Storia della cucina vercellese

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Giacomo Grasso

Storia della cucina Vercellese


In copertina: Gennaio 1942. Cenone del maiale, una delle pi첫 alte espressioni della cucina tipica vercellese (disegno di Federico Bollo).


L’Autore ringrazia per il patrocinio, il sostegno e l’ospitalità concessi a questa pubblicazione: - Amministrazione Comunale di Borgovercelli, nella persona del Sindaco, dott. Franco Filice - Pro Loco di Borgovercelli - SOMS di Borgovercelli Agli «Amici della panissa» di Albano V.se un sentito grazie per la sontuosa panissa preparata e offerta in occasione della presentazione del libro. Borgovercelli, 27 novembre 2010

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SAVIOLO EDIZIONI Finito di stampare nel mese di Novembre 2010. Tutti i diritti sono riservati a Paolo Saviolo. Nessuna parte del libro può essere riprodotta in alcuna forma di stampa e/o con mezzi digitali e/o elettronici (incluse fotocopie, registrazioni o recupero e immagazzinaggio di informazioni), senza il consenso scritto dell’editore.

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Giacomo Grasso

Storia della cucina Vercellese

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PRESENTAZIONE

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a cucina vercellese, semplice ma saporita, raggiunge l’apice tra le sue preparazioni con la panissa: gustosa e accattivante, di una certa

struttura e robustezza, in un esaltante insieme gustativo e olfattivo. Essa non trova riscontro in tutto lo scibile gastronomico nazionale e internazionale. Il suo sapore ha quasi del magico, che ti attira e ti avvolge. Il vino giusto che viene abbinato esalta il tutto in un piacere suadente. Giacomo Grasso

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PRESENTAZIONE

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olti di noi Vercellesi - forse la maggior parte di noi, compresi quelli che vivono nella città - se solo risalgono di un paio di generazioni il

“bacino idrografico” della loro genealogia familiare, possono trovare l’impronta di una matrice terragna, contadina, stampata nel loro DNA sociale e culturale. Molti di noi - forse ciascuno - può, con l’aiuto di qualche fotografia un po’ ingiallita o della rimembranza di qualche superstite testimone familiare, conteggiare qualche ampio segmento cronologico di “gente mia campagnola”, come diceva Giuseppe Ungaretti per la sua radice familiare, antica “duemill’anni forse” sulla terra bagnata dal Serchio … E’ questa la ragione che mi fa raccomandare ai Vercellesi, nativi o di adozione, la lettura di questo prezioso e “saporoso” libro di Giacomo Grasso. E’ questa la ragione che mi fa credere con convinzione che la sua lettura gli darà il successo che merita per un valore aggiunto, in cui credo consista la motivazione più profonda della sua genesi. Questa “Storia della Cucina Vercellese”, infatti, non nasce soltanto da una ricerca curiosa, appassionata, intensamente e a lungo meditata e ripensata, sul percorso - storicamente intermittente nelle fonti scritte - di una civiltà del cibo e di una “cucina del territorio”; essa nasce anche e soprattutto, a mio avviso, da un’istanza socio-culturale e sentimentale più intima ma non meno scoperta: quella di conservare in vita sentori e sapori di una “civiltà contadina” da preservare, sì, dall’ineducazione alimentare dilagante con le mode esterofile e spersonalizzanti, ma ancor più dall’azione ostile

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che il tempo esercita su quello che Giacomo chiama, suggestivamente, “il profumo della memoria”. C’è qualcosa di ruvidamente agonistico, più che di morbidamente nostalgico, in questo impegno di Grasso, speso a garantire alla nostra civiltà, alla nostra identità culturale, espressa in cucina e sul desco di famiglia, un pieno diritto di cittadinanza nel nostro presente, fatalmente “meticcio” per tante e dopo tante stratificazioni, incursioni, scorribande eterogenee. Anche dalla prospettiva della cucina, anche dall’esalare fumigante di pignatte e pentole, c’è una possibilità di tentare di cogliere qualche versante del “senso della Storia” (se non si nutrono schizzinosi pregiudizi per la cosiddetta “cultura materiale”) … Questo è in fondo, anche e soprattutto, il senso vero dell’impegno che Giacomo Grasso mette nel tentativo di salvare la coltura del fagiolo “scozzese gigante” di Villata, con altri benemeriti amici del paese; o nell’azione diplomatica, ostinata, defatigante e difficile, svolta fra gli “addetti ai lavori” e le istituzioni locali, nel tentativo di mettere a punto il “canone” della ricetta autentica della panissa (o, almeno, degli ingredienti unanimemente condivisi): c’è amore per la vicenda storica di questa civiltà, che è fatta di gesti e riti di campagna e di cascina, di parole e simboli, di “profumi della memoria”, appunto, da comunicare e tramandare; perché il senso di quella storia non vada disperso. Non a caso Giacomo Grasso si è interessato, di recente1, alla lingua dialettale ed al lessico di una nostra area linguistica ben individuata, la

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GIACOMO GRASSO, Dalla lingua piemontese una variante di dialetto locale, Vercelli (2009).

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“bassa Baraggia”; lo ha mosso, quasi certamente, lo stesso movente di questa sua nuova fatica compositiva, quello di indagare e salvaguardare un frammento della nostra identità antropologica e culturale. Anche questa “Storia della Cucina Vercellese” va letta - questo raccomando a tutti coloro cui verrà tra le mani - tenendo conto di questo movente sentimentale e “civico” insieme, che forse vale quanto la competenza tecnica e scientifica dello “specifico culinario” che il libro pure mette in luce. Se sapremo metterci in questa disposizione d’animo, dal racconto di questa Storia e di queste “storie” è possibile che raccogliamo anche noi, come è successo a me, profumi di una nostra personale memoria della cucina di casa, di pranzi fra parenti, di climi e atmosfere miracolosamente restituite al cuore. E scopriremo di essere anche noi partecipi di quel patrimonio collettivo di saperi e sapori, esperienze e valori che il libro di Giacomo Grasso ci aiuta a ritrovare. E ci riconosceremo in esso, come in uno specchio neppure troppo appannato. Angelo Fragonara Novembre 2010

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PRESENTAZIONE

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ono legato a Giacomo Grasso da un’amicizia ultratrentennale, caratterizzata anche da comuni e condivise scelte di campo e da un

costante impegno in difesa delle nostre radici più autentiche e positive. Ho quindi avuto il privilegio di seguire, fin dall’inizio, il lungo e appassionato percorso di ricerche e di approfondimenti confluiti oggi in questa “Storia della cucina vercellese”. Ma il titolo mi sembra riduttivo in quanto il libro va ben al di là di una storia, ancorché meritevole, della cucina del nostro territorio e delinea con mano sicura e con una scrittura chiara e accattivante un quadro sintetico ma esauriente della civiltà contadina vercellese e dei suoi aspetti antropologici più rilevanti e caratteristici. Frutto anche di nostre lunghe conversazioni sull’argomento, il libro mi ha coinvolto sempre e addirittura commosso in alcune parti, certamente anche in considerazione della mia appartenenza al mondo contadino e al fatto di essere e di sentirmi, culturalmente, professionalmente ed emotivamente, “contadino” io stesso. Accurate e scientificamente ineccepibili le pagine che Giacomo Grasso dedica al soggiorno a Borgovercelli di Torquato Tasso; motivate e convincenti le argomentazioni in difesa dell’ortodossia della panissa tipica vercellese, per fissarne almeno gli ingredienti base se non la preparazione; vivacissime e precise le notizie sulla macellazione del maiale e sulla sua importanza nell’economia domestica del mondo contadino.

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Ma la parte del libro che più mi ha coinvolto, e che tratta argomenti poco affrontati in maniera così analitica e documentata, è quella dedicata alla cucina povera, ai suoi ingredienti, alla cattura dei pesci e dei passeri, alle ricette che Giacomo Grasso, con espressione felicissima, definisce “piatti dal profumo e dal sapore della memoria”. Mi auguro pertanto che questa “Storia della cucina vercellese” abbia la diffusione e il successo che merita e che, se nelle persone non più giovani farà rivivere atmosfere e ricordi della loro infanzia e giovinezza, possa aiutare tutti a non dimenticare le nostre radici culturali non per crogiolarci in una sterile nostalgia del passato, ma per ricordarci che il futuro, un futuro vero, ricco di valori e di prospettive, ha sempre, come scriveva Carlo Levi, “un cuore antico”. Gianni Mentigazzi Novembre 2010

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LE ORIGINI DI VERCELLI

Indicazioni e riscontri storici abbastanza attendibili sulle antiche origini di Vercelli chiamano in causa quello che era il popolo dominante in Europa nei due millenni prima di Cristo e dell’Impero Romano: i Celti. Quello dei Celti fu il primo popolo agli albori della storia che abbia acquisito una propria identità nell’Europa centrale. Erano un insieme di popolazioni di diverse origini, ma caratterizzati da affinità culturali e linguistiche. Ritrovamenti archeologici recenti attestano la presenza del primo nucleo di Celti nella valle del Rodano duemila anni prima di Cristo. La loro civiltà millenaria si espanse dall’Europa centrale fino alla Spagna e al Portogallo; a nord della Francia, in Scozia e Irlanda. Si spinsero nei Balcani e nell’ Asia Minore. Verso il V secolo a.C. iniziarono le loro infiltrazioni verso la Valle Padana. I Romani, che li consideravano ovviamente dei barbari, li chiamavano Galli e così definivano Gallia Cisalpina l’area che comprendeva all’incirca l’attuale Piemonte e parte della Lombardia; Gallia Transalpina la regione dell’attuale Savoia. In una recentissima pubblicazione, Vercelli e Provincia – un mosaico d’arte, cultura e suggestione, edito da Whitelight, Matteo Varia traccia un quadro completo e circostanziato della presenza dei Celti nel nostro territorio, dove si sviluppò Wher – Celt (rocca dei Celti, Vercellae) qualche secolo prima dell’arrivo dei Romani. 13


Secondo Matteo Varia i Celti, entrati dal Brennero, dopo aver percorso la Pianura Padana, seguendo poi il corso del fiume Sesia, incontrarono una città interamente costruita in legno (tratto dai boschi circostanti) e pietre (tratte dal greto del fiume Sesia). Era la città abitata dai Libici (o Liguri) e fondata dai Salassi, o Salii, qualche secolo prima. Secondo Adriano Pennacini i Salassi, o Salii, erano un popolo che abitava l’attuale Canavese, tra i Libici di Vercelli e i Taurini di Torino. I Celti, quindi, dopo un duro scontro con i Libici, occuparono quell’agglomerato di case di legno e pietre. Così Wher – Celt (rocca dei Celti, dopo la sua occupazione) troverà, con la zona circostante, uno sviluppo impostato sulla creazione di villaggi agresti e piccoli centri fortificati. La proprietà terriera è caratterizzata da piccoli appezzamenti messi a coltura. Il bosco circostante era un bene comune, che veniva usato, oltre che per il legname, anche per la caccia e l’allevamento di maiali e ovini. I Celti furono vinti nel 143 a.C. dai Romani, che occuparono la Gallia Cisalpina e nel 100 a.C. fondarono la colonia di Eporedia (Ivrea); nel 25 a.C. quella di Augusta Pretoria (Aosta). A questo punto Wher – Celt diventò Vercellae e l’equilibrio tra esigenze della comunità celtica e sfruttamento delle risorse cominciò a cambiare. Trascorso il periodo dell’ Impero romano e giunti all’Alto Medioevo, Vercelli è ancora una città circondata da estese foreste ricche di cacciagione, dalla quale le popolazioni di allora trovarono sostentamento, oltre che dai prodotti dei campi, falcidiati però da frequenti carestie. 14


Così divenne abituale il consumo di zuppe, focacce, polente ricavate dal miscuglio di cereali poveri (sorgo, miglio, farro, panìco), alternati da prodotti della caccia e dal pescato del fiume Sesia, ricco di pesce di ogni tipo. Un film di qualche anno fa (Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno) può essere considerato uno spaccato, se pur reinventato con qualche licenza, del nostro mondo contadino nell’Alto Medioevo.

