire che nella sfera radiotelevisiva sia poco utilizzata, o che per le strade non vediamo esempi della donna di casa, ma stiamo parlando di due mezzi differenti. Nella pubblicità urbana la campagna deve 108
catturare l’attenzione all’istante, perché chi lo osserva è il passante casuale, che spesso è in automobile; dunque abbiamo pochissimi secondi per attrarre il suo sguardo, far passare il messaggio, e convincerlo ad acquistare. Stando così le cose è ovvio che una donna nuda o quasi in una posa provocante, attiri più l’attenzione rispetto ad una ben vestita accompagnata dai suoi figli. Mi piacerebbe riportare un esempio che è stato molto discusso. Nell’aprile 2015 sono apparsi sui muri della metropolitana di Londra diversi cartelloni pubblicitari della “Protein World” (società che produce
alimenti per sportivi), che mostrano una donna in bikini accompagnata dalla domanda «Il tuo corpo è pronto per la spiaggia?». La campagna è stata molto criticata non solo per il suo messaggio sessista, ma anche perché fa “body shaming”, cioè vuole far vergognare di sé chi ha un corpo che non risponde agli stessi criteri della pubblicità imponendo un’immagine di “corpo perfetto” distante dalla realtà. Il manifesto è stato anche bersaglio di vari atti di Culture Jamming (di cui parleremo più approfonditamente in seguito). Ad alcuni cartelloni pubblicitari sono state aggiunte
scritte di risposta e di protesta; lo slogan «Are you beach body ready?» è stata storpiata in «Your body is not a commodity» (“il corpo non è un prodotto”), «Each body is ready» (“qualsiasi corpo è pronto”) e così via; altre persone si sono fotografate davanti ai manifesti in atteggiamenti di protesta. Protein World ha fatto sapere di non avere intenzione di interrompere la campagna e anzi ha risposto prendendo in giro le persone che l’hanno criticata. Su Twitter l’account ufficiale di Protein World ha risposto a una ragazza che li ha criticati scrivendole «Cresci» e allegando diverse copertine di riviste di moda e salute. 109
#WOMENNOTOBJECTS
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4.3. un cAmbiAmento? L’idea dell’“essere donna” è cambiata drasticamente nel corso degli ultimi decenni, così come le rappresentazioni femminili. Una delle cose che rende i media dei nostri giorni molto differenti dalla TV, dalle riviste, dalla radio e dalla stampa degli anni ’60/’70, e in buona parte anche degli anni ’80, è l’elaborazione di temi e obbiettivi femministi nei contenuti mediatici. Mentre in precedenza molte volte non venivano affatto considerati, ora concetti femministi anche generici sono accettati come idee non controverse. In riferimento alla rappresentazione femminile nella pubblicità oggi, nonostante per la maggior parte dei casi parliamo ancora di oggettivazione della donna, ci sono stati anche vari cambiamenti, conseguenza della concezione femminista. Come suggerisce Robert Goldman, le nuove forme di rappresentazione che lasciano intravedere un punto di vista femminista sono molteplici. Sicuramente un modo di proporre il femminismo è quello del look o stile nelle pubblicità.
Più precisamente si potrebbe dire che vengono creati dei segni che connotano indipendenza, libertà e autonomia. Bisogna però fare attenzione a non incorrere in un errore che ho riscontrato più volte in pubblicità che intendevano avere una visione femminista: quando si vuole sottolineare la forza di carattere o lavorativa di un soggetto femminile, spesso il look che gli viene assegnato tende a discostarsi dai canoni classici di femminilità; In particolare ritroviamo oggetti come valigette 24ore, tailleur pantalone, macchine, capelli corti, tutti simboli tendenzialmente riconducibili all’universo maschile. Non voglio dire che queste caratteristi appartengano effettivamente solo al mondo maschile, anche questi sono stereotipi che devono essere abbattuti, tuttavia per il momento il messaggio che passa è che una donna per essere indipendente debba in qualche modo mettere da parte la sua femminilità e far proprie caratteristiche maschili. Ad esempio potremmo provare ad analizzare
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la recente campagna pubblicitaria “Not Dressing Men” di Suistudio; nasce con l’intento di rappresentare donne forti e indipendenti che prevalgono sugli uomini. Premettendo che trovo assurda e sbagliata l’idea di partenza (credo che la sottomissione del prossimo sia sbagliata in ogni sua forma, e quindi non dovrebbe mai essere parte di un messaggio mediatico), ma trovo che fallisca anche nel proposito. Infatti vediamo donne, sì dall’aria forte e indipendente, ma che si trovano in un ufficio con vista, indossano professionali tailleur pantalone, senza nessun accessorio e con un trucco molto discreto, naturale, caratteristiche comunque poco femminili, mentre vediamo la figura maschile completamente nuda ed evidentemente sottomessa, nonché con viso sempre coperto o addirittura con foto tagliata all’altezza del collo; è un oggetto sessuale senza volontà, viene completamente depersonificato, esattamente come vengono rappresentate solitamente le donne. Dunque il messaggio che passa non è di una donna che sottomette un uomo, ma di una donna che sta interpretando il ruolo di maschio dominante (e non di donna). Questo tipo di approccio però non è da considerarsi sbagliato a prescindere, infatti bisogna sempre contestualizzarlo, e analizzarlo nell’insieme. Diverso è infatti il caso della pubblicità di “Jones New York”, una casa di moda americana che disegna esclusivamente vestiti per la “donna professionale”. Tralasciando il fatto che i tailleur indossati dalle modelle sono il prodotto pubblicizzato, e quindi più che giustificati, ma anche se sono presenti elementi che ricordano l’aspetto maschile (postura rigida, 24ore…), questi sono affiancati da aspetti prettamente femminili, come i gioielli e il trucco vistosi, inoltre nonostante le varie modelle siano vestite in modo molto simile, si distinguono
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bene grazie a stile ed acconciature. C’è quindi il tentativo di dare ad ognuna una sfumatura diversa di personalità. Questi sono i segni che testimoniano la forte impronta femminista. Lo slogan “Empowering your confidence” e il testo pubblicitario “women as half of all workers changes everything” suggeriscono chiaramente che vi è un cambiamento nel genere di pubblicità contemporanea, perlomeno in quella mirata a un pubblico femminile, infatti Il soggetto della frase è inteso come il concetto “il fatto che le donne siano parte del mondo del lavoro cambia tutto”. Altre pubblicità sembrano egualmente suggerire che non sempre vi è una divergenza nello stile di una donna di successo, che può essere autorevole e seducente allo stesso
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tempo. Si rileva quindi, sempre più spesso, nelle pubblicità la volontà di raggiungere degli obbiettivi considerati “femministi” combinati magistralmente a codici di lettura “femminili”. Una donna per essere indipendente non deve ricordare un uomo: gonna o pantaloni, capelli lunghi o corti, truccata o non, una donna può tranquillamente essere forte in quanto se stessa, in quanto donna. Ad ogni modo i cambiamenti sono pochi e molto rari, dato che immagini di donne idealizzate prevalgono ancora nelle pubblicità come anche in altre forme mediatiche. Vi è la tendenza nei media a difendere la continua diffusione di corpi e volti perfetti. Ci sono in effetti vari esempi di pubblicità che hanno adottato questa strategia. Esemplare è il caso
della pubblicità di “L’Oréal”, con lo slogan “Don’t hate me because I am beautiful”. Altre aziende, impegnate soprattutto nel campo della cosmetica, contrariamente alla prassi, hanno reagito sminuendo l’ importanza della bellezza. Possiamo citare in tal senso il caso emblematico della pubblicità di Elizabeth Arden, “la mia migliore caratteristica è il mio grande, bello, sexy cervello”. Il testo pubblicitario figura accanto a una donna dall’aspetto impeccabile; questa strategia di pubblicità sembra, suggerire che è sufficiente inserire un testo pubblicitario che sembra attribuire un posto secondario alla bellezza, per poter continuare la proiezione di modelli perfetti. Molte pubblicità del tipo,“finchè non avrai il corpo di una modella non sarai perfetta”,
vengono sostituite con testi più coerenti con le realtà femminili che suggeriscono l’idea che le donne non dovrebbero essere giudicate solo dalla loro apparenza. Quanto affermato risulta ancor più evidente in una pubblicità della “Dove” nella quale ci sono sei donne (di cui una ha un neonato in braccio) che indossano solo un perizoma bianco e il cui slogan è “non imposta come appari, l’importante è come sei”. L’intenzione della pubblicità è, quindi, quella di porre l’accento non tanto sull’aspetto fisico delle sei donne quanto su quello che indossano, quindi prescindendo dall’ideale classico della bellezza a tutti i costi. Ciò che Rosalind Gill osserva è che in realtà le donne (che si differenziano leggermente per l’ altezza) sono tutte molto snelle, dalla pelle bianca, giovani, belle, e corrispondono totalmente all’immagine di donna contro cui il testo si scaglia. Troviamo un’analogia nella pubblicità di “Levi’s”, che si promuove una linea di jeans più “democratica”, diretta a donne di fisicità diverse, come del resto è specificato nel testo pubblicitario che accompagna l’immagine. In realtà, le tre donne che dovrebbero rappresentare diverse fisicità sembrano differenziarsi solo per poco l’una dall’altra, e non rispecchiano il principio per cui le donne sono “di tutte le forme e dimensioni”. Questi tipi di immagine vogliono rispondere alla critica femminista e trasmettere il significato “sei bella così come sei”. In realtà molti semiotici hanno affermato che il significato non risiede nel testo ma nell’interazione tra il testo e il lettore: “mi sentirò bene con me stessa solo se acquosi il prodotto”. L’ appello femminista è stato quindi utilizzato nelle pubblicità, ma per raggiungere la sensazione descritta si deve acquistare l’ oggetto. In questo modo il traguardo femminista è svuotato dal suo significato politico e “rivenduto come scelta di consumo”. Questo è ciò che Robert Goldman chiama “femminismo mercificato”.
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5.
rischi e conseguenze sociAli 117
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Gli individui sono costantemente bombardati di informazioni provenienti dall’ambiente esterno, ed è inevitabile e funzionale che tali informazioni vengano selezionate, elaborate e immagazzinate in modo attivo, anche se più o meno consapevole. Tali input, siano essi visivi o uditivi, vengono però trasformati in rappresentazioni simboliche, ovvero immagini economiche e impoverite del mondo reale. Se chiediamo a un qualunque individuo di pensare a una mela, con molta probabilità si attiverà nella mente del nostro interlocutore o della nostra interlocutrice, la rappresentazione di un frutto rotondo, di colore rosso, con una bella foglia verde; allo stesso modo, alla parola “tavolo” viene associato un oggetto formato da un ripiano quadrato e quattro gambe, per lo più di colore marrone dando per scontato il legno come materiale di fattura. La rappresentazione di contenuti mediatici crea dunque una rappresentazione della realtà, e quindi determina fortemente il nostro modo di vivere e di pensare. In questo senso è utile fare riferimento ai gender studies, che studiano oltre all’immagine femminile (femminilità) anche l’immagine corrispondente, quella del maschile (mascolinità), e la relazione specifica tra di loro nei contesti sociali, ma soprattutto nei processi mediali. Chiaro come attraverso specifici codici corporali, il mito della predominio maschile è ancorato nella psiche individuale. La nostra cultura concepisce i generi come un sistema bi-classificato, rigido e vincolante. A ogni individuo, sin dalla nascita è assegnato una delle due categorie di genere, la mascolinità o la femminilità che sono caratterizzati determinati “attribuiti polari” (come per esempio: attivo, passivo, forte, debole, coraggioso, pauroso ecc.). È nell’attribuzione di tali caratteristiche che si può costruire un ordine sociale fatto di disuguaglianze. Tale ordine sociale insiste
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nel sostenere che la disuguaglianza è biologicamente attribuita e quindi vincolante. Nel corso del processo della loro formazione di identità, uomini e donne devono sempre confrontarsi con il concetto di polarizzazione. Secondo Mühlen Sachs si spiega così il rapporto sessista dei generi nei media, che creano la fantasia di una “superiorità maschile”. L’ambiente che ci circonda è senza ombra di dubbio complesso e ricco di elementi; in ogni momento siamo colpiti da informazioni percettive che dobbiamo analizzare e valutare il più velocemente possibile per agire e interagire con il mondo circostante, prevedendo per lo più quali saranno le conseguenze nell’approcciarsi ad una certa situazione in un particolare modo. Così ogni individuo, al fine di meglio rapportarsi alla realtà, mette in atto un processo cognitivo detto di categorizzazione: costruisce cioè delle categorie formate da elementi che hanno le stesse caratteristiche fondamentali, creando dei modelli detti esemplari.
