Womanhood - Progetto grafico Tesi di Laurea Triennale

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A feArless indomitAble Womanhood. A feArless indomitAble rAce. - William Rooney -


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Sommario 4

donne e media in itaLia Intervista a Loredana Cornero Segretaria Generale Comunita Radiotelevisiva Italofona a cura di Elide Achille

70 -un SondaGGio GenerazionaLe...

Stereotipi di genere e Femminismo di quarta generazione a cura di Sara Potente

82 FeminiSt FiLm theory 14 iL racconto deLL’anceLLa

Se l’utero fosse propietà del governo? La distopia di Margaret Atwood. a cura di Sara Potente

aLiaS Grace

Dopo “Il racconto dell’ancella”, un’altro romanzo della Atwood diventa una serie tv. a cura di Tech Economy

26 L’invenzione deLLa viriLità Intervista a Sandro Bellassai a cura di Edoardo Albinati e Barbara Bertoncin

Hitchcock Preferisce le bionde? a cura di Sara Potente

100 Stereotipi

e puBBLicità Tra immaginario e realtà a cura di Sara Potente

114 iL Gender Gap deLL’inFormazione

“Di che tipo è la presenza delle donne nel sistema di vecchi e nuovi media? Perché le donne vengono interpellate quasi sempre come testimoni e quasi mai come esperte?” a cura di Silvia S. G. Palandri

GaeLa Bernini: L a Scienza deve pervadere

42 coco

Un film sull’accettazione a cura di Sara Potente

La Società

a cura di Silvia S. G. Palandri

ict- Le donne non Sono adatte! Intervista doppia a Giovanna Pezzuoli e Luisella Seveso a cura di Tech Economy

52 50° anniverSario 1968 L’infrangimento dei tabù a cura di Sara Potente

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130 Suzanne Lacy

Arte-identità-femminismo. a cura di Sara Potente


142 La vioLenza SuLLe donne

raccontata dai maSS media? Troppi stereotipi a cura di Annalisa Dall’Oca

148 carrie FiSher

16 citazioni - Un’icona femminista a cura di Sara Potente

164 La donna araBa nei media

“Tra aspettative tradite e nuove opportunità” a cura di Sara Potente

178 tv - una cattiva maeStra? I “due mondi” a confronto a cura di Sara Potente

190 Storie

di SeSSiSmo Quotidiano Dal “sei più carina quando sorridi” al “lavoro adatto a una donna”... a cura di Sara Potente

210 eventi


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che c’è di più duro d’unA pietrA e di più molle

dell’acqua?

eppure lA molle

AcquA scAvA lA durA pietrA - Ovidio -

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Donne e media in Italia Intervista a Loredana Cornero Segretaria Generale Comunita Radiotelevisiva Italofona a cura di Elide Achille

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Veline, letterine, troniste e, ultime arrivate, velone. Per ogni età, in Italia i media hanno costruito uno stereotipo all’interno del quale rinchiudere le donne. Stereotipi supportati da una cultura che si ispira alle immagini da televisione e gossip. Un mondo in cui l’apparire prevale sull’essere. Ma in Italia, c’è una coscienza critica che si sta facendo lentamente strada, grazie all’azione di giornaliste, scrittrici, filosofe, ma anche di donne normali che lottano, nel loro piccolo, per proteggere la propria femminilità dai modelli che i media impongono violentemente. Donne come Loredana Cornero (Rai, Relazioni Istituzionali e Internazionali, Segretaria Generale della Comunità Radiotelevisiva Italofona, Presidente Gruppo Donne COPEAM). Abbiamo discusso con lei, cercando di capire quali sono i più radicati sterotipi, quali conseguenze potrebbero portare e come costruire una nuova immagine prevalente per le donne italiane, più vera e rispettosa.

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W Attualmente quali sono gli stereotipi femminili prevalenti in Italia? Gli stereotipi prevalenti oggi in Italia sono quelli veicolati in particolar modo dalla televisione e dalla pubblicità che usano il corpo delle donne come oggetto. Una delle caratteristiche principali che definiscono la cultura della comunicazione attuale è espressa dalla evidente forzatura che viene esercitata nella rappresentazione di genere. La riduzione dell’immagine femminile alle stereotipate caratteristiche fisiche ed attrattive sessuali interessa ormai diversi media. Ma questo non diminuisce le responsabilità della televisione. Quello che la televisione rappresenta e rafforza ogni giorno è ”un modello” più che semplicemente un’immagine femminile. Le donne, questo ci dice la televisione, per lo meno quelle giovani e belle, trovano normale usare il proprio corpo e l’ammiccamento erotico continuo come un mezzo per “arrivare”.

Ci può fare alcuni esempi? Alcuni spettacoli televisivi, usano ragazze giovani, belle e magre come arredamento della scena, senza che abbiano un ruolo o la possibilità di fare alcunché. Molte pubblicità utilizzano il corpo delle donne, spesso discinto, per lanciare nuovi prodotti. L’ammiccamento e la volgarità sono fin troppo spesso presenti. Ci viene detto con frequenza quotidiana su giornali e tv che le giovani italiane da grandi vogliono fare le veline, che è la loro massima aspirazione, che di studiare non hanno voglia, ma soprattutto dato che sono belle e giovani, non ne hanno alcun bisogno.Ovviamente non è così nella realtà. Qual è l’effetto stereotipi?

di

questi

La rappresentazione della donna in Tv influisce sia sull’autopercezione delle donne stesse, che sulla percezione che delle donne hanno gli uomini, e in particolar modo i minori. E guardando anche a questo va sottolineato che in genere l’immagine delle donne che la televisione propone, in particolare nell’intrattenimento e nella pubblicità non può certo essere considerata positiva per un equilibrato sviluppo dei giovani.L’effetto è travolgente soprattutto sulle giovani generazioni. Ragazze ma anche ragazzi, prendono ad esempio le giovani che vedono in TV e cercano di imitarle, perdendo così la stima ed il rispetto di se, e spesso rasentando la malattia, come l’anoressia o la bulimia. Inoltre l’esempio che arriva da queste ragazze usate in pubblicità ed in televisione come

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puro arredamento arriva anche ai bambini, ai ragazzi che identificano il loro immaginario femminile in quelle espressioni costruendo un’immagine distorta di tutto il genere femminile. Esistono delle leggi che proteggano le donne nella rappresentazione mediatica delle donne? Proprio in questo periodo la Rai sta firmando un nuovo contratto di servizio all’interno del quale sono state inserite, a fronte di una grande campagna e di numerose pressioni di vari gruppi di donne che da tempo lavorano su questi temi, molte clausole per migliorare la rappresentazione femminile in televisione, lavorare per il superamento degli stereotipi e aumentare i modelli femminili rappresentati in televisione. Non dimenticando di aprire spazi informativi sul ruolo e la presenza delle donne nella nostra società e sulla lotta alla violenza sulle donne. Ovviamente bisognerà vigilare affinché tutto questo non rimanga solo sulla carta. Ci può dare la sua opinione sui cosidetti “corpi femminili” presenti nella nostra società? Forse è arrivato il momento di fermarci a riflettere su quante siano in Italia le giovani donne tra i

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20 e i 30 anni e quale percentuale sia quella che ci viene presentata come la quasi totalità delle aspiranti veline. Credo che sia l’ora di chiarire che ci sono moltissime giovani donne che studiano, e che da grandi vogliono diventare astronaute o magari missionarie, scrittrici o Segretarie Generali dell’ONU; giovani donne che lavorano con successo e professionalità in posti anche di rilevo, ma di cui nessuno o quasi nessuno parla. Ed è quindi alle giovani donne che è importante rivolgersi, a quante si interessano a questi argomenti, a quante sono disponibili a farsi carico di un tema che ci riguarda tutte e in maniera così fondamentale. È la cultura o la politica responsabile dell’immagine delle donne nei media? Di certo la televisione è uno dei luoghi di produzione dei valori sociali ma è anche vero che non è essa ad inventarli né è essa la detentrice di un potere trasformatore illimitato. L’Italia, lo confermano le statistiche, è al sessantaduesimo posto nel mondo per rappresentanza femminile nelle istituzioni. E con il suo 17,3% di donne a Montecitorio e il 13,7% al Senato, e’ ben lontana dalla maggior parte dei Paesi scandinavi dove la presenza di donne nelle


istituzioni supera abbondantemente il 30% e, nel caso della Svezia, e’ al 47,3%. Anche i dati relativi all’informazione televisiva segnano il passo nella nostra televisione. Prendendo spunto dai primi risultati del GMMP 2010 (Global Media Monitoring Project) i principali temi dei notiziari vedono le donne presenti nei servizi di cronaca nera al 31%, ma nei servizi di politica la 3% e in quelli di economia allo 0%. Le donne sono presenti al 50% per raccontare le loro esperienze, ma solo il 22% dei soggetti delle notizie sono donne per scendere al 7% nel ruolo di esperte. Ci sono però dei casi in cui le donne superano gli uomini. Sono per esempio il 48% quando vengono raccontate come vittime, contro il 15% degli uomini. E per il 23% vengono identificate con il loro ruolo familiare contro il 6% degli uomini. Come si può migliorare? Ci può dare degli esempi positivi? Credo, anzi sono certa, che migliorare sia possibile, anzi si debba. In Italia stanno lavorando proprio sulla rappresentazione femminile nei media moltissimi gruppi che hanno identificato in questo aspetto uno

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"Le donne sono presenti al 50% per raccontare le loro esperienze, ma solo il 22% dei soggetti delle notizie sono donne, per scendere al 7% nel ruolo di esperte."

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dei temi centrali della situazione di grande anomalia presente in Italia. Un esempio è senza dubbio il grande successo che ha avuto il documentario di Lorella Zanardo “Il corpo delle donne” che partito in sordina sul web è diventato un po’ il simbolo di questo cambiamento. E poi l’associazione “Donne e media” e la costituzione del gruppo “Parie dispare” che si sono mosse proprio per una diversa rappresentazione della femminilità sui media, Francesca e Cristina Comencini che, insieme ad altre artiste ed intellettuali hanno realizzato uno spettacolo teatrale dal titolo “Libere”. Con il Gruppo Donne della COPEAM stiamo organizzando

per settembre la presentazione in anteprima nazionale dei dati del GMMP, giunto alla sua quarta edizione sulla rappresentazione delle donne nell’informazione e anche del toolkit “Screening Gender” finalmente tradotto anche in italiano, per dotare tutte noi anche di uno strumento concreto che ci aiuti nella formazione, perché crediamo che sia giusta la denuncia, importante la ricerca, ma che ci debba essere anche un momento formativo per le/gli operatrici/ori del mondo della comunicazione per creare un argine ad una rappresentazione femminile nei media che lede la dignità delle donne e ne sottrae la realtà e preoccupate per la crescente quantità di episodi di violenza contro le donne in Italia.

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tutte le Storie AmbientAte nel futuro in reAltà pArlAno del presente. - Margaret Atwood -

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Raccon

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SE L’UTERO FOSSE PROPIETÀ DEL GOVERNO? LA DISTOPIA DI MARGARET ATWOOD

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nto Ancella dell’

a cura di Sara Potente

Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!». Giacobbe s’irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?». Allora essa rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io una mia prole per mezzo di lei». Così essa gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei. Genesi 30,1-4

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W The handmaid’s tale è una serie televisiva americana della MGM Television. La serie è tratta dall’omonimo romanzo distopico del 1985 di Margaret Atwood (“Il racconto dell’ancella” in italia). Le idee conservatrici sull’aborto e sulla questione di genere vengono portate all’estremo, fino ad un punto di non ritorno. In un futuro non troppo lontano, il regime totalitario cattolico di Gilead governa gli ex Stati Uniti. Tra le donne si è diffusa in maniera esponenziale l’infertilità, dovuta alla contaminazione ambientale indotta dalla guerra e considerata una sorta di punizione divina. La società è organizzata in modo gerarchico e militarizzato ed è pervasa dal fanatismo sociale e religioso, l’unica cosa che importa è la procreazione a tutti i costi. Alle donne all’improvviso è vietato, per legge, lavorare, possedere beni, controllare denaro o leggere. Qualsiasi cosa possa distrarle dall’unica ragione per cui vale la pena vivere: i figli. Tutto questo ha portato alla rieducazione, alla schiavitù e allo sfruttamento delle poche donne fertili rimaste: le Ancelle. Assegnate alle case dell’élite dominante, le Ancelle devono sottomettersi al sesso ritualizzato con i comandanti e le loro mogli sterili. Il loro destino è procreare e, per adempiere a questo imperativo biologico, ogni mese sono costrette a prendere parte alla cerimonia: il loro stesso stupro. Un sesso ritualizzato e nauseante compiuto tra le gambe delle mogli dei comandanti – sulle loro gonne – mentre queste le tengono per i polsi e i loro mariti assolvono all’atto meccanico. Tutto in nome di un mondo migliore, come sottolinea Fred Waterford:

«Migliore non vuol dire mai migliore per tutti. Quasi sempre vuol dire peggiore per alcuni.»

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“Pensi che le donne non debbano lavorare? Consideri l’aborto omicidio? Gli omosessuali sono abominio? Fare figli è un imperativo biologico? Credi che gli uomini debbano prendersi cura delle donne e proteggerle perché sono fragili? Se la risposta è sì, a Gilead ti sentirai a casa tua.” Margaret Atwood

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Quello di Gilead Potrebbe definirsi assolutismo patriarcale. Comandano e sottomettono eppure non possono più avere impulsi, desideri o debolezze. Non possono amare perché l’amore è solo un’illusione nata per giustificare la lussuria, questo vale anche per gli uomini dei ceti sociali più bassi che spesso non meritano neanche una moglie. Poi ci sono gli Occhi, uomini addetti a sorvegliare tutto, e di denunciare eventuali scorrettezze, e quando necessario facndo sparire le persone o uccidendole in pubbliche esecuzioni. Le impiccagioni sono così frequenti da far parte dello sfondo cittadino, quasi in ogni inquadratura, fino a farlo apparire normale come vedere un ponte o un albero. Le Ancelle possono passeggiare solo in coppia, assuefatte dall’orrore in cui vivono. La spiegazione la possiamo rintracciare nelle parole della Zia (incaricata di “educare” le ancelle) che incontriamo nel pilot:

«Ragazze, so che questo vi sembrerà molto strano, ma una cosa “normale” è solo un qualcosa a cui siete abituate. In questo momento potrà non sembrarvi normale, ma dopo un po’ di tempo lo diventerà.» 21


L’oppressione non appartiene solo al regime o agli uomini, ma è anche quella delle donne sulle donne. Le vessazioni delle mogli sulle Ancelle, che devono procreare per loro, e sulle Marte, che sono solo serve sterili nelle loro case. Delle Zie sulle Ancelle, che con la loro educazione punitiva ne controllano la morale secondo la legge, arrivando a torturarle e mutilarle. L’oppressione delle ancelle sulle altre ancelle. La misoginia femminile sembra una maledizione senza perdono, di sicuro è tra le cose più difficili da ammettere. Si tratta di misoginia interiorizzata dalle donne ed è forse la più pericolosa, quella che manda avanti il sessismo più viscerale, quello che poi risulta essere il più radicato nelle coscienze e ovviamente il più complicato da estirpare. Parliamo di quel sessismo quotidiano che si fa quasi fatica a riconoscere, quello introiettato, diffuso come pane quotidiano, digerito e accettato. Per questo

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molte donne (e non solo nella distopia) non sanno riconoscere in sé stesse quegli stessi meccanismi che le limitano e le discriminano. Il cast, quasi tutto femminile, è di un talento rigenerante. Elisabeth Moss (la Peggy di MadMen) con la sua lotta tutta interiore che affiora a ondate silenziose; gli occhi spersi e azzurrissimi di Ofglen/ Alexis Bledel (la Rory di GilmoreGirls), che rendono il suo personaggio indimenticabile; Moira/Samira Wiley (la Poussey Washington dietro le sbarre di Orange Is the New Black) che ho adorato dal primo istante. Grazie a loro The Handmaid’s Tale è anche una storia di amicizia e solidarietà, di gesti minuscoli e commoventi. La regia è di Reed Morano, al suo semi-esordio, il risultato è assolutamente brillante, insieme alla fotografia di Colin Watkinson, fatta di luce fortissima fuori e di ombre scure dentro le case, sui volti. I cromatismi che sono come poesia, ci mostrano la


famiglia e degli interessi – delle cose. Ora sei una cosa tu stessa, non puoi amare, non puoi desiderare e non hai neanche più un nome, non hai diritti, non puoi dire no. Sei un’incubatrice, un destino biologico, una vittima di stupro, una schiava. Una cosa. Identificarsi con Offred è facile, perché non è un’eroina, ma una donna spaventata che ha perso tutto e vuole solo resistere, sopravvivere a questo incubo e riabbracciare la propria figlia. Non è la più coraggiosa e neanche la più giusta, ma ti ritrovi a tifare per lei e a condividerne la frustrazione. In un mondo che prova a spersonalizzarti, ogni piccolo gesto diventa ribellione e salvezza: un pezzo di cibo lasciato vicino al cuscino, sfiorare le dita di qualcuno, un biscotto sputato nel lavandino o pronunciare il proprio nome. Una partita a scarabeo, una rivista di moda o una frase in latino maccheronico incisa di nascosto nel legno, dentro un armadio: Parole che all’inizio non sai decifrare. Da guardare stesa per terra per aiutarti a sopravvivere. Una frase che forse è costata la vita a qualcuno.

bellezza e la fascinazione delle cose inconfessabili e perturbanti. L’angoscia è la sensazione persistente che accompagna la visione di questi primi sei episodi, perché la dura verità è che non sembra un futuro così impossibile. Il pilot di The Handmaid’s Tale si apre con il suono delle sirene e un inseguimento, una fuga disperata che viene interrotta, ma che in realtà non finisce mai. Fugge Offred, anche se dice sì signora, anche se è immobile davanti alla finestra; insegue i ricordi dove riprende forma, spazio e respiro perché la realtà è insopportabile. Un nuovo governo proibisce il suo nome e tutte le altre parole che la definiscono e che permettono ai sogni e ai desideri di esistere. Offred non è un nome, significa of-Fred (di-Fred), la qualifica come proprietà di qualcuno. Prova a immaginare: prima eri una donna, avevi un lavoro, delle amiche, una

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“Non lasciare che i bastardi ti calpestino.” Quel centimetro sicuro dove rifugiarti, dentro una canzone che non sentirai mai più, nell’odore del caffè che non potrai più bere, nei corpi che non potrai toccare, nei libri che non potrai più sfogliare, nelle amiche che non potrai riabbracciare. Uno degli aspetti fondamentali è il linguaggio, le parole vengono svuotate di significato, censurate e sostituite, perché le parole creano e distruggono e controllano il mondo. Quello che non ha nome non esiste, sembra sul serio sparire diventando peccato. Una donna non è più vittima di stupro, ma una provocatrice che se l’è meritato (niente di familiare?), una lezione impartita da Dio. Le Ancelle sono speciali, hanno un dono, partorire per le mogli dei Comandanti della Fede è un privilegio, una fortuna. Gli uomini non possono essere sterili, le donne che si amano sono traditrici del proprio genere e le chiacchierate innocenti diventano un noioso ripetersi di frasi rituali sul tempo e sempre sia lodato e blessed be the fruit. Proprio perché le parole sono importanti ma non sempre le etichette sono necessarie, apro una piccola parentesi sulla polemica “serie femminista sì o no?”. Durante la seconda ondata femminista, i romanzi di Margaret Atwood furono presi come esempio di femminismo. Lei all’epoca rifiutò la definizione di “scrittrice femminista” temendo che l’etichetta l’avrebbe vincolata al movimento in tutte le sue sfaccettature. Tutto questo si ripete con il lancio della serie: sia la Atwood che l’attrice e produttrice Elisabeth Moss hanno rilasciato un’intervista su Vanity Fair dove mettono in chiaro il rifiuto della definizione “serie femminista”. Una posizione discutibile che suscita e continuerà a suscitare molte polemiche, ma mai come questa volta sarebbe meglio concentrarsi su tutto il resto. Questa serie è per tutti, andrebbe vista da chiunque, e se definirla femminista può allontanare tutta quella fetta di pubblico che è ancora inchiodata all’idea del femminismo per cui le donne odiano gli uomini, allora non chiamiamola “serie femminista”. In questo futuro distopico, non vince nessuno, non davvero. Gli uomini comandano, ma sembra che abbiano perso tutto quello per cui vale la pena vivere e sono schiavi delle stesse leggi che hanno creato. Nessuno è veramente libero. Facciamo che i romanzi della Atwood non sono femministi e prendiamo per buona che anche la serie TV non lo sia. Questo articolo è femminista. Le ultime parole del romanzo:

Ci sono domande?


Alias Grace Dopo il successo di The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella) è il turno di un altro romanzo di Margaret Atwood: Alias Grace (L’altra Grace) diventa una serie TV. Coproduzione canadese-statunitense (Cbc e Netflix) online dal 3 novembre, Alias Grace è una miniserie da sei episodi sceneggiata da Sarah Polley e diretta da Mary Harron. Una storia incentrata sulle donne che sono la proiezione di fantasie maschili. A Grace non è mai stato permesso di essere reale. Alias Grace è liberamente ispirata a fatti realmente accaduti: Grace Marks è una celebre (presunta) assassina dell’Ottocento, imprigionata nel 1843 – a soli sedici anni – per una condanna di duplice omicidio ai danni di Thomas Kinnear e Nancy Montgomery. Per il crimine commesso viene processato e impiccato lo stalliere James McDermott, che confessa e accusa Grace di essere stata l’istigatrice, mentre lei sostiene di non ricordare nulla dell’accaduto. Dopo anni trascorsi in manicomio, viene rinchiusa nel carcere di Kingstone. Attraverso una serie di dialoghi e un rapporto epistolare con il giovane medico Simon Jordan (Edward Holcroft), conosciamo la storia di Grace: il passato, i traumi, i lutti e i suoi pensieri, anche quelli che cela di proposito al dottore. «Lei è due, nessuna e centomila, oggetto delle morbose fantasie altrui. Interpretata come un quadro o una poesia oscura quando ormai la verità si è persa e nessuno puòrivendicarne il senso. Grace non ha niente da perdere e cerca solo di sopravvivere, di non concedere agli altri di esercitare più potere di quello che già possiedono.» Non è padrona di sé stessa anche se resta sempre fedele ai propri principi. In quanto figlia, donna, domestica o moglie, Grace è sempre di qualcuno. La desiderano, la vogliono, la usano e la studiano come si farebbe con un animale esotico o con un’attrazione del circo degli orrori. Grace non appartiene a sé, come nessuna donna della storia. Ha le mani degli altri addosso e dentro, nelle profondità della sua mente. Le stesse mani di chi dice di volerla capire, guarire e amare e invece la fa a pezzi. Non la lasciano mai in pace, vogliono guardarla, fare teorie e decidere cos’è, perché ha commesso quell’omicidio o perché non può averlo fatto. A nessuno interessa davvero la sua storia di vendetta o sdoppiamento, ma quel fragile equilibrio tra il bene e il male. Ci serve avere un giudizio netto, sapere cosa è giusto e cosa sbagliato, perché le sfumature ci confondo come gli incubi in cui si perde l’orientamento. «Una storia, quando ci sei nel mezzo non è una storia, è confusione: un fragore indistinto, un andare alla cieca, tra vetri rotti e schegge di legno; come una casa che vortica in una tromba d’aria, una nave che si schianta contro gli iceberg o precipita giù per le rapide, e nessuno a bordo può fermarla. È soltanto dopo che diventa una storia, prende una forma, quando la racconti, a te stessa o a qualcun altro.» Impossibile da non menzionare, seppur brevemente, la parte sull’amicizia tra Grace e Mary Whitney. Due persone diverse che si avvicinano e stringono un legame autentico e spontaneo che non può più essere spezzato, finendo per farsi promessa e monito. Un gioco da ragazze: una buccia di mela a formare una spirale e la lettera J, la finestra che Grace scorda di aprire, l’anima intrappolata che sussurra e il velo nero che svela anziché nascondere. Una sottana rosso sangue, rossi i capelli e rosso il filo con cui Grace cuce le trapunte che raccontano la storia delle donne. «Grace impara la lezione da tutte le donne sul suo cammino, quella di Mary Whitney e Nancy Montgomery. Una lezione che le permetterà di sopravvivere fidandosi solo di sè stessa.» La miniserie truecrime è brevissima e assolutamente godibile, è costellata da quelli che possiamo considerare i temi atwoodiani: l’amicizia tra donne, la questione femminile, la discriminazione sociale, gli studi psichiatrici, il potere del patriarcato, l’aborto (quello clandestino) e il concetto di identità. La narrazione alterna passato e presente, creando un ottimo ritmo e alleviando il fastidio che normalmente provocherebbe un numero così alto di flashback. L’equilibrio di scrittura, regia e montaggio, rendono Alias Grace un ottimo prodotto seriale e una nuova stella nel firmamento di Netflix.

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l A natura hA strAne leggi, mA lei, Almeno le rispettA. - Leo Longanesi -

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L'invenzione della virilita'

Intervista a Sandro Bellassai a cura di Edoardo Albinati e Barbara Bertoncin

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I movimenti sulla questione di genere, hanno costretto gli uomini a fare i conti con il proprio essere maschi; un lutto, quello per il potere perduto, non ancora elaborato; la violenza come reazione a una libertà femminile con cui non si riesce a fare i conti; la totale autoreferenzialità del desiderio maschile; la fiducia nelle nuove generazioni. Intervista a Sandro Bellassai, storico, professore di Storia contemporanea. Tra le sue pubblicazioni c’è La mascolinità contemporanea, e L’invenzione della virilità. È membro dell’associazione “Maschileplurale”. A partire dagli anni Settanta, le donne, ponendo la questione di genere, hanno costretto anche gli uomini a pensarsi in quella chiave, cioè a interrogarsi sul proprio essere maschi. Gli uomini hanno sempre fat to resistenza a questa rot tura. Penso ci siano diversi motivi. Il primo è che perdura, nel senso comune, l’equivalenza “genere uguale donne”, quindi, ogni qualvolta parliamo in chiave di genere, tut ti pensano immediatamente che stiamo parlando di qualcosa che riguarda le donne. Ma c’è una ragione più antica e profonda che riguarda la storica identificazione degli uomini con il neutro, cioè con un sogget to che pretende di non avere specificità, di essere, cioè, universale. Che poi è una carat teristica di tut ti i sogget ti, fra virgolet te, dominanti. Si trat ta di una dinamica che ha riguardato lo stesso femminismo statunitense, un femminismo -come hanno fat to notare le donne nere- che era fat to di donne bianche. Di nuovo, la “bianchez za” era scomparsa in quanto at tributo del sogget to dominante. Gli at tributi del sogget to dominante si rendono, o tentano di rendersi, invisibili. Si trat ta di un privilegio della posizione del potere. Il che spiega, secondo me, anche una cer ta resistenza maschile a pensare la mascolinità in quanto genere. Non è

soltanto questione di dover spiegare all’uomo che i generi sono più di uno. Gli uomini sono af fezionati all’impersonalità, alla neutralità, prerogative della posizione di potere. Quella operata dai movimenti delle donne a par tire dagli anni Sessanta - in Italia piut tosto negli anni Set tanta - è stata per tanto una rot tura radicale, politica, che col tempo ha investito un po’ l’intera società. Oggi non sono solo gli uomini impegnati, militanti, a riconoscere un cambiamento: nel senso comune è ormai sempre più dif fusa l’idea che anche gli uomini siano un genere. Pensiamo solo ai cambiamenti che ci sono stati nei ruoli familiari, parentali; oggi si parla molto dei “nuovi” padri e di un nuovo rappor to con i figli e le figlie, con l’infanzia. Nelle generazioni cresciute negli anni Cinquanta e Sessanta gli uomini delegavano il lavoro di cura e di educazione alle donne. Oggi gli uomini rivestono nuovi ruoli, e non soltanto perché le donne glielo chiedono, ma anche perché ci tengono, sentono una risonanza, qualcosa di buono, che arricchisce la loro vita. Oggi, fuori dagli asili, dalle scuole si vedono un sacco di uomini, di padri. In un radio-documentario di radio3 di qualche anno fa, nell’ambito di una trasmissione sulla gravidanza, il par to, la genitorialità, una puntata era stata dedicata specificamente ai padri. Uomini normali che raccontavano, tra l’altro, di come, dopo aver accompagnato i figli e le figlie all’asilo, un paio di volte a set timana se ne andassero al bar con altri padri e si ritrovassero a parlare di pediatri, pannolini, malat tie... Uomini che rivendicavano un coinvolgimento emotivo come qualcosa di assolutamente naturale, di cui anzi andare orgogliosi. Riappropriandosi insomma di una sfera emotiva che invece è sempre stata problematica per gli uomini. Già ai tempi dei primi movimenti emancipazionisti, di fronte alla minaccia della femminiliz zazione del

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W maschio, della femminiliz zazione dell’intera società, c’è stato anche un rilancio del virilismo, che nella storia italiana abbiamo visto culminare durante il fascismo. Ecco, l’impressione è che quel virilismo, pure se scomparso come modello egemonico, sia soprav vissuto in un modo informale, molecolare. È così. Questa è un’evoluzione che possiamo osser vare in molte dinamiche di potere, anche a livello macro. Pensiamo al colonialismo: se prima c’era un esplicito rappor to di dominio con cer ti popoli, con cer te zone del mondo, per cui il saccheggio, lo sfrut tamento, la rapina si fondavano e giustificavano sulla base di una qualche forma di superiorità, in un secondo momento, non è che il saccheggio e la rapina siano terminati, però è come se non si potesse più legit timarli aper tamente in modo gerarchico. È come se fosse venuta meno la dicibilità di questa gerarchia, ma non la sua sostanza. È una de-istituzionaliz zazzione: non è più possibile ergere tut to questo a norma, a regola fondativa dell’ordine sociale, però nel profondo, informalmente, questo l’at teggiamento continua. Stesso discorso per il virilismo che, seppur in forme diverse, naturalmente, soprav vive. Negli anni Sessanta e Set tanta, il virilismo classico, trionfale, di cui il fascismo rappresenta l’acme, probabilmente è mor to, nel senso che non è più possibile, da un cer to momento in poi, af fermare che le donne sono inferiori biologicamente. E tut tavia forse non è stato ancora sepolto (il funerale è il rito che consegna al passato e permet te l’elaborazione del lut to). Il genere maschile non ha ancora elaborato il lut to del potere perduto, di quel potere trionfale, indiscusso. In qualche modo siamo rimasti in mez zo al guado. Dobbiamo fare i conti con un mondo che è cambiato, in cui non puoi più dire “torna a casa a far la calza” (o meglio lo puoi anche dire, ma vieni considerato un retrogrado). Però, nello stesso tempo, non c’è ancora una vera uguaglianza, una vera parità, perché quelle ragioni che spingevano gli uomini a difendere la gerarchia, il dominio, il piedistallo del potere nei confronti delle donne, sono ancora tut te lì. E riguardano la paura maschile delle donne, l’incapacità di pensarsi in un ordine repubblicano e non monarchico. Tut to ciò ancora non è stato elaborato da par te degli uomini e quindi, ogni tanto, la frustrazione, l’angoscia, la paura maschile, but tata fuori dalla por ta, rientra dalla finestra.