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LA CENA DI TORQUATO TASSO OSPITE DELLA FAMIGLIA BULGARO A BORGOVERCELLI Reputando né anacronistico né inutile riaprire il discorso sul breve soggiorno di Torquato Tasso a Borgo Vercelli, datato al lontano settembre del 1578, ho consultato gli scritti di coloro che tanto impegno profusero in studi e ricerche sull’argomento, per conoscere l’identità del gentile signore di campagna che ospitò, per una sera e una notte, nella sua dimora il poeta.* Leggendo Il padre di famiglia, “una delle più luminose e serene

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Per collocare l’evento nel quadro generale della situazione italiana di quegli anni, va rilevato che l’assetto politico – amministrativo, dopo la pace di CateauCambrésis del 1559, vede un netto dominio spagnolo, diretto o per influenza, in quasi tutta la penisola. Ne rimanevano esclusi il Ducato di Savoia, la Repubblica di Venezia, diversi staterelli dell’ Itala centro-settentrionale e lo Stato della Chiesa, che aveva una sua storica autonomia. Il predominio spagnolo venne facilitato soprattutto dalla rinuncia da parte della Francia a contendere alla potenza rivale il possesso del Milanese e del Napoletano. Questo assetto durerà nelle sue grandi linee fino all’inizio del 1700. Quando il Tasso, parlando del principe Emanuele di Savoia, lo considera “il primo e più valoroso e glorioso principe d’ Italia”, trae motivo di tanto elogio dalla vittoria che il Duca aveva ottenuto nel 1557, nella battaglia di S. Quintino, durante la campagna delle Fiandre. Nel 1545, perso il Ducato occupato dai Francesi, Emanuele Filiberto si arruolò appena diciassettenne al servizio di Carlo V di Spagna. Nel 1557, al comando delle sue truppe, con una magistrale impostazione tattico-strategica, sconfisse i Francesi coprendosi di gloria e rivelando le sue grandi doti di condottiero.

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pagine di prosa che il Tasso abbia lasciato” (Giulio Cesare Faccio in “Torquato Tasso a Borgo Vercelli”), ho riscontrato una grande competenza del Tasso nel parlare di vini e cibi: un autentico esperto di enogastronomia, si direbbe oggi: nozioni e gusti acquisiti sicuramente durante il permanere presso numerose corti italiane dell’epoca. E’ questo un aspetto che gli studiosi e i ricercatori del secolo scorso non rilevano, semplicemente perché in quegli anni interessi e culture enogastronomiche erano poco diffuse. Oggi, invece, dedicando la televisione ampio spazio all’argomento, così come la carta stampata con numerose pubblicazioni specializzate, é vasta la diffusione di nozioni, ricette e vere lezioni culinarie. E’ davanti agli occhi di tutti quanta curiosità, interesse, voglia di apprendere sull’argomento vi sia tra la gente. Si potrebbe dire che, assieme alla meteorologia, cucina e vini siano oggi al centro dell’attenzione degli Italiani. Prima di affrontare questo specifico aspetto del racconto del poeta, voglio avanzare alcune considerazioni più generali, che riguardano coloro che dedicarono molto tempo in minuziose ricerche per conoscere il nome del “padre di famiglia” tassiano, nobile Signore del borgo appena aldilà della sponda sinistra del fiume Sesia.

Sbarcò poi a Nizza nel 1559, accolto trionfalmente dai maggiorenti di tutto il Piemonte. In meno di vent’anni fece del Ducato del Piemonte un piccolo Stato all’avanguardia sotto il profilo amministrativo, militare ed economico, suscitando l’ammirazione di uomini di governo e ambasciatori dell’epoca.

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Due furono questi studiosi. Il primo è Alessandro Baudi di Vesme (ora Vesime – AT), più noto semplicemente come Alessandro Vesme, un dotto storico piemontese. L’altro è il dottor Marco Perosa di Borgo Vercelli “modesto ma chiaro storico”, come lo definisce il professor Giulio Cesare Faccio. In “Torquato Tasso e il Piemonte” Alessandro Vesme descrive tutti i passaggi della sua minuziosa ricerca. Il dottor Marco Perosa pubblicherà due libri: il primo dal titolo “Sulla breve dimora di Torquato Tasso in Borgo Vercelli”, il secondo dal titolo “Bulgaro”. Entrambi gli studiosi, all’insaputa l’uno dell’altro, fecero queste ricerche tra il 1880 e il 1890. Prima di quella data nessuno aveva fatto la benché minima indagine in proposito. Alessandro Vesme, dopo aver consultato testi dell’epoca, soprattutto quelli pubblicati da biografi del Tasso, e dopo aver constatato che poco o nulla era emerso che non fosse già conosciuto dalla lettura del dialogo “Il padre di famiglia”, si convinse che ne avrebbe saputo molto di più recandosi sul posto e seguendo le indicazioni testuali del poeta. Così, un giorno di settembre del 1886 il Vesme arriva a Vercelli e racconta: “uscito dalla porta di Milano mi incamminai tenendo la bella e spaziosa strada nazionale che corre in linea quasi retta fino a Novara”. Attraversato il ponte sul fiume Sesia, si reca sul luogo che egli riteneva essere quello dell’incontro del Tasso con il giovane figlio del nobile Signore: si guarda intorno, ma non vede la casa descritta dal poeta, che a questo proposito scriveva: “egli (riferendosi al giovane cacciatore) la sua 19


casa mi additò che dalla ripa del fiume non era molto lontana ed era di tanta altezza, che alla vista di fuori si poteva comprendere che più ordini di stanze, l’una sovra l’altro, contenesse”. Alessandro Vesme ad un certo punto vede una casa che si eleva sopra le altre in mezzo a quelle di un villaggio, a discreta distanza, che poteva essere quella descritta dal Tasso. Questa differenza di posizione e localizzazione tra la descrizione fatta dal poeta e quella riscontrata da Alessandro Vesme è dovuta sicuramente al notevole spostamento del corso del fiume, che trecento anni prima passava molto più vicino a Borgo Vercelli. Arrivato davanti alla casa, Alessandro Vesme notò il particolare dell’accesso ad essa, come descritto dal poeta: “ vi si saliva per una scala doppia, la quale era fuori dalla porta e dava due salite assai comode per venticinque gradi larghi, e piacevoli da ciascuna parte”. Salita la scala ed entrato nelle prima stanza, riconobbe subito quella descritta dal Tasso: “salita la scala ci ritrovammo in una sala di forma quasi quadrata e di convenevole grandezza: perciocché aveva due appartamenti di stanze a destra e due altri a sinistra e altrettanti appartamenti che erano nella parte della casa superiore”. Dopo averla visitata tutta, accompagnato da un solerte giardiniere, il Vesme riprese il cammino verso Vercelli, convinto a questo punto che il nome del padre di famiglia non doveva essere di difficile individuazione, poiché persone esperte e pratiche di cose vercellesi l’avrebbero sicuramente aiutato nella sua ricerca. Si rivolse a Francesco Marocchino, archivista, e al commendator 20


Carlo Dionisotti, Consigliere di Cassazione e membro della Deputazione di Storia Patria. L’inizio di questa ricerca ha però un punto poco chiaro, che lascia qualche incertezza se ci si sofferma su quanto Alessandro Vesme scrive dopo il suo ritorno da Borgo Vercelli: “quando ebbi tutto visitato, ripresi il cammino di Vercelli, lieto della fatta scoperta. Mi restava bensì ancora a sapere il nome del padre di famiglia, ma una volta che se n’era nota la casa, non doveva essere malagevole lo scoprirlo. Ed infatti con l’assistenza di persone perite di cose vercellesi venni poi a conoscere che la casa da me veduta in Borgo Vercelli apparteneva nei tempi del Tasso alla famiglia patrizia vercellese degli Ajazza”. A questo punto è opportuno un inciso: quando Alessandro Vesme nel suo “Torquato Tasso e il Piemonte” (pag. 54) scrive “con l’assistenza di persone perite di cose vercellesi”, c’è un richiamo in nota a fondo pagina, che indica l’avv. Francesco Marocchino, archivista della Città di Vercelli, ed il comm. Dionisotti, Consigliere di Cassazione e membro della Deputazione di Storia Patria, “ai quali esprimo la mia riconoscenza”. Il punto che può trarre in inganno è l’indurre che possano essere stati il Marocchino e il Dionisotti a fare il nome degli Ajazza quali proprietari della casa del padre di famiglia ai tempi del Tasso. Questa tesi appare poco probabile, per il fatto che Carlo Dionisotti, nelle sue brevi ricerche condotte personalmente per scoprire il nome del Signore che ospitò il Tasso, lo individuerà in quello di un Conte Cesare Foppa milanese, che ebbe in Borgo Vercelli alcune proprietà. Infine, da un’attenta lettura e interpretazione di quanto scrive il Vesme (“ed infatti, con l’assistenza di persone perite, venni poi a sapere che la casa 21


da me veduta in Borgo Vercelli apparteneva…”), è lecito pensare che l’avv. Marocchino e il comm. Carlo Dionisotti abbiano in realtà messo a disposizione di Alessandro Vesme l’Archivio del Comune, fornendogli anche qualche indicazione generica che altri tradussero in notizie fuorvianti per il Vesme, rendendo così erronee nella conclusione le sue minuziose ricerche. La famiglia patrizia vercellese degli Ajazza (in latino De Agaciis) ha un blasone che riporta tre gazze in campo oro. Chiara la correlazione tra il termine dialettale di questo uccello (jàsa) e il nome del casato: non tra le più antiche, ma tra le più segnalate famiglie aristocratiche, dirà il Vesme, perché da essa uscirono alti prelati, senatori, ambasciatori, dottori del Collegio dei Giureconsulti. Le lunghe ricerche di Alessandro Vesme lo portarono ad individuare dunque il padre di famiglia tassiano nella persona del senatore Niccolò Ajazza (“essendo la Corte di Appello definita Senato, i loro membri assumevano il titolo di Senatori”). Sfortunatamente l’emerito storico piemontese Alessandro Baudi di Vesme incappò in circostanze e fatti che coincidevano, almeno in apparenza, con quanto descritto dal poeta nel dialogo “Il padre di famiglia”. Prima circostanza. L’amore e la competenza in campo agrario riconosciuta dal Tasso al suo gentile ospite coincidono con altrettanta competenza, dedizione e impegno descritti dal Sen. Nicolò Ajazza nel suo libro: “Vent’ anni di lavoro agricolo di un ufficiale di cavalleria”, edito nel 1583. Val la pena di ricordare un documento che compare in questo libro. E’ un documento datato 1582, nel quale Nicolò Ajazza chiede al sovrano l’autorizzazione di ridurre “una notabile quantità di acqua che si perde, a beneficio pubblico oltre il suo particolare”. 22