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È un meccanismo sano e funzionale alla vita di tutti i giorni. Pericolosi sono però i meccanismi che si attivano e s’insinuano nel momento in cui la categorizzazione è applicata per raggruppare gli esseri umani; tale meccanismo porta ad associare un individuo a un gruppo poiché condivide con i suoi membri determinate caratteristiche. È da qui, in altre parole, che nascono i cosiddetti stereotipi. Gli stereotipi sono schemi rigidi e impermeabili al cambiamento, formati da credenze e opinioni, socialmente condivise, attribuite a un gruppo sociale; questi schemi finiscono per influenzare le relazioni e i comportamenti sia di chi li applica sia di chi ne è colpito. Essendo rappresentazioni impermeabili al cambiamento, spesso portano a interpretazioni non solo errate, ma di difficile mutabilità, anche di fronte all’evidenza o al contatto diretto.
5.1. modelli teorici di inFluenzA dei mediA I mezzi di comunicazione sono usati per soddisfare bisogni e desideri; vengono individuati cinque classi di bisogni soddisfatti dai media: • Bisogni cognitivi – relativi alle conoscenze • Bisogni affettivo - estetici – relativi al rafforzamento dell’esperienza estetica • Bisogni integrativi di personalità – relativi all’incremento di credibilità e alla stabilizzazione emotiva • Bisogni integrativi a livello sociale – relativi alle relazioni interpersonali e all’interno dei gruppi sociali di riferimento • Bisogni di evasione – relativi all’allontanamento dei motivi di conflitto.
Esistono in psicologia sociale diversi modelli teorici che tentano di descrivere i meccanismi di influenza dei mezzi di comunicazione di massa nei comportamenti e negli atteggiamenti quotidiani degli individui, soprattutto in relazione al mezzo televisivo. Prima degli anni ’60, la TV viene descritta come uno strumento demoniaco utilizzato per plasmare e narcotizzare le masse: «grande ago ipodermico, che esercita sulla consapevolezza delle persone una sorta di narcosi funzionale; in altre parole, uno stato di apatia indotto»1. Tuttavia, intorno alla metà degli anni ’60, si cominciano a scorgere posizioni meno pessimistiche: Mc Luhan sostiene ad esempio la necessità di riconoscere il ruolo fondamentale della TV nel rendere la società meno rigida e più multidimensionale, grazie alla combinazione di comunicazione verbale
1. Harold Lasswell, Propaganda Technique in the World War, 1927
e visiva2. Questo cambio di rotta portò ad uno spostamento dell’attenzione, dalla ricerca sugli effetti dei mass media alla ricerca delle influenze su atteggiamenti e opinioni. 1.
MODELLO DELL’APPRENDIMENTO SOCIALE (1967):
La Teoria dell’apprendimento sociale è stata ideata dallo psicologo canadese Albert Bandura. Questo modello evidenzia come per l’apprendimento non sia strettamente necessario avere un contatto diretto con oggetti o situazioni, ma possa avvenire anche attraverso esperienze indirette, attraverso l’osservazione di altre persone. Bandura usa il termine modellamento (modelling) per identificare “un processo di apprendimento che si attiva quando il comportamento di un individuo che osserva si modifica in funzione del comportamento di un altro individuo che ha la funzione di modello”. Secondo questo modello quindi le azioni viste in televisione, soprattutto se ricompensate e messe in atto da modelli ritenuti simili a noi, o importanti, verranno riprodotte dallo spettatore. Questo fenomeno è particolarmente interessante ai fini della riflessione sugli effetti che immagini violente o modelli troppo adulti possono avere sul pubblico costituito dai più piccoli, che tendono ad imitare personaggi (immaginari e non) che ritengono importanti e che occupano gran parte della loro giornata. Esemplare come esempio è “l’esperimento della bambola Bobo”, una famosa ricerca sperimentale sull’aggressività condotta nel ‘61 dallo stesso Bandura, con la quale fu dimostrato che il comportamento aggressivo dei bambini può essere modellato, cioè appreso per imitazione.
2.
MODELLO DELLA COLTIVAZIONE (1968):
George Gerbner, professore ungherese di comunicazione, sostiene che la televisione non ha effetti specifici ed immediati sugli spettatori, ma
2. Marshall McLuhan, villaggio globale e media, 1968
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Questo finisce per creare schemi fissi e rigidi di una realtà semplificata e per molti aspetti irreale. Laddove fattori esterni vadano nella stessa direzione di ciò che viene mostrato dal mezzo televisivo, l’effetto del messaggio è accentuato; i media hanno quindi la capacità di rinforzare il significato delle esperienze maturate dalle persone nella vita reale.
3.
MODELLO DELL’AGENDA SETTING (1972):
Vi si sono dedicati vari studiosi, i principali sono Maxwell McCombs, Robert McLure, T. E. Patterson e Donald Shaw. “L’agenda” costituisce il grado e ordine di importanza di problemi e temi. Secondo questa teoria, l’agenda dei media plasma l’agenda dell’audience; sono i media che indicano quali sono le informazioni a cui occorre prestare attenzione e qual è la loro importanza relativa in un dato momento. Siamo tutti fortemente influenzati dai meccanismi di ritaglio della realtà sociale e dalle scelte operate dai mezzi di comunicazione di massa. Più che influenze valutative e di giudizio sugli avvenimenti, i media forniscono indicazioni su quali avvenimenti devono essere considerati prioritari; i media non suggeriscono alla gente come pensare bensì a cosa pensare, fissando un “ordine del giorno” che guida le aspettative delle persone. I media creano strutture gerarchiche di importanza delle notizie e dei messaggi. E’ possibile manipolare l’importanza di una notizia, attraverso: • La frequenza di comparsa • Lo spazio accordato • L’ordine rispetto ad altre notizie • L’importanza della testata e dei comunicatori che la riportano • Aspetti retorici della comunicazione (coinvolgimento emotivo dell’audience, filmati supporto, commenti). invece “produce un effetto di cumulazione che porta lo spettatore a vivere in un mondo che somiglia a quello mostrato dal teleschermo”. La tesi fondamentale della teoria attribuisce al mezzo televisivo la capacità di fornire allo spettatore, dall’infanzia all’età adulta (per questo si parla di coltivazione), una visione del mondo comune e condivisa, operando in tal senso nella direzione di una unificazione della realtà. È in grado di plasmare percezione, atteggiamenti, valori e comportamenti degli individui nei confronti della realtà, proprio per la sua natura di agente di socializzazione. Le immagini offerte dalla TV mostrano un ambiente simbolico della vita moderna, e vengono a lungo andare fatte proprie dagli spettatori.
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4.
MODELLO DEGLI USI E GRATIFICAZIONI (1973):
Ideato da un gruppo di studiosi, tra cui Elihu Katz 3. Al pubblico dei media viene riconosciuto un ruolo
3. Elihu Katz (1926), sociologo specializzato nell’interazione tra i media, vincitore del premio UNESCO-Canada McLuhan Prize. Già nel 1955 aveva elaborato, insieme a Paul Felix Lazarsfeld, la “Teoria del flusso a due fasi di comunicazione”, secondo la quale non esiste un flusso costante di informazioni che va dai media ai destinatari finali, bensì il flusso passa dai media ai cosiddetti “opinion leader”, che sono gli individui più sensibili verso certe informazioni e più influenti all’interno di un certo gruppo sociale. Solo successivamente il messaggio è veicolato dagli opinion leader al gruppo sociale di riferimento. Questa teoria sembra funzionare particolarmente nell’ambito della comunicazione commerciale.
attivo e dinamico, gli effetti su di esso sono il risultato di molteplici fattori che prendono in considerazione le interazioni sociali e il contesto in cui si realizza la comunicazione. Si prendono in considerazione gli usi che il pubblico fa dei mezzi di comunicazione per soddisfare determinati bisogni e ricevere forme di gratificazione dai media stessi. La teoria si basa 4 pilastri fondamentali: • Per gran parte del tempo il fruitore dei media è in posizione di controllo. Il pubblico è considerato attivo: Questa idea si concentra sul fatto che gli spettatori sono orientati verso uno scopo che essi cercano di realizzare attraverso l’uso dei mass media. Gli individui consumano i media per soddisfare dei bisogni specifici che emergono nel contesto sociale in cui vivono. • Nel processo di comunicazione di massa gran parte dell’iniziativa è dei ricettori, che scelgono i media che meglio soddisfano questi bisogni. Le persone utilizzano i media per il proprio vantaggio più di quanto i media usino loro. Il ricevente determina cosa riuscirà ad influenzare il suo pensiero e cosa no, e non come nelle precedenti teorie il contrario. L’opinione individuale è molto più potente del contenuto che i media cercano di trasmettere. • Esistono anche altre fonti non mediali di
soddisfazione dei bisogni personali,con cui i media devono costantemente competere per attirare l’attenzione dei ricettori. Il più forte rivale ai mass media è sicuramente la comunicazione diretta, come la famiglia, gli amici, i rapporti interpersonali, ma ad esempio anche gli hobby o il lavoro. Queste cose spesso possono aiutare un individuo a superare difficoltà che gli si parano di fronte in modo molto più efficace. Per questo motivo, la comunicazione di massa deve competere in modo arduo con le fonti non correlate ai media e creare nell’individuo un bisogno per se stesso. • Il pubblico è consapevole dei propri bisogni e delle ragioni che portano al consumo dei media. Molti dei successi nell’uso dei media attraverso il soddisfacimento di informazioni possono essere raggiunti anche dalle persone con le loro personali capacità. Le persone sono consce delle loro motivazioni e scelte. Da una serie di studi che analizzano gli spettatori di una stesso ambiente sociale esposti allo stesso media, è emerso che il contesto in cui si vive determina il rapporto usi/effetti. Il consumo mediale contribuisce alla costruzione del sé ideale, il soggetto sarà influenzato positivamente quando le scelte avranno un certo spessore culturale e messaggi informativi efficaci per la crescita personale.
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5.2. tv, unA cAttivA mAestrA Il filosofo Karl Popper affermava che la televisione è una “cattiva maestra”. Già da questa prima affermazione si intuisce che la TV assume una vera e propria funzione educativa. Negli ultimi anni la televisione è diventata un mezzo educativo quasi al pari della scuola e della famiglia, non solo per la costante trasmissione delle pubblicità, ma anche e soprattutto se si considera che bambini e adolescenti passano sempre più tempo davanti alla TV senza la supervisione degli adulti, e purtroppo, la qualità dei programmi lascia a desiderare. Le nuove generazioni hanno ormai a disposizione “due mondi” da cui attingere per elaborare e costruire la propria immagine personale e sociale: il mondo dell’esperienza diretta, con cui si confrontano personalmente nel contesto di vita reale e nei rapporti faccia a faccia, e il mondo mediale che offre conoscenze indirette, le cui fonti prime di informazione, quali riviste, televisione, radio e mezzi multimediali, sono sempre più fondate sul mondo dell’apparenza e dell’esteriorità che non sui contenuti e sui messaggi costruttivi per il senso critico dell’individuo.
degenerazione della TV e dei programmi, così come una mancanza di modelli positivi da seguire. Come succede per la pubblicità, la TV deve rispondere a una spietata legge, quella dell’audience, che è ormai diventata una guerra. Si gareggia per accaparrarsi uno share più alto di altre emittenti. Questa legge dell’audience è una «tendenza intrinsecamente e fatalmente destinata a peggiorare la qualità dei programmi nel tempo»1. Ancora una volta, per catturare l’attenzione dei telespettatori si usa la donna, che vede la sua immagine mortificata e ridotta al suo corpo.