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Il fenomeno della violenza contro le donne può essere interpretato in quest’ottica? Esat tamente. Quante volte leggiamo sulle cronache: lei lo lascia e lui la ammaz za. È come se gli uomini non riuscissero a fare i conti con la liber tà femminile. Stiamo vivendo in una fase storica assolutamente nuova: nella storia dell’umanità non era mai successo che si creasse, almeno in Occidente, uno scenario in cui la liber tà delle donne fosse un dato acquisito, in via di principio o di fat to. Ecco, gli uomini come fanno i conti con questa liber tà delle donne? Maluccio, secondo me. Alcuni meglio, alcuni peggio, ma insomma, in generale, i discorsi pubblici non sono ancora fondati su questa novità. È come se mischiassero il vecchio e il nuovo, cioè ancora una volta cercano di rispondere a esigenze maschili, sot terranee, magari inespresse, silenziose e forse inconfessabili, di rassicurazione. E pare che l’uomo si senta rassicurato solo se riconosciuto superiore.

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W Questo spirito di dominio e di superiorità non è più maggioritario, ad esercitarlo sono rimaste delle specie di guardie armate di una rivoluzione virilista che si occupano di fare il lavoro sporco: i maltrattamenti, lo stupro. Resta il dubbio che quel lavoro sporco venga fatto anche nel nome e a vantaggio di una maggioranza silenziosa di uomini politicamente corretti. Insomma, l’uomo medio, che pure sembra avere formalmente accettato la parità e non si sognerebbe mai di ricorrere ai vecchi argomenti, finisce però per incassare il dividendo dell’azione estrema, violenta, compiuta da coloro che continuano a sottomettere le donne. Ogni qualvolta accendiamo la televisione o apriamo una rivista o giriamo in strada in mez zo a questi enormi car telloni pubblicitari, ci imbat tiamo nella rappresentazione, esibizione, esposizione spet tacolare del corpo delle donne: il che, tra l’altro, è un fenomeno soprat tut to e tipicamente italiano. Ecco, questo non è altro, probabilmente, che una maniera obliqua e indiret ta per ricacciare le donne indietro. Non a caso, il fenomeno ha avuto inizio

negli anni Ot tanta, cioè al termine di un decennio in cui le donne avevano ot tenuto delle conquiste epocali.È come se, non potendo più dire: “Torna a lavare i piat ti”, potessi però dire: “il tuo valore come persona coincide soltanto con la desiderabilità del tuo corpo”. Naturalmente, questa desiderabilità chi la stabilisce? Chi è l’arbitro? Lo sguardo maschile! Quindi, ancora una volta, la posizione dominante cacciata dalla por ta rientra dalla finestra. Un tale sistema simbolico viene sostenuto non solamente da una piccola minoranza di uomini; rappresenta piut tosto la logica dell’ordine sociale, dell’ordine culturale in cui viviamo. Tra l’altro, in questo fenomeno non c’è solo la riduzione delle donne a ogget to, c’è anche l’altra par te del discorso: e cioè, che ef fet to ha questo tipo di comunicazione sul desiderio maschile? A me pare che incoraggi una dinamica del desiderio predatoria, di tipo proprietario. Tut to questo, secondo me, ha a che fare con la violenza sulle donne, nel senso che ne prepara il terreno. In Italia, ogni anno, hanno luogo nove milioni di prestazioni sessuali. Va bene, parliamo sempre di una minoranza della popolazione maschile, ma è una minoranza molto, molto ampia. Nella testa degli uomini è per fet tamente possibile, anzi, è forse la cosa più desiderabile, che tu possa fare sesso con una donna che non vuole fare sesso con te. Questo è un dato comune sia alla violenza sessuale che alla prostituzione. Quale tipo di piacere si prova con una donna che sai benissimo che, in quel momento, non avrebbe nessuna voglia di fare l’amore con te? Tut to si riduce al tuo ombelico. Siamo di fronte a un’autoreferenzialità del desiderio paz zesca. Cer to, poi, magari chiedi di recitare, a maggior gloria del maschio, ma la dinamica è quella. Allora, per rispondere alla domanda, anche questo, accanto al fenomeno dell’esposizione mediatica del corpo delle donne, ci dice di una cultura politica complessiva che ancora non ha fat to

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i conti con uno scenario in cui la liber tà e la dignità dei sogget ti sia dav vero paritaria ed ef fet tivamente conseguita. Colpisce che l’unico erotismo che non indebolisca il maschio, che non lo femminilizzi, sia quello violento, brutale. Viene da chiedersi: l’attrazione o la necessità della violenza è esclusivo appannaggio del maschio? In par te sì, secondo me. Se guardiamo alla storia culturale, noteremo che la violenza, nella sessualità, ha avuto anche una funzione, per così dire, “reintegrativa”. Dobbiamo considerare che il contat to con il corpo della donna, l’intimità con la donna, è sempre stato descrit to come un passaggio che indebolisce l’uomo, che lo depriva, lo svuota, lo sviriliz za. Allora è come se, aggiungendo un di più di violenza, tu “riviliriz zassi” quello scenario, come se la violenza fosse il trat to tipico maschile, la dimensione naturale della virilità; l’unica emozione che l’uomo virile può permet tersi senza sentirsi sminuito è infat ti la rabbia. L’addizione di virilità dovrebbe quindi esorciz zare e reintegrare la perdita subita nel contat to con la donna. Questo riguarda anche le dinamiche profonde del desiderio maschile. In passato ho condot to una ricerca sulla Legge Merlin. Mi interessava vedere come veniva costruito discorsivamente lo scenario del sesso, della prostituzione, dal punto di vista del desiderio maschile. Ecco, anche nei discorsi tenuti in Parlamento, c’è un fiume di rappresentazioni che parlano della donna come di una “mantide”, di una “ape regina”. Cioè una donna che at traverso l’at to sessuale si raf for za, cresce, mentre l’uomo si infiacchisce, si intristisce, deperisce...È curioso come in questo immaginario baleni una straripante potenza femminile e una fondamentale debolez za maschile.

con il proprio corpo. Ma allora il corpo maschile è qualcosa di sporco, qualcosa che contamina, che lascia un marchio, un segno di sporcizia, di peccato, di vizio, sul corpo della donna. Cioè il corpo maschile visto come arma, sostanzialmente. Io credo che crescere considerando il proprio corpo come un’arma impoverisca moltissimo l’esperienza degli uomini. Il corpo dei maschi poi è anche un corpo silenzioso. Il corpo delle donne parla: con le mestruazioni, senti e ascolti il tuo corpo che si modifica. E poi c’è tut ta una cultura che impone alle donne di sor vegliarsi, di essere costantemente at tente al pelo, alle unghie, al capello, al neo, al brufolo... Le donne sot topongono il proprio corpo a uno scrutinio incessante. Invece, quello degli uomini è un corpo invisibile, silenzioso, che non parla mai. Noi uomini spesso ci accorgiamo del nostro corpo solo quando stiamo male. Altrimenti io get to la mia identità maschile al di là dell’ostacolo, cioè al di là del corpo.

Il che chiama in causa anche il rapporto che gli uomini hanno con il proprio corpo... Negli anni Novanta, nella ex Yugoslavia, abbiamo assistito allo stupro etnico, guidato dall’idea di contaminare le donne del nemico. Di contaminarle

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W Il rifiuto di riconoscere la fragilità del proprio corpo mi fa pensare a quanto le immagini maschili normalmente proposte come modello siano irraggiungibili, e dunque ansiogene. Rispetto ai modelli di vero maschio proposti dal virilismo classico, l’uomo comune è sempre impotente, perdente. Sono assolutamente d’accordo. Questo tipo di approccio al maschile ha aper to riflessioni anche su quest’ambito, cioè su cosa accade tra maschi, su cosa succede nei mondi maschili. Pensiamo, per esempio, all’esercito, allo sport. Anche laddove ci si ritrova esclusivamente tra uomini si costruisce la mascolinità, la virilità, inoltre si parla di donne ed è lì che si creano le norme, si raf for zano e si riproducono. La vulnerabilità di cui parlavi è parte dell’essere umano, cioè nessun essere umano è invulnerabile, ma è come se noi uomini fossimo chiamati ad amputare tut ta questa par te di umanità e quindi di incer tez za, di paura, di debolez za, perché non è conciliabile con la posizione del comando. Questo è qualcosa che

“È un po’ come la favola del re nudo: a un certo punto il bambino dice: “Il re è nudo” e da lì in poi nessuno può più far finta di niente.” impoverisce moltissimo le vite degli uomini e io credo che il cambiamento di cui parlavamo all’inizio venga anche dal fat to che negli ultimi decenni sempre più uomini hanno iniziato a chiedersi: “Ma chi me lo fa fare?”. Tu vai anche nelle scuole a parlare di questi temi. Che riscontri hai con i ragazzi? Nelle scuole in genere parliamo della violenza maschile par tendo dagli stereotipi, dai ruoli. Non si trat ta di proporre un modello buono contro un modello cat tivo, tantomeno di fare un discorso moralistico, e cioè: le donne si devono rispet tare, devi essere gentile, devi, devi... Tut ti questi discorsi non avrebbero nessunissima ef ficacia, dal punto di vista pedagogico, nella relazione formativa. È molto più interessante guardare questi ragaz zi negli occhi e provocarli proprio sulla questione dei modelli: “Ma tu, che pensi di essere libero, che la tua identità sia il frut to delle tue

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scelte, dei tuoi bisogni, sei proprio sicuro che sia così?”. “Non è che c’è un conformismo dell’essere maschi a cui tu, senza neanche render ti conto, adereisci giorno dopo giorno?”. Un conformismo dif ficile da incrinare perché continuamente rinfor zato nel gruppo dei maschi, che, soprat tut to a quell’età, è impor tantissimo. Il sociologo statunitense Michael Kimmel dice che il gruppo maschile funziona come una “polizia di genere”, gli uomini si sor vegliano gli uni con gli altri per vedere se accavalli la gamba, per controllare il tono della voce, la postura. Insomma, è come se ci fosse una specie di “buon costume” della virilità. Tut to questo riduce lo spet tro delle esperienze possibili degli uomini, delle soddisfazioni possibili e, forse, anche della felicità possibile. È come se la par te umana, fragile, a volte spaventata, dovessi tenerla dentro di te, come un segreto. A me spesso viene in mente il tallone di Achille. È come se noi uomini, come genere, vivessimo esat tamente in quella situazione: nessuno deve scoprire il segreto che noi siamo esseri umani come tut ti gli altri. Tornando ai ragaz zi devo dire che, rispet to a quando ho cominciato, registro delle reazioni sorprendentemente positive. Intanto è come se loro, su alcune cose, sapessero già di cosa stiamo parlando. La consapevolez za di sé in quanto genere, da par te degli uomini e da par te dei ragaz zi, è cresciuta, è più dif fusa. I ragaz zi che spiegano di avere un rappor to diverso con la loro fidanzata non è che sono marginali, sono anche dei leader, all’interno del gruppo, quindi sono uomini che potrebbero tranquillamente ricavare dei vantaggi dall’abbracciare il compor tamento opposto. A Reggio Emilia è in corso un proget to di lungo periodo su queste tematiche e alcune amiche mi segnalavano come nelle famiglie ad esempio di migranti, dove magari il padre non c’è, perché lavora altrove, o perché c’è stata una separazione; ecco, mi dicevano che in qualche modo te ne accorgi, nel senso che questi ragaz zini sono più ricet tivi a un discorso meno or todosso, più eretico, che prova a decostruire un cer to maschile autoritario e pomposo. A par te questo, io comunque sono ot timista. Venuti meno i modelli tradizionali la costruzione dell’identità di genere è diventata una sorta di bricolage molto individuale. In questa revisione del maschile, non c’è il rischio di buttar via anche cose buone? È una questione che non bisogna sot tovalutare. Qualcosa di buono nel modello tradizionale c’era. Quello che è meno buono, dal nostro punto di vista, è il sentirsi bene soltanto nella posizione del dominio, della purez za, della invulnerabilità, eccetera. Nella mia esperienza posso dire che, nel momento in cui fai questo salto, è come se non tornassi più indietro. È un po’ come la favola del re nudo: a un cer to punto il bambino dice: “Il re è nudo” e da lì in poi nessuno può più far finta di niente. Intendiamoci, io non sono fanatico di un politicamente corret to a tut ti i costi, sempre e ovunque. Nella mia vita personale posso anche essere disposto a impersonare alcuni ruoli, in determinate situazioni; la cosa impor tante è prenderla come un gioco, poter entrare e uscire a piacimento nei ruoli e quindi sconsacrarli.

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E la cavalleria, ad esempio, si salva o è legata irrimediabilmente a un’idea della donna come soggetto debole, da difendere? Anche qui, secondo me, dipende; se il gesto cavalleresco viene compiuto a par tire da una decostruzione, allora è un gioco dai ruoli intercambiabili, che oggi faccio io, ma domani puoi fare tu. Qui entra in campo anche l’eterna questione della dif ferenza tra l’at teggiamento pubblico e quello privato, cioè di come poi ef fet tivamente ci si compor ta nel privato. Ho tante amiche femministe, anche del femminismo degli anni Set tanta, le quali, ormai, si sono rassegnate; hanno dei mariti, dei compagni che, sì, qualcosina hanno fat to, ma ormai hanno sessanta, set tant’anni, e non li smuovi, per cui, alla fine, restano le donne a fare tut to, la spesa, cucinare, stirare... Il maschio, al limite, si of fre di “aiutare”: anche questo è sintomatico, cioè, quello è il tuo ruolo in quanto donna, dopodiché io “ti aiuto”. A un cer to punto, devi fare una scelta.Per me la relazione ha anche un ambito politico, ma non per questo deve essere trasformata in una specie di laboratorio bolscevico in cui si met te sot to il microscopio ogni minuto della tua esistenza, per carità! Dopodiché, nella tua relazione d’amore, ma anche negli spazi amicali, nella società in generale, accorgersi di cer te dinamiche e sot toporle ad analisi critica, magari con un piz zico di ironia, che non guasta mai, secondo me, è già un lavoro politico... Tornando alla domanda, in ef fet ti mi rimproverano spesso di parlare solo male della storia del maschile, come se fosse stato tut to un disastro. C’è da dire che nelle mie ricerche mi sono concentrato sulla par te peggiore del maschile, che però è stata anche quella più influente, quella che, alla fine, ha condizionato, formato, modellato le mentalità, i valori, le regole, gli spazi possibili di liber tà. Mi hai fat to venire in mente un episodio. Durante il ser vizio militare, ho avuto la for tuna di incontrare, fin dal primo giorno, un mio conterraneo. Ne è nata un’amicizia bellissima. Negli anni ci incontravamo

quando tornavo in Sicilia e una volta, prima di ripar tire alla fine delle vacanze, mi invitò a casa sua: doveva travasare del vino, che andava però ancora lasciato riposare in bot te. Per farla breve mi disse: “Poi ti do una bot tiglia, così te la por ti”. Invece, non mi ricordo cosa successe, probabilmente anticipai la par tenza, insomma, ci salutammo per telefono e niente. L’anno dopo, al ritorno, quando l’ho rivisto, aveva la bot tiglia in mano. Dopo un anno, si era ricordato. Ecco, queste sono cose del maschile che mi piacciono: cer te dinamiche dell’amicizia, questo af fet to che si esprime magari un po’ più ruvidamente, però con una grande generosità, anche con una grande passionalità. Per il resto, faccio fatica a rispondere alla domanda, perché secondo me non esiste niente di tipicamente maschile, e nemmeno di tipicamente femminile, se non la capacità di procreare. Il resto, è tut to inventato. Alla fine, cosa vuol dire essere maschio? A par te il fat to di avere dei genitali di un cer to tipo? E come la met tiamo con l’essere omosessuale, eterosessuale, polisessuale? I bambini nascono e crescono con un’esperienza del piacere che è panica, cioè totale, non indiriz zata. Dopo, impariamo che esiste l’az zurro e il rosa, anzi lo impariamo molto presto, e incaselliamo tut to. Noi parliamo la lingua che abbiamo trovato, e la parliamo anche nei desideri. Io so però che è una finzione, una rappresentazione, cioè che è tut to un teatro, non è proprio così in natura, però è così nella società, nel mondo in cui vivo. C’è un ipervirilismo che non si manifesta come soggiogamento del femminile, come dominio, ma come totale rifiuto del femminile, come pura comunità omo-sociale, omo-erotica. Io vedo anche queste dinamiche legate a un’angoscia maschile, cioè a un at teggiamento reat tivo. Non a caso l’esclusione delle donne è un fenomeno che si raf for za proprio a fine Ot tocento, quando comincia la grande paura dell’emancipazione femminile, della liber tà delle donne. Ci sono studi, per esempio, sulla moltiplicazione delle confraternite negli Stati Uniti. Lo storico Michael Grossberg ha spiegato come i riti iniziatici di questi gruppi met tano in scena un

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W nuovo venire al mondo dei maschi in cui finalmente le donne non abbiano alcun ruolo. Una specie di espropriazione, nei confronti delle donne, del loro grande potere, che è quello di generare. Tu capisci che c’è un grande orientamento misogino dietro tut to questo; c’è un nemico da cui difendersi; non a caso le donne venivano viste, in qualche modo, come le amaz zoni che stanno invadendo lo spazio pubblico. Prima della Legge Merlin, i bordelli erano considerati, paradossalmente le ultime cit tadelle maschili. In fondo le prostitute non erano esat tamente donne o comunque non contavano, diciamo così; come modello di donna erano talmente eccentriche e talmente fuori dai confini civili che non rappresentavano una minaccia per la virilità, anzi la raf for zavano. Per questo, nel 1958, l’approvazione di questa legge, da tantissime logge maschili angosciate, venne presentata come l’assalto a una delle ultime cit tadelle maschili. La cosa si ripeté nel ’63, quando la magistratura aprì alle donne. È come se di fronte alla modernità, all’aper tura alla liber tà femminile, regolarmente avanzasse un bisogno maschile di met tere dei palet ti, per mantenere delle riser ve esclusivamente maschili. È paradossale come la femminilizzazione della società sia interpretabile sia come misura di civilizzazione, sia come prova del suo degrado. Un ristoratore romano, il giorno in cui si insediarono in Parlamento i primi leghisti, all’inizio degli anni Novanta, commentava così: “Quando voi ancora stavate nelle caverne, noi già eravamo froci!”. Volendo dire, progrediti, raf finati… Sembra la parabola di ogni civiltà. È una bat tuta classica. In ef fet ti, da un cer to punto di vista, è vero che se la società si raf fina è perché normalmente l’elemento femminile, uscito dall’ambiente domestico,comincia a influenzare prepotentemente anche l’immaginario maschile. Esiste anche tutto un filone impegnato a recuperare il cosiddetto “maschio selvatico”... Sono i neomaschilisti, che danno molto spazio alla sfera emotiva. Però a sentirli parlare alla fin fine il

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loro modello sembra l’uomo nuovo fascista, siamo più o meno lì. Claudio Risè, ad esempio, parla molto del padre, del ritorno del padre, ma per padre lui intende il padre politico, il padre con la P maiuscola. In passato lanciò anche una campagna perché gli uomini avessero l’ultima parola sull’abor to. Ci sono altre associazioni, per esempio Uomini Tremila, che hanno un loro sito. E poi c’è il movimento dei Men’s Rights, nato negli Stati Uniti. Questi uomini dicono: “Basta! Voi femministe, ormai, vi siete prese tut to. Pari dirit ti vuol dire che noi dobbiamo riguadagnare terreno”. Sono associazioni ben organiz zate che, tra l’altro, ce l’hanno a mor te con noi di Maschile Plurale. Hanno addirit tura clonato il nostro sito, sfot tendoci. Anche nei libri che scrivono ci at taccano pesantemente, ci accusano di essere i tappetini delle femministe, dei “maschi pentiti”, eccetera, eccetera. Il che ci conferma il fat to che andiamo a toccare dei ner vi scoper ti. Hai accennato all’inizio ai “nuovi” padri. Oggi si parla molto dell’assenza della figura paterna. Discorsi del genere mi inquietano sempre un po’, perché bisogna vedere che padre andiamo a cercare. Il padre del passato, come la met ti la met ti, era un padre autoritario. Per carità, c’è autorità o autorevolez za, bisogna sempre vedere che cosa si intende, e come si collegano i concet ti astrat ti agli scenari concreti. Perché è lì che poi si gioca la par tita. È chiaro che nei confronti dei figli non vi può essere un’uguaglianza, non è che puoi fare della famiglia un collet tivo. Però, anche questa idea che i bambini e le bambine, per una crescita sana, abbiano bisogno di un adulto autorevole, cioè di un riferimento che li rassicuri, che li salvi dal caos... Non so: intanto, che questo adulto debba essere un maschio non sta scrit to da nessuna par te, e poi che impersoni l’autorità, cioè che sia, come dire, la voce che chiude il discorso, e che quindi scavalchi l’autorità materna...Ecco, il lamento per la mancanza di un maschile che parli in nome della legge mi sembra una nostalgia verso l’autorità perduta: e per questo mi insospet tisce molto.



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tutti i grAndi sono stAti BamBini unA voltA, mA pochi di essi se ne ricordAno... - Antoine de Saint-Exupéry -

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Coco è il nuovo film di produzione Disney-Pixar, uscito in tutte le sale il 28 Dicembre 2017.Ambientato in Messico, la storia si svolge durante El Dia de los Muertos, forma particolare di festa dei defunti tipica della cultura messicana, che si celebra l’1 e il 2 novembre. Diretto da Lee Unkrich e Adrian Molina, Coco è un tripudio di musica, colori e ambientazioni suggestive che riesce a coniugare

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Un film sull'accettazione a cura di Sara Potente

emozioni, avventura e tematiche importanti arrivando dritto al cuore, per ricordarci l’importanza delle nostre radici, dei legami di sangue ma, soprattutto, della vita stessa. Miguel Rivera è un ragazzino messicano con la passione per la musica; tuttavia la sua famiglia gli impedisce di seguire il suo sogno a causa di un avvenimento di molti anni prima.

Il ragazzo però, cercherà in ogni modo di perseguire la propria passione e, per partecipare ad un talent che ha luogo nel Dìa de Muertos, ruba la chitarra del famosissimo cantante Ernesto De La Cruz, ritrovandosi nell’aldilà. Da qui partirà la sua Odissea per tornare nel mondo dei vivi. Questo film è una celebrazione della vita, nonostante a farla da protagonista sia la morte.

In Coco non si chiede di accettare l’idea della morte, quanto di abbattere quel labile confine tra esistenza e assoluto che è dentro ciascun essere umano, con l’aiuto del ricordo, della memoria e di un legame con la tradizione, privata e collettiva. Non a caso la musica, storicamente considerata un mezzo in grado di abbattere le barriere, non ha mai avuto tanta importanza in un film

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W Pixar. Coco si distingue per la sua realizzazione tecnica, per la sua capacità sottile, magistrale, di conciliare la vitalità cartoon dell’ambiente e dei personaggi con uno stile di ripresa e montaggio che guarda al cinema dal vero: una camera mobile e inquieta che insegue i personaggi e respira, e una direzione della fotografia realistica in grado di coinvolgere a livello quasi subliminale. C’è una maniacale attenzione al dettaglio Un’altro aspetto da evidenziare è l’influenza dello stile di Miyazaki: Non solo dal punto di vista delle tematiche trattate (le riflessione

sulla morte, la famiglia, l’accettazione), ma è dal punto di vista visivo che il film ricorda più da vicino i capolavori dell’animatore nipponico, in particolare “La città incantata”. Per fare un esempio, la scena in cui Miguel scopre di trovarsi nel regno dei morti: è simile, sia nello svolgimento che nelle scelte cromatiche, a quella in cui Chihiro, la giovane protagonista de “La città incantata” si ritrovava circondata dagli spiriti e gridava di fronte alla mostruosa trasformazione dei genitori in maiali (anche se è posta in modo

decisamente meno inquietante per così dire). Coco è un’esperienza visiva che accompagna anche oltre la visione in sala e che punta ad allargare la mente, ampliare gli orizzonti dei suoi spettatori, inserendo tematiche come la diversità, la crescita, ma anche l’omicidio, l’inganno e l’ipocrisia. Coco è un vero gioiello, con moltissimi aspetti e sfaccettature. La peculiarità di film come questo è quella di riuscire a riferirsi ad un target molto vasto, suscitando emozioni e considerazioni diverse


in base a chi lo guarda. Si parla di avventura, coraggio e ricerca di se stessi, ma anche di comprensione delle proprie origini e l’importanza di quei legami, del ricordare, portare vivo nel proprio cuore il ricordo di chi abbiamo amato. Fondamentale, proprio per questo motivo, è l’ambientazione. Fiore all’occhiello della pellicola non solo per il lavoro scenografico come sempre magistrale e che da quasi l’illusione di poter toccare con mano la bellezza di quei paesaggi, ma proprio perché la cultura messicana, il significato racchiuso dietro le usanze, la memoria dei propri defunti, è è


W la chiave di lettura di tutto il film. Nell’aldilà Miguel dovrà affrontare un viaggio complesso fatto di scelte, di affermazione, ma dovrà anche capire che non sempre le apparenze sono oro colato e che, molto spesso, la verità è ben più complessa e articolata di quello che possa sembrare. Altro tema fondamentale di Coco è il sentirsi fuori posto, l’avere qualcosa (un sogno, un desiderio, una passione) che le persone più vicine non comprendono e, anzi, rifiutano categoricamente. Certo, questo non è un tema nuovo in un film Disney e Pixar, basti pensare a Brave, Moana, Rapunzel, La Sirenetta ecc., ma in Coco è trattato diversamente. I familiari di Miguel non vogliono che lui insegua il sogno di diventare musicista non perché è pericoloso, e non solo perché il suo dovere è rimanere nel negozio di scarpe: la famiglia Rivera odia la musica per un errore fatto da qualcuno nel passato e quell’odio si è, alla fine, trasformato in pregiudizio. Per un

solo caso, tutto ciò che riguarda la musica è frivolo, stupido e porterà all’allontanamento. Ovviamente, Miguel non può sopportare tutto ciò, ed è disposto anche a lasciare la sua famiglia, a disobbedire e a fare tutto il possibile per inseguire il proprio sogno. Anche ferire le persone che gli vogliono bene. E qui è chiaro il tema della libertà personale: poter essere chi si è senza nascondersi, senza aver paura, senza sentirsi criticati. Coco fa un passo avanti. Non è La Sirenetta, dove Ariel ottiene quello che vuole e si allontana dalla famiglia, non è Brave, dove le cose cambiano perché la regina accetta la figlia per come è: in Coco si parla di accettazione, ma questa avviene da entrambe le parti: non è solo la famiglia di Miguel ad accettare il bambino, ma è Miguel stesso ad accettare la sua famiglia. Si crea un compromesso, in cui entrambe le parti decideranno

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di modificarsi un po’, in modo da creare armonia. Il messaggio che passa è che a volte è meglio cercare di capire, per essere capiti, per quanto alcune idee ci sembrino assurde, per quanto ci sembri impossibile andare d’accordo con alcune persone che ci hanno ferito per buona parte della nostra vita; fare quello che si vuole, forti dei propri sogni, ma capendo che non sempre chi ci ostacola lo fa con cattiveria, e magari con la comprensione si

può aiuterete gli altri non solo a non ostacolare il prossimo, ma a non ostacolare loro stessi con dei paletti mentali. In Coco si approfondisce la scoperta delle proprie radici e l’importanza, la necessità di creare delle nuove tradizioni, legando il vecchio al nuovo. L’uno non esclude l’altro, ma la difficoltà è saper trovare la giusta chiave per far vivere, in un stesso universo armonioso, questi due aspetti.