Qui, molto probabilmente, il tema è l’irrigazione delle prime risaie (1582, cento anni circa dopo Lucedio e i suoi monaci Cistercensi). Molta acqua andava persa probabilmente per cattiva e insufficiente canalizzazione. Il Sen. Ajazza, con alto senso civico, chiede che venga ridotta allo stretto necessario la quantità d’acqua per le sue risaie, destinando il surplus ad usi pubblici. Il secondo punto coincidente sono i due figli maschi del padre di famiglia tassiano, così come furono due i figli maschi del Sen. Ajazza. La terza coincidenza è lo stato patrimoniale degli avi di entrambi. Il nobile Signore nel dialogo dirà al Tasso che: “il suo avo paterno essendo di picciol patrimonio erede, con l’industria e con la parsimonia e con tutte l’arti di lodato padre di famiglia, molto l’accrebbe”. Così pure l’avo del Sen. Ajazza parlerà della sua situazione patrimoniale nel suo testamento del 1509, dichiarando di aver creato la fortuna della sua Casa, considerando quanti beni aveva acquisito e aveva ottenuto dall’umanità e dalla benevolenza di Dio e, chiaramente, per devozione e per opera di S. Tommaso d’Aquino. A fronte di queste circostanze concomitanti, ad Alessandro Vesme sfuggì un particolare decisivo: la famiglia Ajazza non risiedeva a Borgo Vercelli all’epoca del passaggio di Torquato Tasso (1578), ma solo a partire dalla seconda metà del 1700. Veniamo ora all’impegno del professor Marco Perosa di Borgo Vercelli. Egli, dopo lunghe e accuratissime ricerche, potè dimostrare che il Signore che ospitò il Tasso era un membro della famiglia Bulgaro, e che la casa dove fu ospitato il poeta era la parte “vecchia” del castello dei Bulgaro, 23


“ristrutturato” poco prima dell’arrivo del poeta. Scriveva infatti il Tasso a proposito della casa: “ella era di nuovo fabbricata…”. Il dottor Perosa, purtroppo, non potè appurare con esattezza quale fosse il Bulgaro che ospitò il Tasso, perché si trovò di fronte ad un intricato albero genealogico, che in linea diretta e collaterale presentava innumerevoli nominativi di Bulgaro. Egli concluderà la sua ricerca con queste parole, che lasciano trasparire un po’ di amarezza: “devo francamente confessare che dopo tante indagini io mi trovo in dubbiezza maggiore di prima. Basta infatti gettare uno sguardo all’albero genealogico della famiglia e vedere in quale immensa quantità di membri si fosse diramata in quel tempo, e cioè intorno al 1578, per concludere quanto gravi siano le difficoltà di poter uscire dall’inestricabile labirinto a chi voglia ingolfarvisi. Né possono bastare ragionamenti, né induzioni per via di esclusione, perché non sappiamo con tutta precisione quali furono quei membri della famiglia che qui più stabilmente dimoravano, e solo di tratto in tratto abbiamo notizie su di essi”. Nel settembre del 1923 il professor Giulio Cesare Faccio, in occasione della cerimonia per la posa di una lapide a ricordo del breve soggiorno del poeta, terrà il discorso celebrativo davanti alla casa Bulgaro. La sua è una chiara e limpida disamina, che percorre i fatti accaduti in quel lontano settembre 1578 ed illustra con puntualità e precisione le ricerche fatte dai due emeriti studiosi sopra citati. In quell’occasione il professor Faccio dichiara di aver condotto anch’egli delle ricerche presso l’archivio del Comune di Vercelli, sulla scorta di un albero genealogico della famiglia Bulgaro pubblicato in quei mesi dal Conte Teodoro Arborio Mella. Ma le ricerche del professor Faccio non ebbero migliore fortuna di 24


quelle del Perosa. Anch’egli si trovò di fronte ad una intricata quantità di nominativi che resero impossibile l’individuazione precisa e certa del personaggio che ospitò Torquato Tasso. Questo suo lungo discorso verrà pubblicato in un opuscolo dal titolo “Torquato Tasso a Borgo Vercelli”. Come si è detto sopra, egli definisce “Il padre di famiglia” tassiano “una delle più luminose e serene pagine di prosa che il Tasso abbia lasciato. Quest’opera altro non è che il racconto genuino della serata passata dal Tasso anche se alquanto abbellito forse dai lenocinii dell’arte”. Al riguardo è opportuno considerare che il dialogo fu scritto da Tasso nel 1579, durante il suo internamento nell’Ospedale S. Anna di Ferrara, a causa di disturbi mentali: è lecito quindi pensare che il breve soggiorno a Borgo Vercelli apparisse nei ricordi “turbati” di Tasso come l’unico (forse) momento lieto del recente passato; sostanzialmente veritiero, ma certo anche in parte idealizzato. Il discorso che avviene a tavola è tutto pervaso di elogi e apprezzamenti nei confronti del padre di famiglia. Tasso elogia la casa per la sua “pulitezza” e signorilità, che nulla ha da invidiare a nobili case di città. Elogia il giardino, l’orto, i campi, riconoscendo al gentile Signore ottime doti di agricoltore. Fa abbondanti apprezzamenti sulla sua cultura letteraria, quale buon conoscitore di Virgilio e Varrone, autori di poemi e trattati su tecniche agricole (Georgiche, De re rustica), e Omero. E al giovane figlio del nobile Signore, che lo accompagna a controllare la piena del Sesia e la possibilità di essere traghettato a Vercelli, dirà: “io non fui mai in questo paese, perciocché altra fiata (volta) che andando in 25


Francia passai per lo Piemonte, non feci questo cammino, ma per quel che a me paia non ho ora a pentirmi di essere passato perché assai bello è il paese e da assai cortesi genti abitato”. Ultima notazione, la più importante, perché centrale a tutto il racconto: quale può essere stato il motivo da parte del Tasso per aver taciuto la propria identità al suo ospite, e quella del padre di famiglia? All’inizio del 1579 Torquato Tasso, ospite da quattro mesi di Filippo d’Este, capitano generale della cavalleria di Emanuele Filiberto e suo genero, avuta notizia dei grandi festeggiamenti che si stavano preparando a Ferrara per le nozze tra il Duca Alfonso d’Este e Margherita Gonzaga, decide di partire improvvisamente da Torino (quelle del Tasso , più che partenze e viaggi, sono quasi sempre delle fughe). Egli sognava di essere al centro dell’attenzione a Ferrara; ma non sarà così, perché gli impegni per i preparativi delle nozze non consentirono al Duca d’Este di occuparsi di lui e delle sue istanze e suppliche. Questa delusione accentuerà il suo precario equilibrio psichico. Verrà così rinchiuso sotto stretta sorveglianza nell’Ospedale di S. Anna, dove rimarrà per sette lunghi anni. Ed è durante questa prigione – ricovero che scriverà “Il padre di famiglia”. E’ possibile perciò cheTasso non scriva il nome del gentile Signore che lo ospitò, forse per averlo dimenticato, vista la sua condizione psichica. Il giovane cacciatore (figlio del nobile Signore), mentre lo accompagna a controllare lo stato del fiume, punto dalla curiosità, rivolgendosi al forestiero appena giunto in quel luogo, gli chiede: “Ditemi, di grazia, chi siete, e di qual patria, e qual fortuna in queste parti vi conduce”. 26


“Sono, risposi, nato nel Regno di Napoli, Città famosa d’Italia, e di madre napoletana, ma traggo l’origine paterna da Bergamo, Città di Lombardia; il nome e il cognome mio vi taccio, che è così oscuro, che perché io pure lo vi dicessi, né più né meno sapreste delle mie condizioni; fuggo sdegno di Principe, e di fortuna, e mi riparo negli Stati di Savoia”. Ed egli: “Sotto magnanimo e giusto e grazioso Principe vi riparate”. Tornando al nostro dialogo,Torquato Tasso, diretto a Vercelli, giunto sulla riva sinistra della Sesia, trova il fiume in piena. Vista l’impossibilità di essere traghettato, si dirige, accompagnato dal giovane figlio del nobile Signore, verso la casa di lui. Davanti c’è una piazzetta circondata da alberi. Alla casa si accede da una doppia scala di venticinque gradini per parte, che immette in un’ ampia sala di aspetto nobiliare; da una porta, proprio di fronte a quella d’entrata, scendendo di venticinque gradini, si entra in un cortile posteriore, intorno al quale sono molte piccole stanze di servitori e granai; e di là si passa in un giardino “assai grande”. Questa configurazione anticipa di oltre un secolo la planimetria delle “cassine”, con le loro corti quadrate circondate su tre lati da alloggi per “schiavandari”, granai e “travate” per ripararvi fieno e attrezzi agricoli. A questo punto, però, a me interessa parlare soprattutto di vivande e vini, serviti in quell’occasione durante la cena. Il primo menu “rinascimentale” di Vercelli e del suo territorio, di cui si ha una descrizione precisa, è quello riportato da Torquato Tasso nel suo dialogo “il padre di famiglia” e data al 1578/1579. “Potrò caricarvi la mensa di vivande non comprate le quali, se tali non 27


saranno quali voi altrove siete solito di gustare, ricordatevi che siete in villa, e a casa di povero oste (ospite, n.d.r.) vi siete abbattuto”. Estimo (considero, n.d.r.), diss’ io, parte di felicità*, il non essere costretto di mandare alla città per cose necessarie al ben vivere, non che al vivere**, delle quali mi pare qui sia in abbondanza”. “Non occorre, diss’egli, che io per alcuna cosa necessaria, o convenevole a vita di povero gentiluomo, mandi alla città, perciocché dalle mie terre ogni cosa m’è, la sua mercè, copiosamente somministrata, le quali in quattro parti o specie***, che vogliamo dirle, ho divise, una parte la maggiore, è da me arata e seminata di formento e di ogni altra sorta di legumi****. L’altra è lasciata agli alberi e alle piante, le quali sono necessarie o per il fuoco o per l’uso delle fabbriche e degli strumenti delle case, comecchè in quella parte ancora che si semina, siano molti ordini di alberi, su’ quali le viti secondo le usanze de’ nostri piccioli paesi sono appoggiate: la terza è prateria, nella quale gli armenti e le greggi, che io ho, usano pascolare: la quarta ho riserbata all’erbe ed a fiori ove sono molti alberi d’api”.