La quantità di immagini cui i bambini sono sottoposti ogni giorno ha un’enorme influenza sul loro modo di pensare, di vedere il mondo e di rapportarsi con gli altri. «La televisione cambia radicalmente l’ambiente e dall’ambiente così brutalmente modificato i bambini traggono i modelli da imitare»1. Analizzando i programmi emessi negli ultimi decenni si nota una sorta di
In programmi come Striscia la Notizia, il Mercante in Fiera, Gira la Ruota, c’è sempre una donna quasi nuda o con vestiti moto succinti che balla o passeggia da una parte all’altra dello studio, ma che obiettivamente non fa nulla. «A queste ragazze non è richiesto quasi mai di parlare e, se lo fanno, è solo per avvalorare l’affermazione di un uomo»2. Queste ragazze si limitano a sorridere se inquadrate dalla telecamera. Ad esempio, in Ciao Darwin, ad ogni puntata del programma, condotto dalla famosa coppia BonolisLaurenti, veniva presentata Madre Natura, una donna bellissima che non faceva altro che scendere una scalinata in tacchi a spillo e costume da bagno, mentre gli uomini presenti nel pubblico la divoravano con lo sguardo, restando a bocca aperta, strategicamente ripresi in primo piano dalle telecamere. Ancora una volta, la donna viene ridotta al proprio corpo, viene utilizzata per attirare
1. Karl R. Popper, Cattiva maestra televisione, 2002
2. Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, 2010
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telespettatori. Ma soprattutto si intuisce che per fare spettacolo, per essere famosi non bisogna avere un talento particolare. «Non è richiesto saper ballare, cantare, intrattenere, tanto le ragazze sono belle!»2. La visione del mondo che emerge da questi programmi è una visione falsata, basata su valori come l’apparenza, la bellezza. Il problema è che i bambini mancano di quello sguardo critico proprio degli adulti, che li aiuta a distinguere cosa è vero e cosa è falso; quindi si immergono in questo mondo superficiale e lo fanno il loro mondo, il loro modo di pensare. Purtroppo, non riescono nemmeno a sviluppare un pensiero proprio, e si lasciano guidare dalle immagini trasmesse dalla TV. «Come possiamo aspettarci che una ragazza che fin dall’età di 6 anni altro non ha visto che donne belle e mute, statue vuote, guardate con occhi che scrutano il loro corpo come fosse l’unica rappresentazione valida della loro personalità, non assuma il medesimo sguardo oggettivante verso sé stessa? E ancora, come possiamo pretendere che abbia aspirazioni diverse dall’essere modella o velina,piuttosto che scienziata, quando gli unici modelli femminili cui ha accesso sono quelli televisivi?»3. Non c’è da stupirsi se sempre più donne ricorrono alla chirurgia estetica, o se sono insoddisfatte del proprio aspetto fisico, o ancora se ci sono sempre più modelle anoressiche. Non c’è nessun modello positivo che insegni valori come l’autostima. La bambina cresce pensando che la cosa più importante sia il suo corpo, la sua apparenza, ma soprattutto che sarà sempre e costantemente messa sotto esame dall’uomo, un po’ come la Madre Natura di Ciao Darwin.
3. Dalla risoluzione del Parlamento europeo del 12 marzo 2013 sull’eliminazione degli stereotipi di genere nell’Unione europeo
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In una ricerca del 1983 viene evidenziato come i media presentassero con maggior frequenza visi maschile e corpi femminili. Questo conferma l’associazione tra maschi e qualità intellettuali e donne e qualità fisiche ed emotive. Infatti, le persone ritratte con maggior focus sul volto sono giudicate più intelligenti; le donne al contrario tendono ad essere “smembrate”, rappresentare solo con parti del corpo, in particolare con gli attributi sessuali primari e secondari. Lo smembramento del corpo femminile «porta a identificare la persona con il proprio corpo, o parti di esso; l’oggetto-corpo è ridotto a mero strumento da guardare e valutare nella sua funzione di oggetto sessuale»4. Fredrickson e Roberts, nel 1997, hanno coniato la Teoria dell’oggettivazione mostrando come la nostra cultura socializzi le donne a interiorizzare il punto di vista di un osservatore sul proprio corpo e a vivere gran parte della loro vita in terza persona. Piuttosto che considerare i sentimenti e gli stati emotivi interni le ragazze imparano a essere più interessate ad attributi corporei osservabili, «come corpi che esistono a uso e consumo di altri»5. Questo significa che probabilmente, con poche e rare eccezioni, la donna non troverà mai una rappresentazione fedele di sé e non filtrata dal punto di vista maschile. Infatti, raramente in televisione viene mostrata una donna che lavora duramente per ottenere certi risultati. La TV, come la pubblicità, «insegna a un gran numero di bambini e ragazzi a stare al mondo: propaga stereotipi di genere e consolida un modello di convivenza basato su una visione conservatrice e consumistica della
4. Sandra Lee Bartky, Femininity and Domination: Studies in the Phenomenology of Oppression, 1990. 5. Fredrickson e Roberts, 1997
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vita»2. Come si è già detto, gli stereotipi sono visioni entro cui tanto l’uomo quanto la donna devono stare. Ciò influenza in maniera assai negativa la percezione che i bambini, ma soprattutto le bambine, si formano riguardo a sé stessi, al ruolo che devono rivestire nella società e agli obiettivi che si potranno porre durante la crescita. La televisione e la pubblicità, al pari della scuola, partecipano alla propagazione di questi stereotipi. Come afferma Lia Lombardo6, a proposito della scuola: «L’espressione “gedered institution”, cioè l’istituzione improntata al genere, sta a significare che interi ambiti istituzionali sono
6. Lia Lombardo, fondazione ISMU, sociologa orientata agli approcci teorici e metodologici della Sociologia della Salute e della medicina.
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strutturati in base al genere: per esempio, la scuola non è solo il luogo in cui bambini e giovani apprendono i ruoli di genere, ma è in se stessa un’istituzione improntata al genere perché si fonda su specifici modelli di distinzione, sia delle istituzioni che degli individui (indirizzi scolastici a prevalenza maschile e altri a prevalenza femminile)». L’altro grande problema è che «si offrono all’audience livelli di produzione sempre peggiori che l’audience accetta purché ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, che sono per lo più rappresentati dalla violenza, dal sesso e dal sensazionalismo. Il fatto è che più si impiega questo genere di spezie e più si educa la gente a richiederne»1. Si entra quindi in un circolo vizioso difficile da spezzare, soprattutto perché
tutti sono consapevoli del problema, ma nessuno fa niente per evitarlo. In conclusione, si è sempre più dipendenti da programmi spazzatura che servono per far divertire i telespettatori, ma non si prende in considerazione il fatto che gran parte dei telespettatori sono bambini che cercano di capire il mondo attraverso i programmi che subiscono ogni giorno. Secondo la ricerca del Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), la distribuzione della presenza femminile è abbastanza equilibrata tra le reti considerate. La maggiore numerosità di donne si registra nella fascia preserale (18- 20,29) dove si affollano prevalentemente attrici (56,3%), cantanti (25%) e modelle (quasi il 20%). Dunque, l’immagine più frequente è quella della donna di spettacolo.
una percentuale schiacciante (38%) rispetto all’associazione a temi come cultura (6,6%), disagio sociale (6,8%) realizzazione professionale (2%) e politica (4,8%). C’è veramente bisogno di una patente per fare TV, come sosteneva Popper? Certo è che, dopo anni di lotte, la donna ha avuto quella visibilità tanto desiderata. Ma a che prezzo? «Abbiamo paura di non piacere. Abbiamo paura di non essere accettate così come siamo. E forse, in ultima analisi, di restare sole»2.
Colpisce in modo particolare la forte presenza delle modelle, e se si pensa all’impatto di tali icone della moda sulle giovanissime si rimane perplessi: la top model da semplice professionista che scivola con garbo sulle passerelle è diventata un modello di riferimento estetico, frustrante e a volte pericoloso perché irraggiungibile, qualche volta eccentrico e discutibile. Le donne in televisione sono spesso protagoniste della situazione o della vicenda rappresentata, ma assai meno frequentemente le conduttrici (10,3%). Lo spazio offerto alla figura femminile è dunque ampio, ma generalmente “gestito” da una figura maschile: esse hanno conquistato ruoli sempre più centrali, ma comunque restano per lo più “comprimarie”, in relazione a una figura maschile “ordinante”. Il tema al quale la donna è associata si rivela particolarmente significativo: è rappresentata prevalentemente in rapporto al tema “moda/spettacolo” che se associato al tema “bellezza” raggiunge
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5.3. il mito dellA bellezzAdisturbi dell’immAgine corPoreA II contesto culturale nel quale siamo inseriti è determinante per la formazione degli ideali, delle convinzioni e delle aspettative degli individui. Come abbiamo detto i mass media si affermano oggi come una parte molto importante nel nostro quotidiano, sia al livello di socializzazione che di istruzione. Numerosi studi indicano che essi giocano un ruolo importante in quel largo spettro di problemi legati all’immagine corporea negativa, al modo scorretto di alimentarsi e alle pratiche non salutari per il controllo del peso corporeo. “Il mito della bellezza” è un libro pubblicato
nel 1991 dalla scrittrice americana Naomi Wolf, e diventato un best-seller internazionale. Nel suo saggio, la Wolf parla di “mercificazione della bellezza femminile”, argomento che ai tempi sembrò controcorrente, addirittura provocatorio, ma che oggi, a distanza di oltre venti anni, sembra pienamente confermato dalla realtà dei fatti. La tesi risulta quanto mai attuale: l’ideale della bellezza non è qualcosa di naturale ed innato nelle donne, non è scaturito dai loro bisogni e dalle loro inclinazioni, ma è un canone appositamente strutturato e costruito dal mercato per farle sentire continuamente inadeguate ed in difetto, e sfruttare così le loro insicurezze per scopi commerciali. Il mito della bellezza non è altro se non una grande menzogna costruita per necessità economiche. I canoni di bellezza sono mutati ed evoluti molto nel corso dei secoli, ma per la maggior parte delle popolazioni antiche la “bella donna” doveva avere una certa presenza fisica, più o meno accentuata. È a partire dal terzo millennio che la bellezza diventa sinonimo di magrezza e le donne aspirano ad essere sempre più leggere e androgine, fino quasi a sparire. Il cambiamento dello stereotipo femminile arriva insieme al nuovo ruolo della donna che, da madre e moglie, si lancia nella carriera, iniziando a competere con l’uomo sul lavoro, nella ricerca del potere e del successo.
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Se da un lato le lotte per l’emancipazione femminile hanno liberato le donne su tanti fronti, il mito della bellezza le ha nuovamente imprigionate. Il bombardamento mediatico, indirizzato soprattutto alle donne, non fa che proporre corpi seducenti, plastici e perfetti. I protagonisti delle pubblicità, le modelle che compaiono sui giornali e i personaggi dello spettacolo forniscono modelli estetici irrealizzabili per la maggior parte della popolazione (quello della donna perfetta, magra, sempre giovane). La magrezza, esibita, fotografata e photoshoppata, è diventata un imperativo etico. La globalizzazione promuove il modello idealizzato occidentale della donna magra come obiettivo a cui uniformarsi. Essere magre, toniche ed in forma rappresenta l’ambizione di tutte le donne, giovani e meno giovani: tutte aspirano ad un corpo perfetto, in linea con la moda e la tendenza. L’ “essere in forma” è oggi un imperativo categorico, poiché un fisico longilineo, liscio e levigato non dà solo l’idea del bello ma anche dell’essere sano. Oggi, come nel passato, l’immagine della bellezza continua ad essere condizionata dal contesto sociale. E poiché oggi il nostro stile di vita richiede efficienza, dinamismo, produttività e iperattività, la corporeità femminile deve rispondere ai canoni di snellezza, altezza, fino a sfociare nella magrezza eccessiva. Nell’attuale società globalizzata, anche il successo è strettamente collegato all’immagine, un’immagine ben definita dai modelli proposti continuamente dai mass media, intimamente radicati nell’immaginario collettivo e adottati come standard sociali. I messaggi sono indiretti, ma fin troppo chiari: “Se sei magra, puoi essere felice, popolare, avere successo in tutti i campi, dall’amore al lavoro”. L’ideale
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della magrezza, dunque, non assume solo un significato estetico, ma è associato a valori più profondi, all’apprezzamento e all’accettazione sociale. La formula “non si è mai abbastanza ricchi o abbastanza magri” è una vera e propria epidemia che minaccia il benessere mentale di molte persone. Così la donna, anziché coltivare e valorizzare la propria unicità, tende ad aderire passivamente a standard globalizzati, incentrati sull’omologazione dell’aspetto fisico, senza rendersi conto di essere vittima della “sindrome di identificazione con la collettività”, ovvero di una forma di mimetismo estetico, omologato e socialmente compatibile. L’immaginario di femminilità, ma anche di mascolinità, che viene divulgato si basa sui più tradizionali stereotipi di genere e risulta anche fuori tempo rispetto alla realtà attuale. I radicali cambiamenti nella vita femminile degli ultimi decenni vengono raramente raffigurati nei programmi televisivi, si preferisce piuttosto mostrare un ritratto femminile improntato ai rassicuranti ruoli di madre-mogliecasalinga oppure attingere all’immaginario parallelo di “donna sexy”, oggetto del desiderio e dello sguardo maschile. Come abbiamo già detto, nelle arti visive le donne vengono quasi sempre rappresentate come se fossero osservate da una figura maschile (male gaze), uno sguardo che a lungo andare però le donne hanno inconsapevolmente fatto proprio nella realtà. Effetto primario del vivere in una cultura che sessualizza il corpo femminile è il fare propria una prospettiva “in terza persona”, guardare cioè al proprio corpo come un oggetto che può rappresentare in toto la nostra identità: questo è ciò che chiamiamo autooggettivazione, il processo che porta la donna a guardare a se stessa come a un oggetto. Questo continuo e sistematico monitoraggio
del proprio corpo, ha delle inevitabili ripercussioni sulla qualità della vita e sulla salute delle donne: parliamo di sentimenti di vergogna e ansia, dovuti al senso di inadeguatezza di fronte a modelli di bellezza irraggiungibili, basti pensare che nonostante le donne in sovrappeso siano in netta minoranza, la maggior parte dichiara al contrario di vedersi “grassa”; l’ansia poi è quanto mai accentuata dal fatto che alle donne sia richiesta una continua attenzione al corpo, che si traduce in vigilanza sia per l’aspetto fisico, che deve essere sempre curato e il più possibile vicino ad un ideale di bellezza che sia attrattiva per gli uomini, ma anche per la propria incolumità, giacché “l’essere troppo attraente può portare al rischio di subire molestie o violenze”: questo timore infatti è una costante, non quotidiana ma quasi, per tutte le donne; ci sono sicuramente molti livelli di apprensione da questo punto di vista, ma quando ci stiamo preparando per uscire, soprattutto la sera, scegliendo determinati vestiti, un certo tipo di trucco o di scarpe, più o meno tutte abbiamo la sensazione di doverci un po contenere “o magari qualcuno mi da fastidio”. A volte il pensiero compare in maniera molto fugace,
magari addirittura inconscia, e scegliamo di ignorarlo, altre invece è abbastanza pressante da optare per cambiarci d’abito, magari mettendo dei pantaloni al posto della gonna; è così costante che la maggior parte delle volte non ci facciamo neanche caso, agiamo di conseguenza e basta. Da tali livelli di ansia e vergogna derivano poi una serie di conseguenze ben più gravi: si parla infatti di depressione, disfunzioni sessuali e disordini alimentari. La cosiddetta “dismorfofobia”, cioè l’errata valutazione della propria immagine e l’incapacità di valutare in modo oggettivo la propria fisicità, spinge le donne a ricercare soluzioni drastiche a problemi spesso inesistenti ma reali per il loro modo di pensare e percepire se stesse ed il proprio corpo. La dieta sembra essere così la soluzione ad ogni problema, promessa di felicità e successo, che però si rivela presto poco efficace dato che i livelli di peso desiderati sono irrealistici. I modelli estetici femminili, attualmente ritenuti ideali, sono noti anche alle bambine e vengono da queste considerati un
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Valeria Lukyanova (1985), modella ucraina sottopostasi ad infinite operazioni, compresa l’asportazione di più costole, per somigliare sempre di più ad una Barbie.