C’è anche un altro aspetto che non si può assolutamente trascurare in questa pellicola, ovvero le figure femminili. Andando avanti nella visione, diventa sempre più evidente come proprio alcune donne siano le chiavi della vicenda, e come tutte loro abbiano una personalità estremamente forte. Prima fra tutte, Mamà Imelda, colei che, dopo l’abbandono del marito, non è stata con le mani in mano: ha imparato un mestiere, ha aperto un’attività, ha guidato

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W tutta la famiglia; sia nel mondo dei vivi che nel mondo dei morti, è la figura più rispettata, il caposaldo, la persona più saggia. E, da persona saggia quale è, si renderà conto anche dei propri errori, non solo di quelli altrui. Inoltre è fondamentale far notare che questa figura così forte non sia stata caratterizzata in modo mascolino, come spesso accade: Imelda era una donna estremamente bella e, anche come anima, la si vede come una figura che nell’insieme rispetta i canoni della standard della femminilità. Il cinema è uno dei mass- media che influenzano di più le nuove generazioni (specie trattandosi di un film Disney-Pixar), ed è molto importante che non abbiano associato la forza d’animo a caratteristiche fisiche prevalentemente maschili. Coco è probabilmente il film più completo, intenso, maturo e soprattutto commovente che la Pixar abbia mai prodotto. Commuove, in Coco, il ritratto della bisnonna di Miguel, che poi è quella che dà il titolo al film. Vecchissima, malata di alzheimer, in sedia a rotelle, il volto ricoperto di rughe. Miguel parla sempre a quella nonna che non gli risponde; le parla, perché le sue sono le uniche orecchie che per lui son sempre aperte, e la sua è l’unica bocca che non lo giudicherà: nella sua staticità, della sua accoglienza solo apparentemente passiva, così commoventi, Coco è la quinta essenza di un certo modo di essere nonna, di essere famiglia. Commuove, in Coco, quando, nel

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Regno dei Morti, si assiste alla scomparsa definitiva e dolorosa di chi non è più ricordato da nessuno; e quando ogni cosa, ogni rimando, ogni proiezione rimbalzano tra Miguel e Hector, tra la vita e la morte, tra il futuro e il passato. E commuove, soprattutto, nel racconto del desiderio – l’ultimo – di un padre che ha lasciato sua figlia troppo presto, e che chiede solo di poterla rivedere e riabbracciare almeno una volta; di fronte a una figlia anzianissima che torna bambina al ricordo di suo padre, e alla sua musica.



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voi non potete fermAre il Vento, gli fAte solo perdere tempo. - Fabrizio De Andrè -

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50° aniversario

1968 L’infrangimento dei tabù a cura di Sara Potente


Se coL paSSare deL tempo i miti vengono SpeSSo ridimenSionati, i Sentimenti e La memoria tendono ad avvoLgerLi in un’aura Leggendaria, epica.


W Il “68” non è solo un numero ma è anche il simbolo storico di anni di grandi sconvolgimenti in tutto il mondo occidentale e non. L’anno di svolta nella storia del secondo dopoguerra; per alcuni l’anno più cruciale del Novecento è stato senza’altro il ’68, numero simbolo del movimento di protesta per eccellenza. Compie 50 anni il fenomeno globale che nato a Berkley, in California, che coinvolge progressivamente il mondo occidentale.

rilanciando utopie, facendo germogliare l’illusione che un mondo nuovo fosse possibile. Le cose poi sono andate in altro modo, ma il seme portato da quel vento che soffiava scamiciato è arrivato fin qui... Anni di grandi conquiste e di grandi trasformazioni sociali che anche dopo mezzo secolo ancora rappresentano gli elementi più avanzati della qualità della nostra vita.

Apparso in Italia tra il 1964 e il 1967 con le prime occupazioni universitarie, soprattutto a Trento e a Pisa, si propaga rapidamente nei principali atenei nazionali per raggiungere il culmine nel maggio del ’68 con l’occupazione pressoché totale delle università italiane.

Anni in cui milioni di giovani tentano di prendere in mano il loro futuro e mettono in discussione i poteri costituiti. Grandi masse di studenti, di operai, di donne e gruppi di altre minoranze prendono consapevolezza di ciò che vogliono, dei loro diritti: hanno il sogno di una società migliore e tutti insieme, uniti, combattono per ottenerlo.

Tutto allora venne rimesso in discussione: lo Stato, l’istruzione, la politica, il senso del pudore, la famiglia, il sesso, l’insopportabile principio d’autorità. Mai nella storia tante battaglie sociali sono state combattute tutte insieme, producendo slogan (gli antenati dei moderni hashtag), inventando mode,

A quella “Meglio gioventù” va attribuita la responsabilità di un fallimento o di un cambiamento? Molti ceiticano l’ignoranza e l’inconsideratezza con cui molti agivano.


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Ugo Volli (semiologo): «Non avevamo capito niente. Nascevano le società globalizzate, le nuove tecnologie e noi guardavamo all’Albania, alla Cina, a Cuba credendo fossero modelli senza capire che erano luoghi dove a essere repressi erano quelli come noi [...] Io sono più critico, specie rispetto a me stesso che facevo parte del branco. Furono i radicali che avevano pochissimo spazio nel movimento a portare avanti i diritti civili. Perfino l’antiautoritarismo era più desiderio di autorità, anche nel rapporto tra i sessi con le donne relegate a “angeli del ciclostile”. Se devo pensare a un lascito mi pare negativo: è quel ribellismo che domina la vita politica, penso ai grillini ma anche a Podemos,

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Sanders... La contrapposizione all’establishment incapace di cogliere nuove dinamiche socioeconomiche, il ripetersi di quella sloganistica di plastica che si cominciò a parlare allora e, ahimè, si riproduce ancora». Tuttavia se col passare del tempo i miti vengono spesso ridimensionati, i sentimenti e la memoria tendono ad avvolgerli in un’aura leggendaria, epica. È così per ciò che accadde cinquant’anni fa e che, piaccia o no, cambiò radicalmente la mentalità generale.

Salvatore Veca (filosofo, nel ‘68 assistente 26enne di Filosofia teoretica alla Statale): «In genere pensiamo che il Sessantotto sia l’inizio di molte cose. Io credo


che sia l’esito di una vicenda di controcultura giovanile che coinvolse in forme differenti diverse parti del mondo: l’Europa, il Giappone, in America iniziò nel’64 a Berkeley, si incrociò con il movimento dei civil rights…Fu un conflitto generazionale, il rifiuto dei modi in cui l’autorità governava la società, riconoscendosi come alternativi ad esso, conflitto che da noi si mise in connessione con quelli sociali, operai. [...] Ha lasciato curiosità e senso critico nello sguardo verso il mondo, parlerei di un lascito etico più che politico. Dopo il ‘68 è cambiata la pelle della società, meno le forme della politica o delle istituzioni. I Dreamers di Bertolucci, per intenderci, hanno in mente non la politica ma l’autoesilio dal sistema. Il Sessantotto non è una domanda di potere ma di identità alternativa ed è proprio questo che ha lasciato una scia di ambivalenza sui suoi effetti: se

l’autorità in ginocchio non è rimpiazzata, resistono vecchi pezzi di sistema adattati al nuovo»

Andrée Ruth Shammah (regista teatrale, che sta organizzando una festa a fine maggio, un’ iniziativa con i licei e le università “per chi non c’era”): «Penso che non ci sarebbero le unioni civili, l’emancipazione della donna, il biotestamento. Ma l’eredità mi pare duplice e la vedo nella mia storia. Il ‘68 l’ho vissuto in via Rovello al Piccolo, dove si consumò la ribellione di Strehler. Io rimasi con chi era contestato, con Grassi, il quale aprì le porte a Patrice Chereau, Arianne Mnouchkine, al decentramento e al cambiamento senza il quale, prima, non sarebbe mai nato un teatro in via Pierlombardo, fuori dalla Cerchia dei Navigli» Un’eredità innegabilmente importante, soprattutto dal punto di vista sociale e di costume. Nel sessantotto matura una maggiore attenzione ai diritti civili, soprattutto quelli delle minoranze: omosessuali, classe operaia, etnie africane e mediorientali...delle donne, che nonostante non siano una minoranza ne ricevevano il trattamento. Più in generale cresce una maggiore consapevolezza del valore della libertà individuale e collettiva. Fu un punto di rottura rispetto all’atmosfera del dopoguerra, che aprì una stagione di protagonismo delle giovani generazioni, sulla scia della beat generation, della rivoluzione hippies, del rock, delle proteste per

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iL SeSSantotto non fu SoLo “un anno”, ma quaSi un decennio... un periodo in cui Si diffonde iL penSiero che Le utopie non Sono impoSSibiLi...

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la guerra in Vietnam, di un vento di rinnovamento che aveva iniziato a soffiare nei campus americani. Il Sessantotto non fu solo “un anno”, ma quasi un decennio: contrastato, oscuro, creativo, conflittuale, scosso molto presto dai morti delle bombe di piazza Fontana, attraversato da occupazioni, manifestazioni, scontri, cultura, emancipazione delle donne, molto dopo dagli echi degli spari della lotta armata. A Milano iniziò nel novembre ‘67, con l’occupazione dell’università Cattolica per il raddoppiamento delle tasse, proseguì il 23 febbraio con l’occupazione della Statale, il 29 con gli scontri tra studenti e neofascisti all’università Statale, l’1 marzo con l’occupazione del Parini, poi il primo Cub alla Pirelli (18 marzo), i primi scontri studenti e polizia (25 marzo), la Triennale occupata dagli artisti (30 maggio), la bomba all’ingresso dell’Ambrosiana (23 luglio), via via fino al 7 dicembre alla Scala. Alla Galleria del Credito Valtellinese, in corso Magenta, la bella mostra “Arte ribelle” raccoglie molti artisti nati quella stagione.

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Isolina Mantelli (medico, responsabile della comunità di accoglienza “Mondo Rosa”): «Il tempo corre veloce ed oggi mi accorgo che è passato mezzo secolo: il ‘68...è i miei 17 anni, è la passione dell’adolescenza. Sono entrata nel ‘68 a 17 anni e ne sono uscita a 26, sono entrata studentessa, ne sono uscita medico, perché il 68 non è durato 366 giorni (era un anno bisestile) ma dieci lunghi anni in cui noi siamo cambiati e abbiamo cambiato il nostro paese.

Il mio 68 inizia in periferia, qui a Catanzaro, vengo affascinata dai racconti degli universitari di ritorno in città, non c’era nessuna università in Calabria. Erano già contagiati dal vento nuovo che soffiava negli Stati Uniti, sostenuto dalle proteste contro la guerra in Vietnam, ma ciò che mi ha sedotta è stato don Milani, col suo ‘Lettera ad una professoressa’, l’ “I care” scritto sulle pareti di Barbiana diventa la mia guida.

È stato un decennio di sogni ed utopie, di battaglie civili ma anche di tentati colpi di stato, di attentati e di violenze. Sono stati anni di piombo o sono stati i migliori anni della nostra vita? Sarebbe stato meglio che non ci fosse? O, per fortuna, c’è stato? La società dell’epoca era troppo meschinamente ipocrita e i giovani, entrati in massa nell’università, erano abitati da un profondo senso di verità e giustizia. Il corto circuito era prevedibile.

Così inizia quel tempo strano in cui abbandoniamo i territori dell’individualismo e ci scopriamo soggetto collettivo, l’io partecipa al noi e il noi fortifica e cambia l’io.

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All’interno di questo movimento che scuoteva tutta l’Europa, noi donne avevamo una ragione in più per ribellarci, per desiderare e costruire un mondo diverso. Quando mi iscrissi a medicina, noi donne eravamo


20 su 300 e quando cominciai a lavorare in ospedale, le donne medico eravamo 7; già solo questi numeri fanno capire il tipo di società che abitavamo, era ,quindi, naturale che le donne, entrate in massa nel mondo della scuola e dell’università, si riversassero nelle strade dando origine a quel grande movimento delle donne che fu la vera novità degli anni 70; non angeli del focolare ma neppure angeli del ciclostile, noi donne esprimevamo rifiuti radicali e scendevamo in campo per evidenziare diritti negati e puntare sulla forza del desiderio [...]. Il mondo politico è quasi obbligato a promuovere cambiamenti radicali in tema di aborto, divorzio, diritto di famiglia e contraccezione. Il coraggioso rifiuto di Franca Viola avvia a scomparire l’indecente e arcaico delitto d’onore. Il personale diventa politico, è lo slogan più bello di quegli anni, e ancora oggi quello che mi muove è racchiuso in quelle poche parole. È a partire da

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W questo che abito il mondo e forse ‘Mondo Rosa’, il centro antiviolenza, sente l’eco di quel lontano grido e continua un lavoro di donne che si pongono accanto ad altre donne per modificare le relazioni umane e affrontare in modo diverso il tema del potere. Nonostante tutta questa ricchezza espressa dal 68, ora galleggiamo in una società dove il noi è perduto e vige un individualismo sfrenato con il neo-liberismo ormai senza freni [...]. Abbiamo perduto tutti, demonizzati e banalizzati da consumate tecniche di potere. Rimangono in campo le donne che in questi anni hanno costruito case e librerie delle donne, cultura alternativa, centri antiviolenza, case rifugio e che oggi rompono il silenzio sulla violenza maschile che

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abita il mondo. Riprendiamo la parola e nuovamente il potere trema. Chi sa, forse oggi sta partendo un 2018 abitato da donne pronte a ridisegnare relazioni, costumi, famiglia, politica, lavoro, insieme a quegli uomini che vivono la differenza di genere come valore» D’altro canto sebbene ci fu un’altissima partecipazione femminile al sessantotto, raramente si ricordano nomi di donna tra i leader, e si fatica a credere che l’amore libero sia stato visto con autentico rispetto da tutti gli uomini del movimento. Di positivo c’è che l’attenzione politica a tutto ciò che riguardava il corpo della donna e la sessualità diede vita alla nascita dei consultori, alla formazione dei gruppi sulla salute della donna. Alla lotta per l’aborto si legò il tema della violenza


sessuale, così nasce una cultura politica fondata sull’ espressione delle soggettività femminili, sul desiderio di sottrarsi ai destini imposti dalla cultura tradizionale e dell’immaginario maschile.

Maria Latella (giornalista): «partendo dallo slogan ‘l’utero è mio e lo gestisco io’ si poteva costruire una società più libera e più uguale, più serena e felice. Abbiamo invece una società di donne sole e di uomini narcisi che scappano dalle responsabilità e dalla famiglia. Il ‘68 ha dato certo più consapevolezza alle donne. Ha creato percorsi grazie ai quali oggi sono più forti e più libere. Ma la libertà ha un prezzo, le donne l’hanno pagato e lo stanno pagando ancora più di tanti altri che, dopo il ‘68, sono tornati comodi sotto le ali della controriforma.» Dal ‘68 sono cambiate molte cose per le donne (per fortuna), ma c’è ancora tanta strada da fare. Considerare il maggio francese una vittoria decisiva è un errore enorme. Il ‘68 ha senza dubbio preparato il terreno per lotte che ancora oggi vengono conbattute, in particolare per quelle femministe; è stato solo l’inizio. Spesso, i movimenti antifemministi si appellano all’idea che “le vere lotte ci sono già state”. All’epoca il femminismo non riguardava tutte le donne ma solo una parte, le donne bianche, e questo è inaccettabile. Come si può lottare in modo serio se non sono tutte coinvolte? Oggi la lotta comprende le afro-femministe , come Kiyémis, che lavorano strenuamente per decolonizzare il femminismo, le

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femministe mussulmane che lottano per essere libere di indossare ciò che vogliono (che sia burqa, chador o nessuno dei due), le femministe LGBTQ+, e moltissime altre categorie di donne, ignorate fino a pochi anni fa. Sono loro a plasmare l’odierna idea di femminismo. Inoltre a differeza di quegli anni oggi il femminismo è molto più paritario, e si occupa anche di problematiche maschili, anche loro costretti dalla società a rappresentare un’ideale di “uomo”. Lo si può notare anche mettendo a confronto le generazioni: anche se le precedenti non sono contrarie alle intenzioni delle nuove femministe, queste sono molto più radicali, e comprendono uno spettro molto più ampio di origini ed obbiettivi. Certo è che il maggio francese ha permesso alle donne di riunirsi e organizzarsi: se non ci fosse stato, il MLF (movimento di liberazione delle donne, in Francia) avrebbe visto la luce anni dopo e non avremmo potuto votare la legge Veil (legge francese sull’aborto) nel 1975, e da li i progressivi miglioramenti normativi che si sono sviluppati in tutta Europa. Per tutti, quelli erano gli anni del sogno, un periodo in cui si diffonde il pensiero che le utopie non sono impossibili; in milioni sono convinti che il mondo si possa cambiare in meglio. Erano giovani accomunati dalla volontà di opporsi al sistema borghese, fuori dagli schemi dei partiti. Si combattevano le baronie universitarie, i valori borghesi dell’autoritarismo e del capitalismo. Ovviamente non sempre le lotte hanno avuto successo, ma sono stati giovani fortunati perché avevano ben chiara l’immagine del loro futuro e hanno vissuto e lottato per ottenerlo con ogni fibra del loro essere, tanto da non poter avere rimpianti anche in caso di fallimento. Se si può dare un augurio ai giovani di oggi è quello di avere anche loro un nuovo “68” in cui sentirsi vivi e in grado di costruire la propria vita.

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verrà forse un tempo in cui lA luce interiore uscirà dA noi, in modo che non Avremo più bisogno di AltrA luce. - Johann Wolfgang Von Goethe -

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Un Sondaggio Generazionale... STEREOTIPI DI GENERE E FEMMINISMO DI QUARTA GENERAZIONE a cura di

Sara Potente

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“Lo stereotipo è la visione semplificata e largamente condivisa su un luogo, un oggetto, un avvenimento o un gruppo riconoscibile di persone accomunate da certe caratteristiche o qualità.” Questo è ciò che detta il dizionario riguardo gli stereotipi, ma nello specifico gli stereotipi di genere sono quei meccanismi di categorizzazione a cui le persone si riferiscono per elaborare ed interpretare la rappresentazione di ciò che è maschile e ciò che è femminile, basandosi sulla credenza che donne e uomini abbiano caratteristiche differenti. Tra il 2017 e il 2018 è stato fatto un sondaggio generazionale per capire effettivamente in che modo gli uomini e le donne percepiscono la società di oggi, e se o in quale misura gli stereotipi di genere più comuni influenzino il loro pensiero o la loro vita. Nel test ci si concentra esclusivamente sui generi maschile e femminile (indipendentemente dall’orientamento sessuale). Sono stati presi in esame complessivamente 160 soggetti, 80 uomini e 80 donne, divisi in quattro fasce generazionali da 40 persone l’una (20 uomini e 20 donne): La prima è tra i 18 ed i 29 anni, la seconda tra i 30 ed i 45 anni, la terza tra i 46 ed i 59, e l’ultima riguarda gli over 60. Nella prima domanda del questionario viene chiesta un’opinione riguardo il grande aumento di divorzi rispetto al passato. Mentre si è riscontrata abbastanza coerenza tra le risposte di uomini e donne, c’è invece un contrasto di opinioni tra le diverse generazioni. Nella fascia dei 30/45, per la maggioranza del 30%, c’è il fatto che oggi è semplicemente socialmente accettato. Per quanto riguarda la fascia 46/59 ci sono nettamente due linee di pensiero: le donne sono convinte, per il 30% che il problema sta nel fatto che oggi entrambi i coniugi lavorino, ma ad occuparsi della casa è comunque solo la donna; la maggior parte degli uomini invece da la colpa all’uno o l’altro sesso, accusando le donne di non rinunciare all’indipendenza per la famiglia, e gli uomini di oggi di essere indecisi e poco virili. Incredibilmente invece si trovano d’accordo la fascia dei 18/29 e quella degli over 60, convinti per il 43,75% che il vero grande problema è che si siano persi i “valori di una volta”. La seconda domanda è “Ritieni che la società attuale dia maggiore importanza all’aspetto fisico per gli uomini, per le donne o ad entrambi nella

stessa misura?”; Qui la maggioranza complessiva del 63,75% crede che l’aspetto fisico sia molto più importante per la donna, infatti gli unici a pensarla diversamente sono gli uomini delle prime due fasce d’età, convinti che questo sia un’aspetto che riguarda allo stesso modo entrambi i sessi. Le seguenti tre domande riguardano la sfera lavorativa. Anche solo nella scelta lavorativa sono ancora presenti molti stereotipi, sia per le donne che per gli uomini. Sembra infatti che per la maggioranza complessiva sia assurdo per una donna pensare di fare la camionista o di entrare nelle forze armate, mentre gli uomini sono assolutamente da evitare come baby-sitter. Nonostante questo sembrano tutti concordi sul fatto che la donna venga discriminata sul lavoro, anche se ci sono divergenze riguardo la gravità del problema, ovviamente molto più sentito dalle donne. Per quanto riguarda l’abbinamento di impegni lavorativi e famigliari, come era prevedibile si riscontra una divergenza d’opinioni non solo generazionale, ma anche e soprattutto in base al genere. Alla domanda “Hai o pensi di smettere di lavorare o chiedere il par-time dopo aver avuto dei figli?”, il 92,5% degli uomini hanno risposto di no (oscillando tra l’85% ed il 100% in base all’età), il 6,25% prenderebbe in considerazione l’idea in base alla situazione economica famigliare, e solo una persona ha risposto di si. Per le donne la situazione è nettamente differente: i soggetti delle prime due fasce hanno risposto in maniera più o meno omogenea, circa il 50% ha risposto di no, il 30% in modo affermativo, mentre il restante 20% considererebbe l’economia famigliare o addirittura rinuncerebbe alla famiglia per concentrarsi sul lavoro. Se ci soffermiamo invece sulle ultime due fasce femminili, solo il 20% continua a lavorare con costanza, mentre ben l’80% da precedenza agli impegni famigliari. Questa netta differenza dimostra quanto gli stereotipi di genere possano influenzare anche le generazioni più giovani, infatti dalla maggior parte dei ragazzi l’idea di mettere da parte la carriera non è neanche presa in considerazione, perché giustamente non hanno avuto praticamente nessun riferimento che mostrasse loro un modello diverso da quello standard, ossia “il marito lavora, la moglie

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W sta a casa” o al massimo “entrambi i coniugi lavorano”. Per la donna il problema si potrebbe definire opposto, rinunciare al lavoro per la famiglia è normale per una donna, quasi non pesa, quasi è dovuto. Anche per quanto riguarda la suddivisione dei lavori domestici, ci sono di nuovo profonde differenze in base al genere. Infatti in generale le donne si applicano di più in casa mentre l’uomo, in percentuale, vi si dedica di meno ed in maniera molto più mirata; infatti molti si dedicano alla cura del giardino e degli animali domestici, come anche a fare commissioni, mentre la quasi totalità rifiuta di adoperarsi nelle pulizie, e soprattutto di stirare i vestiti. Gli stereotipi di genere sono tanti, troppi, e proprio come dimostra questo sondaggio condizionano il nostro modo essere e di comportarci sin da piccoli, di conseguenza le nostre personalità crescono mozzate, poiché impariamo a silenziare e nascondere la parte di noi che non si conforma alle aspettative socialmente imposte. Spesso si confondono gli “stereotipi di genere” con le “differenze di genere”, sono infatti due concetti molto legati tra loro ma profondamente differenti. Anche le differenze di genere designano i concetti di “mascolinità” e “femminilità” intesi come le attese sociali e culturali nei confronti della donna e dell’uomo, ma non sono necessariamente vincolanti, ne determinanti nel

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giudizio a priori dell’uno o l’altro sesso, come invece accade per gli stereotipi. Per riportare degli esempi pratici, dire che gli uomini sono più portati delle donne per i lavori manuali è una differenza di genere, dato che grazie alla forza fisica è effettivamente così, ma pensare che per questo una donna sia impossibilitata ad intraprendere una carriera da militare è uno stereotipo di genere, giacche quella donna essendo allenata, una professionista, è di certo più adatta per il ruolo della maggior parte dei civili uomini. Dire che gli uomini dovrebbero essere forti, cavarsela da soli e non piangere, è sicuramente uno stereotipo di genere, esistono persone forti e persone più deboli, non è certo una caratteristica che varia in base al sesso; gli uomini sentono il dolore e la sofferenza esattamente come le donne, senza alcuna differenza, ma a loro sin da piccolissimi viene ripetuto che piangere è da “femminucce”, e che quindi non è una caratteristica adatta ad un uomo, così crescono autoeducandosi, cercando di rispettare le aspettative sociali. Gli stereotipi non permettono il cambiamento, in quanto continuamente alimentati dalla cultura sociale non vengono messi in discussione neanche quando l’ambiente culturale che li ha generati è cambiato. Tant’è vero che nel test è stato chiesto quale fosse lo stereotipo sul proprio sesso, che più infastidiva, e ne sono stati citati molti differenti. Se


una persona considera uno stereotipo sul proprio sesso fastidioso, significa che lo ritiene falso, che non vi si identifica, e dunque non può essere una differenza di genere. È interessante come tra gli stereotipi più odiati delle fasce giovanili troviamo soprattutto metodi La cosa più sconcertante è che ciò che più infastidisce le donne è sentirsi dire “sei donna, non puoi capire”, mentre uno degli stereotipi più odiati dagli uomini è quando gli viene detto “sei uomo, non puoi capire”. Ho notato inoltre che c’è una sottile ma fondamentale differenza tra gli stereotipi che infastidiscono le fasce giovanili e quelli odiati dalle ultime due fasce. I soggetti over 30 soffrono per stereotipi “pratici”, per così dire, cioè che riguardano singoli aspetti pratici del quotidiano; gli uomini si solo lamentati di etichette come “gli uomini picchiano le donne”, “l’uomo è traditore”, “ci sono sport da uomini e da donne”, “gli uomini a casa non fanno nulla”, mentre le donne hanno riportato esempi come “le donne no sanno guidare”, “le donne sono tutte facili”, “se la casa è in disordine la colpa è della donna che non se n’è occupata”, “resta al tuo posto”, “se una donna non è madre, non è una donna”. Come possiamo notare gli stereotipi di uomini e donne coincidono, sono quasi complementari, e soprattutto molto specifici. Anche gli stereotipi delle fasce più giovani sono due facce della stessa medaglia, ma cambia l’approccio, infatti gli stereotipi più oditi dai giovani riguardano strettamente la sfera soci-comportamentale ed emotiva. Per riportare gli esempi maschili più citati “non fare la femminuccia”, “gli uomini sono semplicistici e superficiali”, “un uomo con capelli lunghi o orecchini è spesso visto male, le donne no” “l’uomo deve esser stoico e farcela da solo”, “gli uomini non piangono” (citato anche dagli over 30), nella controparte femminile invece troviamo “non puoi, sei donna”, “Comportati in modo più femminile” (ossia in maniera remissiva, gentile, educata, fragile, che ispiri protezione), “Le donne sono emotive e irrazionali”, “una donna sicura delle sue idee è spesso considerata antipatica o vanitosa”. Da questa differenza generazionale possiamo dedurre che tutti, uomini e donne, hanno cominciato a prendere coscienza del fatto che i singoli problemi quotidiani sono solo la punta dell’iceberg, e il problema di base sta in come la società percepisce l’uomo e la donna, di come li imprigiona in un

determinato scema fatto di comportamenti, atteggiamenti, modi di essere; se qualcuno esce da quello schema viene percepito come un errore, come qualcosa di sbagliato. Ma come può il “modo di essere” avere uno schema? ognuno di noi è diverso dall’altro, non siamo oggetti prodotti in serie, non possiamo essere catalogati. La quarta ondata del femminismo punta proprio ad abbattere questi stereotipi, ma stavolta l’uomo gioca una parte molto importante. Uno dei pilastri di questa fase del movimento sono proprio gli uomini. Nel secolo scorso, anche se con alcune eccezioni, il femminismo era vedeva protagonista esclusivamente la figura femminile, che era sia il soggetto che l’oggetto del movimento. Era una corrente potata avanti dalle donne per le donne. Già alcune correnti nella terza ondata puntavano a coinvolgere gli uomini, ma sempre per il bene ed i diritti femminili, con il nuovo millennio invece, il femminismo comincia a preoccuparsi anche delle problematiche maschili, indissolubilmente legate a quelle femminili. La donna rappresenta il 50% della popolazione mondiale, è dunque inevitabile che la trasformazione del suo ruolo nella società influenzi anche gli uomini, per questo viene chiesto a gran voce il loro contributo.