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Felicità: edonismo dei sensi; il piacere dei prodotti genuini di propria produzione (oggi definiti, con termine poco elegante, “ruspanti”).

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Il Tasso probabilmente intendeva, con questa ripetizione, indicare due tipi di “tenore alimentare”: uno generoso, abbondante e di una certa raffinatezza; l’altro più parco, contenuto, abituale.

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Tipologie Secondo Massimo Montanari, nel suo “L’alimentazione contadina nell’Alto Medioevo”, all’epoca, certi cereali minori (panìco, farro, miglio, sorgo) erano definiti legumi.

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E aggiunge poi che “oltre al giardino che mi produce tanti frutti come avete potuto vedere, posseggo un grande orto che ogni tipo di verdure produce”. Il Tasso a questo punto gli tesse un elogio, dicendogli: “non solo Virgilio avete letto ma conoscete anche Varrone” (Publio Terenzio Varrone, poligrafo latino del I secolo a.C., scrisse un trattato di agricoltura). Ma ritorniamo ora alla cena con le sue vivande e i suoi vini, la cui descrizione assume aspetti di notevole interesse per un’alimentazione basata esclusivamente sui prodotti della “cascina”. Siamo di fronte indubbiamente a una cucina che si può definire “di territorio”, in sintonia con quanto oggi sostenuto dai migliori chef nazionali e internazionali. In tavola “furono portati con abbondanza meloni”, e il gentile ospite invita il Tasso a mangiarne a suo piacimento, poiché erano stati scelti i migliori, dolci e saporosi. Sono stati scelti perché “non tutti sono così dolci”, in quanto, spiega il padrone di casa, “quelli che poggiano sulla terra , o sono nascosti ai raggi del sole dal loro stesso fogliame, non arrivano a buona maturazione” (spiegazione tecnica di un provetto agronomo). “Con questi meloni venne servito di un bianco assai generoso; invitato da lui, bevei un’ altra volta di un claretto molto delicato…”. I termini “generoso” e “delicato” usati dal Tasso a proposito dei due vini, termini molto appropriati e alquanto attuali e moderni, lasciano trasparire una certa competenza in fatto di vini da parte del poeta, come il Tasso dimostrerà anche nella conversazione dopo la cena (da notare il servizio dei meloni quasi come antipasto: una moda dell’epoca, non molto 29


diffusa, che è però arrivata quasi fino ai tempi nostri in pranzi più o meno eleganti). Ai meloni seguirà il capriolo, che era stato preparato in due maniere, metà arrosto (e di questo venne servito il Tasso dallo stesso signore con i pezzi migliori), l’altra metà preparato a modo di manicaretti (elaborato, cioè, in modo da renderlo più saporito ed appetitoso): carne che il Tasso definisce “assai piacevole al gusto: venne con il capriolo, compartito in due piatti, alquanto di cignale acconcio secondo il costume della mia patria, in brodo lardiero”, cioè preparato in sugo di lardo; oggi si direbbe “in umido”. Anche qui c’è da fare un’importante considerazione sul particolare accenno con cui il poeta dice “alquanto di cignale acconcio secondo il costume della mia patria”. Questo è dovuto al fatto che probabilmente la famiglia aveva già in altre occasioni ospitato personaggi provenienti da ambienti di corte di ogni parte d’Italia. Vennero poi serviti due piccioni prelevati da una colombaia della villa e cotti uno arrosto e l’altro bollito. Ritornando al claretto molto delicato, c’è da rilevare un aspetto molto importante. Il chiaretto era all’epoca un vino prodotto in ogni parte d’Italia: considerando che, generalmente, un vino prodotto in grande quantità non è mai di grande qualità, questo invece è molto “delicato”: ciò vuol dire che è stato prodotto da un viticoltore molto esperto. Il padrone di casa dirà che la mancanza di carne di bue è dovuta al fatto che in questa stagione ancora calda di tarda estate nessuno mangia volentieri questo tipo di carne; e forse per scusarlo di questa “mancanza” dirà il 30


Tasso: “A me basterà, diss’io, se pure non è soverchio, il mangiare delle due sorti di carni salvatiche e mi parrà di essere a cena con gli Eroi (s'intende, omerici) al tempo de’ quali non si legge che si mangiassero altre carne”. Alla fine del pranzo, liberato il tavolo dai piatti di carne “vi furono posti frutti di ogni sorta”. Erano gli stessi frutti che facevano bella mostra sulla credenza “in candidissimi piatti di creta”. Viene, a questo punto del dialogo, aperta un’ interessantissima ed erudita disquisizione sui vini in genere: il poeta riscontra infatti una certa similitudine tra la cena testè conclusa con quello che consumavano abitualmente gli antichi eroi omerici bevendo in abbondanza, e non perde l’occasione di una citazione dotta: implentur veteris Bacchi pinguisque ferinae (si saziano di vino vecchio e di grassa carne ferina – selvaggina –)*. A questo punto interviene il padre di famiglia dicendo: siccome avete introdotto il discorso sugli eroi omerici, voglio dichiarare la mia sorpresa per come Omero descrive il vino, definendolo nero e dolce, che sono due caratteristiche non lodevoli di un vino. Al gentiluomo questa definizione di Omero pare sorprendente, essendo noto che i vini che da levante arrivano a noi sono di color bianco, come lo sono Malvagie, Romanie, e i vini del Regno di Napoli che greci son chiamati**.

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Virgilio, Aen. I, 215 – Traduzione della prof. Maria Bosso Gavinelli. Malvagie = Malvasia, solitamente passita Romanie = una varietà di bianco greco I vini del regno di Napoli = questo è il classico greco, le cui viti furono portate dalla Grecia; il più famoso di essi è il Greco di Somma Vesuviana.

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“Essi – continua il gentil signore – sono bianchi e un po’ dorati, a differenza di quelli del regno di Germania e gli altri che nascono in paese freddo ove il sole non ha tanto vigore che possa affatto maturare le uve innanzi la stagione della vendemmia”. Da rimarcare questa arguta e competente considerazione. Poi il Tasso risponde alle osservazioni che il Signore ha appena espresso sul vino nero e dolce descritto da Omero, e dice: “I vini furono da Omero detti dolci con quella maniera di metafora con la quale tutte le cose o grate ai sensi o care all’animo dolci sono addimandate, sebbene io non negherò che egli (il padre di famiglia) il vino alquanto dolcetto non possa amare il quale a me suol molto piacere; e questa dolcezza sino a certo termine non è piacevole nel vino, e le Malvagie, i Greci e le Romanie delle quali abbiamo fatto menzione, tutte hanno alquanto del dolce, la quale dolcezza si perde con la vecchiaia onde si legge: inger mi calices amariores (riempimi i calici di vino più amaro, cioè più vecchio)***, non perché il poeta desiderasse il vino amaro, che alcuno non è a cui l’amaritudine nel vino non fosse spiacevole, ma perché il vino vecchio perdendo la dolcezza acquista quella forza piena di austerità che egli chiama amaritudine, onde vorrei che così intendeste”. Questa è una considerazione degna di enologo o sommelier dei giorni nostri, che direbbe a questo proposito: un vino che da giovane ha sentori di frutta e profumi vivaci, invecchiando avrà caratteri più compositi, di minor freschezza, ma più raffinati e di maggior corpo.

*** Catullo, XXVII, 2 Traduzione della prof. Maria Bosso Gavinelli. 32


Stupisce la modernità e l’ampiezza di argomentazioni in questa analisi fatta da Torquato Tasso, quasi egli fosse un esperto enologo. Infine, il padre di famiglia parla della vendemmia, considerandola l’operazione di campagna che deve avere la maggior cura tra tutte le coltivazioni, e definendola “nobile fra tutte”. Infatti, se la raccolta dei frumenti venisse fatta con trascuratezza e negligenza “de villani” (contadini) subirebbe danno e disagio, ma nella vendemmia e vinificazione un minimo di trascuratezza e negligenza non solo provocherebbe un danno materiale, ma non si potrebbe nell’occasione di ospiti importanti e illustri fare onore alla tavola con importanti vini, “senza i quali non solo Venere è fredda****, ma insipide sono tutte le vivande che potesse condire il più eccellente cuoco”. Anche questa è un’analisi attualissima e moderna, da autentico gourmet: considerazione che si potrebbe girare tout court a tanta ristorazione dei giorni nostri; e io aggiungo: se è vero che buon vino può fare buon sangue, sicuramente fa buon pasto. Questo, descritto nei minimi dettagli, è l’unico pranzo del tardo ‘500 che si conosca nel dettaglio delle portate, dove cibi e vini e personaggi ci sembrano meno lontani degli oltre 400 anni che ci dividono da loro. Questa cena avvenuta sotto i cieli vercellesi può segnare il punto di partenza storicamente documentato della nostra cucina, tenuta a battesimo da così illustri personaggi.

**** Quando “Venere è fredda”, gli stimoli sessuali sono inibiti. 33


Seguirà un percorso in ambiente diverso da quello appena descritto: sarà l’ambiente povero, contadino che darà impulso con l’impegno tenace, i sacrifici, la dedizione, la passione al faticoso procedere. La nostra tradizione culinaria al tempo del Padre di famiglia, dopo secoli di profonda miseria a base di polenta, zuppe e focacce ottenute da farro, miglio, sorgo e panìco, incontrava con diffidenza il riso: riso che ai primordi veniva “lavorato” in modo molto approssimativo (non privandolo completamente della corteccia), con tanti grani rotti e un po’ di parte farinosa. Un altro miscuglio che aveva cambiato solo colore. Ma l’impegno, la volontà dei tecnici di allora migliorarono via via la lavorazione di questo cereale: migliorò di conseguenza anche la cucina del Vercellese che porterà sempre con sé il riso come un alimento inseparabile. Essa procederà a sobbalzi, con progressi tangibili e lunghe pause , perché condizionata dagli eventi, sia di carattere militare (guerre, occupazioni, saccheggi), sia dalle vicende economiche e sociali (carestie, pestilenze, epidemie). Nei periodi di tranquillità e di relativo benessere compirà progressi e miglioramenti, che confluiranno, centocinquant’anni dopo (1738), a Villata, con “al disnè d’la spusa”, caratterizzato da una impostazione gastronomica già ben definita.