normale stereotipo da seguire, conforme al proprio tempo e alla propria società. Fin da piccole vengono loro proposte immagini femminili con proporzioni non realistiche, presentate come ideali di bellezza. A cominciare dalle bambole più famose e diffuse, come la Barbie. La fascia più colpita dall’ormai dilagante ossessione della magrezza è quella delle giovanissime, bombardate continuamente dalle immagini della “bellezza a tutti i costi” che la società contemporanea propone in modo ossessivo. Il vedersi sempre sfilare sotto gli occhi veline, showgirls, attrici dal fisico perfetto può produrre profonde reazioni nell’animo di una ragazzina in fase di maturazione. Se un’adolescente è già fragile, la sua insicurezza crescerà di fronte a standard di bellezza e di benessere così alti, ed inizierà a sottoporsi a diete sempre più ferree, fino a non mangiare per trasformare il proprio corpo in quel modello ideale ed ottenere così ciò di cui ha un estremo bisogno: riconoscimento, apprezzamento, attenzione, affetto, amore. L’insoddisfazione per il proprio corpo e la mania della dieta sono cresciute negli ultimi anni con una rapidità impressionante. Le ragazze sono sicuramente le più colpite, ma in realtà quasi nessuna donna riesce a sottrarsi alla dittatura del “più magra più felice”. Un’altra conseguenza della dismorfofobia sempre più dilagante tra le donne è l’abuso di chirurgia Plastica.«Un tempo avevamo l’elisir di giovinezza, oggi la chirurgia plastica. Come dire che l’uomo è sempre all’inseguimento di sogni regolarmente fallimentari»1. Gli interventi realizzabili sono moltissimi, pronti ad assecondare i più svariati desideri di “perfezione” per viso e corpo, mentre la tossina botulinica e le iniezioni di acido
1. Paolo Manetti, I taccuini di Ulisse, 2009
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ialuronico diventano gli alleati di bellezza per sconfiggere i segni del tempo. Ma ciò che fa più riflettere è l’evoluzione della paziente tipo: non sono più solo signore mature che si rivolgono al chirurgo per rimediare ai segni del tempo, ma sempre più spesso sono donne giovani, perfino minorenni, e ancora piacenti che aspirano ad essere ancora più belle. Tra le giovanissime dilaga la moda di farsi regalare per il diciottesimo compleanno o per la maturità un seno nuovo. Poiché gli interventi al seno in età molto giovane sono pericolosi, nel 2012 in Italia è stato approvato un disegno di legge che vieta tali interventi per le donne al di sotto dei diciotto anni. Nel nostro Paese, dunque, si è resa necessaria una legge per porre un freno al crescente fenomeno delle diciottenni che chiedono ed ottengono di sottoporsi a chirurgia estetica del seno. E poi ci sono i casi limite di quelle donne che si sottopongono a decine di interventi di chirurgia estetica per cambiare radicalmente la propria immagine. La chirurgia estetica non è certo da demonizzare, è in effetti di grandissimo aiuto quando un individuo si sente a disagio con una o più parti del proprio corpo, fino a stare male con se stesso o a precludersi delle possibilità, ad esempio nel caso dei transgender, o più semplicemente per una vistosa cicatrice, o un difetto naturale veramente molto accentuato (come può essere un naso esageratamente grande, o gli occhi asimmetrici). Le perplessità sorgono quando si vogliono raggiungere standard di bellezza irraggiungibili e si diventa vittime di una sindrome di identificazione con la collettività, che ci porta a sacrificare la nostra individualità in nome dei modelli omologati imposti dalla società dell’immagine e dell’effimero. Il risultato è che non c’è più nulla di autentico in queste bellezze omologate, quasi seriali:
vere e proprie “bambole” che con la famosa Barbie hanno in comune non solo le forme, ma anche l’artificialità dei materiali. La conseguenza però più gravosa che porta questa distorsione dell’immagine corporea è l’aumento incombente negli ultimi 20 anni di pazienti di anoressia. L’anoressia, che di fatto è un lento suicidio, sta assumendo proporzioni allarmanti in tutto il mondo occidentale, soprattutto tra le adolescenti. In questi ultimi decenni si è notevolmente abbassata l’età minima in cui ha esordio l’anoressia nervosa e si è anche notevolmente esteso il suo campo d’azione. I corpi drammaticamente scheletrici non sono più solo quelli delle top model o delle ballerine, non appartengono solo a nomi celebri, ma sono quelli di ragazze qualunque, quelle che incontriamo al supermercato, in palestra o per la strada. Corpi debilitati che diventano sempre più ossuti e spigolosi, costole che sporgono, gambe e braccia che sembrano bastoni coperti di pelle, volti scavati ed occhi privi di espressione. E sempre un perenne stato di inadeguatezza, di lacerazione, ed un rapporto ossessivo e distruttivo con il cibo, il cui rifiuto corrisponde sempre più ad un rifiuto della propria persona. L’anoressia agisce in modo subdolo, corrode le menti delle più giovani ed è alimentato dalla nostra stessa società dell’immagine. Oggi in Italia circa il 10% degli adolescenti soffre di disturbi dell’alimentazione. Un dato davvero allarmante è che esistono più di 300 mila siti web che inneggiano all’anoressia e alla bulimia ed insegnano tutte le tecniche per non mangiare. Si tratta di una vera e propria istigazione al dimagrimento estremo di cui diventano facili esche soprattutto le più giovani, considerando che i motori di ricerca non effettuano nessun tipo di controllo sui contenuti.
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Isabelle Caro, è una modella francese morta nel 2010, vittima di una malattia durata 15 anni, che l’aveva ridotta a pesare 31 chili. La ragazza aveva accettato il ruolo di testimonial nella campagna choc lanciata da Oliviero Toscani per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana sul dramma dell’anoressia. «Sono pronto alle critiche che qualcuno solleverà’ per la crudezza delle immagini proposte...il paradosso e’ che ci si sconvolge davanti all’immagine e non di fronte alla realtà. Io ho fatto, come sempre, un lavoro da reporter: ho testimoniato il mio tempo»2 «Mi sono nascosta e coperta per troppo tempo: adesso voglio mostrarmi senza paura, anche se so che il mio corpo ripugna. Le sofferenze fisiche e psicologiche che ho subito hanno un senso solo se possono essere d’aiuto a chi e’ caduto nella trappola da cui io sto cercando di uscire...perché la gente sappia e veda davvero, a cosa può portare l’anoressia»3. Ciò che più caratterizza la nostra era è l’attenzione quasi morbosa al corpo: è il corpo al centro dell’interesse e non la persona; non conta tanto essere quanto apparire, all’essenza viene sostituita l’apparenza, alla spontaneità il controllo. Sono dunque i modelli fuorvianti proposti dai media che hanno portato alla ricerca ossessiva della “forma perfetta”. Ma la responsabilità deve essere attribuita alla società nel suo insieme, una società massificata che tende ad azzerare l’unicità dell’essere, la sua individualità e la bellezza della diversità. Il mito della bellezza-magrezza non solo causa gravi danni a livello fisico e psicologico, come abbiamo visto, ma non dà la felicità perché essere felici significa stare bene con ciò che si è. 2. Oliviero Toscani, Tgmagazine, 2007 3. Isabelle Caro, Tgmagazine, 2007
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5.4. il double bind eFFect Riguardo il tema della sessualità si osserva un’altra conseguenza che l’immagine della donna nei media può avere sull’identità personale. Le conseguenze infatti non riguardano soltanto la sfera fisica ed emotiva, ma anche, e forse di conseguenza, quella sociale e lavorativa. «Proprio nelle posizioni di leadership come la politica, è possibile che le donne attuino non una lettura preferita, ma piuttosto una lettura negoziata, ovvero le donne si rendono conto dello stereotipo presente nella rappresentazione mediale e mettono in moto dei meccanismi insieme adattavi ed in opposizione»1.
la loro fisicità per ottenere il massimo successo a livello comunicativo e soprattutto sul piano del discorso. Per soddisfare le aspettative che il pubblico ha nei confronti di una determinata figura professionale viene richiesta, sia agli uomini che alle donne, la costruzione ad arte della propria immagine. Il corpo, che è espressione della propria identità, si deve adattare al ruolo che
Come sottolineato dalla sociologa Donatella Campus, le donne percepiscono che la femminilità nella leadership o al potere è qualcosa di non desiderabile, e sanno che lo stereotipo di genere consiste nel prevedere che le donne non possano «essere decise e sensibili, sicure di sé e affidabili, capaci di comandare, ma anche di comprendere i problemi altrui»1. Proprio per questo motivo le donne, per rivestire ruoli di leadership, per avere successo e credibilità credono di dover assumere tratti e caratteristiche maschili, rinunciando però a lati del loro carattere e femminilità. La sociologa Paula Diehl afferma come i media, amplificando e cogliendo ogni sfumatura, allo stesso tempo impongono ai politici e soprattutto alle donne in politica di preparare una propria strategia per
1. Donatella Campus, L’immagine della donna leader,2010
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una persona deve rivestire, ma per le donne in politica, e più in generale per le donne che aspirano ad una posizione professionale, questo meccanismo diventa ancora più complicato dal momento che viene richiesto di modificare tono di voce, postura ed espressioni seguendo un modello prettamente maschile. D’altronde c’è l’altra faccia della medaglia, secondo Kathleen Jamieson le donne che aspirano a ruoli di leadership e di potere sono sottoposte ad un “doppio vincolo”: Infatti, nel momento in cui le donne rifiutano i ruoli tradizionali e aspirano, invece, a ruoli di potere, assumendo caratteristiche maschili per acquisire consenso e credibilità, vengono allo stesso tempo criticate perché mancanti di femminilità e giudicate troppo mascoline. Questo paradosso è stato studiato per la prima volta nel 1995 proprio dalla Jamieson, ed è stato denominato “Double Bind Effect” (letteralmente “effetto a doppio vincolo”). Proprio a causa degli stereotipi di genere, le donne non possono essere belle e allo stesso tempo delle buone professioniste. Inoltre, le donne non solo vengono criticate perché mostrano degli aspetti e delle caratteristiche maschili e quindi non tradizionali, ma vengono sottoposte anche ad un giudizio e ad uno scrutinio più severo in quanto spesso viene chiesto loro di dimostrare le loro capacità e soprattutto di dimostrare che sono capaci di conciliare il lavoro con il loro ruolo di madre o di moglie. Al contrario, per gli uomini che rivestono posizioni ai vertici non viene giudicata la loro eccessiva aggressività o forza, né tantomeno viene messa in causa la loro capacità di conciliare il lavoro con la sfera familiare. Un esempio che mostra come determinate caratteristiche femminili siano giudicate come “inappropriate” per ruoli di potere, può
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essere il caso dell’ex Ministro del Lavoro del governo Monti, Elsa Fornero. Nel Dicembre del 2011, infatti, il Ministro del Lavoro durante la conferenza stampa per annunciare la non perequazione delle pensioni, inaspettatamente è scoppiata in lacrime a causa dei grandi sacrifici che in quel momento il governo Monti stava chiedendo agli italiani. Le lacrime della Fornero hanno suscitato diverse reazioni, molte delle quali hanno giudicato il ministro come troppo debole e hanno collegato questa sua debolezza e il suo commuoversi al fatto di essere donna. In questo caso, la sensibilità e l’empatia, aspetti che caratterizzano in particolar modo la donna, sono viste come delle caratteristiche da esorcizzare e come non adatte alla vita politica perché sintomi di debolezza e poca determinazione. Le cause del Double Bind Effect vanno ricercate soprattutto nei mass media che tendono a rafforzare il legame tra caratteristiche maschili e professionalità. Le donne sono così implicitamente costrette ad intraprendere un più faticoso percorso di legittimazione che arrivano ad un totale ripensamento del loro corpo e della loro femminilità. Sono necessari dei nuovi modelli di leadership che si oppongano a quelli presenti, caratterizzati da un punto di vista maschile, e capaci di sottolineare il contributo differente ma complementare che una donna potrebbe dare rivestendo ruoli di potere senza rinunciare alla sua femminilità e quindi al suo essere donna.