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In questa fase c’è una grandissima attenzione alla rappresentazione degli stereotipi di genere da parte dei media, e benchè la figura femminile sia molto più commercializzata, come vedremo più avanti, anche l’uomo ha i suoi stereotipi duri a morire. Emblematico per questa fase del movimento è il discorso tenuto da Emma Watson alle Nazioni Unite nel 2014: «Oggi stiamo lanciando la campagna “HeForShe” [LuiPerLei]. Sono qui a parlare con voi perché ho bisogno del vostro aiuto. Vogliamo far finire l’era della disparità di genere, e per farlo abbiamo bisogno che tutti siano coinvolti. Questa è la prima campagna di questo genere delle Nazioni Unite: vogliamo provare a convincere il maggior numero possibile di ragazzi e uomini a diventare sostenitori della parità di genere. E non vogliamo semplicemente parlarne, vogliamo essere sicuri di fare qualcosa di tangibile. Sono stata nominata [ambasciatrice] sei mesi fa e più ho parlato di femminismo, più ho capito che lottare per i diritti delle donne è troppo spesso diventato sinonimo di “odiare gli uomini”. Se c’è una cosa di cui sono sicura è che questa cosa deve finire.

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Per la cronaca, la definizione di femminismo è: «il credere che uomini e donne debbano avere uguali diritti e opportunità. È la teoria della parità dei sessi in politica, economia e nella società”. Ho iniziato a essere confusa dai preconcetti di genere quando avevo otto anni e venivo chiamata “prepotente” perché volevo dirigere la recita che stavamo preparando per i genitori, mentre ai maschi non veniva detto altrettanto. Quando a 14 anni ho iniziato a essere sessualizzata da alcune parti della stampa. Quando a 15 anni alcune delle mie amiche hanno iniziato a uscire dalle squadre sportive in cui erano per paura di apparire troppo muscolose. Quando a 18 anni i miei amici maschi erano incapaci di esprimere i loro sentimenti. Ho deciso che ero una femminista e la cosa non mi è sembrata complicata. Ma le mie recenti ricerche mi hanno fatto scoprire che femminismo è diventata una parola impopolare. A quanto pare, sono una di quelle donne i cui modi di fare sono visti come troppo forti, troppo aggressivi, isolanti, respingenti per gli uomini e non attraenti. Perché questa parola è così scomoda? Vengo dall’Inghilterra e penso che sia giusto che io,

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W come donna, sia pagata lo stesso di quanto sono pagati i miei colleghi uomini. Penso che sia giusto che io possa prendere delle decisioni riguardo al mio corpo. Penso sia giusto che ci siano donne coinvolte per mio conto nel processo politico e decisionale del mio Paese. Penso che sia giusto che mi sia dato lo stesso rispetto che è riservato agli uomini. Ma purtroppo posso dire che non c’è un singolo Paese in tutto il mondo dove le donne possono aspettarsi di ricevere questi diritti. Nessun Paese del mondo può dire di aver raggiunto la parità di genere. Considero questi diritti, dei diritti dell’umanità ma io sono una delle fortunate. La mia vita è da privilegiata, perché i miei genitori non mi hanno voluto meno bene perché sono nata femmina. La mia scuola non mi ha limitata perché ero una ragazza. I miei mentori non hanno pensato che sarei andata meno lontano perché un giorno potrei avere un figlio. Queste persone erano gli ambasciatori della parità di genere che mi hanno resa ciò che sono oggi. Forse non lo sanno, ma sono dei femministi inconsci. E abbiamo bisogno di più persone come loro. E se ancora odiate la parola, sappiate che non è la parola ad essere importante ma l’idea che ci sta dietro. Perché non tutte le donne hanno avuto gli stessi diritti che ho avuto io. Anzi, statisticamente ben poche li hanno avuti. Nel 1997, Hillary Clinton ha tenuto un famoso discorso a Pechino sui diritti delle donne. Purtroppo, molte delle cose che voleva cambiare sono ancora oggi una realtà. Ma quello che mi ha colpito di più è che solo il 30% di chi la stava ascoltando quel giorno era maschio. Come possiamo cambiare il mondo quando soltanto metà di esso è invitato o si sente a suo agio a partecipare alla conversazione? Uomini, vorrei sfruttare questa opportunità per farvi un invito formale. La parità di genere è anche un vostro problema. Perché a oggi, ho visto il ruolo di genitore di mio padre essere svalutato società, nonostante io avessi bisogno della sua presenza tanto quanto quella di mia madre. Ho visto giovani uomini soffrire di malattie mentali incapaci di chiedere aiuto per paura che la cosa li facesse sembrare meno maschi — in Inghilterra, il suicidio è la più grande causa di mortalità per gli uomini tra i 20 e i 49 anni, superando gli incidenti stradali, il cancro e l’infarto. Ho visto uomini resi fragili e insicuri da un’idea distorta di quello che significa successo per un maschio.

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Nemmeno gli uomini hanno la parità di genere. Non parliamo spesso di uomini imprigionati dagli stereotipi di genere ma io vedo che lo sono, e che quando ne sono liberi, le cose cambiano di conseguenza anche per le donne. Se gli uomini non devono essere aggressivi per essere accettati, le donne non si sentiranno spinte a essere arrendevoli. Se gli uomini non devono avere il controllo, le donne non saranno controllate. Sia gli uomini sia le donne dovrebbero sentirsi liberi di essere sensibili. Sia gli uomini sia le donne dovrebbero sentirsi liberi di essere forti… è ora che iniziamo a pensare al genere come uno spettro, non come due insiemi opposti di ideali. Se smettiamo di definirci l’un l’altro con quello che non siamo, possiamo iniziare a definirci con quello che siamo — possiamo tutti essere più liberi, ed è a questo che è dedicata la campagna HeForShe. Alla libertà. Voglio che gli uomini si prendano questo compito. Perché le loro figlie, le loro sorelle e le loro madri siano libere dal pregiudizio, ma anche perché ai loro figli sia permesso di essere vulnerabili e umani — recuperando quelle


parti di loro che hanno abbandonato e diventando così delle versioni più complete e vere di loro stessi. Potreste pensare, chi è questa ragazza da Harry Potter? E cosa sta facendo sul palco delle Nazioni Unite? È una buona domanda e, credetemi, me la sono posta anche io. Non so se sono qualificata per essere qui. L’unica cosa che mi importa è il problema. E voglio migliorare la situazione. E avendo visto quello che ho visto — e avendo ottenuto questa opportunità — sento che è mio dovere dire qualcosa. Il politico inglese Edmund Burke ha detto: «perché il male trionfi è sufficiente che gli uomini e le donne buoni rinuncino all’azione».

Nei momenti di nervosismo e di dubbio per questo discorso mi sono detta fermamente: se non io, chi? Se non ora, quando? Se avete dubbi simili, quando l’opportunità si presenta, spero che queste parole possano esservi d’aiuto. Perché la realtà è che se non facciamo nulla, ci vorranno 75 anni, o per me di compierne 100, prima che una donna possa aspettarsi di essere pagata quanto un uomo. Nei prossimi 16 anni, ci saranno 15,5 milioni di spose bambine. E al ritmo attuale, ci vorrà fino al 2086 prima che le ragazze dell’Africa rurale possano avere accesso all’educazione secondaria. Se credete nella parità, potreste essere uno dei femministi inconsapevoli di cui parlavo prima. E per questo mi complimento. Stiamo faticando per trovare una parola che ci unisca, ma la buona notizia è che abbiamo un movimento che ci unisce. Si chiama “HeForShe”. Vi invito a fare un passo avanti, a farvi vedere, ad alzare la voce, a essere lui per lei. E a chiedervi: se non io, chi? Se non ora, quando? Grazie.»


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siAmo produttori di muri, Anche invisibili, Anche internAmente. - Antonio Tabucchi -

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Feminist film theory

a cura di Sara Potente

Hitchcock Preferisce le bionde? ImmagInI A destra, Hitchcock durante le ripre di vari suoi film, rispettivamente dall’alto in basso: - Gli uccelli - Notorious - Il sipario strappato - La finestra sul cortile

La Feminist Film Theory (Critica cinematografica femminista), è la creazione di un nuovo spazio di indagine, e non solo costituisce il risultato della crescita numerica delle donne attive nel campo del cinema, ma è una vera e propria riflessione sul linguaggio, oltre che un metodo di lavoro, di codifica e di decodifica, che si interroga sostanzialmente sul rapporto tra rappresentazione e differenza sessuale. Nasce in realtà dall’interazione di fenomeni politico-culturali all’origine non collegati tra loro: l’organizzazione politica delle donne e il suo affermarsi in quanto sapere; il cinema indipendente; l’emergere e l’affermarsi di una controcultura post-strutturalista e decostruttiva, che nasce soprattutto nelle università. Queste infatti, soprattutto nei Paesi anglosassoni, hanno funzionato quasi immediatamente come camere di incubazione del pensiero femminista. È proprio in seno allo spazio accademico che è stato possibile il formarsi del concetto

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di Feminist Film Theory, è diventata una delle punte di diamante della riflessione teorica delle donne, oltre che uno dei punti di forza del pensiero teorico in generale. Si sviluppa negli USA, come una teoria autonoma rispetto agli women’s studies (le esperienze di studio e di ricerca sul femminile e tra donne, ormai riconosciute ufficialmente come disciplina accademica a pieno titolo) e rende il cinema classico – in particolare quello hollywoodiano – un terreno ideale d’analisi psicoanalitica e semiotica. La sua sfera di influenza si è estesa sempre più ad altri campi, compresa la storia dell’arte, la teoria letteraria e la storia del teatro, che, mutuando concetti e pratica di indagine dalla teoria cinematografica al femminile, in un clima di scambi in parallelo, hanno prodotto analisi sulla ‘logica dello sguardo’, estesa anche ai linguaggi narrativi o all’ambito pittorico. La Feminist Theory negli USA non è un’esclusiva delle donne. Questo sapere ha a tal punto scardinato i codici tradizionali e incrinato gli equilibri e le opposizioni uomo/donna che si sono prodotti

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interessanti sconfinamenti di oggetto e soggetto tra maschile e femminile. Il discorso teorico di molti uomini di cultura è pervaso da questo linguaggio o ne ha addirittura assunto le modalità. Il giornalismo e la critica lo riciclano e lo divulgano. In un primo momento ci si limitò ad analisi che prendevano in considerazione esclusivamente l’immagine delle donne nel cinema, ma ben presto, il modello iconografico lasciò posto a una ricerca che dall’oggetto della rappresentazione si spostava verso l’indagine sui modi stessi del rappresentare. La Feminist Film Theory ha usato molti canali attraverso i quali far circolare le proprie idee, ci sono state numerose case editrici che hanno dedicato intere collane e innumerevoli le pubblicazioni (libri, saggi, articoli) al pensiero delle donne. Dato che si tratta di una vera e propia disciplina accademica, a cui vengono assegnate regolari cattedre universitarie, la produzione di tesi di laurea e di dottorato che ne deriva è in continua crescita. Dal 1974 è stata fondata anche una rivista, “Camera obscura”, che si occupa interamente di questo

sapere con l’obiettivo di capitalizzarne le scoperte e gli esiti. Laura Mulvey, teorica del cinema, sceneggiatrice e regista cinematografica inglese, nel 1975 divenne famosa per il saggio “Visual pleasure and narrative cinema” (Piacere visivo e cinema narrativo). Negando di essere il risultato di una ricerca individuale, esso si presentava come espressione del pensiero e delle forze emergenti nel contesto culturale angloamericano. Spesso citato non solo in campo cinematografico, tale saggio diventò una pietra miliare nella storia del pensiero contemporaneo statunitense. Si cominciò ad interrogarsi sui meccanismi che rendono possibile e operativa la rappresentazione e sul rapporto tra fascinazione e narrazione per immagini. Il cinema, e in particolare il cinema hollywoodiano, divenne un terreno ideale d’analisi in quanto locus dove per eccellenza si mettono in gioco gli oggetti del piacere. La Mulvey è considerata la fondatrice della Feminist Film Theory. Il risultato dell’analisi filmica in ottica


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psicoanalitica (freudiana e lacaniana) dimostrava un’evidente struttura patriarcale. Questa presa di coscienza svelava il ruolo della donna sul grande schermo: la bambola, il premio, il feticcio. La bionda. Al centro dell’attenzione però non c’era più solo l’immagine della donna, ad essere messa in discussione era direttamente la differenza sessuale. L’indagine si spostò sui modi che il cinema adotta per crearla e farla circolare, rafforzarla, incrinarla, destabilizzarla. Il cinema, oggetto di fascino, è forma d’arte e di consumo che più di ogni altra si fonda sul piacere di guardare e lo perpetua. Se riflettiamo sul rapporto tra narrazione e piacere, immagine e desiderio, dobbiamo chiederci: A chi appartengono le fantasie che il cinema veicola, da chi e per chi vengono create? Il cinema è l’arte che si fonda sul piacere di guardare, ma chi è il soggetto di questo sguardo e chi l’oggetto del desiderio? Le prime risposte della Feminist Film Theory a queste domande, sono state molto dure: il cinema

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L arte e sempre comunicazione, ed e intrecciata al suo contesto.

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è feticismo e voyeurismo (quest’ultimo caratterizza chi, per ottenere il piacere sessuale, ama guardare o spiare persone seminude, nude o intente a spogliarsi, o persone impegnate in un rapporto sessuale). Si formano così i concetti di “gaze” e “desire” e quindi il legame tra sguardo e desiderio. Il cinema classico risulta così misogino e dominato dal male gaze: la tendenza ad adottare un punto di vista maschile quando non ne è specifico uno e in particolare la tendenza a rappresentare i personaggi femminili come oggetto della visione e dell’apprezzamento maschile. Laura Mulvey, all’inizio, dimostra un approccio aggressivo, ma necessario per ottenere un riconoscimento sociale immediato. Saprà poi mettere in discussione alcune analisi portate avanti dalla Feminist Film Theory, riconoscendo che non tutti i film classici si rivelano in contrapposizione all’identità femminile o almeno non completamente. Daniele Clementi, presidente UICC – Unione Italiana

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Circoli Cinema ha tenuto una lezione illuminante su questo argomento, durante il Lecce Film Fest. Ha parlato di cinema femminista, postfemminista e “gender” prendendo in analisi i film e l’approccio di Alfred Hitchcock, Billy Wilder e Howard Hawks. Le donne dei loro film erano oggetti del desiderio maschile, l’eroe era indiscutibilmente l’uomo, ma a volte le donne si rivelavano anche soggetto e analizzando questi film a posteriori - si intravedono slanci di assoluta modernità. Concentrandocisi su Hitchcock, le sue attrici predilette erano (per sua stessa ammissione) donne alte e bionde, algide e dai lineamenti delicati, ma dalle personalità ambigue e spesso malvage, come la Melanie de “Gli uccelli” (1963) o Madeleine Elster di “La donna che visse due volte” (1958). Ma anche donne coraggiose e intelligenti come Teresa Wright in “L’ombra del dubbio” (1943) o Alicia in “Notorious” (1946), mentre il personaggio di Shirley McLaine in “La congiura degli innocenti” (1955) è assolutamente lontana dal cliché della


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ImmagInI Al centro: AlfredHitchcock In alto a destra: Tippi Hedren In alto a sinistra: Grace Kelly In basso a destra: Anny Ondra In basso a sinistra: Kim Novak Voltando pagina, gigantografia di Grace Kelly

casalinga di periferia degli anni ’50. Secondo numerose ricerche americane negli anni ’70, il cinema era uno degli ambiti principali in cui si poteva osservare una rappresentazione stereotipa della donna. Duby e Perrot affermano che il cinema classico rappresentava la donna come “oggetto” dello sguardo maschile, prendendo a modello icone come Marylin Monroe. Esistevano, però, anche delle eccezioni, pensando a alcuni personaggi femminili coraggiosi, bravi e ambiziosi, come quelli dei “Women’s film”. Le pellicole in oggetto, avevano come protagonista una donna e trattavano di questioni ed emozioni considerate femminili. Tuttavia, questi generi di film non erano di certo la regola. L’ uomo era, quindi, spesso il protagonista principale, mentre la donna aveva un ruolo passivo e svolgeva la funzione di “ornamento” della scena. Laura Mulvey, in un suo articolo aveva teorizzato tre fasi d’ “egemonia della visione maschile” come elemento costruttivo dei film classici del cinema:

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,Le bionde sono le vittime ideali, sembrano virginali fiocchi di neve dai quali traspare un impronta insanguinata

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· Lo sguardo della telecamera, che è condotta da un uomo e quindi dal punto di vista maschile; · Lo sguardo dei protagonisti maschili che vedono gli altri uomini come soggetti e le donne invece come oggetti; · Lo sguardo dello spettatore che conferma la visione della telecamera e della trama. Ovunque sembrava che il medium fosse prodotto da uomini per uomini. Questo fatto non è sorprendente, dato che, negli anni ’80, poche donne erano presenti in ruoli decisivi, e avevano poca, se non nessuna influenza su decisioni circa la programmazione e il contenuto. L’ immagine della donna nei media, che ha sollecitato, molti studi sul tema, era in realtà, l’immagine della donna secondo la proiezione maschile. Le donne di Hitchcock sono sempre in balia di uomini, molto spesso potenti, mentre le traditrici o le femme fatale fanno sempre una brutta fine. Quasi tutte comunque sono cattive e destinate a soffrire. E sono sempre bionde: dal platino estremo di Kim

Novak in “La donna che visse due volte” (1958), alla chioma dorata di Ingrid Bergman di “Notorious”, Hitchcock le descrive così: «Le bionde sono le vittime ideali, sembrano virginali fiocchi di neve dai quali traspare un’impronta insanguinata». Se Hitchcock ci sembra ambivalente verso la figura femminile, la sua posizione verso quella materna è assolutamente chiara. Lo vediamo in “Psycho” (1960) che non ha bisogno di analisi e sotto-testi, è palese il complesso edipico e il ruolo riservato alla figura della madre. La stessa cosa, leggermente occultata ma non troppo, la vediamo in “Gli uccelli” (The birds 1963), non si capisce bene perché i volatili siano impazziti e abbiano cominciato ad attaccare e, guarda caso, si fanno più aggressivi quando la mamma di Mitch vede Melanie avvicinarsi al figlio. Nel 1988 l’esperta Tania Modleski, ha analizzato tutto questo nel saggio “The women who knew too much. Hitchcock and Feminist Film Theory”, prendendo in considerazione i sette film principali del regista e

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tenendo conto del contesto storico e degli altri film dell’epoca. La finestra sul cortile (1954) ci fornisce un perfetto esempio hitchcockiano di ambivalenza e uso dello sguardo. LB Jefferies (James Stewart) è un fotografo con una gamba rotta e per questo è bloccato su una poltrona, dalle finestre di casa sua può vedere quelle dei vicini e sospetta che un uomo abbia ucciso la moglie. Noi, come lui, siamo bloccati – spettatori passivi dei drammi umani messi in scena – si crea così un rapporto intimo tra noi e Jeff e ci identifichiamo nel suo sguardo: quelle finestre diventano il suo e il nostro cinema. La figura femminile principale è la fidanzata Lisa Freemont (Grace Kelly). Nella sua prima scena appare sfocata agli occhi appena aperti di lui, ancora mezzo addormentato, mentre si piega per baciarlo. Può essere una donna prostrata all’uomo o quasi una figura femminile materna e quindi dominante, non oggetto ma soggetto femminile. Oppure ancora: Lisa entra nella casa dell’assassino mentre Jeff la guarda bloccato e inerme. Lei è nella casa del presunto assassino, oggetto del

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ImmagInI A destra: Teresa-Wright A sinistra: Anny Ondra In alto a destra: Joan Fontain In alto a sinistra: Shirley Maclaine In basso a destra: Ingrid Bergman


nostro e del suo sguardo e vuole compiacerci, lo/ ci saluta come a dire: guarda, guarda come sono brava, guardami. O è soggetto: cerca le prove in un luogo pericoloso mentre lui è fermo e passivo lei è nel pieno dell’azione: l’eroina. Sono tutte chiavi di lettura-critica corrette, una non esclude l’altra. Il cinema di Hitchcock è quindi segnato da dinamiche del desiderio ambigue. La violenza cui vengono sottoposte le donne sembra pari alla forza nascosta dietro la maschera di fragilità che indossano o sono costrette a indossare. Anche la distinzione tra le diverse visioni e identificazioni come spettatore o spettatrice si assottiglia, secondo la Feminist Film Theory. Ad esempio, lo spettatore a volte si identifica fortemente col femminile, come in “Rebecca - la prima moglie“ (1940) o in “La finestra sul cortile” (1954) tende a identificarsi con il soggetto maschile passivo. «Così anche il cinema classico diventa una forma simbolica più aperta, capace di ospitare, a seconda dei film, dinamiche del desiderio ed esperienze spettatoriali diverse» (Paolo Bertetto).

Quindi Hitchcock era misogino o progressista rispetto al patriarcato Hollywoodiano? In realtà resta perfettamente ambivalente. Analizzando maggiormente la complessità della rappresentazione e del filtro personale del re del brivido, non possiamo che – ironia della sorte – trovarci davanti a un mistero. L’arte è sempre comunicazione, ed è intrecciata al suo contesto. Per questa ragione l’importanza della feminist film theory non sta nelle risposte, ma nel porsi le giuste domande. Bisogna approcciarsi in modo critico a quello che si guarda. Il male gaze è un dato di fatto che non toglie valore al prodotto cinematografico o artistico in senso più ampio. Ciò non toglie che la sua massiccia presenza in film, libri, pubblicità e fumetti, influenzi sia la realtà sia il nostro immaginario. I problemi saranno anche altri, ma oggi dovremmo avere tutti i mezzi per fruire del cinema in modo più consapevole. La realtà è che una rappresentazione non è mai solo una rappresentazione.

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vorresti AlzArti in cielo A urlAre chi sei tu, mA il tempo pAssA e non ritornA più... - Francesco Guccini -

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Stereotipi e pubblicità Tra immaginario e realtà

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a cura di Sara Potente



Gli individui sono costantemente bombardati di informazioni provenienti dall’ambiente esterno, ed è inevitabile e funzionale che tali informazioni vengano selezionate, elaborate e immagazzinate in modo attivo, anche se più o meno consapevole. Tali input, siano essi visivi o uditivi, vengono però trasformati in rappresentazioni simboliche, ovvero immagini economiche e impoverite del mondo reale. Se chiediamo a un qualunque individuo di pensare a una mela, con molta probabilità si attiverà nella mente del nostro interlocutore o della nostra interlocutrice, la rappresentazione di un frutto rotondo, di colore rosso, con una bella foglia verde; allo stesso modo, alla parola “tavolo” viene associato un oggetto formato da un ripiano quadrato e quattro gambe, per lo più di colore marrone dando per scontato il legno come materiale di fattura.

i generi come un sistema bi-classificato, rigido e vincolante. A ogni individuo, sin dalla nascita è assegnato una delle due categorie di genere, la mascolinità o la femminilità che sono caratterizzati determinati “attribuiti polari” (come per esempio: attivo, passivo, forte, debole, coraggioso, pauroso ecc.). È nell’attribuzione di tali caratteristiche che si può costruire un ordine sociale fatto di disuguaglianze. Tale ordine sociale insiste nel sostenere che la disuguaglianza è biologicamente attribuita e quindi vincolante. Nel corso del processo della loro formazione di identità, uomini e donne devono sempre confrontarsi con il concetto di polarizzazione. Secondo Mühlen Sachs si spiega così il rapporto sessista dei generi nei media, che creano la fantasia di una “superiorità maschile”.

La rappresentazione di contenuti mediatici crea dunque una rappresentazione della realtà, e quindi determina fortemente il nostro modo di vivere e di pensare. In questo senso è utile fare riferimento ai gender studies, che studiano oltre all’immagine femminile (femminilità) anche l’immagine corrispondente, quella maschile (mascolinità), e la relazione specifica tra di loro nei contesti sociali, ma soprattutto nei processi mediali. Chiaro come attraverso specifici codici corporali, il mito della predominio maschile è ancorato nella psiche individuale. La nostra cultura concepisce

L’ambiente che ci circonda è senza ombra di dubbio complesso e ricco di elementi; in ogni momento siamo colpiti da informazioni percettive che dobbiamo analizzare e valutare il più velocemente possibile per agire e interagire con il mondo circostante, prevedendo per lo più quali saranno le conseguenze nell’approcciarsi ad una certa situazione in un particolare modo.

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Così ogni individuo, al fine di meglio rapportarsi alla realtà, mette in atto un processo cognitivo detto di categorizzazione: costruisce cioè delle categorie formate da elementi che hanno le stesse


caratteristiche fondamentali, creando dei modelli detti esemplari (come approcciarsi ad una certa situazione in un particolare modo. È un meccanismo sano e funzionale alla vita di tutti i giorni. Pericolosi sono però i meccanismi che si attivano e s’insinuano nel momento in cui la categorizzazione è applicata per raggruppare gli esseri umani; tale meccanismo porta ad associare un individuo a un gruppo poiché condivide con i suoi membri determinate caratteristiche. È da qui, in altre parole, che nascono i cosiddetti stereotipi. Gli stereotipi sono schemi rigidi e impermeabili al cambiamento, formati da credenze e opinioni, socialmente condivise, attribuite a un gruppo sociale; questi schemi finiscono per influenzare le relazioni e i comportamenti sia di chi li applica sia di chi ne è colpito. I media sono sicuramente uno dei principali colpevoli della diffusione di stereotipi, e in particolar modo la pubblicità commerciale, che è una forma di comunicazione con lo scopo di persuadere il consumatore ad acquistare determinati prodotti. Per questo si serve di diversi linguaggi: parole (linguaggio verbale), immagini (linguaggio visivo ed iconico), suoni (linguaggio sonoro e musicale). I messaggi persuasivi della pubblicità sono sia diretti che indiretti. I messaggi diretti sono slogan e parole che lodano la qualità del prodotto, immagini che ne esaltano l’aspetto (primi piani o particolari messi in evidenza) allo scopo di invogliare all’acquisto.