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Lista di pitansi dal disné d’la spusa Salam d’la duja Cudighin e sanguinass Ran–i frici Ran-i pini Ran-i in bagna Ran-i marià Paniscia cun i fasoi grosc nustran e salam vecc Fritura d’nimal, vidèl e roba dulsa Strachin d’la Vilata sensa siringa Vin rus d’la crota dal Canèla

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Menu del pranzo di nozze Salame sotto grasso Cotechini e sanguinacci Rane fritte Rane ripiene Rane in umido Rane bagnate nell’uovo e fritte Panissa con i fagioli grossi nostrani e salame vecchio sotto grasso Fegato di maiale, vitello e roba dolce Gorgonzola di Villata (senza siero) Vino rosso delle cantina della famiglia Canella * * Antica famiglia villatese tuttora presente in paese. 36


Si tratta di un menu per un pranzo di matrimonio (disnè d’la spusa) risalente al 1738 e ritrovato in mezzo a vecchie carte nell’Archivio del Municipio di Villata. Questo menu, o elenco di vivande, rappresenta una pietra miliare per la ricostruzione della storia della cucina vercellese. Trattasi indubbiamente di un pranzo “ricco” in un mondo povero dell’epoca. L’elenco delle vivande comprendeva anche la torta nuziale (sic!), che non fu servita per la deprecabile assenza della sposa, dovuta a una lite maturata tra le due famiglie durante gli accomodamenti e i preparativi nuziali. Sicuramente un pranzo così, a quei tempi, nel paese contadino di Villata, se lo potevano permettere solo famiglie di una certa agiatezza. E poi una lite in atto per ragioni di interesse presuppone che gli attori o le parti in causa fossero di un certo stato sociale. E siccome i contatti dei privati con i vignaioli delle colline novaresi e gattinaresi, e con quelli del Monferrato, non esistevano, ecco al vin rus d’la crota dal Canèla*, sicuramente la miglior fonte di approvvigionamento sul posto. Quello che va rilevato è che ci troviamo di fronte a un pranzo che oggi non sarebbe proponibile per uno sposalizio, ma per un pranzo in famiglia tra parenti o amici sarebbe attualissimo: e che pranzo! E’ da ritenere, pertanto, che se nel ‘700 si preparavano piatti della cucina vercellese a quel livello, i primordi di quella cucina risalgono almeno a cento anni prima. Si può inoltre constatare che la panissa descritta con i suoi componenti di base non è molto diversa da quella dal cusiné dal Ricet ad Larisè preparata cento anni dopo, di cui diremo più avanti. Il menu di questo disnè d’la spusa è da considerare abbastanza vicino al nostro tempo, perché evidenzia elementi caratteristici della attuale cucina tipica vercellese. 37


Così abbiamo: • Fasöi grosc (sicuramente l’attuale fasòla d’la Vilata) • Salam vecc (già in atto la pratica della conservazione sotto grasso) • Fritura d’nimal, vidèl, roba dulsa (un bell’abbozzo di fritto misto) Un’ultima considerazione, riguarda l’ordine di servizio delle pietanze, che si avvicina molto a quelle che sono le regole attuali. Ecco come è descritta la successione delle portate e come le si può raggruppare oggi: ANTIPASTO: salam d’la duja, cudighìn, e sanguinàss Ran-i frici, ran-i pini, ran-i in bagna, ran-i marià PRIMO:

panissa

SECONDO:

fritto misto (seppure incompleto)

FORMAGGIO: stracchino (una specie di gorgonzola)* E…DOLCE:

(torta nuziale)

Le rane, considerata la loro finezza e leggerezza, vengono servite come antipasto insieme ai salumi, e non dopo il primo piatto. Infine, la specifica che riguarda la strachìn sensa siringa, induce a pensare che i prodotti usati per il pranzo fossero di prima qualità. E poi, una torta nuziale a quei tempi! E’ molto probabile che tutto ciò sia avvenuto sotto la vigile guida di un cuoco professionista, che le due famiglie potevano permettersi. Sicuramente si è trattato di un pranzo che a Villata ha fatto epoca per aver indotto qualcuno a conservarne la “minuta” tra i documenti comunali.

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Ancora oggi a Villata il gorgonzola è chiamato stracchino.

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RICETTA D’LA PANISSA DAL CÜSINE’ DAL RICET AD LARISÈ E QUELLA DI VIRGINIA GALANTE GARRONE Centovent’anni dopo circa, a Larizzate, incontriamo un altro evento “storico” per la cucina vercellese: “La ricèta d’la panisa dal cusiné dal ricèt ad Larisè”. Questa ricetta è stata ritrovata recentemente nell’archivio di un noto legale vercellese, ed è scritta in perfetto dialetto vercellese. Ecco l’originale della suddetta ricetta:

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Un’altra panissa “storica”, di qualche decennio dopo, la troviamo nel bellissimo libro di Virginia Galante Garrone “Se mai torni…”, uscito alle stampe una trentina di anni fa. A proposito della cucina di mamma Margherita l'autrice scrive: “Era orgogliosa delle sue pentole lucenti come oro, delle sue pietanze paesane, specie della panissa, che nessuno come lei sapeva preparare, con riso, fagioloni, lardo e salamini”. La ricetta di Larizzate porta la data del 18 ottobre 1851. Il cuoco che l’ha preparata dimostra una grande professionalità per la chiarezza e la precisione usate nel descriverla. Si tratta indubbiamente di una panissa al massimo livello qualitativo per quei tempi: migliore di tante panisse che ancora oggi si possono trovare nella ristorazione o anche presso le famiglie. Questo “ricèt” è senza dubbio un circolo esclusivo di notabili vercellesi, che già allora conoscevano l’uso e il consumo del Bramaterra, vino eccelso delle Prealpi vercellesi, allora conosciuto da pochissime persone. Ad essere scrupolosi al massimo, le osservazioni o i rilievi che si possono fare a questa panissa – come suggerimenti migliorativi e adatti ai gusti d’oggi – sono i seguenti: 1. Un leggero aumento di lardo, volendo escludere l’olio usato. 2. Riduzione a metà circa dei fagioli, poiché 200 gr per quattro persone oggi sarebbero troppi. 3. Volendo, anche una leggera riduzione del vino; e sostituire il Bramaterra con una buona Barbera. 4. La variazione più importante resta però il momento dell’aggiunta del vino: decisamente meglio aggiungerlo dopo la tostatura del riso 40


che non verso la fine della cottura. Questo perché gli “antociani” contenuti nei vini rossi, apportatori di aroma e profumo, evaporano meglio sul riso appena tostato che non in quello brodoso: infatti in questo caso avvertiremo un leggero sentore aromatico, perché gli antociani non sono ben evaporati. Da Villata (1738) a Larizzate (1861) la cucina vercellese è in continuo miglioramento. La panissa preparata dal cusiné dal Ricèt ad Larisè è già perfetta, ma, come ho accennato poc’anzi, i centocinquant’anni che intercorrono dal pranzo di Torquato Tasso al pranzo di nozze di Villata, e i successivi centoventi anni che vanno dal disnè d’la spusa alla panisa dal cusiné dal Ricèt ad’Larisè non rappresentiamo un percorso facile. Le epidemie e le carestie, la fame, le guerre coi loro saccheggi e distruzioni, bloccarono per decenni lo sviluppo gastronomico e alimentare. Furono le carestie degli anni 1764- 1767 e quelle del 1816- 1817 a fermare per lunghi periodi la crescita della civiltà agroalimentare, che, per essere nata e cresciuta nella campagna, ne era stata fortemente colpita. Così nei primi decenni dell’Ottocento il popolo della campagna patì enormemente la fame, senza arrivare al punto estremo, cioè alla morte, come era avvenuto durante le carestie dei secoli precedenti; e questo perchè i commerci sviluppatisi nel diciassettesimo e diciottesimo secolo consentirono approvvigionamenti sufficienti a lenire un po’ le piaghe della denutrizione. Inoltre, le coltivazioni del mais e della patata, introdotte da poco, con la loro resa elevatissima contribuirono a soddisfare i bisogni della popolazione. Con l’aprirsi dei rapporti commerciali “regionali” e i relativi trasporti, nasce la ristorazione popolare, cioè quella delle osterie, locande e 41


stamberghe; quasi tutte con servizio di stallaggio e punti di sosta per il cambio dei cavalli e alloggio. Esse avevano come avventori conducenti, carrettieri, negozianti di bestiame, con relativo seguito di mediatori e sensali. Frequentavano, come potenziali avventori, queste osterie muratori, fabbri e maniscalchi, diretti in centri di una certa importanza per l’acquisto di materiale loro occorrente. Ovviamente, in mezzo a questo andirivieni eterogeneo, si infilavano “caminànt”, “lapagiùn”, e “mangialàrd”, ovvero gente di non proprio specchiata reputazione. I migliori fra questi posti di ristorazione erano frequentati anche da passeggeri delle diligenze, che coprivano le lunghe distanze fra Torino, Milano, Svizzera, Venezia, Austria. Carrettieri particolari erano quelli che percorrevano le cosiddette “vie del sale”, trasportando il prezioso alimento dal Mar Ligure a tutto il Piemonte e oltre. Esiste tuttora a Oldenico un tratto di qualche centinaio di metri denominato “strà d’la sal”. E’un tratto della vecchia strada VercelliValsesia che, guadando il torrente Cervo nei pressi di Quinto, fiancheggiava il corso del fiume Sesia fino a Gattinara. E quale poteva essere il pasto abituale delle famiglie di gente di campagna in quegli anni? Sicuramente zuppe di verdura, soprattutto patate, verze e fagioli e abbondanti polente. Iniziarono in questo contesto primordiali tentativi di risotti. In occasioni particolari si ricorreva a qualche “muda” di volatile, cioè quello che oggi è definito il quinto quarto, ovvero la parte restante dei quattro quarti (testa, collo, zampe, ali, frattaglie). Erano anche apprezzati pezzi di musino, testa e zampini di vitello. 42


I condimenti abituali erano lardo e strutto di maiale. A metà del Settecento iniziano i grandi allevamenti di mucche lattifere, l’installazione dei primi casari, e quindi la prima produzione di burro. Era un burro non paragonabile a quello di oggi, perché ottenuto da “affioramento”, e quindi meno pregiato, meno grasso e più acido di quello che si produrrà centocinquant’anni dopo (verso la fine del 1800) per “centrifugazione”, attraverso macchine appositamente inventate (De Laval e Le Feld). Ma per la classi meno abbienti, cioè per la gente di campagna, il burro non era accessibile per il suo alto costo: il doppio del lardo e il triplo dello strutto. Lo usavano solo in caso di estrema necessità, malattie, lunghe convalescenze, e soprattutto ne fruivano le puerpere nei numerosi parti dell’epoca. E’ il caso di notare, a questo riguardo, come certi alimenti che erano allora il cibo dei poveri, come acciughe, salacche, merluzzo, lardo, fagioli, siano diventati ora cibi pregiati, dato l’alto prezzo raggiunto. Le circostanze inducono a prevedere che altri prodotti seguiranno la stessa tendenza. La storia della cucina tipica vercellese si potrebbe scandire in tre periodi: PRIMO PERIODO – dal pranzo di Torquato Tasso fino al disnè d’la spusa di Villata. SECONDO PERIODO – dal disnè d’la spusa di Villata fino alla panisa dal Ricèt. TERZO PERIODO – dalla panisa dal Ricèt ad Larisè allo storico pranzo del “Leon d’Oro”* del 1901, e fino ai tempi nostri.