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5.5. violenzA di genere Per quanto riguarda la violenza di genere, è un argomento tanto delicato quanto vasto, in effetti potrebbe tranquillamente essere un argomento di tesi a se, quindi mi concentrerò soltanto su alcuni fattori in relazione al discorso portato avanti finora. Molti pubblicitari utilizzano immagini di violenza o la connotazione di violenza per creare un “fremito di rischio e pericolo”, perché sono costretti a escogitare sempre più strategie per competere con altre marche sul mercato. È interessante far notare come il “cropping” (metodo che mostra solo specifiche parti del corpo, per oggettificare ulteriormente la persona), in un primo momento destinato solo alla rappresentazione del corpo femminile, ora coinvolga sempre più spesso anche il corpo maschile, concentrandosi su parti come petto e addominali scolpiti. Comunque nonostante questo il bersaglio più usuale di questa strategia rimane il corpo femminile; Jean Kilbourne vede in questo modo di presentare solo alcuni parti del corpo una
tendenza verso la violenza contro le donne: «Le pubblicità non causano una violenza diretta […] Ma le immagini violente contribuiscono allo stato di terrore […] Trasformare un essere umano in una Cosa, in un oggetto, è quasi sempre il primo passo verso la giustificazione della violenza contro quella persona […] Questo primo passo è già stato fatto con le donne. La violenza, l’abuso, è in parte il risultato spaventoso ma logico dell’oggettificazione»1. In un messaggio possiamo distinguere tra violenza simbolica (implicita) e violenza esplicita: «La violenza simbolica è quella violenza che avvia sottomissioni che non sono nemmeno percepite come tali, basandosi su aspettative collettive, su convinzioni socialmente inculcate»2.
1. Jean Kilbourne, Can’t buy my love: how advertising changes the way we think and feel, 2000 2. Pierre Bourdieu, in A. Boschetti, La rivoluzione simbolica, 2003
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Possiamo dire che implicito è ciò che l’osservatore interpreta attraverso le immagini, mentre è esplicito ciò che il messaggio determina a parole. Nella sfera mediatica è molto più presente la violenza simbolica, che si muove nel delicato territorio delle relazioni affettive e della seduzione. Io credo che questo tipo di violenza simbolica sia molto più pericolosa di quella esplicita, perché è una violenza dolce, che ci avvolge e che tendiamo ad idealizzare. Ci sono vari tipi di simboli che si possono trovare nei media, ad esempio le relazioni tra violenza ed erotismo, tra violenza e sesso, tra violenza e bellezza.
categorie (maschile/femminile, uomo/ donna) (si) determina la strutturazione di precise immagini mentali configurate come rappresentazioni socialmente condivise della differenza sessuale»3.
La violenza simbolica può essere esercitata su qualunque persona, uomini, donne o bambini, ma ce n’è un’evidente prevalenza sulla donna. La pubblicità non si limita alla rappresentazione stereotipata del corpo femminile, ma come ho accennato, induce le donne a realizzare una costante “manutenzione” del loro corpo, al fine di adattarsi alle esigenze dello sguardo maschile. «Ogni potere di violenza simbolica, cioè ogni potere che riesce ad imporre dei significati e a imporli come legittimi dissimulando i rapporti di forza su cui si basa la sua forza, aggiunge la propria forza, cioè una forza specificamente simbolica, a quei rapporti di forza»2. Scrive Taurino «distinguendo due
Una donna che voglia mettere la carriera al primo posto invece che l’essere madre, può rischiare di sentirsi meno “femminile”, così come può essere spinta a non scegliere un percorso accademico in ambito matematico e scientifico, dominio stereotipicamente maschile. Sarebbe lecito chiedersi come mai, soprattutto negli ultimi tempi caratterizzati da crisi economica e del lavoro, alle donne è comunque richiesta una scelta tra vita lavorativa e familiare. Come se una mamma, non potesse/volesse gestire lavoro e famiglia esattamente come fa un papà. Sostanzialmente vengono stabiliti quali sono i comportamenti, le aspirazioni
Gli stereotipi di genere sono tra i più frequenti e soprattutto condivisi dalla società: possono portare a una forte «limitazione per le donne, nel pensiero così come nell’azione, poiché vengono influenzate scelte e aspettative riguardanti il futuro» 3; accade così che qualità apprezzabili in un uomo come l’autorevolezza e la competizione, se presenti in una donna diventino motivo di biasimo e discriminazione.
3. Alessandro Taurino, Psicologia della differenza di genere, 2005
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e i ruoli precisi che maschi e femmine devono avere all’interno della società. Come ho già detto, a tutte le donne capita di pensare a possibili molestie o violenze quando si vestono in un determinato modo, ma la cosa più grave è proprio questa: ce lo si aspetta. A causa della continua oggettivazione della donna, molti uomini si sentono “giustificati” (ovviamente in maniera del tutto inconscia) a considerare una donna, soprattutto se molto attraente, un “qualcosa”, e non un qualcuno, su cui possono accampare dei diritti, e nei casi più estremi di loro proprietà. Prendendo un tipo di violenza “mano grave” (che mi si passi il termine) come esempio: se un ragazzo fischia e fa volgari commenti di apprezzamento ad una ragazza che passeggia, sa benissimo che non otterrà risposta e verrà ignorato, come sa quanto risulti fastidioso per la ragazza, quindi non lo fa “per fare un complimento”, come molti sostengono, ma per sottolineare la sua “superiorità” rispetto alla donna, perché lui che è uomo può permetterselo; se un uomo fissa una donna sul treno, in modo piacente, insistente, arrogante, e continua con aria quasi di sfida anche quando si rende conto che lei se ne è accorta ed è ovviamente a disagio, vuol dire che si sente in diritto di poterlo fare, perché in qualche modo il suo ruolo è quello dominante. Questo tipo di molestie sono davvero molto comuni, troppo, tanto che vengono accettate come “stato normale delle cose”; e ribadisco “molestie” perché sono effettivamente tali, non come vengono spesso impropiamente definite “corteggiamento”; la maggior parte delle volte se una donna si lamenta di essere stata molestata con fischi o battute, otterrà risposte come “vabbè esagerata, era solo un complimento, basta ignorarlo che importa?” o “dai ti bastava cambiare vagone no?”; ma ignorare gli apprezzamenti o cambiare
vagone non possono ne devono essere la soluzione. Questo tipo di comportamenti non devono accadere. Perché dovrebbe essere la vittima a cambiare vagone? Perché una donna non ha il diritto di restare seduta al suo posto senza che qualcuno la molesti? Ignorare o sminuire queste situazioni non fa che incoraggiare l’idea di donna sottomessa all’uomo che i media tanto sfruttano e divulgano. Questa mentalità porta in extremis a situazioni di vera e propria violenza fisica, o addirittura al femminicidio. Spesso è un problema anche il modo in cui i media raccontano questi gravi fatti di cronaca, infatti le storie vengono spesso manipolate o distorte, così la donna è vittima due volte. Riguardo questo argomento ho trovato un interessantissimo articolo de “Il fatto quotidiano” che riporto qui: Cambiare il linguaggio per cambiare la cultura. È un appello rivolto ai mass media, ma anche alle istituzioni, alle forze dell’ordine e alla giustizia italiana, quello lanciato dai centri antiviolenza dell’Emilia Romagna, che a Bologna, nell’ambito del convegno “Le parole della violenza”, si sono ritrovati per fare il punto sulle modalità con cui stampa, televisioni, radio e web raccontano dei tanti episodi di violenza nei confronti delle donne che ogni anno si verificano in Italia. Storie di maltrattamenti, abusi pubblici o privati, minacce e omicidi “che troppo spesso – spiega Samuela Frigeri, presidente del Coordinamento dei centri antiviolenza emiliano romagnoli – vengono derubricate attraverso stereotipi e luoghi comuni, che le classificano come raptus, gelosia, amore malato. Che vengono distorte al punto tale da trasformare l’uomo, responsabile della violenza, nella vittima della situazione, e la donna in colei che in qualche modo se l’è cercata”. Un deficit di comunicazione considerato dannoso da chi lotta per contrastare un fenomeno in larga parte ancora sommerso, “poiché favorisce quella stessa cultura su cui attecchisce la violenza contro le donne – sottolinea Simona Lembi, presidente del Consiglio comunale di Bologna – quella del delitto d’onore, dell’uomo capofamiglia che viene umanizzato, che si sfoga sulla moglie, nella cui
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vita si scava morbosamente per individuare aspetti che in qualche modo giustifichino la violenza perpetrata”. E che secondo Luisa Betti, giornalista ed esperta di diritti di donne e minori, “in molti casi è dovuto a un’ignoranza di fondo in materia di femminicidio, che dai mass media è stato ridotto a uxoricidio, cioè il marito che uccide la propria moglie. Ma il termine in realtà comprende anche un aspetto sociologico, al cui interno rientrano tutti gli episodi di violenza privata o pubblica, così come il rischio che alcune donne vivono di poter essere assassinate”. La conseguenza è che il medium, che sia la stampa o la televisione, spiega Betti, “ritorna a trattare questo tipo di violenza come un fatto di cronaca nera isolato, optando per una narrazione morbosa da fiction utile a rendere la storia più appetibile, e minimizzando la gravità del reato”: l’offender, cioè l’uomo che commette la violenza, viene descritto come il “bravo ragazzo”, il “padre premuroso”, che per un raptus di gelosia, un momento di follia, ha ucciso. E la donna diventa vittima due volte: del reato, e poi della narrazione che di quella violenza viene resa pubblica.