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W Accanto a questi vi sono altri messaggi non direttamente legati ai prodotti, ma che li collegano ad ambienti o situazioni fortemente desiderabili. Essi sono comunicati dall’ambiente in cui è inserita la pubblicità (ad esempio spiagge tropicali, abitazioni con cucine e bagni enormi e lussuosamente arredati, ecc.) o dall’atmosfera che la pubblicità riesce a creare, spesso trasmettono sensazioni di benessere, sicurezza, prestigio personale. I messaggi indiretti sono più difficili da riconoscere e per questo possono condizionare al livello inconscio più facilmente dei messaggi diretti. I messaggi indiretti spesso trasmettono immagini stereotipate dei ruoli maschili e femminili, cioè modelli prestabiliti e ripetuti sempre allo stesso modo. Un approccio molto utile allo studio della pubblicità è quello dell’analisi semiotica, che ci permette di capire «in che modo una società produce degli

stereotipi, ossia degli eccessi di artificio, che essa poi consuma come dei sensi innati, ossia come degli eccessi di natura» (Roland Barthes). Una delle figure più autorevoli nel campo dei Media and Cultural Studies è stata Judith Williamson che ha offerto a questo movimento una teoria e una metodologia analitica negli studi sulla pubblicità. L’autrice studia «il processo di trasformazione del significato e del significante», e sostiene che il significato degli annunci pubblicitari risiede nelle differenze che questi stabiliscono. La pubblicità è un sistema di comunicazione in cui si crea una differenza mettendo in giustapposizione immagini prese da contesti diversi. Come esempio ha riportato la pubblicità di “Chanel No 5”, che semplicemente giustapponeva una fotografia dell’attrice Catherine Deneuve ad un flacone del profumo. Il lettore è portato a fare una connessione tra l’immagine della Deneuve (raffinatezza, femminilità, eleganza) e quella del profumo. Il concept del testimonial diventa un significante per il profumo. La pubblicità, come la vediamo nella TV oppure nelle riviste, ha allora come scopo primario quello di vendere prodotti. In realtà però succede molto di più: vengono trasmessi intenzionalmente anche valori, immagini, concetti di amore e sessualità, di successo e romanticismo, aspetti che creano ideali e definiscono quindi cosa siamo e cosa dovremo essere. Specialmente le donne sono colpite da questa penetrazione di concetti venduti come “normali”. Le pubblicità ci circondano incessantemente con una finta rappresentazione della bellezza femminile che è “flawless”. Così la donna già da ragazza impara che deve spendere un’immensa quantità di tempo,

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energia e soprattutto soldi sforzandosi per poter raggiungere questo ideale di donna, e vergognarsi quando invece non rappresenta o raggiunge questo ideale. Molte ricerche hanno dimostrato che le immagini di donne idealizzate non solo influiscono negativamente sull’autostima femminile, ma influiscono anche sulla percezione che gli uomini hanno sulle donne. Così la donna nella pubblicità appare come un oggetto ed è trasformata in una proiezione del desiderio dell’uomo. Spesso oggetto da osservare, in coerenza con una certa tradizione iconica occidentale, per cui l’uomo guarda e la donna viene guardata.«Gli uomini agiscono, le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne guardano se stesse mentre sono guardate. Questo determina non solamente la maggior parte delle relazioni fra uomini e donne ma anche il rapporto delle donne con se stesse. L’osservatore della donna è maschile, l’osservata femminile. Così lei si trasforma in oggetto. Più specificamente in oggetto di visione.» Un punto di vista simile viene formulato da Janice Winship, secondo la quale il godimento di forme culturali per le donne, come la stampa femminile, è sempre costruito in termini di fantasie e desideri maschili. Basta guardare le copertine di alcune riviste di donne- visi femminili, spesso anonimi, che ci sorridono timidamente- per capire che quello che viene imposto come centrale, cioè discorsi di donne per donne, è allo stesso tempo definito in rapporto all’uomo, è il suo sguardo che assume importanza; la donna, nella sua perfezione, diventa “dell’uomo”. Il rapporto tra donna e pubblicità è sempre stato piuttosto stretto. Spot, manifesti e annunci stampa hanno ospitato figure femminili di ogni tipo sin dall’origine della comunicazione pubblicitaria. Donne che «danzano mentre fanno il bucato, donne che scalano grattacieli, donne che giocano a biliardo vestite da uomo, tra mulini e staccionate, piazze e campi di grano, paradisi barocchi, stazioni, cucine super attrezzate». Donne che occupano gran parte della scena. Protagoniste indiscusse dell’immaginario promozionale di ieri e di oggi. Target privilegiato del passato, in quanto responsabili degli acquisti familiari, ma anche del presente, per la molteplicità

di prodotti destinati alle varietà dei loro ruoli e dei loro stili di vita, spesso coesistenti. Interpreti di spot o annunci di prodotti indirizzati a femmine e maschi, giovani e anziani. Oggi siamo ormai abituati ad essere esposti ad i soliti stereotipi, sia maschili che femminili, che i media ci propongono costantemente. Questi stereotipi non limitano solo l’evoluzione della società, ma condizionano ognuno di noi nella vita quotidiana. Siamo vincolati da limiti e regole di comportamento e di pensiero che sono assolutamente fuori tempo rispetto all’evoluzione degli altri aspetti della società odierna. È assurdo il fatto che nel 2017 una donna con una posizione di leadership possa far sentire a disagio dei dipendenti uomini perché si sentono devirilizzati, o che un uomo non sia libero di denunciare molestie o abusi sessuali da parte di donne per timore di ottenere risposte come «Bè, non ti ha fatto piacere? Beato te...».

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W Se nonostante la globalizzazione e il grande innalzamento di livello culturale degli ultimi decenni ancora ci sono questi limiti mentali, è per buona parte a causa di messaggi mediatici sbagliati e falsi. L’immagine della donna, ma anche dell’uomo, che i mass media diffondono non è il ritratto di una condizione reale, ma la rappresentazione simbolica di un modello che segue ideali e aspirazioni collettive, ma che è impossibile da raggiungere. Nella prima metà del novecento invece troviamo lo scenario opposto: gli stereotipi diffusi dai media non sono ne falsi ne irraggiungibili, sono anzi lo specchio della società fortemente maschilista e patriarcale di quegli anni. Viene riproposto in maniera quasi ossessiva lo scenario in cui l’uomo in carriera e di successo viene assistito o accompagnato da una devota moglie, casalinga e madre di famiglia, o da una donna ottusa incapace di comprendere le esigenze del suo compagno (dunque la donna o è un perfetto angelo del focolare o è inutile). La pubblicità dei pantaloni “Leggs” (1920), vede la donna letteralmente come un “tappetino”. L’immagine è inoltre accompagnata dallo slogan “It’s nice to have a girl around the house”, quindi sottolineando come se non fosse già abbastanza chiaro, che la donna non è che una parte dell’arredo di casa, come un mobile o un utensile che fa sempre piacere avere a portata di mano. Altrettanto disturbante è l’inserzione della “Postage Meter” (1947), macchina per i francobolli, dove vediamo un uomo che inveisce contro una donna, l’ottusa creatura infatti non sembra capire come funzioni la macchina. Oltre ad essere una stolta ovviamente, la donna è

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anche altezzosa e piena di se, e tiene il volto voltato con arroganza, come se fosse stanca di ascoltare quello che le viene detto, mentre il pover’uomo esasperato dalla sua stupidità non può far altro che chiedersi “è sempre illegale uccidere una donna?”. La locandina delle cravatte “Van Heusen” manda invece un messaggio più diretto. “Show her it’s a man world”, quindi tutto il mondo, non solo a casa, ma anche fuori, qualunque aspetto della società, appartiene all’uomo. La donna è solo un contorno, una spalla di appoggio che è l’uomo a scegliere di usare o meno, è l’uomo a prendere qualsiasi tipo di decisione anche sulla sua vita; la donna è praticamente una schiava che dev’essere pronta ad obbedire, non per niente viene rappresentata in ginocchio mentre serve il suo signore e padrone. Negli anni 60/70 era chiaro che il movimento femminile si fosse vitalizzato a tal punto da non poter essere più frenato. Venne denunciato il modus operandi di noti quotidiani, per esempio la Newsweek. La pubblicità ricopre un ruolo decisivo non soltanto all’interno del vasto campo delle comunicazioni di massa, ma soprattutto all’interno del sistema del consumo: la pubblicità, cioè, si caratterizza soprattutto perché cattura i messaggi ed i significati già esistenti nell’immaginario collettivo per immetterli direttamente nelle merci vendute sul mercato ai consumatori, affinché esse li ritrasmettano a questi ultimi. In questo periodo ciò che si svolgeva in pubblico nelle strade, era in forte contrasto con l’immagine diffusa della donna in TV: giovane,

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perfettamente curata, sempre sorridente, che non si lamenta mai, modesta, e con l’ intento di compiacere sempre. Al contrario, l’ immagine reale e caratterizzante di questo movimento era quella di donne furiose, che argomentavano, accusavano e battevano i pugni contro la stereotipizzazione delle donne nei media. Le ostentate rivoluzioni femministe di quegli anni non raccoglievano certo la maggioranza dei consensi, piuttosto erano spesso giudicate inutili, ma soprattutto assurde e senza senso di esistere. La donna non veniva considerata realmente come persona in possesso di pensiero individuale e potere decisionale, una donna doveva seguire e avallare il pensiero di suo marito/padre; per capire quanto assurde apparissero le rivoluzioni possiamo paragonarle ala richiesta di un bambino di 6 anni di avere lo stesso potere decisionale e gli stessi doveri e responsabilità dei suoi genitori. Ovviamente nessuno sarebbe incline a dare queste concessioni, poiché un bambino di 6 anni non ha la maturità, l’intelligenza ne nessuna pratica capacità per potersi autogestire. Ovviamente il paragone è esclusivamente in relazione all’assurdità della richiesta, non alla situazione, dato che il bambino deve essere gestito per poter essere protetto, mentre la donna per semplice senso di possesso da parte del patriarca. Il mondo della pubblicità, e dei mass-media in generale, come è sempre stato ed è tutt’ora, cerca di incontrare il favore del grande pubblico, della massa, e nella fattispecie naturalmente non si trattava

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delle femministe. Inizia così una battaglia neanche troppo velata tra femminismo e la comunicazione mediatica, dove l’oggettivazione della donna veniva esasperata intenzionalmente, di modo non ci fosse dubbio sull’identità ideologica del programma o del prodotto. Un esempio emblematico è la pubblicità del robot da cucina “Chef Kenwood” (1961), il cui slogan rispecchia benissimo la lotta contro il femminismo intrapresa in quel periodo dai mass-media: “Chef fa di tutto, tranne cucinare - per questo ci sono le mogli!”. L’ Italia è uno dei paesi in cui è più evidente come nell’ambito della pubblicità commerciale siano attualmente dominanti un’idea della donna legata ad immagini tradizionaliste e stereotipate e una concezione del rapporto tra uomo e donna in cui quest’ultima ha un ruolo subalterno e inferiore. La pubblicità e le immagini che essa trasmette suggeriscono come stereotipi e pregiudizi verso il mondo femminile siano pervasivi attraverso i vari livelli delle classi sociali italiane: Guido Barilla ha dichiarato di voler utilizzare negli spot solo famiglie tradizionali, escludendo quindi persone divorziate, coppie di fatto e tanto più coppie gay; questo dimostra come anche presso la classe dirigente italiana sia assai diffusa l’idea che la donna generalmente debba assumere un ruolo subordinato e riservato esclusivamente alla custodia della famiglia e della casa. E questa concezione della femminilità emerge, in maniera implicita o esplicita, nelle scelte di comunicazione di tante aziende importanti italiane.


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W La questione inoltre non si limita solo all’amplissima diffusione di immagini tradizionaliste della donna nel contesto familiare, immagini che oggi appaiono a molti (ma non a tutti) trite e superate. Quello cui assistiamo da molti anni è la rappresentazione della donna unicamente in quanto corpo, oggetto del desiderio sempre disponibile all’uomo di buona volontà. Siamo assediati da immagini pubblicitarie di corpi femminili nudi o seminudi utilizzate in modo completamente scollegato e avulso dal prodotto che si intende promuovere e dal contesto in cui esso è inserito. Un chiaro esempio è famosissima campagna pubblicitaria di un’altrettanto conosciuta azienda di yogurt, che ci accompagna da anni nella vita quotidiana, dove è continuo il richiamo alla sessualità e alla soddisfazione del desiderio attraverso la ripetizione quasi ossessiva di immagini di donne sensuali ed attraenti; già solo allo slogan “Fate l’amore con il sapore”, come se gli ideatori di tale strategia di marketing avessero concepito uno yogurt “per adulti”, vietato ai minori. Chiarendo il fatto che non è negativa la diffusione in sé e per sé di immagini di nudità maschile o femminile e che ogni censura sarebbe inutile e dannosa, oltre che reazionaria, in questo caso però l’uso così massiccio di corpi femminili sessualizzati in ambiti dove la nudità non ha niente a che fare, è sintomo di una concezione da parte

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di chi crea tali messaggi, della donna come oggetto subalterno all’uomo. Tali scelte aziendali diventano poi veicolo di diffusione tra la massa, di questa visione del rapporto tra i sessi. Quando anche nella pubblicità sono presenti entrambi i sessi, ciò spesso è occasione per ribadire la distribuzione dei ruoli, dove è comunque l’uomo ad esser il più forte; questa concezione viene spesso veicolata da immagini che rimandano anche all’idea di affermazione violenta del dominio maschile. Esempi di ciò sono spesso evidenti in filmati o fotografie di molte marche di abbigliamento o di cosmetici. Una nota pubblicità di un marchio italiano d’alta moda, ritrae ben quattro uomini a petto nudo e una donna a terra: Certamente anche le donne possono trarre piacere nel vedere i prestanti fisici dei quattro uomini, però la ragazza ritratta si trova a terra in posizione arcuata con uno di loro sopra di lei che la blocca per i posi, mentre gli altri stanno a guardare; l’immagine nel suo complesso rimanda ad un contesto di aggressività abbastanza inquietante, dove comunque il maschio prevale. In molte pubblicità infatti emerge l’idea del rapporto tra uomo e donna in cui il primo è in una posizione di superiorità legittimata anche attraverso le diverse forme di violenza, sia essa fisica, verbale o psicologica.

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l’informazione è cresciutA più velocemente dellA culturA

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- Georges Brassens -

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W a cura di Silvia S. G. Palandri

Il Gender Gap Dell’Informazione

“Di che tipo è la presenza delle donne nel sistema di vecchi e nuovi media? Perché le donne vengono interpellate quasi sempre come testimoni e quasi mai come esperte?”

Le ultime elezioni amministrative hanno nuovamente dimostrato i limiti dell’atteggiamento culturale dei mezzi di informazione nei confronti delle donne. L’elezione di donne a cariche istituzionali solitamente ricoperte da uomini, ha messo in crisi il mondo dell’informazione che ha dovuto confrontarsi con un uso della lingua italiana più adeguato che riconoscesse legittimità alla professionalità femminile. Il tema del rapporto tra media e donne d’altronde è annoso, già negli anni ’70 negli Stati Uniti e in Inghilterra, l’Ufficio nazionale della pubblicità da una parte, e il Sindacato nazionale dei giornalisti dall’altra, avevano invitato i propri

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iscritti a tenere un linguaggio parlato, scritto e visivo privo di stereotipi. Tuttavia, le prime tracce di analisi mediatica mirata sul genere risalgono al 1979 quando l’Unesco pubblicò un resoconto di materiali e ricerche degli anni precedenti. Con questo testo si analizzava il rapporto tra i mass-media e il ruolo, l’immagine e la condizione sociale delle donne nei paesi occidentali e negli Stati Uniti. Al tempo vennero presi in considerazione tutti i mezzi di comunicazione di massa: radio, giornali, film e televisione. L’analisi concluse che l’immagine che si traeva era stereotipata, riproponeva soprattutto i ruoli di madre e di moglie, e si mise


in luce come la rappresentazione dei ruoli femminili a sua volta influenzava come le donne si percepivano e venivano percepite dalla collettività. Tra le conclusioni si sottolineava anche il fatto che all’interno dell’organizzazione verticale e orizzontale dei mass media, la scarsa presenza femminile ad ogni livello e in ogni aspetto era da attribuire esclusivamente a considerazioni culturali che influenzavano l’organigramma dei media a sfavore delle donne. Tra le proposte si individuava la necessità di reclutare donne qualificate, così che potessero ambire anche a ruoli dirigenziali per cambiare questa mentalità stereotipata. Inoltre, si suggeriva di istituire riferimenti valutativi basati sulle capacità e la necessità di continuare a monitorare questa condizione, di creare banche dati sulla condizione delle donne nei mass media che fossero di riferimento ai governi, ai mezzi di informazione specializzata e

ai privati per pensare a future politiche e ricerche. Questo auspicio verrà alla luce nel 1995, dopo la Piattaforma di Beijing, con il Global media monitoring project, che ad oggi è il progetto di ricerca sul gender nei media più longevo e che è diventato un vero punto di riferimento per istituzioni e privati, fornendo ogni cinque anni dati e ricerche che vengono seguite e utilizzate da istituzioni pubbliche e private in tutto il mondo. Dall’ultima analisi, del 2015, si evidenzia che il tema del media gender gap ha dimensioni globali. In Europa la presenza di donne come soggetti o fonti di notizie è incrementata di solo 9 punti percentuali dal 1995 al 2015, passando dal 16% al 25%, mentre in America del Nord la percentuale è passata dal 27% al 36% e in Africa ed Europa dell’Est la situazione è rimasta pressoché invariata nel tempo. Anche i nuovi media registrano una scarsa presenza femminile



nelle notizie online, le donne infatti compaiono solo per il 26% in Francia, il 29% in Italia, il 28% in Inghilterra e il 43% negli Stati Uniti. In generale in Europa il ruolo delle donne nei mezzi di informazione tradizionali in qualità di esperte o commentatrici è solo del 18% mentre come espressione di un’opinione popolare raggiunge il 42%. Nell’America del Nord le percentuali si alzano ma la disparità rimane notevole, le donne esperte sono il 32% ma come opinioniste popolari raggiungono il 78%. Anche negli Stati Uniti perciò la situazione non è idilliaca e solo di recente si è sentita la necessità di sviluppare, nella ricerca, l’aspetto della legittimità riconosciuta al ruolo e alla sapienza delle donne nei media. Nel 2005, l’attrice Jane Fonda ha creato il The women’s media center, che ogni anno pubblica la ricerca The Status of women in the US media. Il trend osservato dall’analisi del Centro non è affatto positivo, lo scorso anno ad esempio sulle principali reti televisive americane Abc, Cbs, Fox, Nbc, Cnn nei programmi dedicati alla politica della domenica mattina su una media di 4000 ospiti totali, solo il 30% sono state donne e la percentuale si riduce ulteriormente al 22% nelle tematiche di politica estera. Il centro ha quindi pensato di creare un database messo a disposizione degli stessi media, SheSource,costituito dai curricula delle eccellenze al femminile a cui rivolgersi per avere una consulenza o per invitare un’esperta a intervenire nelle trasmissioni.

Gaela Bernini: La scienza deve pervadere la società “La scienza è cultura e come tale deve incoraggiare diversità e parità di accesso alle opportunità”. Questa la frase contenuta nel libro che introduce il progetto 100 donne contro gli stereotipi, ideato e promosso da Gi.U.Li.A giornaliste, Osservatorio di Pavia e Fondazione Bracco, che ha l’obiettivo di mettere a disposizione i nomi di donne esperte in ambito STEM che possono contribuire al dibattito pubblico. Questo perché è stato dimostrato quanto raramente le donne siano interpellate dai media in qualità di esperte: secondo il Global Media Monitoring Project 2015, infatti, a spiegare e interpretare il mondo sono nell’82% dei casi gli uomini. “Siamo partite a novembre – racconta Gaela Bernini, responsabile dei progetti scientifici e sociali di Fondazione Bracco – con una banca dati online di nomi e curricula di esperte nell’ambito delle Science, Technology, Engineering and Mathematics (STEM), settore storicamente sotto-rappresentato dalle donne ma strategico per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese”. Banca dati che raccoglie ormai quasi 100 nomi destinati ad aumentare. “Le donne possono inviare tramite il portale la propria candidatura – continua la Bernini – che viene validata, secondo i criteri definiti e pubblicati, dal centro GENDERS dell’Università degli Studi di Milano. Ora dovremmo partire con il settore Economia e Finanza per ampliare il numero di esperte in un altro settore a prevalenza maschile”.Per verificare l’efficacia del progetto, è stato chiesto alle scienziate inserite in banca dati al fine di verificare se, anche grazie al portale e alla campagna di informazione e comunicazione fatta, ci sono stati contatti nuovi coi media. “Quello che abbiamo scoperto grazie al progetto – continua Gaela Bernini – è che le scienziate selezionate hanno saputo raccontare le loro storie raccolte nel libro aggiungendo sempre un lato emotivo. Hanno tutte un potenziale comunicativo altissimo. Sono preparate, simpatiche, intelligenti, piacevoli da ascoltare, adatte alla divulgazione insomma. Un vero peccato non poterle vedere inserite in dibattiti pubblici, convegni o altre occasioni che possano mostrare il loro lavoro”. COME AVVICINARE LE PERSONE (NON SOLO LE DONNE) ALLA SCIENZA? La scienza deve pervadere la società, di questo abbiamo un grande bisogno per il progresso del Paese e le donne potrebbero assumere un ruolo guida. Chiaramente per fare questo serve un cambio culturale ovvero investimenti e progetti specifici da organizzare a partire dalle scuole. Ad esempio Fondazione Bracco ha promosso quest’anno un progetto di alternanza scuola-lavoro, una settimana da ricercatrice, che voleva avvicinare le ragazze agli studi delle biotecnologie. E’ un nostro contributo finalizzato a far appassionare le giovani donne alla scienza. Oltre a questo, attraverso altri progetti, come fondazione cerchiamo di accompagnare – tramite borse di studio, attività di mentoring e promozione dell’autoimprenditorialità– i giovani di talento nel loro iter formativo e professionale, promuovendo percorsi innovativi di consolidamento tra il mondo accademico e quello del lavoro. Lo strumento è il progetto Diventerò, presentato nel febbraio del 2012, perché sappiamo che sostenere i talenti è vitale per il futuro e per la trasformazione della nostra società.

In Inghilterra è nel ventunesimo secolo che si iniziano a cercare soluzioni al fatto che una percentuale elevata di presenza femminile nei media viene raggiunta solo quando si parla di vittime (79%) ma l’esperto è comunque un uomo (76%). Nel 2012 anche la rete televisiva inglese Bbc è stata richiamata per via di tale evidente disparità. Successivamente la Bbc ha cercato di rimediare creando gli Expert women’s day, ossia giorni di formazione dedicati alle professioniste sulla comunicazione televisiva. Nello stesso anno nasce il portale The women’s room che raccoglie le esperienze professionali di donne in vari settori, suddivise sia a livello

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W territoriale che settoriale a cui i media possono riferirsi. In Francia nel 2010 la ministra delle Pari opportunità, Nadine Morano, ha firmato un accordo con il presidente dei canali televisivi, con i proprietari di stampa e radio e con la commissione sull’immagine delle donne nei media, per cambiare l’immagine stereotipata veicolata dai mass media: non più solo madri, mogli, vittime o testimoni, non più femminilità intesa solo come sensualità ma piuttosto come conoscenza e preparazione. Con questo accordo, i vari mezzi di informazione si impegnavano infatti a dar maggior voce e visibilità anche alle esperte. Tuttavia, dai dati che sono emersi dall’analisi della commissione dell’immagine delle donne nei

media nell’anno seguente, le donne rappresentano solo il 18% degli ospiti nei palinsesti televisivi. Nel 2014 la situazione non è migliorata, e secondo una ricerca del Consiglio superiore degli audiovisivi sulle maggiori reti generaliste francesi Tf1, France 2, France3, Canal+, Arte, M6 e le radio Rmc, Rtl, Europe 1, France Inter nel primo trimestre dell’anno, la presenza di esperte in tv è del 20,4% rispetto al 18,9% del 2013 e in radio passa dal 16,56% al 17,73%. Le autrici di prodotti giornalistici vedono invece una flessione di presenza nonostante si assista a un aumento delle iscritte all’albo giornalistico. I dati parlano infatti di un decremento in tv: da un 40,4% del 2013 a un 38,5% dell’anno successivo, rimanendo ancorate a settori di salute, educazione e del sociale mentre restano pressoché assenti da tematiche di economia, politica internazionale o tecnologia. In radio invece si assiste a un leggero aumento di presenze di donne, dal 17,85% al 20,2%, seppure molto spazio viene dato a donne impegnate in politica in quanto già popolari. Il settore della politica interna, infatti, risulta quello con le maggiori presenze femminili. Ancora in Francia, nello stesso anno, un’associazione di ragazze dedite alla tecnologia Girlz in web, lancia

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l’annuario delle esperte del digitale, un portale che propone 400 profili di donne specializzate nelle nuove tecnologie con l’intento di diventare il più grande annuario di esperte in questo settore chiave dell’economia francese. Il progetto ha avuto il sostegno di Google per le aziende e del Women’s forum. In questo clima, anche l’arte di una fotografa francese Marie Hélène le Ny ha aiutato a creare un nuovo rapporto tra immagine, mezzi di comunicazione e sapienza femminile. Nel 2010, ispirata da Simone de Beauvoir e dal suo “donna non si nasce ma si diventa”, realizza Du côté des femmes, on ne naît pas femme, on le devient..., una mostra che ritrae 192 donne a cui fa scegliere una lettura che le rappresenti e che accompagnerà le loro immagini. Emblema di questo primo progetto è la foto della storica Michelle Perrot che legge Virginia Woolf. Da questo primo lavoro è nata una fruttuosa collaborazione con il ministero dell’Istruzione superiore, dell’Università e della Ricerca che le ha affidato nel 2013 un ulteriore progetto artistico Infinités Plurielles finalizzato a promuovere l’immagine delle scienziate, perché l’esempio crea e modifica i modelli sociali. Anche per questo progetto, l’artista riprende la tecnica usata nel primo: fotografie in bianco e nero per staccare l’immagine della realtà da quella che viene proposta dai media per contribuire a creare l’immaginario collettivo delle e sulle donne. In Italia è l’Osservatorio di Pavia, che su modello del GMMP, su proposta del consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, ha avviato dal 2001 una ricerca sull’immagine delle donne nei programmi di fiction e di intrattenimento, che nel 2004 ha incluso anche l’informazione. Lo studio ha preso in considerazione le maggiori reti nazionali, pubbliche e private, le reti Rai, Mediaset e La7, e in particolare i loro più noti talk show d’informazione. I risultati evidenziano una percentuale della presenza femminile del 24%, su quasi 2000 ospiti, legata spesso a temi sociali (22%), di costume e società (16%), di cronaca (11%) mentre la loro presenza

diventa irrisoria in questioni come la politica (6%), l’economia (7%), le telecomunicazioni (3%) e la giustizia (3%). Non a caso la presenza femminile risulta significativa e di spessore solamente in quei programmi di dibattito che prevedono un’alternanza tra attualità, gossip, politica, cronaca e nelle quali spesso viene affiancata da una presenza maschile mentre è raro che succeda il contrario. Gli uomini, infatti, ospiti in qualità di esperti sono il 66% contro il 37% delle donne che più spesso sono interpellate come testimoni o narratrici di esperienze personali (49% contro il 25% degli uomini). Nel 2014 l’Osservatorio di Pavia ha realizzato anche uno studio per la Rai. L’analisi delinea che, ancora, su più di 700 programmi delle reti pubbliche presi in considerazione tra informazione, fiction e intrattenimento, le donne risultano raramente protagoniste. Le giornaliste, le conduttrici e le presentatrici sono il 41% ma una donna è invitata in qualità di opinion maker solo nel 32% dei casi. I settori in cui le donne sono maggiormente presenti restano ancora quelli del servizio e dell’intrattenimento, mentre nei telegiornali sono presenti per il 37% ma solo come testimoni dirette e solo per il 16% come esperte. L’unico dato di rappresentanza femminile che supera il 50% è quello che le vede partecipare alle trasmissioni in qualità di pubblico in studio o da casa. È evidente che l’Italia abbia bisogno di un enforcement per valorizzare le

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W eccellenze femminili, un tentativo a riguardo vedrà la luce proprio in autunno e si chiamerà Cherchez la femme. Cento nomi di donne contro gli stereotipi. Una guida, cartacea e online, pensata dalle giornaliste Giovanna Pezzuoli, Luisella Seveso e Monia Azzalini della rete Giulia, rete nazionale di giornaliste unite, libere ed autonome da sempre impegnate attentamente

e attivamente nel sollecitare il rispetto delle differenze di genere. Il portale e la guida cartacea daranno visibilità alle abilità professionali di cento donne in ogni settore e si propongono come punto di riferimento per abbattere il media gender gap, per un mondo della comunicazione più completo ed equilibrato. Basterà far sapere che sappiamo? Le ricerche e le analisi future ce lo diranno.