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Il “Leon d’Oro” operava nel palazzo tuttora esistente all’angolo di Via Fratelli Ponti e Via Palazzo di Città.

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IL PRANZO AL “LEON D’ORO” (1901)

Il pranzo del “Leon d’Oro” fu servito in occasione della presentazione dell’Associazione Monarchico-Liberale di Vercelli. Il menu di questo pranzo è presentato in bella immagine e scrittura d’epoca con queste portate:

Consummé (corr.: consommé) alla Reale Trota alla Munier (corr.: meunier, alla mugnaia) Filetto di bue alla Parigina Giambone affumicato alla purrée di marroni Fonduta con tartufi Pernici arrosto Insalata Zuppa all’inglese (salsa Pesche) Desserts (frutta miste) Trattasi indubbiamente di un pranzo eclettico per un’élite altrettanto eclettica.

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La minuta termina con una dicitura di lettura un po' incerta: Vino Bott./ sotto Pasto. Nella prima ipotesi, si potrebbe intendere “vino da pasto in bottiglia”; nella seconda, potrebbe trattarsi di una formula d'uso della ristorazione dell’epoca, che potrebbe voler dire che i vini erano elencati o sotto il menu (minuta) o su un foglio aggiunto, alla stregua di una Carta dei vini odierna. Da notare, inoltre, la parola Dessert, scritta impropriamente con la “s” finale, come plurale francese, una svista dello chef. Trattasi senz’altro di un servizio di frutta varie, che lo chef ha evidenziato in maniera errata. Interessante, però, notare che la frutta viene servita dopo il dolce, secondo le regole della ristorazione attuale. Sarà proprio casuale o trattasi di un menu precursore dei tempi? Quindi, per tracciare un succinto ma indicativo percorso storico della cucina vercellese, possiamo ben dire che è “occasione” o momento iniziale il pranzo di Torquato Tasso: inizia da qui a fare i primi incerti passi, che dureranno decenni fino ad arrivare, nell’800, al pranzo di Villata, dove la cucina si dimostra ormai cresciuta e formata. In quell’occasione essa denota già gli aspetti caratteristici che si andranno sempre più affinando fino ad arrivare cento anni dopo al Ricèt ad Larisè con la ricetta della panissa già perfetta ed attuale. Ed è da questo momento che la cucina vercellese si può definire tipica. Da questo momento la cucina vercellese cresce e si sviluppa nell’ambiente contadino, attraverso il canale familiare, ottenendo le migliori realizzazioni qualitative in ambito borghese, che ha maggiori possibilità economiche per impiegare ingredienti di prima qualità. Nel campo della ristorazione, trattorie e modesti ristoranti sposano 46


appieno la cucina vercellese. La ristorazione di un certo livello, pur non escludendola del tutto, è però influenzata dalla scuola parigina, perché “Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi” (1895, Ed. l’Artistica Savigliano) non è passato invano. Un tipico esempio di questo influsso lo possiamo trovare in quel pranzo servito al “Leon d’Oro” nel 1901, che presenta un menu di pretta ispirazione francese. Non è sicuramente questo il primo che sentirà questa influenza; sicuramente altri ristoranti hanno operato, soprattutto in anni precedenti, ispirandosi alla scuola parigina. La cucina vercellese continuerà a diffondersi e a migliorare sino a dopo il secondo conflitto mondiale. Da questo punto la nostra cucina, che aveva ben resistito a quella veneta, arrivata con le grandi migrazioni degli anni ’20 e’50, cede alla vera invasione di quella napoletana che, col suo cavallo di battaglia, la pizza, conquisterà soprattutto le giovani generazioni. Alla pizza si aggiungeranno, negli anni successivi, gli hamburger delle multinazionali; e così la cucina vercellese conoscerà un vero declino. Per concludere, possiamo dire che “la cucina del territorio”, o cucina locale, è come un messaggio trasmesso all’esterno, una comunicazione che vuole investire un mondo più ampio. Non sempre questo riesce, perché oscurato dallo strapotere dei grandi centri commerciali, da quello televisivo, e soprattutto da quello delle multinazionali, che vogliono imporre con la forza le “loro” preparazioni. Esse non hanno un retroterra che si richiami ad una storia, o quanto meno ad una tradizione, e quindi ad una “civiltà gastronomica”. La nostra cucina affonda le sue radici in quella civiltà contadina che fu 47


la humus di costumi e tradizioni che ci accompagnarono per un paio di secoli, fino ai giorni nostri. Essa è parte integrante del nostro stile di vita, quindi del nostro patrimonio culturale. Le nuove travolgenti cucine non sono riuscite tuttavia a cancellare del tutto dal nostro quotidiano la cucina del territorio, che, come dice il gourmet astigiano Luigi Goria, “è il patrimonio più bello, più concreto, più culturalmente identificabile di ogni popolazione, così come lo sono la lingua parlata, il dialetto, la tradizione favolistica, i proverbi, le canzoni, di quella determinata stirpe o area. Questa cucina sorge dalla notte dei tempi, per tradizione orale, avendo come faro l’agricoltura, i prodotti spontanei, cereali, ortaggi ed erbe disponibili, ma anche i gusti, le inclinazioni e l’indole di quella popolazione. Come la crescita di un popolo nella propria cultura e costume, la cucina locale, sia popolare che borghese, o nobiliare, è simile a un fiume. Le acque sorgenti vanno crescendo e si trasformano unendosi a quella degli affluenti, ma in definitiva alla foce hanno ancora qualcosa del processo iniziale”. Pur condividendo questa profonda analisi di Luigi Goria, eccepisco che la nostra cucina di territorio è giunta integra fino a noi, nonostante le migrazioni interne, quali quella veneta e quella napoletana, con le loro cucine tradizionali, accettate ma non subite. Concludendo, possiamo ben dire che, né l’invasione delle pizzerie collocate sul nostro territorio, né la fitta rete di fast food, sono riuscite a sostituirsi appieno alla nostra cucina locale. Le sagre di fine estate che da diversi anni si tengono a Vercelli (la sagra della panissa, la sagra della rana e la sagra dell’agnolotto) sono una dimostrazione di quanto sia ancora sentita la tradizione della nostra 48


cucina. La notevole adesione, alla fine degli anni ’90, all’Associazione degli amici della cucina tipica vercellese è testimonianza di come sia ancora vivo il sentimento della tradizionale cucina locale. L’aver resistito per decenni a quanto sopra descritto è dovuto sicuramente alla sua semplicità nella genuinità, gusto e naturalezza. La prima metà del ventesimo secolo (1900-1950) si caratterizza notevolmente per l’allevamento del maiale nell’ambito familiare della vita contadina. In questo periodo quasi tutte le famiglie dei paesi del Vercellese ambivano ad allevare il proprio maiale. Naturalmente, la cosa era più alla portata dei piccoli coltivatori, che traevano il cibo per il mantenimento del maiale dalle loro campagne; non così per i braccianti, i quali dovevano ricorrere all’acquisto dei suddetti alimenti per l’allevamento. E per costoro erano veramente dei grossi sacrifici economici. Arrivavano al punto di associarsi in due famiglie per allevare un maiale, e dividersi così le spese, dividendosi poi a metà il capo macellato.

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LA CIVILTÀ DEL MAIALE

La prospettiva di fondo della civiltà greca e latina era quella che disegnava la città circondata da campi coltivati, l'ager, e poi il saltus, cioè l’incolto. Quest’ultimo era visto, sì, come un paesaggio di natura vergine, ma con una accezione di inciviltà, di selvaggio, di non antropizzato. Ciò nonostante, riconoscendolo come naturale, le civiltà antiche si adeguavano a forme marginali di sfruttamento della natura incolta (vedasi l’economia del bosco quale fornitore di legname, o della palude per pesci e uccelli). Comunque, gli elementi fondanti che caratterizzarono per secoli la civiltà greca e sopratutto quella romana furono: frumento, vite, ulivo. Era questa la civiltà mediterranea a forte caratterizzazione di colture agricole e arboree. Accanto a questi prodotti basilari non secondaria importanza ebbe l’orticoltura. Faccio notare, a questo proposito, che l’orto è una forma di coltivazione antichissima, quasi sempre presente come pertinenza di ogni coltivazione agreste. In netta contrapposizione, sotto questo aspetto, era la civiltà dei barbari (così definiti e considerati dai Romani), costituita dagli abitanti del centro-nord Europa. Celti, Germani, Sassoni privilegiavano lo sfruttamento della natura vergine e degli spazi incolti: quindi grande caccia, pesca, allevamenti bradi di equini, bovini e soprattutto maiali. 51


Tuttavia le fonti antiche testimoniano segni di una agricoltura di sussistenza – praticata a turno da maschi di stirpi guerriere e nomadi –, come tra i Germani; con la romanizzazione, poi, l’agricoltura si affermò anche tra i barbari (ad esempio, fu molto progredita in Gallia). I Romani, d’altra parte, deducevano colonie agricole nei territori occupati: il processo di civilizzazione passava, dunque, attraverso la diffusione dell’agricoltura e della zootecnia, con un vasto piano di bonifiche e di estensione della terra coltivata. Fu, questo, il caso della Gallia Cisalpina, cioè dell’Italia settentrionale al di qua delle Alpi. Sotto questo aspetto possiamo ben dire che un confine che ci riguarda da vicino è il corso del fiume Po, a sud del quale inizia, per così dire, la civiltà mediterranea, e a nord quella europea. Ovviamente, la distinzione non è così netta e rigida, perché anche i Germani consumavano cereali, così come i Romani mangiavano carni suine. La questione è quella di valutare il ruolo specifico dei singoli prodotti nel regime alimentare. Quindi il punto non è tanto quello di produrre, ma di inventare e preparare al meglio il cibo derivante. Gli studi sull’antichità parlano dei Germani che usavano i cereali per fare pappe e focacce, ma non conoscevano la preparazione del pane. Se ne conclude, quindi, che la pratica dell’agricoltura non basta per collocare un popolo nell’ambito della civiltà. Quindi, per ribadire quanto sopra, le due grandi civiltà, la mediterranea e la germanica, erano connotate, una dalla coltivazione di frumento, olive, vite; l’altra dai grandi allevamenti, allo stato brado, di equini, bovini, maiali. 52