“Come accaduto per Sonia Trimboli, strangolata dal fidanzato a Milano, un delitto descritto come un impeto quando in passato lui aveva già provato a strangolarla – cita ad esempio la giornalista e scrittrice Marina Terragni – o per Fabiana Luzzi, accoltellata e poi bruciata viva dal ragazzo di 17 anni, a sua volta dipinto come momentaneamente privo di raziocinio, o ancora Matilde Passa, accoltellata dal marito che poi si è suicidato. Un marito dipinto come depresso, entrato in tunnel da cui non poteva uscire se non uccidendo moglie”. E poi c’è quella “narrazione consolatoria” che descrive il femminicida come un’entità estranea, al di fuori della quotidianità. “Ma anche questo preconcetto è sbagliato e distorce la realtà – spiega Betti – si tende a dare maggiore rilievo agli episodi che vedono come carnefice lo straniero, l’immigrato, o il folle, anche se nell’85% dei casi la violenza contro le donne avviene entro le mura domestiche”. “Il linguaggio attraverso cui si racconta la violenza maschile sulle donne – precisa Frigeri – è un punto fondamentale, quindi, per combattere il femminicidio, perché è il primo passo per cambiare la cultura della società e i media, così come le istituzioni e le forze dell’ordine, in questo hanno una grande responsabilità”. Il delitto d’onore è stato abrogato in Italia nel 1981, “ma è ancora insito nel modo in cui osserviamo la realtà”. Lo sa bene Giovanna Ferrari, madre di Giulia Galiotto, assassinata dal marito appena trentenne, l’11 febbraio del 2009, che per anni ha vissuto quello che ricorda come un “processo calvario, persino peggiore dell’omicidio di mia figlia”. Tanto da raccontare quella terribile esperienza in un libro, intitolato “Per non dargliela vinta”. “Non solo i media, ma a volte anche i tribunali sembrano voler sminuire la drammaticità dei fatti – spiega Ferrari – basta che qualcuno pronunci la parola ‘gelosia’ che si forma un preconcetto, e tutti lo seguono. Per questo serve grande attenzione da parte di chi si trova per primo a raccontare episodi di violenza contro le donne. Oggi finalmente molti tabù stanno crollando, di questo fenomeno si parla sempre più spesso, ed è importante perché è un modo per combatterlo. Ma è necessario che, nel farlo, ci si attenga all’oggettività dei fatti, senza pregiudizi”.
di Annalisa Dall’Oca | 7 novembre 2014
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6.
contrAstAre sessismo e stereotiPi
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6.1. il QuAdro normAtivo in itAliA e nell’unione euroPeA Il potere e l’importanza dei media, da una parte nel costruire schemi di comportamento, dall’altro di rafforzare stereotipi pregiudizievoli per la crescita sociale delle donne, è ampiamente riconosciuto dalle grandi Agenzie Internazionali (Onu, Ue, Consiglio d’Europa). La Risoluzione del Consiglio d’Europa del 1995 concernente l’immagine dell’uomo e della donna nella pubblicità e nei mezzi di comunicazione assume un’ottica propositiva affermando che: «la pubblicità e i mezzi di comunicazione possono apportare un notevole contributo al cambiamento dell’atteggiamento della società riflettendo la diversità dei ruoli e delle potenzialità delle donne e degli uomini, la loro partecipazione a tutti gli aspetti della vita sociale, nonché la ripartizione più equilibrata delle responsabilità familiari, professionali e sociali tra donne e uomini». Questo a patto che promuovano
«un’immagine diversificata e realistica» delle possibilità e delle attitudini delle donne e degli uomini nella società, e attivino misure volte ad eliminare messaggi sessisti o immagini degradanti sia femminili che maschili. Peccato che nella maggior parte dei paesi europei, e soprattutto in Italia, sembra non esserci interesse nel discutere in maniera approfondita l’emancipazione mediatica della donna. Nella ricerca “Donne e media in Europa” svolta da Censis possiamo trovare delle interessanti indicazioni sul perché: «Quello che in molti Paesi europei ha prodotto un serissimo dibattito culturale e normativo, nel nostro paese, al di là di alcuni pregevoli tentativi, appare ancora come un “tema di frontiera” o, peggio ancora, un tema da suffragette nostalgiche di un femminismo ormai trapassato. Stenta in Italia ad affermarsi il principio che una rappresentazione
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“plurale” delle donne, una rappresentazione non offensiva della loro dignità, non volgare, non reificante (cioè che non la riduca sempre e solo ad oggetto sessuale) è un diritto costituzionale, quel diritto per cui nei paesi democratici ogni cittadino ha diritto a non essere discriminato per ragioni di sesso, etnia, convinzione religiosa. A ben guardare, e confrontando le informazioni raccolte nei diversi paesi, si possono individuare alcune tipologie di intervento: • I paesi di “tradizione”: Paesi Bassi, Svezia, Inghilterra, condividono un’antica sensibilità sul tema dei diritti civili. Questo comporta un’inclusione profonda della sensibilità al tema delle pari opportunità uomo-donna negli assetti normativi, nelle politiche di governo, nelle iniziative istituzionali. E il tema delle pari opportunità, essendo declinato in maniera trasversale, prevede “naturalmente” l’attenzione alle rappresentazioni della donna nei media; • I paesi “sempre in lotta”: è il caso della Francia, che da tempo ha maturato sensibilità normativa e un associazionismo civile intraprendente, ma dà l’impressione di combattere una battaglia impari di fronte ad un’offerta aggressiva editoriale e di mercato che non ha troppi riguardi per le donne; i paesi “all’offensiva”: è il caso della Spagna, un caso forse unico che a fronte di una condizione femminile in cui si avverte forte il senso di prevaricazione (non si spiegherebbero altrimenti le numerose campagne di sensibilizzazione contro la violenza domestica alle donne), sta producendo sia a livello nazionale, sia a livello locale una notevolissima produzione di leggi, codici di autoregolamentazione, best practices, per affermare una rappresentazione della donna maggiormente dignitosa e attenta ai suoi diritti, che spazzi via i vecchi stereotipi cui viene riconosciuta esplicitamente la funzione di controllo sociale dell’uomo sulla donna; • I paesi “sorpresa”: la Slovenia è un esempio. A fronte di un grado di sviluppo ancora problematico, manifestano sul piano dei diritti delle donne una consapevolezza imprevedibile; • I paesi “in resistenza”: Italia e Grecia, che pur presentano iniziative significative appaiono “in resistenza”, come se la rappresentazione stereotipata della donna fosse un tratto antropologico fortemente radicato su cui non vale la pena avviare politiche evolutive.».
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Evidentemente, ogni paese europeo ha un approccio diverso a questi temi, e non sembra esserci l’intenzione di usare esperienze, praticate con successo in alcuni paesi, per migliorare la situazione in altri, sensibilizzando operatori della comunicazione e responsabili istituzionali. Dobbiamo ricordare che in Italia, il 29 Novembre 2002 è stato sottoscritto, tra il Ministero delle Comunicazioni ed i rappresentanti Rai, Mediaset e delle altre maggiori emittenti televisive nazionali e locali, il “Codice di Autoregolamentazione sulla TV e i minori”, rivolto ad assicurare il diritto del minore ad essere tutelato da trasmissioni che possono nuocere alla sua integrità psichica e morale, con particolare attenzione e riferimento alla fascia di età più debole (0-14 anni). Le imprese televisive devono impegnarsi a uno scrupoloso rispetto della normativa vigente a tutela dei minori, accogliendo il suggerimento della Convenzione ONU di sviluppare «appropriati codici di condotta affinché il bambino/a sia protetto da informazioni e materiali dannosi al suo benessere» (art.17) Inoltre dal marzo 1985, con la legge n.132, l’Italia ha reso esecutiva la Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, meglio conosciuta come “CEDAW” (Committee on the Elimination of Discrimination Against Women). All’art. 5 la Convenzione riporta testuali parole: «Gli Stati parte devono prendere misure adeguate per: modificare gli schemi e i modelli di comportamento sociali e culturali degli uomini e delle donne, al fine di ottenere l’eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, basate sulla convinzione o della superiorità
dell’uno o dell’altro sesso, o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne». Nell’Articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana comunque, è bene ricordarlo, troviamo l’impegno a contrastare ogni tipo di discriminazione tra i cittadini: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.» È evidente come queste regole siano ampiamente eluse dai media,sia per quanto riguarda i minori che per l’immagine femminile. In effetti in italia ci sarebbe lo “IAP” (Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria), l’ente privato che dal 1966 opera affinché la comunicazione commerciale sia “onesta, veritiera e corretta” a tutela del cittadino-consumatore e per una leale competizione fra le impresed. Si tratta di un sistema di auto-regolamentazione dell’intero settore pubblicitario - imprese che investono, agenzie che la creano e mezzi che la diffondono - che si impegna a rispettare le norme contenute nel Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale. L’Articolo 1 del “Codice di Autodisciplina Pubblicitaria” afferma: «La comunicazione commerciale deve essere onesta, veritiera e corretta. Essa deve evitare tutto ciò che possa screditarla». Secondo lo stesso IAP, sono stati 143 i casi relativi all’immagine della donna, nel periodo 2011-2012. Una frazione davvero esigua
(inferiore allo 0,1%) se messa in relazione con le oltre 100 mila campagne di comunicazione che escono in Italia, ogni anno. Ma l’Italia ha o non ha un problema di pubblicità sessista? Una percentuale di casi inferiore allo 0,1% non è esattamente indizio di un problema, ma per chiarirsi le idee basta considerare una dichiarazione, presa dal rapporto sulla violenza di genere in Italia di Rashida Manjoo, relatrice speciale dell’ONU. Risale al gennaio 2012: «Gli stereotipi di genere che determinano i ruoli di uomini e donne nella società sono profondamente radicati […] con riferimento alla rappresentazione del- le donne nei media, nel 2006 il 53% delle donne comparse in TV era muta; il 46% associata a temi inerenti il sesso, la moda e la bellezza; solo il 2% a temi sociali e professionali.» Per quanto riguarda il CEDAW, nel 2005 si definiva “profondamente preoccupato dalla rappresentazione data delle donne da parte dei mass media e della pubblicità in Italia, ritratte come oggetto sessuale e ruoli stereotipati”, mentre nel 2011 esprimeva il proprio disappunto per il mancato sviluppo di un programma completo e coordinato per combattere l’accettazione generalizzata di ruoli stereotipati tra uomo e donna; ribadiva la propria profonda preoccupazione per la “rappresentazione della donna quale oggetto sessuale e per gli stereotipi” circa i ruoli e le responsabilità dell’uomo e della donna nella famiglia e nella società. Dovremmo forse dedurre che organizzazioni internazionali come ONU e CEDAW siano affollate di visionari? O, forse, le campagne bloccate dallo IAP sono solo una piccola parte del problema? E in cosa consiste realmente il problema? L’unico modo per capirlo è osservare la pubblicità. Tutta, non solo i casi più eclatanti che lo IAP può bloccare.