ICT- le donne non sono adatte! Intervista doppia a Giovanna Pezzuoli e Luisella Seveso

Poche donne ai vertici delle grandi compagnie dell’hi-tech? “La causa è biologica”, è ciò che ha scritto un programmatore di Google in un documento che sta facendo il giro dei media USA. Le donne, si legge, avrebbero una “apertura indirizzata verso i sentimenti e l’estetica piuttosto che verso le idee“, e per questo “preferiscono lavori in ambito sociale o artistico”. Stereotipo duro a morire evidentemente e rinverdito nonostante la smentita della vice presidente di Google Danielle Brown che ci ha tenuto a far sapere che questo punto di vista non è ne appoggiato, ne promosso o incoraggiato dalla società. “Cambiare una cultura è difficile, spesso scomodo”, ha

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scritto. Eliminare gli stereotipi è dunque impossibile? Ne abbiamo parlato in questa intervista doppia con Giovanna Pezzuoli e Luisella Seveso, curatrici della pubblicazione 100 donne contro gli stereotipi. Cosa significa oggi parità di genere? Perchè capita, parlando di questo argomento, di essere subito etichettate (anche dalle donne) come femministe fuori tempo? Giovanna Pezzuoli: L’eliminazione delle diseguaglianze fra i sessi è un obiettivo sicuramente non ancora raggiunto, per il quale ritengo che sia giusto battersi, anche se sono un po’ allergica a

parole come “parità di genere”, “pari opportunità”, perché mi sembrano inadeguate a esprimere la ricchezza e complessità di un pensiero femminile radicato nella nostra specificità. Oggi il nuovo protagonismo delle donne (mi riferisco alla “terza ondata” del femminismo, dalla straordinaria Women’s march alla mobilitazione di “Ni una menos”) va di pari passo con una diffusa diffidenza nei confronti di questo tipo di rivendicazioni, soprattutto da parte di donne giovani che svolgono lavori qualificati. Si sentono in tutto e per tutto pari agli uomini e vivono come una diminutio o un inutile vittimismo l’insistenza sulla disparità. Per esempio, sono le più ostili alla


declinazione femminile dei nomi, un obiettivo per cui noi di GiULiA ci siamo a lungo battute: si sentono “avvocato”, “medico”, “prefetto” perché amano quel sostantivo maschile, come fosse il vessillo di un fortino conquistato, senza rendersi conto che vi è nascosta l’accettazione di un modello che alla lunga le danneggia. Certo è che molti stereotipi negli ultimi venti o trent’anni hanno banalizzato il femminismo. Basta ricordare l’enorme seguito avuto dalla campagna women against feminism lanciata nel giugno del 2014 con #we don’t need feminism because. Paradossalmente i motivi erano assolutamente condivisibili: non ho bisogno del femminismo

perché non odio gli uomini, perché essere una donna non è uno svantaggio, perché ho la mia opinione, perché non mi sento una vittima… Luisella Seveso: Parità di genere non è un principio che possa cambiare nel tempo. Io sono convinta che il senso è proprio quello che le parole ci indicano: che parità ci deve essere per tutte e tutti in ogni ambito, lavorativo e privato. Questo naturalmente non avviene, e se apparentemente le opportunità delle donne oggi sono paritarie rispetto a quelle degli uomini, (certamente negli ultimi 50 anni molte cose sono cambiate, ci mancherebbe, ma non moltissime) ci sono ancora

abissi di ineguaglianza a tutti i livelli da colmare. Vogliamo parlare della differenza di retribuzione a parità di lavoro, che è una delle vergogne inspiegabili? Vogliamo parlare dell’inesistenza della conciliazione nei rapporti familiari tra uomo e donna, dove la conciliazione non dovrebbe essere intesa, come invece si fa, nel far quadrare il cerchio tra tempi di lavoro e incombenze familiari da parte delle donne, ma nella divisione dei compiti tra uomo e donna? Vogliamo parlare, ed è il punto su cui abbiamo incentrato il progetto “100 esperte”, dell’invisibilità delle numerose prestigiosissime scienziate (ma anche economiste, storiche, politologhe) che vantano

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successi importanti nel proprio ambito di ricerca e che sono regolarmente ignorate dai media, spesso avversate dall’accademia maschilista nelle loro giuste aspirazioni professionali? Tutta la nostra cultura è ancora intrisa di stereotipi sessisti che si fatica non solo a superare, ma anche a individuare. Chi indica le donne che si battono per questi principi come femministe fa bene, se essere femministe vuol dire impegnarsi per far cambiare le cose.

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Non mi offenderei proprio, anzi! Se lo si ritiene un’offesa è perché lo si legge in un modo, anche qui, stereotipato, che richiama il passato ed alcuni eccessi peraltro, dal mio punto di vista, inevitabili in un contesto di forte trasformazione. Un passato grazie al quale (va ricordato perché nulla è mai acquisito per sempre, specie nel campo dei diritti), anche le donne di oggi possono sentirsi più libere. Qual’è il ruolo dei Social, dove le donne sono presenti in parità ma probabilmente senza riuscire a cogliere le opportunità di questi strumenti? Giovanna Pezzuoli: Dell’abuso dei social e delle trappole della Rete si parla ogni giorno, dal bullismo virtuale agli hate speech, dalle bufale ai troll che non di rado prendono

di mira proprio le donne, ma ci sono anche opportunità. Durante un recente incontro alla Casa delle donne di Milano si è parlato di esperienze di donne utenti e protagoniste attive nelle comunicazioni sul web, un realtà legata alla diffusione dei blog, come alla cultura Lgbt e al mondo delle professioni, ambito dove agisce anche la nostra banca dati on-line 100esperte.it. Ad esempio, la storia di Claudia De Lillo (Elasti) che quasi per gioco apre un blog anonimo dove raccontare la sua storia di mamma che lavora, scoprendo poi che la Rete può offrire un meraviglioso spazio di rinascita professionale: oggi ha 15mila followers su Facebook e un blog visitato da 8mila persone al giorno. Quella di Sofia Borri, che ha dato vita a workHer, una piattaforma digitale pensata per le donne che hanno bisogno di supporto, contatti e conoscenza, cercando un primo lavoro o volendo reinserirsi dopo un periodo di lontananza. WorkHer in due anni di vita ha più che raddoppiato le proprie iscritte, raggiungendo oggi 5mila utenti, mentre la pagina Facebook registra 12mila fan.


Luisella Seveso: Il ruolo dei social rispecchia in un certo senso la realtà non digitale: anche qui, se vogliamo parlare di “cogliere le opportunità” succede spesso che le donne si fermino prima di arrivare ad utilizzare al meglio questi media. Un atteggiamento rinunciatario che si evidenzia in molti passaggi della carriera, e in molte scelte di vita. Quasi sempre le donne sono frenate da un’ insicurezza che spesso è indotta dall’ambiente, dalle famiglie o dalla società più in generale, che non le sostiene nelle scelte ritenute (del tutto ingiustamente) più maschili. Come lo studio delle materie scientifiche, o dell’informatica. Un esempio: quando si pensa alla figura dell’informatico, si pensa ad un uomo. Il Nerd è nella visione stereotipata comune, un ragazzo con gli occhiali, mago della navigazione e del web. Non una ragazza. C’è una cosa interessante a questo proposito, un progetto avviato nelle scuole da una delle nostre 100 esperte, Paola Velardi, che ha creato Nerd (Non E’ Roba per Donne? E invece sì!) per incoraggiare le ragazze (che sono più brave dei maschi, nei licei e all’Università) ad entrare nella rete e a studiare informatica. Sostiene Velardi, tra l’altro, che l’informatica è una tra le materie interdisciplinari più creative, adattissima al pensare femminile. Il progetto NERD ha avuto ottimi risultati tra le studentesse che hanno partecipato. A volte basta provare per sfatare certi stereotipi.

L’iniziativa “100 donne contro gli stereotipi” fa intuire che questi si possano combattere con controesempi. Ma è davvero così facile? Secondo voi quali sono gli stereotipi che più di altri penalizzano le donne? Come combatterli? Giovanna Pezzuoli: Il nostro è un piccolo passo in avanti, ma crediamo nella politica dei piccoli passi! I cosiddetti role model, i modelli positivi funzionano per le ragazze che possono vedere i traguardi importanti raggiunti da tante scienziate, astrofisiche, chimiche, biologhe, informatiche, capaci di grande determinazione ed entusiasmo. L’impegno professionale non è affatto incompatibilie con una vita

familiare ricca e soddisfacente. Questo l’abbiamo scoperto anche noi intervistando 15 scienziate scelte fra le 100, un’esperienza davvero nuova e coinvolgente. Gli stereotipi che penalizzano le donne sono tantissimi, alcuni palesi, come la loro sistematica umiliazione attraverso dettagli non pertinenti che ne sottolineano la prerogativa di oggetti gradevoli e/o sessualmente interessanti; altri subdoli, sottili. Ed in fondo sono questi i più pericolosi. Mi viene in mente un brevissimo filmato di Francesca Archibugi che s’intitola “Giulia ha picchiato Filippo”. Sarebbe da far vedere in tutte le scuole: Giulia è


W una dolcissima bambina bionda che un giorno alla scuola materna si ribella ai sistematici soprusi del coetaneo Filippo e appunto lo picchia. Apriti cielo…genitori a rapporto, un vero scandalo! Luisella Seveso: L’esempio fatto prima ha risposto in parte alla domanda. Per proseguire col discorso, dico che no, non è facile

per niente, è un lavoro culturale faticoso e immane. Il nostro è un piccolo passo, ma se ne sentiva il bisogno, anche visto il successo che ha ottenuto. Anche perché siamo immersi negli stereotipi sessisti, in tv, pubblicità, a scuola (!) in famiglia, e se si osserva con più attenzione ci si accorge che a partire dai giochi,

i colori, dalle dinamiche familiari che tendono a perpetrare questa divisione di ruoli a svantaggio delle donne, tutto rema contro. Voglio fare un piccolo esempio, che cito spesso perché mi ha indispettito molto: per mesi in tv è passata la pubblicità di una grande immobiliare dove ad alcuni bambini si chiedeva di scegliere la

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propria casa ideale: la bambina, vestita come la principessina delle favole, chiedeva una casa “tutta bianca e rosa”, i maschietti “una casa nella jungla” o “nello spazio “…insopportabile! Lui spinto all’avventura e lei chiusa nel castello… Nessuno ha protestato, ed è stata lanciata proprio mentre Samantha Cristoforetti era in orbita intorno


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W alla terra….quindi le donne ce la possono fare ma la cultura in cui siamo immersi continua a negarlo! Come dice Monia Azzalini, nostra terza partener del progetto, gli stereotipi sono come le polveri sottili: sono dappertutto, ti fanno male e nemmeno te ne accorgi. Qual’è la storia che più vi ha colpite e quale la morale che ne avete dedotto e che potrebbe supportare altre donne? Giovanna Pezzuoli: Tutte le storie raccolte sono belle ed emozionanti, ma in particolare mi hanno colpita l’umanità ed il senso di responsabilità di Paola Inverardi, docente di informatica e rettrice a L’Aquila, che ha vissuto come uno

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“spartiacque” l’esperienza del terremoto del 2009. Dei cinquantacinque studenti che sono morti, cinquantaquattro erano fuori sede, cioè avevano proprio scelto di andare a l’Aquila a studiare. E questo fatto, al di là della commozione, la caricava di responsabilità: il futuro di queste ragazze e ragazzi era nelle sue mani, un grande stimolo per fare al meglio il suo lavoro. Di lei mi ha anche colpito la consapevolezza: mi ha raccontato di non aver avuto figli ma di averne capito il motivo solo in tarda età, ha realizzato che era il perfetto frutto di un condizionamento sociale, di genere. Fin da piccola infatti aveva interiorizzato il fatto

che i figli fossero inconciliabili con il tipo di vita che voleva fare. In altre parole non ha potuto scegliere, per una mancanza sociale che oggi l’accomuna a molte altre donne. Luisella Seveso: Scrivendo il libro “100 donne contro gli stereotipi“ per la “Fondazione Bracco” che (insieme alla Commissione Europea) ci ha sostenuto e ci sostiene con grande passione, io e Giovanna abbiamo intervistato alcune tra le scienziate entrate nel database. Un’esperienza davvero bellissima, perché ho conosciuto donne di straordinaria intelligenza, empatia, carattere.


Ecco, il carattere e la voglia di farcela sono state le due costanti nei racconti della loro carriera, costellate di ostacoli, e spesso di ingiustizie, ma anche di momenti di soddisfazioni, nonostante tutto. Tra le tante, davvero piacevolissime scoperte, forse quella che più mi ha colpito è Simonetta Di Pippo. Donna non facile, di grande carisma, affascinante. Mi ha colpito intanto perché ha realizzato per noi un video bellissimo in cui spiega il perché della sua adesione a 100 esperte. Poi perché fa un lavoro prestigioso e insolito davvero: è responsabile degli affari extra atmosferici dell’Onu. E infine perché, dopo aver studiato e lavorato e ottenuto ciò che voleva, (tra l’altro è stata la prima donna a dirigere l’Esa nel 1975), ha creato una associazione, “Women in Aerospace Europe” che mette in contatto le giovani scienziate con le senior, per creare una rete di contatti e di legami che possono essere d’aiuto nella carriera. Il progetto ha grandi obbiettivi, ed intende diventare mondiale. Un modo per valorizzare delle role model utilissimo alle più giovani. E per creare una rete di sorellanza importantissima. Va detto, un 10 per cento degli iscritti è composto da maschi: le donne non li vogliono combattere, insieme è meglio. In definitiva, più che una morale, un’esortazione: ragazze, abbiate coraggio, siete brave, potete arrivare dove volete. Se ci credete, e lo abbiamo verificato con queste scienziate, ma mille altre ci sono, non vi ferma nessuno.


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l’arte non riproduce ciò che è visibile, mA rende visibile ciò che non sempre lo è. - Paul Klee -

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Suzanne Lacy Arte - Identità - Femminismo

a cura di Sara Potnte


Suzanne Lacy (Wasco, California, 1945) è una Visual artist la cui prolifica carriera include performance, installazioni video e fotografiche, critica di scrittura e pratiche pubbliche nelle comunità. Tiene numerose conferenze, ha pubblicato oltre 70 testi di critica e ha esposto al The Tanks at Tate Modern, al Museum of Contemporary Art di Los Angeles, al Whitney Museum, al New Museum, al P.S. 1 a New York e al Museo Bilbao in Spagna. La Lacy è stata presidente e fondatore del MFA Public Practice presso l’Otis College of Art and Design. Ha conseguito un dottorato in filosofia presso la Gray’s School of Art in Scozia. Attualmente insegna alla Roski School of Art and Design della University of Southern California. È un personaggio complesso e importante, protagonista fin dagli Anni Sessanta dei movimenti artistici di avanguardia che unirono la performance art all’impegno sociale e all’attivismo femminista. Suzanne Lacy: «Penso che qualsiasi movimento sia fallibile, come il momento culturale nel quale opera. Nel caso del femminismo, possiamo dire adesso, quarant’anni dopo, che indubbiamente ci siano state persone miopi. Ma certe accuse di omofobia, transfobia, odio nei confronti degli uomini e razzismo con cui veniva identificato il “movimento” sono attribuibili solo a individui e piccoli gruppi, mentre non ne costituiscono l’attitudine generale. È importante comprendere dove e perché esiste la critica al femminismo, come opera politicamente. La parità salariale è una questione che incide sui profitti delle imprese. L’attenzione femminile alla bellezza ha prodotto affari da miliardi di dollari, dalla moda ai cosmetici alla chirurgia plastica. L’industria della

pornografia è una delle più redditizie al mondo, insieme al traffico di esseri umani. Potrei andare avanti. Negli Stati Uniti i repubblicani concentrano la maggior parte delle loro proposte di legge su tematiche connessealla gravidanza. Dal momento che l’80% dei loro eletti sono uomini bianchi, dovremmo chiederci chi traevantaggio da questa situazione e perché? Susan Faludi ha segnalato il fenomeno del “contrattacco” e io credo che in ogni epoca si attraversino periodi di rafforzamento dei diritti (come è adesso), cui seguono reazioni negative verso le “femministe” o le “femi-nazi” (per citare Rush Limbaugh). Ogni generazione ha diritto a scegliere le proprie istanze e le vecchie attiviste devono saper ascoltare e capire il modo in cui evolvono. C’è ancora tanto da fare per istituire la parità razziale, sociale, di genere e di preferenza sessuale: dovranno pensarci i giovani. Penso quindi che la discussione sul femminismo e sulle sfide ancora da affrontare sia tutto sommato positiva. Le giovani donne stanno definendo le proprie posizioni e se la messa in discussione delle idee femministe è parte di questo processo, così sia. Ma spero siano capaci di distinguere tra una critica che costruisce sulle idee e i traguardi del passato e una critica prodotta invece dai media controllati dagli interessi delle imprese.» È conosciuta soprattutto per il suo progetto Three Weeks in May del ’77, a Los Angeles, ed è stata molto attiva per tutti gli anni ’70, e la sua arte è rivolta a moltissimi temi sociali, dalla violenza sulle donne al maltrattamento animale. Suzanne Lacy si è occupata anche di teoria dell’arte; nel 1994 ha curato Mapping The Terrain:

Visita il sito web di Suzanne Lacy e la pagina facebook http://www.suzannelacy.com

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Immagini Lavori e progetti dei Suzanne Lacy: - Ablutions performance, 1972 - Take Back the Night, 1978, con Leslie Labowitz - Snug Harbor Art Center Exhibition and Installation, 1994 - Three Weeks in May Performance, 1977 con Leslie Labowitz - The Dark Madonna performance, 1986 - The Crystal Quilt Installation, 1985-87 - Tattooed Skeleton performance, 2010 - Gender Agendas performance 2014 -Alterations installation, 1994, con Susanne Cockrell e Britta Kathemeyer

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Immagine - Between the Door and the Street, 2013, Brooklyn

New Genre Public Art, una raccolta di interventi di artisti, curatori, scrittori e teorici che mette a fuoco l’evoluzione del concetto di arte pubblica; dalla definizione tradizionale che la intende come intervento “decorativo” nei parchi e nelle piazze a un’idea più relazionale che vede gli artisti direttamente impegnati a coinvolgere il pubblico in azioni che affrontano tematiche attuali. Il suo lavoro spazia dalle performance grafiche ed intime in cui c’è un’esplorazione del corpo, alle esibizioni pubbliche su larga scala che coinvolgono letteralmente centinaia di artisti e migliaia di spettatori. Tra le azioni corali più suggestive organizzate da Lacy citiamo Ablutions (1972) in cui ha collaborato con le artiste Judy Chicago, Sandra Orgel e Aviva Rahmani; il progetto comprendeva esperienze audio di donne che erano state violentate, e nella performance erano presenti donna che facevano il bagno in dei catini con uova, sangue e argilla. È stata inclusa da Lacy l’immagine del bendaggio, e altre donne hanno aggiunto immagini di capelli come catene, corpi avvolti da fogli e così via. Suzanne Lacy: «Judy Chicago è stata per me fonte di grande ispirazione, oltre che mia insegnante. Fu proprio quando divenni membro del suo primo Feminist Studio Workshop, all’università di Fresno, che decisi di mollare psichiatria per avviarmi alla carriera artistica. Sono stata una delle prime docenti al Woman’s Building di Los Angeles, insegnavo performance art.» Nella performance The Crystal Quilt (1985-1987), diretta soprattutto a contestare il modo in cui media e l’opinione pubblica rappresentano la donna, 430 donne ultrasessantenni del Minnesota, sedute attorno a tavoli disposti su un grande tappeto-quilt, discutono insieme l’esperienza dell’invecchiare e gli stereotipi connessi all’anzianità che impediscono di svilupparne le potenzialità sociali. Suzanne Lacy: «Oggi i media riflettono una continua lotta con il termine “femminismo”. Significa così tante cose per così tante persone ma, in generale, spesso è ancora usato in senso peggiorativo. A Milano mi è stato chiesto cosa pensavo della recente protesta online di giovani donne contro il

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femminismo [Women Against Feminism, n.d.R.]. Dovremmo chiederci perché un evento virtuale in cui giovani donne mostrano un cartello dove spiegano perché non sono “femministe” sia meritevole di copertura mediatica, rispetto a tante altre azioni intraprese su internet. Perché, nonostante le donne negli ultimi decenni abbiano ottenuto conquiste politiche e sociali, dal diritto di voto alla possibilità di vedere eleggere delle donne (occasionalmente) a capi di stato, alcune persone investano nello screditare un movimento che sembra separare gli obiettivi degli uomini da quelli delle donne.» Va sicuramente citata anche la più recente Between the Door and the Street (2013), che ha coinvolto 400 attiviste di New York in un lavoro di confronto e discussione durato 5 mesi e conclusosi con una performance collettiva pubblica, lungo un viale di Brooklyn. Nella sua famosa performance Three Weeks in May (1977) l’artista affisse in pubblico, vicino al municipio di Los Angeles, una grande mappa della città, e per tre settimane marcò con il timbro rosso “rape” ogni luogo dove la polizia riportava uno stupro. Questa fu un’azione importante, la prima su grande scala a portare in pubblico la discussione sul problema

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Immagini - Three Weeks in May (1977) - In The Last Throes of Artistic Vision (1980) - The Crystal Quilt (Design project 1985) - Tattooed Skeleton (2010)


della violenza contro le donne, affiancandosi alle proteste avviate dai neonati movimenti femministi. Suzanne Lacy: «Si tratta di pratiche che si svilupparono a partire da tre fattori. In primo luogo il movimento femminista e altri movimenti per la giustizia sociale – in materia di classe, razza, identità – crearono un contesto carico di energia e attivismo, insieme alla convinzione che il mondo potesse essere trasformato con metodi politici positivi. Usare l’arte in modo politico, per richiamare l’attenzione su temi tenuti nell’ombra come quello della violenza, era un approccio che caratterizzava una tendenza forte tra gli artisti della Southern California. Alan Sekula e Fred Lonidier si occupavano delle condizioni dei lavoratori; Ed Burreal e John Otterbridge lavoravano sulla giustizia razziale; Nancy Buchanan puntava il dito sulle responsabilità


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della CIA, per esempio, in Cile. In secondo luogo, ci trovavamo nel mezzo di un processo di forte messa in discussione delle forme d’arte esistenti: dematerializzazione, performance, arte concettuale, arte negli spazi pubblici. Tutto questo contribuì fortemente alla sperimentazione artistica. In particolare la performance era una pratica importante in California: molti artisti a San Francisco e a Los Angeles proponevano nuove modalità per impiegare il corpo come soggetto artistico. Questo movimento era poi sostenuto da numerosi programmi di master, spazi gestiti da artisti e un sistema di gallerie e musei relativamente piccoli, di modo che era più facile sperimentare, facendo a meno del consenso del mercato.

Immagini - Gender Agendas performance (2014), Milano

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Infine a Los Angeles, dove domina l’intrattenimento, il tema della cultura popolare era molto coinvolgente. Gli artisti scoprivano nuovi media e spazi per l’arte. Il video offriva ad artisti come Nam Jun Paik e Doug Davis la possibilità di sperimentare con la televisione e altre forme della cultura popolare. Quindi l’idea di fare operazioni artistiche in pubblico, anche se nuova, era comunque familiare a un piccolo gruppo di artisti d’avanguardia. […] L’aspetto relativamente innovativo stava nel fatto di unire l’organizzazione comunitaria e l’intervento politico con l’arte della performance, e nella consapevolezza che l’arte potesse accadere all’interno di piattaforme che


fossero sia estetiche sia parte della vita quotidiana (come le discussioni di gruppo su un particolare tema). Perciò il mio lavoro è stato un frutto del proprio tempo, ma anche di una comunicazione fra artisti dalle vedute affini, provenienti dai maggiori centri dell’Europa occidentale, come Londra, Roma, Berlino e Vienna.» Nella sede milanese del Museo Pecci, nel 2014, è stata aperta Gender Agendas, prima retrospettiva europea dell’artista; qui l’azione simbolica del marcare i luoghi sulla mappa è stata ripetuta da Lacy insieme alle attiviste milanesi che si occupano di violenza contro le donne. Suzanne Lacy: «L’idea di ricreare la performance, per ripresentarla negli spazi del Museo Pecci a Milano, risponde all’intenzione di connettere quel periodo storico, gli anni Settanta, con quello attuale. La prospettiva storica è molto importante nelle lotte politiche, altrimenti si corre il rischio di reinventare in continuazione lo stesso obiettivo. Ci troviamo in un momento in cui la consapevolezza mondiale del problema della violenza contro le donne e dei suoi costi sociali diventano sempre più evidenti. Dall’India a Brooklyn, le attiviste oggi connettono i molteplici temi legati alla violenza e definiscono le possibilità di azione politica e legale. Se la performance originale di tre settimane, tenutasi a Los Angeles nel maggio 1977, era collocabile del movimento femminista locale, l’idea di ripeterla viene invece dal fatto che nell’autunno di quello stesso anno fui invitata alla Settimana internazionale della performance, curata da Renato Barilli in occasione della fiera di Bologna. Lì appesi al muro una copia della mappa

di Los Angeles, marcai da sola i luoghi degli stupri e li declamai tutti insieme. Ho pensato che rifare questa azione oggi, a Milano, nel 2014, fosse un bel modo di chiudere il cerchio. […] Certamente mi preoccupa molto la situazione mondiale, che non conosce tregua nonostante la nostra consapevolezza in merito sia maggiore. Credo che l’unico modo per fermare tale violenza sia di impegnare sempre più donne e uomini nell’attivismo. In Italia c’è un ritorno di interesse verso questo pensiero politico, così come negli Stati Uniti. La protesta delle sciarpe bianche, nonostante sembri ormai chiusa, è stata un segnale positivo. Lo sono anche le nuove leggi anti-stalking. Sembra ci siano parecchie organizzazioni per le donne e, a giudicare dal riscontro che ho avuto, c’è un interesse reale per il problema della violenza domestica. Ma sono sicura che in Italia come altrove, durante questi quarant’anni le attiviste e le organizzazioni abbiano continuato a svolgere il proprio lavoro. Al Museo Pecci di Prato sono stata intervistata da Sara Maggi, giornalista e consulente che si occupa di violenza e traffico di esseri umani: come l’esperienza mi ha insegnato, ovunque ci sono donne che continuano a lavorare, visibili o invisibili, su questi temi. Anche se la pubblicità viene a mancare e le persone non sono così informate a riguardo, questo lavoro considerevole va avanti.»

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si trAttA di ApplicAre lA politicA del bAstone e dellA cArotA. primA ci hAnno

picchiato con i bAstoni, e poi con le cArote. - Georges Brassens -

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La violenza sulle donne raccontata dai mass media? Troppi stereotipi a cura di Annalisa Dall’Oca

Il linguaggio e la comunicazione al centro di un convegno organizzato a Bologna dai centri antiviolenza dell’Emilia Romagna.


Cambiare il linguaggio per cambiare la cultura. È un appello rivolto ai mass media, ma anche alle istituzioni, alle forze dell’ordine e alla giustizia italiana, quello lanciato dai centri antiviolenza dell’Emilia Romagna, che a Bologna, nell’ambito del convegno “Le parole della violenza”, si sono ritrovati per fare il punto sulle modalità con cui stampa, televisioni, radio e web raccontano dei tanti episodi di violenza nei confronti delle donne che ogni anno si verificano in Italia. Storie di maltrattamenti, abusi pubblici o privati, minacce e omicidi “che troppo spesso – spiega Samuela Frigeri, presidente del Coordinamento dei centri antiviolenza emiliano romagnoli– vengono derubricate attraverso stereotipi e luoghi comuni, che le classificano come raptus, gelosia, amore malato. Che vengono distorte al punto tale da trasformare

l’uomo, responsabile della violenza, nella vittima della situazione, e la donna in colei che in qualche modo se l’è cercata”. Un deficit di comunicazione considerato dannoso da chi lotta per contrastare un fenomeno in larga parte ancora sommerso, “poiché favorisce quella stessa cultura su cui attecchisce la violenza contro le donne – sottolinea Simona Lembi, presidente del Consiglio comunale di Bologna – quella del delitto d’onore, dell’uomo capofamiglia che viene umanizzato, che si sfoga sulla moglie, nella cui vita si scava morbosamente per individuare aspetti che in qualche modo giustifichino la violenza perpetrata”. E che secondo Luisa Betti, giornalista ed esperta di diritti di donne e minori, “in molti casi è dovuto a un’ignoranza di fondo in materia di

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femminicidio, che dai mass media è stato ridotto a uxoricidio, cioè il marito che uccide la propria moglie. Ma il termine in realtà comprende anche un aspetto sociologico, al cui interno rientrano tutti gli episodi di violenza privata o pubblica, così come il rischio che alcune donne vivono di poter essere assassinate”. La conseguenza è che il medium, che sia la stampa o la televisione, spiega Betti, “ritorna a trattare questo tipo di violenza come un fatto di cronaca nera isolato, optando per una narrazione morbosa da fiction utile a rendere la storia più appetibile, e minimizzando la gravità del reato”: l’offender, cioè l’uomo che commette

la violenza, viene descritto come il “bravo ragazzo”, il “padre premuroso”, che per un raptus di gelosia, un momento di follia, ha ucciso. E la donna diventa vittima due volte: del reato, e poi della narrazione che di quella violenza viene resa pubblica. “Come è accaduto a Sonia Trimboli, strangolata dal fidanzato a Milano, un delitto descritto come un impeto quando in passato lui aveva già provato a strangolarla – cita ad esempio la giornalista e scrittrice Marina Terragni – o per Fabiana Luzzi, accoltellata e poi bruciata viva dal ragazzo di 17 anni, a sua volta dipinto come momentaneamente privo di raziocinio, o ancora Matilde Passa, accoltellata dal marito che poi si è suicidato. Un marito dipinto come depresso, entrato in tunnel da cui non poteva uscire se non uccidendo moglie”. E poi c’è quella “narrazione consolatoria” che descrive il femminicida come un’entità estranea, al di fuori della quotidianità. “Ma anche questo preconcetto è sbagliato e distorce la realtà – spiega Betti – si tende a dare maggiore rilievo agli


episodi che vedono come carnefice lo straniero, l’immigrato, o il folle, anche se nell’85% dei casi la violenza contro le donne avviene entro le mura domestiche”. “Il linguaggio attraverso cui si racconta la violenza maschile sulle donne – precisa Frigeri – è un punto fondamentale, quindi, per combattere il femminicidio, perché è il primo passo per cambiare la cultura della società e i media, così come le

che ricorda come un “processo calvario, persino peggiore dell’omicidio di mia figlia”. Tanto da raccontare quella terribile esperienza in un libro, intitolato “Per non dargliela vinta”. “Non solo i media, ma a volte anche i tribunali sembrano voler sminuire la drammaticità dei fatti – spiega Ferrari – basta che qualcuno pronunci la parola ‘gelosia’ che si forma un preconcetto, e tutti lo seguono.