A partire dal Medio Evo lo sfruttamento delle grandi foreste, che caratterizzavano tutte le regioni europee, fu una regola quasi naturale. Ma occorre fare una considerazione: mentre nobiltà feudale, piccola nobiltà e alta borghesia preferivano cacciare più che altro volatili, visto che potevano farlo tutti i giorni e avere quindi selvaggina fresca, non così andava per i contadini e i servi della gleba. Questi, infatti, avendo soltanto rare occasioni di cacciare, orientavano le loro catture – ricorrendo anche al bracconaggio – a selvaggina di terra e di grossa taglia, quali cinghiali, cervi e daini; animali che fornivano approvvigionamento duraturo nel tempo mediante affumicatura e salatura. A partire dal XVI secolo l’allevamento brado degli animali (cavalli, bovini e maiali) va man mano scemando. Si farà ricorso, perciò, sempre più alla stabulazione, cioè all’allevamento custodito in recinti prima, e poi in stalle e porcilaie. Per quanto riguarda il maiale, si instaura nelle nostre campagne una forma di allevamento che io definisco “collettivo”. In ogni paese emerge la figura del pastore, custode dei maiali. Costui, nelle prime ore del mattino, percorreva la strada principale del paese suonando un corno. I maiali, già avvezzi a questo suono, partivano da soli dai loro cortili e si recavano al punto di richiamo. Quelli che non conoscevano ancora questa “chiamata”, venivano accompagnati dai rispettivi proprietari fino al punto di incontro. Così il gruppo dei maiali prendeva la strada del bosco, accompagnati dal loro custode, e permanendo per l’intera giornata in mezzo al bosco si nutrivano di ghiande e altri frutti selvatici. Fu questa una pratica che, nella nostra zona, andò avanti per circa 53


trecento anni, fino ai primi decenni del 1900. Questo sistema permetteva, a chi aveva la possibilità di procurarsi un maialino, di portarlo fino a un certo peso con pochissimi costi per il suo allevamento. Nei primi decenni del 1900 il sistema del pascolo collettivo del maiale cessa e ci si orienta sempre più verso la stabulazione, più razionale e funzionale. Infatti perché l’allevamento chiuso, con un’alimentazione più completa ed equilibrata, dava risultati migliori. Dai ricoveri precari e improvvisati, fatti di sassi, vecchie porte, e fogli di lamiera, si passò alle prime porcilaie in muratura. Anche questa distinzione rispecchiava le differenti possibilità finanziarie dell’utente allevatore. Addirittura il “trogolo” (in dialetto trö), la vaschetta di 10-15 litri dove veniva somministrato il cibo, poteva essere in legno o in cemento. I maialini comprati erano capi appena svezzati, e pesavamo dai 10 ai 20 kg. Si faceva ricorso alle grandi fiere di bovini, cavalli e suini, soprattutto a quella di Ognissanti a Vercelli. Importanti erano anche le fiere di Santhià, Cigliano e S. Germano. L’ultimo appuntamento fieristico per l’acquisto del maialino era la fiera di S. Mattia del 25 febbraio a Vercelli. In questo caso il capo non doveva essere inferiore ai 20-25 kg, diversamente non avrebbe avuto davanti un periodo sufficientemente lungo per uno sviluppo redditizio, considerando che il periodo di macellazione era dicembre/gennaio. La scelta del maiale alla fiera, in mezzo a centinaia di capi, era sempre un po’ un azzardo, dovendosi scegliere un capo che desse sicurezza di una buona crescita. Pochi avevano cognizioni specifiche al riguardo. Allora ci 54


si affidava alle conoscenze empiriche di esperti o competenti del paese. Se si indovinava l’acquisto, il mantenimento e lo sviluppo erano garantiti. L’allevamento di un maiale, nelle famiglie dei contadini, costituiva un impegno finanziario abbastanza rilevante; per cui, a volte, per ripianare il bilancio familiare messo a dura prova, quando si macellava l’animale se ne vendeva una mezzena o un quarto a un’altra famiglia che non aveva avuto la possibilità di allevarlo. L’allevamento del maiale era un vero investimento a rischio, perché qualche volta, si ammalava, o deperiva, o moriva. Il buon andamento dell’allevamento e la conseguente crescita dell’animale veniva perfino augurata tra la gente del paese: quando ci si incontrava, oltre a scambiarsi i saluti e le informazioni sulle rispettive famiglie e sul lavoro, chiedevano: “Al mangia ’l purchët?” Questo la dice lunga sull’importanza che aveva il maiale nell’economia domestica di quelle genti. Il miglior prodotto ricavato dalla lavorazione contadina del maiale, il salame sotto grasso, era così apprezzato che a volte il contadino che doveva ricorrere alla mano d’opera di qualche bracciante per determinati lavori importanti e faticosi, si sentiva richiedere dallo stesso, oltre alla paga, anche un salame sotto grasso in aggiunta: quasi una moneta di scambio. I procedimenti e le ricette per fare i salami destinati ad essere messi sotto grasso erano i seguenti: – Carne magra 75% – Parti grasse 25% 55


La carne magra conteneva anche le parti nobili del maiale (coscia e lombo). La macinatura delle carni (che un tempo si faceva solo a coltello) veniva fatta con griglia n° 10 (buco da 10 mm di diametro). Per ogni 100 kg di macinatura mista, grassa e magra, venivano aggiunti: – 350 gr di sale fino – 50 gr di pepe in grani spezzati – 50gr di salnitro (nitrato di potassio), che facilitava l’asciugatura del salame – 1 litro di buon vino rosso bollito per qualche minuto, con una decina di spicchi d’aglio pestato e poi tolto (era sufficiente per profumare tutto l’impasto dei salami). Tutto l'impasto era mescolato da due persone per almeno trenta minuti, finchè la carne, assorbendo il sale, si asciugava al punto da lasciare le mani pulite e asciutte. La carne, con l’aiuto di apposite macchine , veniva insaccata in budella bovine. Queste venivano dissalate e poi tagliate della lunghezza di una spas (antica misura contadina non codificata), della lunghezza di circa 170 cm, corrispondente all’ incirca all’apertura delle braccia tese di un uomo. Venivano lavate all’interno e all’esterno molto scrupolosamente in acqua calda per quattro o cinque volte, e poi risciacquate per due volte in acqua fredda. Le budella erano così pronte per essere riempite e poi legate con spago fine in modo che si formassero i salami della lunghezza di 15-18 cm. 56


Alle due estremità si lasciavano 50-60 cm di spago, che servivano per legare la fila a due lunghe pertiche di legno fissate al soffitto alla distanza di un metro e mezzo circa una dall’altra. Le file di salami, legate una appresso all’altra e distanziate di 10 cm circa, una dall’altra, formavano la cosiddetta “tòpia”. Una tòpia di salami. A questo punto diventa importantissima l’asciugatura e l’essicazione dei salami. Per i primi tre giorni la temperatura doveva essere sui 25° (temperatura ottenuta attraverso stufe a legna). Per i restanti 10-12 giorni sui 20°. Ogni 3-4 ore bisognava aprire la finestra per qualche minuto per cambiare l’aria. I salami dopo qualche giorno assumevano un meraviglioso e invitante colore rosso e bianco. Dopo questo tempo venivano staccati e poi tagliati nel filo uno per uno e messi nell’ula o duja, uno vicino all’altro in posizione orizzontale. Il grasso che si era ottenuto per la preparazione dei ciccioli (sunsìn) nel giorno della lavorazione del maiale, e che nel frattempo si era indurito, veniva sciolto e portato ad una temperatura di circa 30°, e poi immesso sopra i salami fino alla loro totale copertura. I recipienti venivano posti in ambiente fresco e ventilato per almeno sei mesi (tempo che ora viene ridotto a 3-4 mesi) prima di essere estratti e consumati. Questo è il metodo classico e tradizionale per ottenere i tipici e caratteristici salami sotto grasso. Oggi però i salami che vengono prodotti hanno un contenuto di grassi decisamente inferiore a quelli di un tempo, e una macinatura molto più fine; questo perché il consumatore di oggi, pensando che un po’ di grasso in più sia nocivo alla salute, richiede prodotti “magri”, che in questo modo si allontanano però dalla tipicità tradizionale. 57


Questo salame insaccato, che si produce da almeno tre secoli, non ha mai varcato i confini di una trentina di comuni dell’hinterland vercellese, insieme a qualche comune novarese dell’immediato Oltresesia, e a qualche comune della Lomellina. Vero fiore all’occhiello della gastronomia locale, ha rappresentato una prelibatezza per buongustai della città, e nutrimento per generazioni di famiglie della campagna. A proposito di questi salami, sarà opportuno fare una precisazione che riguarda i loro recipienti di conservazione. A Vercelli capoluogo e in tutta la bassa vercellese questi salami sono chiamati i salam d’la duja (termine dialettale derivante da doglio-latino dolium); in tutta la zona ad ovest di Vercelli e a nord, fino a Gattinara, sono definiti col termine ai salam ad l’ula, termine derivante da olla (latino e italiano). Secondo le indicazioni date dallo Zingarelli, se ne deduce che è più appropriato il termine ula e non duja, perché doglio, da cui deriva il termine dialettale duja, era un grosso vaso di creta usato anticamente per la conservazione e il trasporto di cereali, olio e vino. Olla, da cui deriva il termine dialettale ula, era un recipiente privo di anse, per lo più in terracotta o in rozza pietra, usato anticamente per cuocere o conservare sostanze alimentari. Considerata poi la diversa dimensione (molto più grosso il doglio), sicuramente è molto più appropriato il termine ula. Quando queste olle cominciarono a scarseggiare, perché andavano man mano logorandosi, e non venendo più prodotte (anni ’40 – ’60), si ricorse all’uso delle latte, quelle della conserva da 10 kg, e quelle dell’olio 58