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6.2. lA censurA Fortunatamente, anche se non capita molto spesso, e parliamo di casi molto estremi, esistono circostanze in cui il messaggio pubblicitario è stato censurato in seguito alle troppe proteste da parte di enti o privati. Nel Nord Europa capita molto più assiduamente rispetto al nostro paese, un esempio è proprio la già citata campagna inglese di “Protein World”, a cui le donne compatte hanno reagito duramente. Rimozione dei manifesti, post-it con controproclami, dito medio alzato, giornaliste dei quotidiani più autorevoli con l’ascia di guerra alzata, manifestazione organizzata ad Hyde Park. L’ “Advertising Standards Authority” (l’agenzia che controlla i contenuti della pubblicità nel Regno Unito ndr) ha affermato di aver ricevuto 216 denunce in cui il messaggio della Protein World è definito «offensivo, irresponsabile e dannoso perché promuove l’immagine di un corpo non sano». Una petizione su Change.org per chiedere a Protein World di rimuovere i cartelloni ha ottenuto più di 51mila firme in 48 ore. Tutt’altro spirito accompagna le polemiche contro la pubblicità dell’intimo “Sloggi”, in Belgio; la campagna si è svolta a ridosso del Tour de France, su cui ironizzava con il gioco di parole “Tour de Sloggi”, con un’immagine belle donne in intimo che andavano in bicicletta. In questo caso assistiamo ad un atteggiamento per così dire “ambiguamente rovesciato”, in quanto di per sé la pubblicità di una marca di intimo può tranquillamente prevedere corpi nudi, o l’esibizione del cosiddetto “latoB”, ma in questo caso la rivolta popolare è scaturita dall’ironizzare su una cosa così sacra, per gli appassionati di ciclismo, come il Tour de France, in modo strumentale e fuori contesto. Questo è
diventato un vero e proprio caso in Belgio, e la pubblicità fu rimossa nel giro di poche ore. Manifestazioni simili si sono avute anche in Italia: da noi le istituzioni si accorgono in ritardo dei messaggi “non etici”, e solo sotto la spinta dell’opinione pubblica; migliaia di attiviste anonime reagiscono attraverso il mail-bombing. Questo non è un atto moralista come ripetiamo da anni bensì significa tutelare le donne, e in particolare le ragazze, da una pressante oggettivizzazione che le ingabbia e castra la loro potenziale realizzazione, obbligandole a seguire il “modello unico”. È questo il caso di una pubblicità apparsa all’inizio dell’estate 2010 sui muri di Roma e impunemente tollerata fino ai primi di luglio, quando una serie di lettere indirizzate a varie testate giornalistiche e un articolo per altro breve che segnalava il caso, pubblicato su “La Repubblica”, hanno risvegliato le autorità dal loro torpore; si trattava del manifesto della bevanda energetica “Shark energy drink”, considerato offensivo e volgare, che mostra, secondo la delibera comunale «rappresentazione del corpo umano in evidenti atteggianti sessuali». Dunque il sindaco Alemanno ha optato per la rimozione (dopo due mesi di affissione), anche perché è stato affisso pressoché ovunque senza autorizzazione. Nella pubblicità vengono ritratti due giovani abbracciati e attaccati ad un armadietto, come quelli delle scuole o delle palestre, e di fianco l’immagine è accompagnata dalla scritta “Tira fuori la bestia”. La scelta è stata accettata pressoché da tutti, e “amplificata” da Lavinia Mennuni, delegata per le Pari Opportunità del Comune di Roma (“cieca” per circa due mesi), che ha dichiarato: «condivido lo sconcerto per 155
la pubblicità di una nota marca di bevande energetiche, gravemente lesiva della dignità delle donne e del significato profondo come quello amoroso, che dovrebbe essere alla base della relazione in una coppia». L’ordinanza parla chiaro:«tenuto conto che detti messaggi recanti la pubblicità della shark energy drink mostrano le rappresentazioni del corpo umano in evidenti atteggiamenti sessuali, considerato che tale campagna pubblicitaria costituisce offesa per la pubblica decenza, altera il decoro urbano e rende improcrastinabile, pertanto, l’adozione di ogni misura utile a prevenire e contrastare tale fenomeno; il sindaco ordina su tutto il territorio comunale la remissione dei manifesti e la copertura delle immagini riproducenti i messaggi pubblicitari indicati nelle premesse». Inutile polemizzare più di tanto sul fatto che non sembra esserci la consapevolezza che una norma del codice penale è stata modificata (grazie alla caparbietà dell’Avvocatessa Tina Lagostena Bassi, 156
protagonista del famoso processo del circeo), secondo la quale lo stupro, da reato contro la “morale” è diventato reato contro la “persona”. Quindi non “atti osceni” (“pubblica decenza” dice l’ordinanza del Sindaco), ma vera e propria istigazione allo stupro, come si evince dalla didascalia: “Tira fuori la bestia”, che accompagna l’immagine. C’è però un problema, che nel nostro paese è particolarmente pressante, ed è che una nicchia riconducibile a qualche migliaio di persone applica il pensiero mainstream a tutto, anche a questi temi. Significa che ogni azione tesa a eliminare gli stereotipi dal Paese viene derisa condannata
o ignorata da moltissimi giornalisti e giornaliste, in nome di un fantomatico diritto alla libertà di espressione, in fine per tutelare la libertà di chi vende un prodotto ad utilizzare campagne pubblicitarie miserabili a scapito della libertà di milioni di giovani donne di crescere libere da stereotipi; vedi ad esempio “fidati…te la do gratis (la montatura)” per vendere un paio di occhiali, o peggio la campagna delle poste italiane, quindi un’ente pubblico, “metti il tuo pacco in buone mani”. Ma di questo problema non si parla mai, la questione viene sempre omessa dai media. Per cui accade che sia normale che un professore, uomo, arrivando in Italia e vedendo uno dei nostri cartelloni tanto denigranti, giudichi in un suo articolo l’Italia come un paese retrogrado1, mentre che qui da noi i giornalisti, non tutti ma la maggior parte, e ripeto quel che è peggio le giornaliste, si divertano attraverso tweet e battute che hanno l’obbiettivo di schernire le attiviste italiane che già da tempo fanno quello che oggi fanno le inglesi; la differenza è che lì sono protette e supportate dai media. A questo si aggiunge il profondo provincialismo di molti media nostrani per cui se sei attivista inglese, o australiana e strappi i manifesti misogini va bene fare un articolo di supporto da mettere in prima pagina, ma se questo accade in Italia…vieni ignorato o etichettato come “moralista”. Inoltre dobbiamo fare i conti con la spesso inconscia mancanza di autostima di donne apparentemente realizzate ma ancora bisognose di ottenere un “riconoscimento maschile” di approvazione, anche se a scapito del rispetto dei propri diritti di donna. Altrimenti come giustificare le molte donne che liquidano con un sorrisetto o un’alzata di spalle le battaglie
per i diritti portate avanti dalle loro simili? Battaglie che non appoggiano ma che spesso portano ad acquisire diritti di cui anche loro beneficeranno. Questo aspetto dell’informazione contribuisce a rendere tutt’ora l’Italia ad una posizione davvero bassa al Gender Gap2, Indice che non viene stabilito da suffragette che odiano gli uomini, ma dal “Forum Economico Mondiale”, dato che quest’indice influenza moto il potenziale economico di un Paese: nella classifica siamo al 71° posto su 136 Paesi (per l’eguaglianza salariale percepita siamo al 124° su 136 paesi, e al di sotto della media mondiale). 2. Il Global Gender Gap Report, introdotto dal World Economic Forum nel 2006, fornisce un quadro che mostra l’ampiezza e la portata della divario di genere in tutto il mondo.
1. Adrian Furnham, Gender stereotypes in Italian television advertisements, University College London, 2009
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6.3. il Web Su Internet milioni di donne in tutto il mondo vengono quotidianamente offese da milioni di incivili che, quasi sempre, vigliaccamente si celano sotto nomi e profili inventati. Non c’è niente di più facile, in Rete, che dare sfogo alle pulsioni sessuali nascoste con la sicurezza di non essere riconosciuti, e ciò accade in entrambi i sensi: da donne che provano piacere nel semplice essere osservate nude, condividendo foto pornografiche, fino a vere e proprie sadiche dominatrici che con amano sottomettere e stalkerare online ragazzi timidi o ex fidanzati. Ma le proporzioni non mentono: la percentuale di donne che racconta di aver subito molestie e abusi sul web è di gran lunga maggiore di quella maschile. Dal rapporto “GISWatch” del 2013 dell’“APC” (Association for progressive communications) sui diritti di genere nell’era della tecnologia dell’informazione, è emerso che i casi di stalking e violenze in rete sono aumentati tanto da superare in percentuale le molestie sessuali sui luoghi di lavoro. Da una recente inchiesta dell’associazione inglese “Girlguiding”, è emerso che il 54% delle interpellate, tra gli 11 e i 21 anni, ha subito una qualche forma di molestia elettronica. Il nemico qui è impalpabile, ma non irreale, e le leggi in difesa delle vittime sono quasi inesistenti. Non è un segreto che Internet nasconda un lato oscuro. Molestie e offese sessiste verso minorenni sono molto frequenti, ma restano impunite per la mancanza di una normativa globale. O, quanto meno, della collaborazione giuridica tra gli Stati coinvolti nelle dispute. 158
Tuttavia se da una parte è nato un ulteriore metodo di umiliazione, dall’altra le donne hanno accresciuto il loro potere grazie alla loro presenza su Internet. Non è un caso che, archiviati i cortei in strada degli anni ‘60 e ‘70, anche le femministe abbiano traslocato sul web, fondando movimenti e gruppi virtuali. Tra i gruppi più attivi per la tutela delle navigatrici ci sono le inglesi di “The everyday sexism project”, che solo nel primo anno, grazie al loro portale multilingue e all’account virale di Twitter, hanno raccolto oltre 30 mila post di denunce di violenze e molestie (non solo nella rete) contro le donne, mettendo in contatto tra loro le comunità online di femministe sparse nel mondo e lanciando progetti in altri 17 Paesi. Sul web spiccano anche il sito delle newyorkesi “feminist.com”, aperto nel 1995 quando Internet era ancora agli albori, e il portale della rete americana “Feminist Majority Foundation”, diventati presto un punto di riferimento per le donne di tutto il mondo. Attraverso Internet le “FemSoc” (società femministe che nascono in ambiti di studio) di numerose università hanno aderito alla campagna online “Who needs feminism”, lanciata negli Usa dalla Duke University per mobilitare i gruppi di femministe alle nuove istanze, anche digitali, della lotta per l’eguaglianza di genere e per la fine degli abusi. All’iniziativa partecipano anche le attiviste della FemSoc dell’Università di Lahore, in Pakistan, dove la condizione femminile è nettamente peggiore rispetto all’Occidente. Il gruppo ha scelto di aderire per «rendere di dominio pubblico i pregiudizi imperanti
sulle donne, e a maggior ragione sulle femministe, nel Paese», consapevole che la loro denuncia su Internet, oltre ad «aprire un dibattito», avrebbe esposto le attiviste anche ad una gran quantità di«molestie e abusi». Durre Sameen Mirza, fondatrice della movimento pachistano, ha raccontato di aver ricevuto «critiche e abusi anche personali», per aver sostenuto la sua causa contro il patriarcato su scala internazionale, offese che dopo le azioni sul web, «sono aumentate, soprattutto attraverso insulti e attacchi verbali su Facebook e Twitter». La maggior parte delle violenze elettroniche infatti, avviene attraverso l’utilizzo dei Social Network, canali esplosi nell’ultimo decennio. Le ragazze inglesi virtualmente molestate (anche più volte), a cui Girlguiding fa riferimento, avrebbero ricevuto: nel 40% dei casi «affermazioni cattive contro di loro», nel 21% «minacce contro di loro»; per un altro buon 20% «commenti sessisti a loro riguardo»; Un 17% non sottovalutabile è stato destinatario di «foto e contenuti sconvolgenti», mentre il 16% si è visto inviare «foto proprie imbarazzanti ad altri»
senza il loro consenso, e il 5% addirittura «foto proprie di natura sessuale ad altri». In effetti la pubblicazione su interne di foto private di nudo, è una questione che riguarda soprattutto le celebrità, ma non hanno forse anche loro un certo diritto alla privacy? E ad ogni modo come possiamo constatare, capita anche a persone comuni. A riguardo si è espressa l’attrice Lena Dunham: «Il modo in cui si condivide il proprio corpo dev’esser una SCELTA. Supportare queste donne significa non guardare quelle foto. Ricordate che quando guardate quelle foto state violando queste donne ogni singola volta». E ancora, definendo chi ha messo online quelle immagini come “sex offenders”, aggiunge: «L’argomento ‘non fatevi foto nude se non le volete online’ è il ‘indossava la minigonna’ del web». Proprio in quanto sostenitrice convinta delle istanze femministe, Dunham sembra adattare la sua lotta contro la distorsione dell’immagine femminile a tempi sicuramente rinnovati. I tempi, ovvero, del digitale, dell’amore che nasce e muore su internet, del sesso che diventa sexting, della diffusione delle idee attraverso smartphone e computer. L’anonimato ha reso più facile la crudeltà, per quanto gli stessi autori stentino a rendersene conto. Lo psicologo della Rete Graham Jones, spiega: «Fisicamente gli altri sono lontani, online cadono i freni inibitori. Inoltre, chi è insicuro è a caccia di reazioni, i feedback alimentano il loro ego. Più che sulle vittime, per lo più ignorate, i molestatori sono concentrati su se stessi». Le ferite però restano anche nella vita reale, non basta spegnere il computer per cancellare la realtà virtuale. Un articolo del network canadese “Feminist in games”, ricorda che le «molestie online non sono una novità. È assurdo combattere ancora una battaglia per convincere la gente del problema».
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6.4. il culture JAmming Il bombardamento mediatico riguardo le donne-oggetto è pressoché onnipresente. Come abbiamo visto uno dei pochi modi che abbiamo per ostacolare pubblicità di questo tipo è denunciarle allo IAP o smuovere l’opinione pubblica sul web. La maggior parte delle volte però questo non è sufficiente, o perché lo IAP non ritiene il messaggio “abbastanza offensivo”, o perché anche se si ha successo e la pubblicità viene rimossa, i media non ne parlano, e la cosa rimane d’interesse di pochi. Una maniera che, soprattutto negli ultimi anni, coinvolge molti allo scopo di sensibilizzare più persone possibili, per quanto non molto consona lo ammetto, è quella del “Culture Jaming”. Il Culture jamming (traducibile in italiano con “sabotaggio/interferenza culturale”) consiste nel compiere atti mirati a contestare i messaggi pubblicitari, e non solo. Lo scopo è combattete le immagini e
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i modelli a cui siamo assoggettati ed il pressante capitalismo, attraverso “capovolgimenti nel sistema mediatico”. Comincia a diffondersi già da fine anni ’70, e consiste nella decostruzione di testi e immagini attraverso la tecnica dello straniamento e del “détournement” (o situazionismo), cioè lo spostamento di immagini e oggetti dalla loro collocazione abituale per inserirli in un nuovo contesto in cui il loro significato cambia, o addirittura si capovolge. Generalmente i messaggi riguardano la critica del sistema economico e della produzione di massa, nel tentativo di liberare l’individuo dal ruolo di ricevente passivo e indurlo a un consumo critico e consapevole del linguaggio dei media. Oggi alcune forme comuni di culture jamming si sviluppano attraverso i flash mob, il graffitismo, il teatro di strada,
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l’hacking (o “cybersquatting”), la design anarchy (cui prendono parte numerosi pubblicitari “pentiti”), o la Sticker Art (veicolare il messaggio attraverso adesivi). Tutti noi siamo indottrinati dai media, al punto di non potere pensare o agire in maniera divergente, l’umanità si sta lentamente tramutando in un gruppo di automi con il pilota automatico a causa della passività che dilaga, siamo portati a riempire i tempi morti assorbendo tutto ciò che ci viene proposto e non ci rendiamo conto di quanto questo induca un fortissimo cambiamento, seppure inconscio, nel nostro modo di pensare o di essere. Compriamo di continuo cose inutili che ci sembrano utili, spendendo cifre esorbitanti per un marchio: questo perché non ci sentiamo adeguati e non sappiamo più scegliere con criterio ed essere ragionevoli. «La pubblicità è il più diffuso e tossico degli inquinanti mentali»1. Naturalmente questo movimento interessa molto anche il femminismo e l’oggettivazione della donna in pubblicità, ormai così onnipresente che la maggior parte di noi difficilmente batte ciglio nel vedere una donna in pose equivoche su un cartellone autostradale. Viviamo in una società che normalizza la pubblicità
1. Kalle Lasn, Culture Jam, 1999
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con la sessualità femminile, e quando un concetto è socialmente normalizzato, la massa la accetta senza protestare. Tuttavia, non tutti sono così inclini al alla cecità di fronte al marketing sessista. Un esempio di Culture Jam femminista, forse uno dei primi, è questa pubblicità della “Fiat” del 1979. La frase “se fosse una signora otterrebbe una pacca sul sedere”, suggerisce che le molestie sessuali sono la norma se si è in presenza di donne attraenti; se sei bella ti verrà toccato il fondo schiena, è così che va il mondo. Sembra però che una donna fosse in disaccordo con l’accettazione delle molestie sessuali come normale comportamento quotidiano, infatti risponde scrivendo “se questa donna fosse un auto ti schiaccerebbe”. Tantissimi femministi e femministe contemporanee stanno seguendo le orme di questa signora anonima. Dopotutto, dagli anni ’70 ad oggi la pubblicità non è migliorata poi tanto. Come abbiamo già visto è stata oggetto di questo fenomeno anche la già citata campagna di “Protein world”, e insieme a lei moltissime altre. Un Culture jammer newyorkese ha recentemente “trattato” con una campagna pubblicitaria della birra “Stella Artois”, che paragonava le belle donne alla bella birra. L’annuncio era caratterizzato da un uomo ben vestito che guardava con desiderio una donna elegante e attraente che beveva un calice di birra, il tutto su uno sfondo bianco.