“Le storie vengono spesso distorte. Così la donna è vittima due volte” istituzioni e le forze dell’ordine, in questo hanno una grande responsabilità”. Il delitto d’onore è stato abrogato in Italia nel 1981, “ma è ancora insito nel modo in cui osserviamo la realtà”. Lo sa bene Giovanna Ferrari, madre di Giulia Galiotto, assassinata dal marito appena trentenne, l’11 febbraio del 2009, che per anni ha vissuto quello

Per questo serve grande attenzione da parte di chi si trova per primo a raccontare episodi di violenza contro le donne. Oggi finalmente molti tabù stanno crollando, di questo fenomeno si parla sempre più spesso, ed è importante perché è un modo per combatterlo. Ma è necessario che, nel farlo, ci si attenga all’oggettività dei fatti, senza pregiudizi”.

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le donne che hAnno cAmbiAto il mondo non hAnno mAi Avuto bisogno di

dimoStrare nullA se non lA loro intelligenzA. - Rita Levi Montalcini -

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Carrie 16 CITAZIONI

Dopo essere stata colpita da un infarto venerdì 23 dicembre, l’iconica attrice, sceneggiatrice e scrittrice Carrie Fisher è morta il 27 dicembre 2016. L’attrice, conosciuta soprattutto per il suo ruolo di Principessa Leila nella saga di Star Wars, aveva solo 60 anni. Un portavoce della famiglia ha confermato la morte rilasciando una dichiarazione a PEOPLE in vece di Lourd: “È con profonda tristezza che Billie Lourd conferma che l’amata madre Carrie Fisher è deceduta alle 8.55 di questa mattina – legge la dichiarazione – Era amata dal mondo intero e sarà rimpianta diffusamente. La

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nostra intera famiglia vi ringrazia per i vostri pensieri e preghiere”. Il giorno dopo, durante l’organizzazione del suo funerale, la madre Debbie Reynolds venne colpita da un ictus che ne provocò la morte poche ore dopo. Le sue ultime parole furono: “Voglio solo stare con Carrie”. La Fisher ha spesso scherzato sul fatto che a divenire famosa non è stata lei, ma la Principessa Leila, che il caso aveva fatto somigliare a Carrie. Ha tuttavia preso parte a molti altri film di suvvesso, come il celebre The Blues Brothers di John Landis, o la commedia romantica, ormai diventata un classico,


Fisher

a cura di Sara Potente

UN’ICONA FEMMINISTA

Harry, ti presento Sally... di Rob Reiner. Carrie non era certo perfetta: Le fu diagnosticato il disturbo bipolare dell’umore all’età di 24 anni, ma non fu in grado di accettare la diagnosi fino a quando all’età di 28 anni finì in overdose per l’abuso di alcol e droghe. Presa consapevolezza della situazione, decise di curarsi e si iscrisse alla Narcotics Anonymous e all’Alcolisti Anonimi. L’attrice era molto di più della Principessa Leila: la Fisher era una femminista meravigliosa che non ebbe mai paura di svelare i continui doppi standard di Hollywood, e che rispose per le rime, con etrema

ragionevole chiarezza, quando alcuni utenti di Twitter (e persino alcuni giornalisti) criticarono il suo aspetto fisico in Il risveglio della Forza del 2015. Rendiere omaggio a Carrie Fisher è un dovere, come anche ringraziarla per essere stata una campionessa per le donne. Che discutesse l’ossessione per la giovinezza femminile, lottasse per la salute delle donne, ci incoraggiasse a farci valere, o ci spiegasse l’importanza di affrontare le nostre paure, l’attrice si merita lodi senza fine per essere stata un’ispirazione per le donne di tutto il mondo.

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1. “Al diavolo la bellezza, è una cosa superficiale, e le mie altre qualità sono di gran lunga più importanti del mio aspetto”


2. “Le donne vengono scritturate nell’arco dei loro tempi riproduttivi. Dopo i quarant’anni andiamo a male.” 153


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3. “Dovresti combattere per quello che indossi. Non fare la schiava come ho fatto io.”(consiglio a Daisy Ridley, riferendosi al suo mortificante costume da schiava ne Il ritorno dello Jedi.)

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4. “Sono potuta essere l’unica ragazza in un fantasy completamente maschile, ed è un gran ruolo per una donna. [Leila è] una donna molto proattiva che non ha paura di sporcarsi le mani. Quindi, se proprio devo essere una macchietta, questa macchietta mi va benissimo”.

5. “Non puoi trovare nessuna somiglianza alla verità ad Hollywood, perché tutti fingono la somiglianza fin troppo bene.”


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6. “Abbiate paura, ma fatelo lo stesso. Quello che conta è l’azione. Non dovete aspettare di essere sicuri. Fatelo e basta, e la sicurezza arriverà.”

7. “Non c’è un momento in cui puoi dire: Bene, io ora sono una persona arrivata. Posso anche prendermi una pausa.” 156


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“Se la mia vita non fosse stata divertente sarebbe stata semplicemente vera. E questo sarebbe stato inaccettabile.”

9. “La giovinezza e la bellezza non sono risultati, sono felicità temporanea.”

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10. “Trattiamo la bellezza come se fosse un traguardo, ed è da pazzi. Tutti ad Hollywood dicono “Oh, hai un bell’aspetto”, e ti aspetti che ti dicano che hai perso peso. Nessuno dice mai “Come stai?” o “Sembri felice!” 158


11. “Non è che gli uomini invecchino meglio delle donne, è solo che a loro permettiamo di invecchiare.”

12. “Ho finalmente smesso di scusarmi per essere, come dire… diversa. Per essere forte. La forza è uno stile. Ma questo succede spesso nella recitazione. Se fingi qualcosa per molto tempo, qualche volta si avvera.” 159


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13. “Mi identifico molto di più con chi sento di essere piuttosto che con il modo in cui appaio all’esterno. In ogni caso, sono davvero obbligata a intrattenervi col mio aspetto fisico?”


14. “È un mondo di uomini, e lo show business è un banchetto per gli uomini, con le donne 15. generosamente sparse “Mi sento sopra come una spezia che si meriterebbe di molto sana di meglio.”

mente riguardo a quanto io sia pazza” 161


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16. “Io sono l’inizio del girl power. Fatevene una ragione” 163


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ci sono corde nel cuore umAno che sArebbe meglio non fAr vibrAre. - Charles Dickens -

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La Donna Araba nei Media “Tra aspettative tradite e nuove opportunità” a cura di Sara Potente



In Occidente i mass media per rappresentare il mondo arabo, usano spesso l’immagine della donna arabo-musulmana, che quasi sempre è velata. Ciò accadeva già a partire dalla fine degli anni Settanta. L’intellettuale palestinese Edward Said aveva descritto in “Orientalism” (1978) e in “Covering Islam” (1981) come, in epoca coloniale e post-coloniale, gli occidentali abbiano usato l’immagine della donna per rappresentare il mondo arabo e l’Oriente nella sua accezione più ampia. Con lo scoppio delle rivoluzioni arabe del 2011 – 2012 le donne sono nuovamente tornate ad essere oggetto privilegiato e simbolo della condizione femminile e più in generale dello stato della regione. Spesso gli stereotipi della vittima e quello della ribelle sono stati dominanti nei media internazionali. Alla fine degli anni Novanta Meyda Yeğenoğlu è ritornata su questo argomento e ha mostrato in “Colonial Fantasies” (1998) come la donna sia il soggetto su cui l’Occidente ha fatto convergere l’immagine di tutto l’Oriente, facendola diventare la rappresentazione stessa della sua essenza immutabile, della sua cultura, del suo sistema valoriale. Un sistematico processo di “femminilizzazione” e “inferiorizzazione” dell’Oriente ha dunque iscritto la narrazione di quest’ultimo in quella delle sue donne, ritratte come oppresse e arretrate, e conseguentemente da salvare e far progredire. Emerge un’imbarazzante impreparazione dei nostri media che da decenni propongono la questione del velo e del terrorismo secondo stereotipi superficiali, e nel frattempo i media sull’altra sponda del Mediterraneo tentavano di convincere le donne dell’accettabilità del velo. Che ci fossero dei grossolani equivoci nella percezione dell’altro, anzi dell’“altra”, era stato già denunciato da Fatema Mernissi in “L’harem e l’Occidente”. Ci sono molteplici possibilità per uscire dallo stereotipo, ad esempio ascoltare qui in Italia e in Europa la voce delle donne arabe e conoscere le loro reali condizioni direttamente da loro. Un altro approccio potrebbe essere leggere i molti libri scritti da donne arabe pubblicati in Italia. Si può, inoltre, affidarsi ad una serie di studi sulla questione della donna nel mondo arabo, che tentano appunto di decostruire l’immaginario orientalista.


Il problema è che tra la donna velata e sottomessa e la donna che si muove con disinvoltura nello “spazio pubblico”, fa di certo più notizia la donna velata, perché è l’immagine che normalmente i media usano per descrivere il mondo arabo. Nel libro si cerca di rendere un’immagine assolutamente plurale delle donne arabe e musulmane, che mette in discussione la rappresentazione monolitica che se ne vuole, invece, dare. Renata Pepicelli: «E’ anche vero che tantissime donne, sempre di più, si velano, molte delle quali oggi vivono in Europa. Ma non sono la totalità. La scelta di quest’immagine è comunque preferita perché si rappresenta così il diverso da noi, e quindi anche una sorta di inconciliabilità con quelli che sono i nostri valori culturali e i nostri canoni estetici. Ciò molto spesso viene fatto senza concedere a queste donne di dar anche una voce all’immagine, strumentalizzandola e basta.» La mancanza di conoscenza produce stereotipi che servono a mascherare i pregiudizi di chi ha una mente chiusa. Questa chiusura mentale impedisce alle persone di impegnarsi nella comunicazione e nel dialogo sviluppando una pericolosa tendenza a generare un’intera società chiusa. È indispensabile costruire una cultura che non si atrofizzi sul valore assoluto delle differenze generatore di discriminazione, oggi più che mai è importante conoscersi per apprezzare le differenze ma mirando

a valorizzare i punti di condivisione, dando risalto alla dignità della vita umana per costruire una società pacifica fondata sul rispetto dell’altro e non sull’esclusione. Ma qual’ è l’immagine delle donne arabe che appare nei media arabi dopo le rivoluzioni? Come vengono qui rappresentate? Come si autorappresentano? Cosa è cambiato nella rappresentazione femminile con le sollevazioni popolari e l’avvento al potere di partiti islamisti? Queste sono le domande a cui i 7 saggi pubblicati nel libro “Le donne nei media arabi. Tra aspettative tradite e nuove opportunità”,a cura di Renata Pepicelli, provano a rispondere. Renata Pepicelli: «Un’analisi del rapporto tra donne e media non può non partire dalle politiche che determinano la rappresentazione del corpo delle donne. I corpi nel loro presentarsi o essere presentati al mondo non sono mai neutri, sono sempre corpi sociali che, come scrive l’antropologo algerino Melek Chebel (2004), risentono di condizionamenti culturali, politici, storici e di conseguenza sono profondamente iscritti in una dinamica e in una pratica di potere, si modellano in stretta relazione e in reazione ad esso. Il corpo delle donne è portatore di un potente simbolismo che travalica le dirette interessate: è campo di battaglia tra modernisti e conservatori, laici e religiosi, che, con differenti visioni della femminilità e della relazione tra i generi, si scontrano su opposte visioni del mondo. Il loro corpo, velato o svelato a seconda del momento storico, è assunto a simbolo della nazione e dei suoi valori.»

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W Programmi televisivi, siti internet, blog, pellicole cinematografiche, vignette, graffiti, soap opera hanno dato alle donne nuovi spazi di espressione e questo nonostante la politica non abbia dato loro maggiori possibilità di emergere nella rappresentanza istituzionale. Al momento sembrerebbe che alcuni diritti acquisiti siano stati messi in discussione, ma a ben guardare la realtà mediatica si percepisce che le donne hanno raggiunto una nuova consapevolezza, un punto di non ritorno da cui parrebbe difficile poter regredire. Attraverso l’analisi dei mass-media vediamo che la condizione femminile nei paesi arabi, ruota attorno a certe categorie: rappresentazione/ autorappresentazione, esclusione/partecipazione, potere/contropotere. Emerge così un’immagine del rapporto tra donne e media, plurale e variegata che mette in guardia da qualunque tentazione riduzionistica della donna araba, suggerendo di prendere in considerazione piuttosto la pluralità delle esperienze femminili nel

mondo arabo e la co-esistenza di molti “public spheres” differenti e conflittuali (governativa, laica, antagonista, islamista…). Se, infatti, le aspettative in tema di uguaglianza di diritti sono state “tradite” dall’esito delle rivolte del 2011 e 2012, visti i governi che puntano ad un’ islamizzazione delle società arabe promuovendo valori conservatori e patriarcali, va comunque riconosciuto «il manifestarsi di una libertà di espressione inedita»,dovuta soprattutto all’uso femminile dei new media, «grazie alla quale si fanno largo nuove rappresentazioni delle donne e dei rapporti tra i generi». Uno spaccato del mondo arabo nel quale le donne da un lato hanno maggiore libertà di espressione e visibilità, dall’altro non sono però riuscite a ottenere un reale miglioramento della propria condizione. È qui che si innesca un paradosso di genere: per quanto maggiormente visibili e capaci di far ascoltare la propria voce, le donne sono escluse dalle istituzioni e dal discorso politico e sono continuamente esposte ad attacchi e violenze quando agiscono, soprattutto in Egitto, nello spazio pubblico. Questo “paradosso di genere” viene messo a nudo da Azzurra Meringolo che si concentra sull’analisi dell’autorappresentazione femminile dei graffiti sui muri delle strade del Cairo. Insomma, dal cyber-spazio allo spazio reale, alla realtà filmata dalla street art nelle piazze egiziane: questa forma artistica si propone come piattaforma in grado di mostrare sfumature del discorso di genere che sfuggono ai media tradizionali. Renata Pepicelli: «Cosa produrranno sul lungo termine questi nuovi spazi di libertà di espressione conquistati è difficile da predire. Un graffito disegnato in una strada del Cairo ben rende l’attuale situazione (guarda immagine della copertina del libro): nello schermo di una vecchia televisione appare il volto di un presentatore che ha le sembianze di Pinocchio, al fianco dello schermo è ritratto un uomo con la barba e la mimetica militare che punta un’arma verso una ragazza che gli punta a sua volta contro una telecamera. La televisione è bugiarda, gli islamisti armati minacciano la società, le donne si fanno media

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W per raccontare la realtà e difendere i loro diritti. Non è ancora dato conoscere l’esito dello scontro in atto, ma certamente la battaglia non è ancora conclusa. Molte delle premesse e promesse di uguaglianza di genere, pari cittadinanza tra uomini e donne sono state tradite, ma tuttavia nuove possibilità si sono aperte per le donne di far sentire la propria voce e trasformare gli immaginari sociali dominanti sulle relazioni di genere.» E nelle pubblicità? In quelle saudite devono avere il velo; nel Kuwait, a Dubai e nei mercati del Golfo si cerca di mescolare le tendenze, dando vita «a quello stile elegante, alla moda ma conservatore, che sta diventando sempre più apprezzato dalle élites». Va sottolineato che, senza mai rinnegare la religione, gli Stati postcoloniali hanno creato varie istituzioni e produzioni culturali in cui laicità e l’ideologia governativa erano fortemente correlate. Questi organismi erano sì dipendenti dalle élite al potere, ma a loro volta i governi dipendevano da essi per far passare determinati messaggi. Un’interdipendenza che legava gli uni agli altri a


doppio filo, nell’assenza di libertà di espressione. Per fare un esempio, molte serie televisive degli anni Ottanta e Novanta, erano palesemente mezzi per trasmettere temi centrali per la politica del tempo, come l’importanza dell’istruzione, il controllo delle nascite, la critica all’Islam politico. Sebbene a due anni di distanza dalla caduta dei regimi di Ben Ali e Mubarak e alla riforma del sistema marocchino le donne continuino a soffrire di una certa invisibilità e/o di misrappresentazioni che le vuole o donna pia o donna-oggetto, si registra una crescente pluralità di modelli femminili e una maggiore libertà di espressione delle donne, come testimoniano le esperienze di tantissime blogger quali la tunisina Lina Ben Mhenni, candidata al Nobel per la pace nel 2011; anche l’affermazione di donne in ambiti prettamente maschili come la vignettistica, grazie a pioniere del genere quali l’egiziana Doaa el-Adl, una nota fumettista satirica egiziana, conosciuta per le sue vignette dai forti significati politici, sociali e religiosi. Lei ha collaborato come fumettista per diverse testate egiziane come “Al Dostor”, “Rose Al Youssef Magazine” e “Sabah El Kheir Magazine” e come illustratrice per “Qatr El Nada”, “Alaa-El” Din e “Bassem”. Attualmente lavora per il quotidiano “Al Masry Al Youm”, attirando una considerevole attenzione e suscitando accesi dibattiti, fino all’accusa di blasfemia ricevuta nel dicembre 2012 quando in Egitto era in corso il referendum sulla Costituzione. Nel 2009 è stata la prima donna a ricevere l’ “Award of Journalistic Distinction” in Caricature e nel 2016 è stata nominata tra le “100 Women” della BBC. D’altronde non è una novità che le donne, soprattutto in cruciali momenti di svolta politica e sociale,

Immagini: Vignette di Doaa el-Adl - in alto: La voce delle donne della rivoluzione - in basso a sinistra: La vignettista Doaa el Adl fra suoi quattro colleghi maschi - in basso a destra: L’unica ragazza che ha detto NO alle ispezioni di verginità

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W Rahbani, docente all’Università Internazionale Libanese, nella ricerca “Donne nei media arabi: ci sono ma non si sentono”. Un titolo ancora più triste se si pensa che 8 anni fa la regina Rania di Giordania aveva fatto un appello alle tv perché mostrassero la donna come soggetto politico ed economico e non solo come casalinga.

cerchino di appropriarsi dei media per promuovere diritti e nuove idee di cittadinanza. Durante la prima metà del secolo scorso, nel corso delle battaglie per l’indipendenza prima e della costruzione di uno Stato postcoloniale poi, diverse donne, tra cui Malak Hifni Nassef (1886-1918), meglio conosciuta con lo pseudonimo Bahitat al-Badiya, e Durya Shafiq (1908-1975) hanno infatti usato i giornali per far sentire la propria voce contro l’occupazione coloniale e la diseguaglianza di genere.

L’autrice di “Le giornaliste televisive in Tunisia: la trasformazione di uno scenario”, Leila El Houssi, ci mette in guardia su quelli che sono i principali problemi e difficoltà incontrate da una donna che vuole fare la giornalista. Quello che mette in evidenza è che anche se la donna partecipa alle redazioni le sono precluse tutta una serie di mansioni, ad esempio difficilmente sono “inviate”. C’è quindi, come da noi, un uso strumentale dell’immagine femminile all’interno degli schermi, che non corrisponde poi ad una effettiva parità nei compiti, nei ruoli e nelle dirigenze.

Polizia religiosa saudita a parte, differenze con l’Italia non ce ne sono. C’è la blogger che sfida la polizia religiosa saudita e non si copre il volto. E ci sono le conduttrici di Marya Channel che, coperte completamente dal niqaab, danno consigli alle egiziane su trucco e matrimonio. Ci sono le libanesi che fanno la danza del ventre in tv e quelle che muoiono raccontando una guerra.

Renata Pepicelli: «Quando le donne operano nello spazio pubblico si espongono ad una doppia violenza: quella della repressione dei sistemi o regimi, che non accettano l’affermazione della libertà di espressione e manifestazione dei propri diritti, e quella di genere.In Egitto questo lo abbiamo visto in maniera particolarmente forte e crudele già all’indomani della caduta di Mubarak. Non dimentichiamo il 9 marzo del 2011, quando un gruppo di donne che manifestavano in piazza Tahrir sono state prelevate e portate in un commissariato, dove sono state sottoposte al test di verginità: una forma di violenza per dissuaderle dallo scendere in piazza. Moltissime attiviste, poi, sono state molestate o addirittura stuprate. Anche alcune giornaliste sono state oggetto di violenze.»

La risposta è: Come Italia, i media interpellano quasi sempre uomini in veste di esperti, nonostante negli ultimi 20 anni il numero di donne professioniste sia notevolmente aumentato. Lo scrive Leila Nicolas

Le Rivoluzioni in Nord Africa hanno portato una maggiore libertà di espressione e visibilità alle donne. Se guardiamo alla Tunisia, all’Egitto o allo Yemen, la situazione cambia da Paese a Paese.

Ma che ruolo hanno le giornaliste arabe nei media dei loro paesi?

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Nella Tunisia di Ben Ali i corpi svelati delle donne erano emblema di modernità, democrazia, rifiuto di quell’Islam politico che negli anni Novanta si era affermato in un devastante conflitto con l’Algeria. Le donne, dopo la Rivoluzione, sono riuscite a iniziare un percorso verso il rafforzamento dei propri diritti: dalla possibilità di essere nelle liste elettorali rappresentate al 50% come gli uomini (con il principio dell’alternanza), alla loro presenza in Parlamento per circa il 27%; inoltre, sono riuscite anche a difendere il principio dell’uguaglianza tra uomo e donna contro la proposta di alcuni partiti islamisti di mettere nella nuova Costituzione il principio della complementarità. In Egitto, invece, molte promesse della Rivoluzione sono state tradite, le donne sono spesso oggetto di violenza nelle strade e nelle piazze da parte delle forze militari e paramilitari, picchiate, sottoposte al test di verginità all’interno dei commissariati, escluse in larga misura dal primo Parlamento post Mubarak. Paradossalmente nel parlamento c’erano più donne sotto il regime che non

con le prime elezioni dopo la Rivoluzione. Le donne hanno delle leggi che le tutelavano maggiormente rispetto a quelle degli altri Paesi arabi, tuttavia sono imbavagliate, non possono esprimersi liberamente, né fare opposizione politica. Tuttavia anche qui ci sono dei piccoli passi avanti, e nel periodo immediatamente successivo alla caduta di Hosni Mubarak, l’immagine di una conduttrice di telegiornale velata sulla tv di Stato è diventata simbolo dei cambiamenti sociali in atto. Uno dei più evidenti segni di questi cambiamenti di potere è stata l’apparizione sul primo canale della TV di Stato, alle 12 di domenica 2 settembre 2012, di Fatma Nabil con il capo coperto da un velo chiaro. È stata la prima volta che in Egitto una conduttrice appariva velata sugli schermi delle televisioni pubbliche. In Libano c’è spazio per donne “sexy ed erotiche”. Lo conferma Vanessa Bassil, 24 anni, giornalista, che spiega che ci sono due modi con cui i media libanesi rappresentano la donna: sexy e provocativa oppure vittima di molestie. «In Libano il vero problema è il confessionalismo»

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ammette Vanessa, che ha già ricevuto importanti riconoscimenti dall’estero. «Ma il giornalismo è il quarto potere e può rendere il mondo un posto migliore. Le giornaliste hanno un ruolo importante da giocare» dice Vanessa, che collabora, tra gli altri, con Arab Woman Tv, il canale femminile (guidato da un uomo, Nicolas Abou Samah) che tra i temi, oltre a cucina e ricamo, ha l’indipendenza finanziaria e il divorzio. In Libano il simbolo della donna nel ruolo di “sexy senza cervello” è senz’altro Rima Maktabi, ex valletta oggi reporter di guerra. E come lei sono tutte giovanissime le giornaliste arabe che si spingono al fronte. Dall’irachena Liqaa abd Razzak, uccisa nel 2004 a Baghdad, ad Atwar Bahjat, 30 anni, della tv “al-Arabiya”, in Iraq stuprata e uccisa. E la fotografa libanese Layal Najib, colpita a 23 anni da un missile israeliano. Diversamente dal Libano, le donne saudite non parlano di eros: lo sa bene la giornalista Rozanna al-Yami, 22 anni, condannata a 60 frustrate per aver lavorato a “Bold Red Line”, un programma tv in cui tre uomini discutevano di sesso. Stando alla legge islamica, non ci dovrebbero essere donne “oscene” sulle copertine né più in generale donne in tv. Ma in Marocco, i volti dei notiziari “Al-Jazeera” e “Al-Arabiya” sono soprattutto femminili, come nota Anna Mahjar Barducci, autrice e giornalista di origine marocchina, da poco in libreria con “La mia scuola è il mondo”, scritto con la figlia Hili. «Ho conosciuto

varie giornaliste alle quali testate importanti, come Al-Hayat e Asharq Al-Awsat (maggiori quotidiani nel mondo arabo, entrambi di proprietà saudita), hanno dato l’incarico di bureau chief in luoghi importanti come Washington. È vero, i direttori di testate sono generalmente uomini, come dopotutto in Occidente, ma le donne nel mondo arabo continuano a combattere per i loro diritti». Anna Mahjar , anche presidente dell’Associazione Arabi Democratici Liberali, riflette sul fatto che «Le donne di famiglie benestanti hanno più possibilità di intraprendere una carriera di quelle di famiglie umili. Queste ultime sono sicuramente l’anello debole della società». Internet però dà una mano. Su “FreeArabs.com”, portale dell’informazione laica, sono molte le donne blogger. Tra loro la giornalista Bayan Perazzo, cresciuta in America, vive e lavora in Arabia Saudita, Paese che “la affascina” pur tra molti divieti e difficoltà, come racconta nel suo blog: la volta che la polizia religiosa le ha chiesto perché non avesse il volto coperto; o quella che, di venerdì sera, tornava in taxi da sola, fu fermata dalla polizia e interrogata: «dov’è tuo marito?» «Non ne ho» «Tuo padre?» «lavora in America» «Un fratello allora! Dov’è insomma il tuo guardiano?» ha sbottato il poliziotto «Sono io la guardiana di me stessa» Una risposta che l’ha portata dritta in commissariato.

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l A miA mente è lA chiaVe che mi rende libero. - Harry Houdini -

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TV

Una Cattiva Maestra? I “Due Mondi” a Confronto

Il filosofo Karl Popper affermava che la televisione è una “cattiva maestra”. Già da questa prima affermazione si intuisce che la TV assume una vera e propria funzione educativa. Negli ultimi anni la televisione è diventata un mezzo educativo quasi al pari della scuola e della famiglia, non solo per la costante trasmissione delle pubblicità, ma anche e soprattutto se si considera che bambini e adolescenti passano sempre più tempo davanti alla TV senza la supervisione degli adulti, e purtroppo, la qualità dei programmi lascia a desiderare. Le nuove generazioni hanno ormai a disposizione “due mondi” a cui fare riferimento per elaborare e costruire la propria immagine sociale e personale: il mondo della vita reale, con cui si confrontano personalmente rapporti faccia a faccia e con

l’esperienza diretta, e il mondo mediale che offre conoscenze indirette, le cui fonti prime di informazione, quali riviste, televisione, radio e mezzi multimediali, sono sempre più fondate sul mondo dell’apparenza e dell’esteriorità che non sui contenuti e sui messaggi costruttivi per il senso critico dell’individuo. La quantità di immagini cui i bambini sono sottoposti ogni giorno ha un’enorme influenza sul loro modo di pensare, di vedere il mondo e di rapportarsi con gli altri. «La televisione cambia radicalmente l’ambiente e dall’ambiente così brutalmente modificato i bambini traggono i modelli da imitare». Analizzando i programmi emessi negli ultimi decenni si nota una sorta di degenerazione della TV e dei programmi, così come una mancanza di modelli positivi da seguire. Come succede per la




pubblicità, la TV deve rispondere a una spietata legge, quella dell’audience, che è ormai diventata una guerra. Si gareggia per accaparrarsi uno share più alto di altre emittenti. Karl R. Popper, nel suo libro “Cattiva maestra televisione”, del 2002, afferma che questa legge dell’audience è in realtà una «tendenza intrinsecamente e fatalmente destinata a peggiorare la qualità dei programmi nel tempo». Ancora una volta, per catturare l’attenzione dei telespettatori si usa la donna, che vede la sua immagine mortificata e ridotta al suo corpo. In programmi come Striscia la Notizia, il Mercante in Fiera, Gira la Ruota, c’è sempre una donna quasi nuda o con vestiti moto succinti che balla o passeggia da una parte all’altra dello studio, ma che obiettivamente non fa nulla. Nel suo libro “Il corpo delle donne”, del 2010, orella Zanardo fa notare che «A queste ragazze non è richiesto quasi mai di parlare e, se lo fanno, è solo per avvalorare l’affermazione di un uomo». Queste ragazze si limitano a sorridere se

e quando sono inquadrate dalla telecamera. Ad esempio, in Ciao Darwin, ad ogni puntata del programma, condotto dalla famosa coppia Bonolis-Laurenti, veniva presentata Madre Natura, una donna bellissima che non faceva altro che scendere una scalinata in tacchi a spillo e costume da bagno, mentre gli uomini presenti nel pubblico la divoravano con lo sguardo, restando a bocca aperta, strategicamente ripresi in primo piano dalle telecamere. Ancora una volta, la donna viene ridotta al proprio corpo, viene utilizzata per attirare telespettatori. Ma soprattutto si intuisce che per fare spettacolo, per essere famosi non bisogna avere un talento particolare. «Non è richiesto saper ballare, cantare, intrattenere, tanto le ragazze sono belle!». La visione del mondo che emerge da questi programmi è una visione falsata, basata su valori come l’apparenza, la bellezza. Il problema è che i bambini mancano di quello sguardo critico proprio degli adulti, che li aiuta a distinguere cosa è vero e cosa è falso; quindi si immergono in questo mondo superficiale e lo fanno il loro mondo, il loro modo di pensare. Purtroppo, non riescono nemmeno a sviluppare un pensiero proprio, e si lasciano guidare dalle immagini trasmesse dalla TV. Proprio come è stato detto durante la risoluzione del Parlamento europeo del 2013: «Come possiamo aspettarci che una ragazza che fin dall’età di 6 anni altro non ha visto che donne belle e mute, statue vuote, guardate con occhi che scrutano il loro corpo come fosse l’unica rappresentazione valida della loro personalità, non assuma il medesimo sguardo oggettivante verso sé stessa? E ancora, come possiamo pretendere che abbia delle aspirazioni diverse dall’essere modella o velina,piuttosto che scienziata, quando gli unici modelli femminili cui ha accesso sono quelli televisivi?».

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W Non c’è da stupirsi se sempre più donne ricorrono alla chirurgia estetica, o se sono insoddisfatte del proprio aspetto fisico, o ancora se ci sono sempre più modelle anoressiche. Non c’è nessun modello positivo che insegni valori come l’autostima. La bambina cresce pensando che la cosa più importante sia il suo corpo, la sua apparenza, ma soprattutto che sarà sempre e costantemente messa sotto esame dall’uomo, un po’ come la Madre Natura di Ciao Darwin. In una ricerca del 1983 viene evidenziato come i media presentassero con maggior frequenza visi maschile e corpi femminili. Questo conferma l’associazione tra maschi e qualità intellettuali e donne e qualità fisiche ed emotive. Infatti, le persone ritratte con maggior focus sul volto sono giudicate più intelligenti; le donne al contrario tendono ad essere “smembrate”, rappresentare solo con parti del corpo, in particolare con gli attributi sessuali primari e secondari. Lo smembramento del corpo femminile «porta a identificare la persona con il proprio corpo, o parti di esso; l’oggetto-corpo è ridotto a mero strumento da guardare e valutare nella sua funzione di oggetto sessuale».

Fredrickson e Roberts, nel 1997, hanno coniato la Teoria dell’oggettivazione mostrando come la nostra cultura socializzi le donne a interiorizzare il punto di vista di un osservatore sul proprio corpo e a vivere gran parte della loro vita in terza persona. Piuttosto che considerare i sentimenti e gli stati emotivi interni le ragazze imparano a essere più interessate ad attributi corporei osservabili, «come corpi che esistono a uso e consumo di altri». Questo significa che probabilmente, con poche e rare eccezioni, la donna non troverà mai una rappresentazione fedele di sé e non filtrata dal punto di vista maschile. Infatti, raramente in televisione viene mostrata una donna che lavora duramente per ottenere certi risultati. Come scrive la Zanardo, la TV, come la pubblicità, «insegna a un gran numero di bambini e ragazzi a stare al mondo: propaga stereotipi di genere e consolida un modello di convivenza basato su una visione conservatrice e consumistica della vita». Come si è già detto, gli stereotipi sono visioni entro cui tanto l’uomo quanto la donna devono stare. Ciò influenza in maniera assai negativa la percezione che


i bambini, ma soprattutto le bambine, si formano riguardo a sé stessi, al ruolo che devono rivestire nella società e agli obiettivi che si potranno porre durante la crescita. La televisione e la pubblicità, al pari della scuola, partecipano alla propagazione di questi stereotipi. Come afferma la sociologa Lia Lombardo, a proposito della scuola: «L’espressione “gedered institution”, cioè l’istituzione improntata al genere, sta a significare che interi ambiti istituzionali sono strutturati in base al genere: per esempio, la scuola non è solo il luogo in cui bambini e giovani apprendono i ruoli di genere, ma è in se stessa un’istituzione improntata al genere perché si fonda su specifici modelli di distinzione, sia delle istituzioni che degli individui (indirizzi scolastici a prevalenza maschile e altri a prevalenza femminile)». L’altro grande problema è che «si offrono all’audience livelli di produzione sempre peggiori che l’audience accetta purché ci si metta sopra del pepe, delle spezie, dei sapori forti, che sono per lo più rappresentati dalla violenza, dal sesso e dal sensazionalismo. Il fatto è che più si impiega


questo genere di spezie e più si educa la gente a richiederne». Si entra quindi in un circolo vizioso difficile da spezzare, soprattutto perché tutti sono consapevoli del problema, ma nessuno fa niente per evitarlo. In conclusione, si è sempre più dipendenti da programmi spazzatura che servono per far divertire i telespettatori, ma non si prende in considerazione il fatto che gran parte dei telespettatori sono bambini che cercano di capire il mondo attraverso i programmi che subiscono ogni giorno.

Secondo la ricerca del Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), la distribuzione della presenza femminile è abbastanza equilibrata tra le reti considerate. La maggiore numerosità di donne si registra nella fascia preserale (18- 20,29) dove si affollano prevalentemente attrici (56,3%), cantanti (25%) e modelle (quasi il 20%). Dunque, l’immagine più frequente è quella della donna di spettacolo. Colpisce in modo particolare la forte presenza delle modelle, e se si pensa all’impatto di tali icone della moda sulle giovanissime si rimane perplessi: la top


model da semplice professionista che scivola con garbo sulle passerelle è diventata un modello di riferimento estetico, frustrante e a volte pericoloso perché irraggiungibile, qualche volta eccentrico e discutibile. Le donne in televisione sono spesso protagoniste della situazione o della vicenda rappresentata, ma assai meno frequentemente le conduttrici (10,3%). Lo spazio offerto alla figura femminile è dunque ampio, ma generalmente “gestito” da una figura maschile: esse hanno conquistato ruoli sempre più centrali, ma comunque restano per lo più “comprimarie”, in relazione a una figura maschile “ordinante”. Il tema al quale la donna è associata si rivela particolarmente significativo: è rappresentata prevalentemente in rapporto al tema “moda/spettacolo” che se associato al tema “bellezza” raggiunge una percentuale schiacciante (38%) rispetto all’associazione a tematiche quali la cultura (6,6%), disagio sociale (6,8%), o la realizzazione professionale (2%) e politica (4,8%). Riguardo il tema della sessualità si osserva un’altra conseguenza che l’immagine della donna nei media può avere sull’identità personale. Le conseguenze infatti non riguardano soltanto la sfera fisica ed emotiva, ma anche, e forse di conseguenza, quella sociale e lavorativa. «Proprio nelle posizioni di leadership come la politica, è possibile che le donne attuino non una lettura preferita, ma piuttosto una lettura negoziata, ovvero le donne si rendono conto dello stereotipo

presente nella rappresentazione mediale e mettono in moto dei meccanismi insieme adattavi ed in opposizione». La sociologa Donatella Campus, sottolinea che le donne percepiscono che la femminilità nella leadership o al potere è qualcosa di non desiderabile, e sanno che lo stereotipo di genere consiste nel prevedere che le donne per forza di cose non possano «essere decise e sensibili, sicure di sé e affidabili, capaci di comandare, ma anche di comprendere i problemi altrui». Proprio per questo motivo le donne, per rivestire ruoli di leadership, per avere successo e credibilità credono di dover assumere tratti e caratteristiche maschili, rinunciando però a lati del loro carattere e femminilità. La sociologa Paula Diehl afferma come i media, amplificando e cogliendo ogni sfumatura, allo stesso tempo impongono ai politici e soprattutto alle donne in politica di preparare una propria strategia per la loro fisicità per ottenere il massimo successo a livello comunicativo e soprattutto sul piano del discorso. Per soddisfare le aspettative che il pubblico ha nei confronti di una determinata figura professionale viene richiesta, sia agli uomini che alle donne, la costruzione ad arte della propria immagine. Il corpo, che è espressione della propria identità, si deve adattare al ruolo che una persona deve rivestire, ma per le donne in politica, e più in generale per le donne che aspirano ad una posizione professionale,

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questo meccanismo diventa ancora più complicato dal momento che viene richiesto di modificare tono di voce, postura ed espressioni seguendo un modello prettamente maschile. D’altronde c’è l’altra faccia della medaglia, secondo Kathleen Jamieson le donne che aspirano a ruoli di leadership e di potere sono sottoposte ad un “doppio vincolo”: Infatti, nel momento in cui le donne rifiutano i ruoli tradizionali e aspirano, invece, a ruoli di potere, assumendo caratteristiche maschili per acquisire consenso e credibilità, vengono allo stesso tempo criticate perché mancanti di femminilità e giudicate troppo mascoline. Questo paradosso è stato studiato per la prima volta nel 1995 proprio dalla Jamieson, ed è stato denominato “Double Bind Effect” (letteralmente “effetto a doppio vincolo”). Proprio a causa degli stereotipi di genere, le donne non possono essere belle e allo stesso tempo

delle buone professioniste. Inoltre, le donne non solo vengono criticate perché mostrano degli aspetti e delle caratteristiche maschili e quindi non tradizionali, ma vengono sottoposte anche ad un giudizio e ad uno scrutinio più severo in quanto spesso viene chiesto loro di dimostrare le loro capacità e soprattutto di dimostrare che sono capaci di conciliare il lavoro con il loro ruolo di madre o di moglie. Al contrario, per gli uomini che rivestono posizioni ai vertici non viene giudicata la loro eccessiva aggressività o forza, né tantomeno viene messa in causa la loro capacità di conciliare il lavoro con la sfera familiare. Un esempio che mostra come determinate caratteristiche femminili siano giudicate come “inappropriate” per ruoli di potere, può essere il caso dell’ex Ministro del Lavoro del governo Monti, Elsa Fornero.


Nel Dicembre del 2011, infatti, il Ministro del Lavoro durante la conferenza stampa per annunciare la non perequazione delle pensioni, inaspettatamente è scoppiata in lacrime a causa dei grandi sacrifici che in quel momento il governo Monti stava chiedendo agli italiani. Le lacrime della Fornero hanno suscitato diverse reazioni, molte delle quali hanno giudicato il ministro come troppo debole e hanno collegato questa sua debolezza e il suo commuoversi al fatto di essere donna. In questo caso, la sensibilità e l’empatia, aspetti che caratterizzano in particolar modo la donna, sono viste come delle caratteristiche da esorcizzare e come non adatte alla vita politica perché sintomi di debolezza e poca determinazione. Le cause del Double Bind Effect vanno ricercate soprattutto nei mass media che tendono a rafforzare il legame tra caratteristiche maschili e

professionalità. Le donne sono così implicitamente costrette ad intraprendere un più faticoso percorso di legittimazione che arrivano ad un totale ripensamento del loro corpo e della loro femminilità. Sono necessari dei nuovi modelli di leadership che si oppongano a quelli presenti, caratterizzati da un punto di vista maschile, e capaci di sottolineare il contributo differente ma complementare che una donna potrebbe dare rivestendo ruoli di potere senza rinunciare alla sua femminilità e quindi al suo essere donna. C’è veramente bisogno di una patente per fare TV, come sosteneva Popper? Certo è che, dopo anni di lotte, la donna ha avuto quella visibilità tanto desiderata. Ma a che prezzo? Abbiamo paura di non piacere. Abbiamo paura di non essere accettate così come siamo. E forse, in ultima analisi, di restare sole.


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diAmoci Anche solo un’occhiAtA. tutto è cApovolto. tutto è SottoSopra.

gli AvvocAti distruggono lA giustiziA.

le università distruggono lA conoscenzA. i governi distruggono lA lbertà. i mediA ditruggono l’informAzione. - Michael Ellner -

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Dal “sei più carina quando sorridi” al “lavoro adatto a una donna”..

STORIE DI SESSISMO QUOTIDIANO a cura di Sara Potente 193


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«Sei più carina quando sorridi» può essere la bonaria raccomandazione di un papà alla bimba che tiene il broncio, ma anche un esempio perfetto di sessismo linguistico, con riferimento alla nozione linguistic sexism elaborata tra gli anni Sessanta e Settanta negli Stati Uniti, quando emerse una profonda discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia soprattutto in ambito semiotico e filosofico. Così se pronunciate sul luogo di lavoro, tra colleghi o - ancora peggio - tra capo e dipendente, assume una connotazione completamente diversa. Non ne siete ancora convinti? Bene, la controprova è girare la stessa affermazione al maschile: avete mai sentito qualcuno dire a un uomo: «Sei più carino quando sorridi?». Le donne iniziano ad essere vittime spesso inconsapevoli - del linguaggio da bambine, quando si inizia con la distinzione tra le faccende «da femmina» e «da maschio».

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Nel 2014 uscì il video #LikeAGirl, realizzato dall’agenzia Leo Burnett per Always, brand americano di igiene intima. Alle protagoniste del video viene chiesto di «correre come una ragazza», «lanciare come una ragazza» e «fare a pugni come una ragazza». Mentre per le bambine non c’è nessuna connotazione negativa nell’espressione, le adolescenti si esibiscono in smorfie e mossette goffe e ridicole. Si legifera sulla parità dei sessi al lavoro, si fanno campagne contro gli abusi e la discriminazione, ma si parla ancora molto poco di “sessismo quotidiano”. Il sessismo quotidiano si può paragonare ad un veleno, che fa effetto molto lentamente e senza destare sospetti e, proprio per questo motivo, è spesso pericoloso. Per raccogliere queste storie è stato pensato il progetto internazionale “Everyday Sexism”, sito creato nell’aprile del 2012 da Laura Bates, giovane femminista britannica che ha un blog sul Guardian e che collabora con

diverse testate tra cui l’Independent e lo Huffington Post.Non solo per lei: tra le testimonianze raccolte ci sono anche diversi uomini, che si trovano vittima degli stereotipi. olo nei primi due anni, il progetto aveva già superato le 50.000 storie; storie di molestie, discriminazioni, abusi e aggressioni che sono state raccontate da persone di tutto il mondo. Queste testimonianze sono un promemoria delle varie disuguaglianze che le donne di tutto il mondo affrontano e continueranno ad affrontare quotidianamente. L’obiettivo è quello di cambiare l’opinione pubblica, di provocare reazioni così numerose e di ampia portata che il problema non potrà più essere ignorato. Bisogna costringere le persone ad alzarsi e a dire “questo non è giusto”, anche se il fatto non è grande o scandaloso o scioccante. Anche se si è ormai abituati a pensare che si tratta solo del modo in cui stanno le cose: è proprio a questa normalità che non ci si deve abituare. Abituasi a questo significa arrendersi.

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In casa.. Elena :

Capisco subito quando mio figlio ha marinato la scuola o quando ha invitato degli amici per pranzo: mi basta guardare il lavandino... pieno di piatti sporchi da lavare!

Sonia :

Il mio ragazzo non stira mai le sue camice. Piuttosto che stirare, preferisce uscire con i vesiti tutti stropicciati. Quando eravamo in vacanza con i suoi genitori, ho capito il perché: sua mamma gli stira tutto, senza che lui chieda niente. La giustificazione? “Ma non è capace, si vede che non riesce, io faccio molto prima.” Ha 26 anni, e con questo ho detto tutto.

Isabella :

Il mio ragazzo è stato male durante la notte... ok, sono cose che capitano, ma me ne sono accorta solamente il giorno dopo... ho dovuto pulire tutte le piastrelle del bagno!

Giulia :

Mia madre odia la moglie di mio fratello perché a casa loro cucina lui.

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Lidia :

Mia nonna vive a casa nostra, e per quanto la adori e le voglia bene, è una fornace di frasi sessiste: Tieni quelle gambe chiuse, questo gioco non è da signorina, stai lontana dagli attrezzi che ti fai male, non dire le parolacce che su una donna sta male, ma il tuo ragazzo ti lascia uscire da sola? non sta bene che torni la sera tardi.....


Diana :

Mio figlio di 22 anni ha deciso di andare in vacanza con la sua ragazza. La sera prima della partenza, esce con i suoi amici e, tra un porta sbattuta e l’altra, mi chiede di preparagli la valigia... non oserebbe mai fare una cosa del genere a suo padre!

Elisa :

Se mio marito torna dal lavoro prima di me, mi aspetta sdraiato sul divano, telecomando alla mano e piedi sul tavolo. Quando torno, anche tardi (le 10 di sera per esempio), mi chiede cosa si mangia. Viviamo insieme da 4 anni, e non ha ancora imparato a preparare la cena se vede che non arrivo... io lo faccio sempre!

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Camilla :

Quest'inverno, ho avuto un'influenza molto forte: non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal letto. Mio marito ha pensato bene di aiutarmi: "Ok, vado al supermercato, ma non dimenticare di farmi la lista..."

Miriam :

Vuole cambiare appartamento, ma vuole rimanere nello stesso quartiere ad ogni costo per non aumentare il tempo del tragitto casa/lavoro... io sono lontanissima invece! Il peggio? Per tre anni, non si è mai preoccupato delle mie 2 ore di treno... una per andare, l’altra per tornare.

Amelia :

Parlando di mio fratello, una conoscente ha commentato: “Poveretto,non ha lavoro e si fa mantenere dalla moglie e dalla madre.” Neanche mia sorella lavora, e si fa mantenere dal marito, ma ciò non suscita nessun commento di commiserazione.

Laura :

Io aiuto spesso nelle faccende, mio fratello mai!

Sara :

Mia madre: Uffa la ragazza di tuo fratello vuole restare a dormire qui.. Io: se non sei d’accordo diglielo Mia madre: ma i suoi sono d’accordo, mi sembra brutto fare delle storie Io: allora anch’io potrò portare a dormire quì il mio ragazzo? Mia madre: no no, io non voglio! Io: ......

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Al lavoro.. Ingrid :

Sopralluogo per un nuovo cantiere. Un tizio mai visto, dopo essermi presentata come l’ingegnere responsabile dei lavori, si ricorda di un suo amico architetto che fa lo stesso lavoro e mi chiede “ma lei è sposata? libera? no perchè vi posso presentare…”

Gianni

Salve, sono un uomo Ho subito episodi di sessismo sul posto di lavoro da parte di miei superiori di sesso femminile. Sia relativamente a colori poco maschili di alcune mie camicie sia per continue battute sul genere maschile e sulle sue scarse capacità intellettive rispetto alle donne. Inoltre vengo ripetutamente coinvolto in giudizi da esprimere su episodi personali di tali superiori volti a dimostrare l’inadeguatezza intellettiva dei loro ex partners.

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Marzia :

Sono una donna di 31 anni, mamma da circa 10 mesi. Ho lasciato il mio lavoro quando sono andata in maternità e quando mia figlia aveva circa 6 mesi ho iniziato a cercare un nuovo lavoro. Il primo colloquio che ho fatto è durato circa 30-40 minuti, 10 dei quali a parlare delle mie esperienze lavorative passate e il resto a rispondere a domande del tipo: Pensa di poter lavorare full time? Voglio dire con una figlia… Crede di poter reggere il carico di lavoro? Sa gia’ come organizzarsi con la bambina? Ha nonne o zie che le possono dare una mano se la bimba e’ malata? E in casa ha già pensato a come organizzarsi? Non credo che se a fare quello stesso colloquio fosse stato un uomo, gli sarebbero state fatte domande di natura così personale...alla fine comunque non sono stata assunta, e ho saputo che al mio posto è stata assunta una ragazza sulla ventina...

Marina :

In Italia esiste il “Lavoro adatto a una donna”. Mia madre mi ha sempre detto di fare un lavoro adatto a una donna, così le avevano insegnato. Io invece, ambiziosa, maschiaccio, intelligente, propensa a comandare anche sugli uomini, le dicevo che non volevo nè aspirare al posto fisso, nè a fare un lavoro da donna.

Agnese :

Sono medico del lavoro. Parlando con un mio collega, mi sono resa conto che il mio stipendio era inferiore al suo di 400 €, ma le nostre funzioni sono identiche. Così sono andata dal mio capo e mi sono ribellata: giustizia doveva essere fatta. Questo giochetto durava da quasi due anni.


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Jasmine :

Il mio capo mi ha dato nuovi incarichi ancora prima che tornassi dalla maternità. Ha pensato bene che, ora che sono madre, non avrei potuto occuparmi delle mansioni richieste. Per convincermi, ha fatto appello al ritmo infernale delle mie future giornate... e ha concluso il suo sicorso dicendomi “Ha voluto un bambino? Non può mica lasciarlo tutto il giorno nelle mani di una baby sitter...”

Agata :

Sono docente universitario, uno studente scrive in commento al mio corso: bellissima, bravissima, intelligentissima: una donna da sposare… DA SPOSARE???????????

Anna :

Sono Architetto, laureata, abilitata alla professione. Ho 26 anni. Al mio collega, si rivolgono con “Buongiorno, architetto”. A me dicono “Ciao”.

Yunha :

Se sei aggressiva ti danno della stronza. Sei sei emotiva sei in piena sindrome premestruale. Se sei morbida, sei troppo femminile. Se fai carriera tutti lo motivano dicendo “per forza, è una donna” lasciando sottintendere chissà che. Sembra che non ci sia soluzione...

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Roberta :

Lavoro in una grande azienda. Da noi le segretarie sono per il 90% donne, mentre i capi distretto sono al 100% uomini, non una donna in tutta italia...


Camilla :

Lavoro in uno studio in cui siamo due donne e sei uomini. È molto frequente che a noi due capiti di non essere considerata attendibili, o autorevol come gli altri. A volte ci vediamo costrette a richiedere la presenza di un collega per avvalorare le nostre idee o decisioni, ed è raro che ci vengano affidate vere responsabilità.

Mina :

Un mio collega stava tenento una lezione alla facoltà di legge, ed io, per cortesia, l’ho sccompagnato . Uno studente si gira verso di me e mi chiede: “Quindi tu sei la segretaria di Steve?”. Vedendo la mia espressione, si rende conto dell’errore e farfuglia: “Ehm, scusa, volevo dire… la sua assistente personale?”

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Miriam :

Il mio capo si rivolge a tutti i miei colleghi in maniera informale nel privato, ma davanti ai pazienti mantiene un atteggiamento distaccato, dando del Lei o rivolgendosi loro con il titolo “Dottor...”, come è giusto che sia. Io sono l’unica donna nel mio gruppo. Sono anche l’unica a cui lui si riferisce perennemente chiamandomi per nome davati ai pazienti, o addirittura “Cara”. Non sono mai stata chiamata con il mio titolo di studio, pari in tutto a quello dei miei colleghi.

Tiziana :

Io: “Sono un architetto.” Uomo: “È l’assistente di un architetto?” Io: “No, faccio l’architetto.” Uomo: “Ah, caspita… Complimenti.”

Katia :

Ho detto a un ragazzo dov’è che lavoro, e lui mi ha risposto: “Ma senti… Sei una centralinista?” “No, veramente sono una scienziata. Mi occupo di Dna”. *Silenzio imbarazzato*

Mauro :

Ho dovuto subire per mesi le avances del mio capo, inviti a casa sua per rivedere i grafici ecc. Finché ho accettato e ho dovuto subire avances sessuali pesanti alle quali ho alla fine ceduto con non poco disgusto. Tre mesi dopo è arrivata una promozione con un sostanziale aumento di stipendio. La cosa è andata avanti per 2 anni. Ah, a proposito, sono un uomo e il capo è una (bella, ma purtroppo prepotente) donna.

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Ogni giorno.. Sophia :

Oggi mi sono iscritta ad un’associazione di volontariato fiorentina. Quando stavo per andarmene, un signore sui 70 anni circa dice al signore al suo fianco (stessa età): “Eh, ci sono un sacco di bambine nuove”. In sala c’erano, oltre a questi due signori, quattro donne. Nessuno ha detto niente. Io ho 29 anni.

Liz :

Durante una passeggiata all’aperto con mia madre, abbiamo incontrato una coppia di amici d’infanzia che mi sono stati presentati. Con la moglie accanto, il marito mi da la mano ed esorta “Bella ragazza, complimenti!” aggiungendo “Questo è importante, sai, le notti possono essere lunghe e fredde.” Volevo sputargli in un occhio.

Laura :

8:30 del mattino, imbottigliata nel traffico, un poliziotto mi chiede di accostare. Eseguo; mi domanda di scendere dalla macchina e di seguirlo. Sorpresa! Mi sta facendo una multa! Il motivo: ho invaso la corsia di emergenza... cosa che non avrei fatto se non mi avesse chiesto di accostare! Mi lamento, e il poliziotto cosa fa? Si gira verso il suo collega e dice: “Si vede che è una donna, è in malafede. Almeno è carina!”

Sonia :

Dal benzinaio: “Signorina, ha fatto bene a comprare una macchina a benzina. Le macchine a benzina sono state pensate per le donne: il buco per il rifornimento è più stretto, così la pompa del diesel non ci entra e voi non vi confondete”


Roberta :

Aeroporto di Ciampino, volo per Londra. La guardia allo sportello guarda la mia carta d’identità, alza la testa e dice “E de che saresti dirigente tu?”

Gaia :

“Guidi abbastanza bene PER ESSERE UNA DONNA”. Un classico.

Giovanna :

L’altro giorno mentre parlavo con il professore, ad un certo punto mi fa: “Sei così carina, perché non mi fai un bel sorriso?”. L’avrebbe detto ad un ragazzo?

Sonia :

L’altro giorno, passando davanti a due operai mentre scopavano lo sporco dalla strada, li ho sentiti parlare e lamentarsi delle mansioni. Uno diceva all’altro: “guarda, ci tocca anche fare le DONNE qui, ci tocca PULIRE”.

Daniela :

Stavo discutendo di politica con un ragazzo che conoscevo e che disse di ammirare Margaret Thatcher. Dopo poco, nella stessa conversazione, disse che le donne non dovrebbero mai essere leaders. Ed io chiesi “E la Thatcher, quindi?”. Lui rispose “lei è fondamentalmente un uomo e aveva un cervello da uomo.” Quindi secondo lui se le donne hanno successo, non lo devono al duro lavoro, ma qualità maschili innate (in una donna...).

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Stefania :

Quando mi irrito e mi viene detto che sono nervosa perchè ho il ciclo o “sei la solita femmina isterica”.

Ludovica:

Un amico maschio mi confida i suoi dubbi con le donne. Io gli do la mia opinione: “Secondo me sei troppo dispersivo. Ti piacciono troppe ragazze. Anche a me possono piacerne molti, ma poi ne scelgo uno che mi piace più degli altri”. La sua risposta: “Eh vabbè, ma tu sei una ragazza, se andassi con tutti quelli che ti piacciono, saresti una pu****a.” Il mio messaggio voleva essere: pensaci bene e stai con una persona che ti interessa veramente. Quello che ha capito lui è stato: comportati come farebbe una brava ragazza. E le brave ragazze sono totalmente sante, altrimenti sono necessariamente pu****a.

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Gaia :

Qualche anno fa, davanti all’entrata di un negozio, due uomini mi sono passati accanto e uno di loro mi ha dato una manata sul sedere. Ho reagito gridando a voce alta: sono tornati indietro e quello che mi aveva toccato mi ha minacciato prendendomi per il colletto e urlandomi in faccia. Nessuna delle persone che era con me, miei amici, ha reagito. Quando l’uomo si è allontanato, mi è stato detto che in questi casi è meglio non reagire, lasciar correre. Perchè è universalmente noto che se uno ti tocca il sedere e tu hai la faccia tosta di non apprezzare il complimento, te la sei andata a cercare. O no?

Snow :

Ieri durante un esame universitario io parlavo e il professore invece di ascoltarmi, mi guardava in basso, nella scollatura. Volevo sprofondare.



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l A cultura è l’unico bene dell’umAnità che, diviso frA tutti, Anziché diminuire diventA più grAnde. - Hans Georg Gadamer -

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Eventi



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Cinema al MAXXI ospita

EXTRA DOC FESTIVAL dedicato ai migliori documentari italiani

Dal 7 febbraio al 14 marzo 2018


Fonti Icono graFiche La festa della creativita’ Dal 27 al 30 Settembre 2018

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brevi furono i miei giorni trA voi,

e Ancor più brevi le pArole che ho detto.

mA se lA miA voce si Affievolirà nel vostro orecchio e il mio Amore svAnirà nellA vostrA memoriA, AllorA io

tornerò.

e con cuore più ricco e lAbbrA più docili Allo spirito, pArlerò con voi. sì, tornerò con lA mAreA. - Khalil Gibran -



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