Tra i due c’era il logo Stella e il testo, “she is a thing of beauty” ossia “lei è una cosa bella”. L’hacker pubblicitario anonimo ha semplicemente cancellato le parole “of beauty”, così che si leggesse solo “lei è una cosa” (forse il messaggio più preciso data l’immagine). Se si insiste sulla norma culturale secondo la quale le donne devono essere guardate e “consumate” allo stesso modo di una birra, stiamo effettivamente riducendo le donne da esseri umani a prodotti. Raffigurare un uomo che guarda una donna e un birra allo stesso modo, con le stesse intenzioni (il suo piacere personale) - può essere un modo davvero pericoloso di fare pubblicità. Non dimentichiamo che viviamo ancora in una cultura in cui i corpi delle donne sono spesso considerati proprietà di chiunque li desideri. Annunci come questo non aiutano. Si possono osservare molti esempi di donne che trasformano uno spazio pubblico che le abbatte in Immagini Sociologiche, anche attraverso la Sticker art. Non molto tempo fa aveva preso piede attaccare la frase “This Insults Women” su manifesti con donne che appunto insulta la sensibilità femminista. Ci sono però molti altri esempi sulla stessa linea, come il manifesto irlandese per la “special K”: l’annuncio originale incoraggia le donne a mangiare Special K per “risplendere” nei loro costumi da bagno perché, come tutti sappiamo, c’è solo un modo per avere un bell’aspetto in un costume da bagno, e richiede una seria riduzione di calorie, qualunque sia la vostra dieta è ora. La fem-jammer dichiara: “Hey ciao ragazza Special k, soche tu pensi che dovrei stare a dieta così da essere magra come te, ma il fatto è che io credo di essere favolosa esattamente come sono, inoltre Special K ha il sapore del cartone, so piss off ”. È bello vedere che c’è una tendenza all’essere saturi dell’uso di sex appeal femminile, e che ci sia una resistenza pubblica.
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6.5. il Potere delle PArole (Chiedo scusa in anticipo per la terminologia scurrile, ma necessaria)
Le parole veicolano dei messaggi, il fatto di usarne alcune piuttosto che altre fa passare determinati messaggi. Basti pensare a tutte le volte che si dice “una donna con le palle”, che è un’espressione quotidiana, usata da tutti, ma se ci soffermiamo ad analizzare l’affermazione, stiamo dicendo che una donna per essere forte deve avere un attributo maschile, come se la forza ed il coraggio non possano che appartenere agli uomini. Un’altra espressione male utilizzata a causa degli stereotipi è “Troia”, in realtà termine volgare e denigrante per definire le prostitute, che però viene spesso usata su una donna che abbia un qualsiasi comportamento ritenuto “moralmente scorretto”, non necessariamente di natura sessuale. Se una donna commette uno sgarbo, spesso viene apostrofata come “Troia”, anche se l’appellativo più corretto, volendo essere volgare, sarebbe “Stronza”. Perché non la usiamo potendolo fare? Esiste. In realtà siamo così tanto abituati a sessualizzare in maniera negativa la figura femminile che alla fine le due parole diventano sinonimi. L’uso sbagliato del linguaggio e delle parole è un problema molto forte, che a livello di ricezione del messaggio fa una differenza enorme. L’anno scorso ci fu un caso mediatico che fece molto scalpore in Italia, soprattutto per come venne trattato: quello di Emmanuel Chidi Namdi. Nelle Marche un ragazzo Nigeriano fu 164
ucciso con percosse da un razzista. Il fratello di questo assassino venne intervistato, testimoniando che suo fratello «quando vede un negro, tira le noccioline: ma perché lui è così, è un allegrone». Ora, se tu tiri le noccioline quando passa un nero, non sei un allegrone, sei un razzista. Quasi tutti i giornali l’hanno apostrofato come ultrà; bé, quando ammazzi una persona di botte perché è nera, non sei un ultrà, sei un razzista. Qualcun altro ha detto che era un ultrà di estrema destra, ma quando militi in certi partiti e uccidi una persona per il colore della sua pelle, non sei un ultrà di estrema destra, sei un razzista ed un fascista. Non dobbiamo avere paura delle parole, perché se non usiamo quelle corrette depotenziamo il significato, lo facciamo passare in secondo piano, come se non fosse poi così grave. E ancora, lo scorso anno durante la messa in onda di una puntata della serie televisiva “Le regole del delitto perfetto”, sono state censurate alcune scene di sesso, ma non tutte, solo quelle che riguardavano due personaggi omosessuali. Il popolo di internet ha fatto una vera rivoluzione su Twitter, e la Rai ha dichiarato che avrebbero rimandato in onda la puntata senza i tagli, giustificando la scelta come un “eccesso di pudore”. Si potrebbe chiamare pudore se fossero state tagliate tutte le scene di sesso; avendo censurato solo le scene tra due uomini, mentre non c’è stato problema nel mostrare quelle tra un uomo e una donna, non si può definire pudore, questa si chiama omofobia. La parola “pudore” sminuisce la questione. Anche volendo ritenere, che si sia trattato effettivamente di pudore, censurare
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scene di sesso, sarebbe stato comunque ridicolo, in quanto non si mostrava quasi nulla, erano adatte alla prima serata; ma tutto questo non è ridicolo, è pericoloso, perché non è pudore, è omofobia. Dobbiamo smettere di nasconderci dietro parole sbagliate solo perché sono più comode. Usare una terminologia corretta è fondamentale o si rischia non solo di depotenziare il messaggio, ma di stravolgerlo, trasformando ad esempio un atto omofobo in un’azione guidata dal pudore. Naturalmente tutto ciò vale anche per concetti positivi. Oggi l’aggettivo “femminista” sembra quasi una brutta parola, che si ha paura di usare, specialmente per gli uomini. Personalmente trovo ridicolo il pensiero che nel XXI secolo gran parte degli uomini sia maschilista, perché obbiettivamente non è così, anzi; ma è la società, nel suo insieme, ad andare verso quella direzione. Ormai il concetto di parità di genere sta
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sempre più prendendo forma, ed i singoli individui lo condividono, e se presentano alle volte atteggiamenti o tratti maschilisti, probabilmente è al livello inconscio a causa di un’antica e radicata concezione dei ruoli, per questo così difficile da cambiare; lo dimostra il fatto che ci sono ancora moltissime donne ad avere atteggiamenti sessisti e discriminatori, sia verso gli uomini che verso le stesse donne, nonostante si dichiarino per la parità. Tuttavia se una persona, non una donna, una persona, crede nella parità di genere, questa è femminista; se io credo che uomini e donne debbano avere stessi diritti e stessi doveri, che non ci debbano essere favoritismi o pregiudizi determinati dal sesso, io sono femminista. Perché si hanno remore nel dirlo o ammetterlo? È la definizione più corretta. Usare le parole è fondamentale sia per ridare valore ad un termine, sia quando queste servono per condannare fortemente un’azione. Perché il cambiamento ha inizio dalle parole e dal linguaggio che decidiamo di utilizzare.
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conclusione 167
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Facendo un bilancio del lavoro svolto, spero di aver realizzato gli obbiettivi che mi ero proposta quando ho iniziato questo progetto, ovvero dimostrare quanto i mass-media influenzino il nostro modo di pensare, e quanto potenti e indistruttibili siano gli stereotipi proposti. Sono potenti perché, come già detto, innestano un circolo vizioso dal quale è difficile uscire e trasmettono una visione del mondo statica e distorta allo stesso tempo, in cui la donna risulta sempre sottomessa all’uomo, in un modo o nell’altro. Il problema non è solo il corpo della donna, ma anche l’ideologia e il modo di essere che le viene attribuito. Tant’è che se ricorriamo alla prova di commutazione, sostituendo negli stereotipi femminili la donna con l’uomo, quest’ultimo apparirebbe un “cretino”. Il problema sta proprio in questo: perché non sembra anormale e grottesca anche la donna? Perché l’essere “cretina” è di per sé una caratteristica considerata femminile, quindi non appare fuori contesto. La verità è che non ci sarebbe nulla di sbagliato nel mostrare la frivolezza dell’essere umano, anche degli uomini, come non ci sarebbe nulla di male nel potersi mostrare in modo individuale ed essere se stessi. C’è però una sostanziale differenza tra essere “in parte” frivolo, professionale o emotivo ed essere “esclusivamente” frivolo, professionale o emotivo. La pubblicità racconta esclusivamente un tipo di uomo ed esclusivamente un tipo di donna, contribuendo così ad ingabbiare entrambi e limitando l’affermazione sociale soprattutto del genere femminile. Non c’è nulla di male nel mostrare, ad
esempio, una donna che cucina o una donna con un atteggiamento che esprime disponibilità sessuale; c’è molto di male se diventano praticamente gli unici due modi di raccontare le donne. È questione di quantità, di misura. Questi stereotipi a cui siamo costantemente sottoposti inoltre, sono assolutamente
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idealizzati e lontani dalla realtà. Quanti uomini nella vita reale hanno davvero il successo del prototipo che ci viene ostinatamente proposto? E quante donne hanno la bellezza eterea dei modelli televisivi? L’ “ideale” di uomo e di donna che ci viene presentato è estremamente distante dalla realtà, ma nonostante questo, o forse proprio per questo, ne siamo attratti come falene da una luce nel buio. Paradossalmente questi stereotipi che continuiamo a rincorrere senza sosta, alla fine non vengono quasi mai raggiunti; continuiamo tutti ad inseguire un’ideale utopistico, cercando di conformarci ad una massa che è costantemente alla ricerca di qualcosa di tanto irraggiungibile quanto inutile, nonché lesivo. Difficile anche immaginare una legge che possa davvero proteggere da qualsiasi tipo di stereotipo. Occorre aumentare la consapevolezza sulle responsabilità sociali che ha chiunque si occupi di comunicazione mediatica. Serve diffondere un’autentica cultura ed etica della comunicazione.
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«Nel momento in cui un inserzionista qualsiasi compra spazi pubblicitari sui giornali, sui muri, sugli schermi, alla radio o altrove, egli diviene di fatto – nel bene e nel male – un operatore culturale. Non più soltanto produttore di automobili o bevande, ma anche diffusore di idee, commentatore, opinionista, istruttore, propagandista, divulgatore di principi e di visioni del mondo. Un inserzionista che sia minimamente consapevole della bomba che ha comprato e che adesso stringe tra le dita dovrebbe farne un uso oculatissimo» (Pasquale Barbella, copywriter) «Tutti noi che per mestiere usiamo i mass media contribuiamo a forgiare la società. Possiamo renderla più volgare. Più triviale. O aiutarla a salire di un gradino» (Bill Bernbach, copywriter) Stiamo parlando di concetti che i veri professionisti del nostro settore hanno ben chiari, se così non fosse non potrebbero definirsi tali…Il potere delle parole non va sottovalutato.
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