lubrificante o del carburante da 20 lt. Queste ultime venivano private della parte superiore, quella del beccuccio, e venivano passate sulla fiamma internamente, poi lavate e disinfettate accuratamente. Erano degli ottimi contenitori. Con l’avvento della plastica si ricorse poi ai secchielli e alle vaschette di questo nuovo materiale. Certe salumerie hanno usato fino a poco tempo fa svariati tipi di vasi di vetro, quelli che una volta contenevano pastigliaggi e confetti vari. I salami contenuti in questi recipienti venivano generalmente coperti di olio: i salami così ottenuti non rispecchiano però le caratteristiche tipiche del salame sotto grasso. I PREPARATIVI E LA MACELLAZIONE DEL MAIALE NELLE FAMIGLIE CONTADINE NEL PERIODO DAL 1930 AL 1950 CIRCA Già alcuni giorni prima della macellazione fervevano i preparativi; venivano pulite le caldaie, che sarebbero servite poi alla bollitura dell’acqua: particolare cura era dedicata a quella (la più bella) che sarebbe servita per lo scioglimento delle parti grasse, per l’ottenimento dello strutto, per mettere a bagno i salami. Era questa un’operazione che richiedeva dalle 5 alle 6 ore, con una bollitura molto bassa, per evitare che le parti fini si attaccassero sul fondo, conferendo allo strutto uno sgradevole sapore di bruciato. Dopo questo lungo tempo di cottura, i grassi non rilasciavano più liquido, e perciò venivano tolti e spremuti, ricavando i caratteristici ciccioli (sunsín o garísuli). Tra le altre cose, nei preparativi si provvedeva ad affilare i coltelli per 59


la selezione e il taglio delle carni e per la rasatura del crine che ricopriva la pelle dell’animale. Si pulivano le due pertiche, rigorosamente di acacia, lunghe 5 o 6 metri, e del diametro di 8 – 10 cm, che venivano poi fissate al soffitto ad un metro e mezzo di distanza l’una dall’altra, e servivano per appendervi le file dei salami. Si allertavano quattro o cinque uomini per il giorno fissato per la macellazione. E molto importante era garantirsi la presenza di due o tre esperti nella preparazione e lavorazione dei salumi. Infine, il giorno precedente, si provvedeva a legare le due o tre caldaie necessarie ad una robusta barra di legno, sorretta alle estremità da due cavalletti. Sotto le caldaie un abbondante strato di fascine, e accanto pezzi di legno grosso per il fuoco di durata. A parte, sotto una tettoia, la caldaia per lo scioglimento delle parti grasse, e quindi dei ciccioli. Infine, il giaciglio di morte del maiale. Uno strato di paglia con a fianco un ballotto di paglia o una robusta panca. Lì accanto due schësi (letteralmente, schegge): erano dei quarti od ottavi di tronco di albero della lunghezza di 150 – 180 cm, che sarebbero servite ai fianchi del maiale morto per tenerlo fermo sul giaciglio e poterlo rasare con comodità. Naturalmente, tutti questi preparativi creavano un clima di attesa che metteva in fibrillazione soprattutto i bambini. Erano loro che aspettavano più di tutti questi due giorni, ponendo ai genitori domande su domande. Erano giorni nei quali chi era in età scolare andava a scuola malvolentieri, pensando a tutto quello che avveniva a casa, e pregustando allo stesso tempo il cenone che festeggiava il grande evento, che vedeva grandi e piccoli tutti riuniti. Il maiale, negli ultimi mesi di vita, era alimentato esclusivamente con 60


farina di mais, latte e acqua, in un pastone rigorosamente caldo. Questa alimentazione gli consentiva di ottenere il massimo sviluppo della parte muscolare, ma soprattutto delle parti grasse, in particolare il lardo. Veniva fuori un lardo che, nella parte centrale della schiena, raggiungeva uno spessore di 7–10 cm, di un colore bianco sfumato di rosa e con la classica striscia o vena rossa. Era un lardo che, dopo un paio di mesi di adeguata salatura, diventava tenero come il burro, e dal sapore molto appetitoso. Quando si sapeva con esattezza il giorno della macellazione si passava dal bottegaio abituale, a prenotare il materiale occorrente, e cioè: – le budella salate (torto di manzo) – i gomitoli di spago fine per la legatura dei salami – il pepe in grani, che veniva successivamente rotto – il salnitro. Questo acquisto dava diritto all’uso gratuito della “macchina dei salami” (un tavolino alla cui estremità era fissata la carcassa del tritacarne), con tutti i relativi accessori (griglie di diverse misure, imbuti di diverse dimensioni, la maniglia e i coltelli a croce). Così, il mattino del giorno stabilito, quando iniziava appena ad albeggiare, si riempivano le caldaie d’acqua e si accendeva il fuoco sotto di esse. Dopo una mezz’ora arrivavano gli uomini che dovevano catturare e uccidere il maiale. L’operazione più difficile, e non senza pericoli, era bloccare la bestia dentro la porcilaia, mediante uno strumento denominato ciapanàs (acchiappanaso). Era un legno lungo un metro di circa 5 cm di diametro; ad una estremità aveva un foro dentro il quale passava una 61


cordicella grossa come il mignolo di una mano, lunga 40 cm e legata da uno stretto nodo alle due estremità, in modo da formare un cerchio. La cordicella veniva aperta, sfilacciata, e tra due fili veniva collocata mezza pagnotta di pane. Il più coraggioso tra gli uomini entrava nel porcile con quel legno dotato di esca, cercando di far aprire la bocca del maiale per mangiare la mezza pagnotta. Il maiale, che era a digiuno da due giorni, accettava volentieri quell’offerta, e appena apriva la bocca, l’uomo gli faceva entrare l’anello in bocca, girando in fretta il bastone così che la parte superiore, cioè il naso, veniva stretto dalla fune. A quel punto un altro uomo entrava nel porcile, a dar man forte, così che il maiale veniva trascinato fuori con quel bastone-trappola. Altri quattro uomini, due per parte, bloccavano definitivamente il maiale, che veniva letteralmente trascinato verso il suo giaciglio di morte. Così, sotto un cielo che iniziava a schiarirsi, in un’atmosfera illuminata dalle fiamme delle caldaie, in un silenzio mattutino rotto dagli urli stridenti della povera bestia, si stava per consumare un’autentica crudeltà. Una volta alzato e disteso sulla panca, bloccate le quattro zampe e tenuta ben ferma la testa, veniva letteralmente infilzato nella gola con un coltello dalla lunga e stretta lama. Il sangue sgorgava con un getto rosso cupo, finendo dentro una bacinella, che una titubante donna reggeva sotto quella fontanella. Una parte di questo sangue era destinato alla preparazione di quei particolari salami denominati “sanguinacci”. Una parte veniva raccolta dentro una terrina, dove erano già stati messi pane e formaggio grattugiati: questo, dopo essersi coagulato, era destinato ad essere tagliato a fette 62


e fritto con abbondante cipolla. Tutta la scena appena descritta sarebbe piaciuta sicuramente al pittore Ligabue e al regista Fellini. Quando il maiale era completamente dissanguato veniva rovesciato sul giaciglio di paglia, e bloccato con le due “schegge”. Iniziava così l’operazione di rasatura. Le donne e i ragazzi, con piccoli recipienti, attingevano l’acqua quasi bollente dalle caldaie, e la rovesciavano lentamente su una zona del corpo. Quest’acqua serviva per ammorbidire le setole del maiale, facilitando agli uomini l’operazione di rasatura. L’animale così trattato diventava pulitissimo, pronto per essere squartato. Veniva usato un rudimentale e primordiale attrezzo detto l’ampìca. Erano due pali lunghi circa due metri e mezzo, collegati alle estremità di una traversa: il tutto formava una specie di “u” rovesciata. Alla traversa erano fissati due ganci in legno, la cui distanza uno dall’altro era regolabile. I tendini delle zampe posteriori venivano infilati in quei ganci, e il maiale veniva rizzato, con la traversa appoggiata al muro e i pali che erano come piantati nel terreno in una posizione obliqua. Così il maiale, con la pancia rivolta verso il “macellaio”, veniva squartato in due perfette metà, compresa la testa, con l’asportazione di tutto quello che era l’interno. Il fegato, con il polmone e il cuore, veniva appeso come un casco di banane, affinchè gocciolasse e si raffreddasse. Le due mezzene, portate a spalla, venivano deposte su un gran tavolo di una stanza e lasciate lì per 5 o 6 ore a raffreddare. Era passata così una mezza giornata; e alla sera, verso le 18.00, cominciava l’opera di sezionatura da parte degli esperti (due o tre). Il mattino seguente tutto era pronto per la preparazione dei vari tipi di salami. Nel pomeriggio, quando la carne era tutta macinata, pronta per essere 63


insaccata, qualcuno si accorgeva che mancava la…“misura dei salami” (la prima burla). Veniva mandato il più giovane dei bambini presenti presso il bottegaio che aveva fornito tutta l’attrezzatura. Il bambino, con un gran sacco di juta, tutto impettito, sentendosi importante si presentava dicendo: “Si sono dimenticati la misura del salame, sono venuto io a prenderla”. “Bravo, aspetta qui che te la vado a prendere” gli rispondeva il bottegaio; il quale, fattosi dare il sacco dal bambino, andava nel cortile, metteva 4-5 bei mattoni nel sacco, che provvedeva a sistemare debitamente in spalla al bambino. “Vai pure, e di’ agli uomini che ti ho dato la misura dei salami più bella”. Il bambino arrivava tutto ansimante, ma anche orgoglioso. Gli altri bambini più grandicelli, conoscendo già lo scherzo per esserci passati anche loro, erano tutti in fremente attesa, trattenendo a fatica le risate. Uno degli uomini dicendo: “Vediamo un po’ che bella misura dei salami ti hanno dato”, rovesciava il sacco in mezzo alla stanza. A questo punto i ragazzi scoppiavano in una fragorosa risata, e qualcuno accennava anche a un leggero applauso. Il bambino non gradiva affatto lo scherzo e, mortificato, col magone, si accucciava in un angolo come un cane bastonato. Veniva consolato dicendogli che l’anno prossimo sarebbe stato mandato un altro a prendere la misura dei salami; così anche lui si sarebbe divertito. Questo faceva sì che, già pregustando la “rivincita”, si acquetasse. Intanto in cucina le donne cominciavano a preparare pietanze e manicaretti, per far sì che il cenone fosse quel gran pranzo da tutti atteso da diverse settimane. Era anche un momento celebrativo della concordia e armonia familiare. 64


In questo contesto assumeva invece un aspetto diverso una vecchia usanza che era definita: andè ciamè la part (andare a chiedere la parte). Era un’operazione che veniva organizzata dai buontemponi, o quasi, tutte le volte che c’era un cenone in paese. Due erano le categorie di questi “accattoni di pietanze”: i più disinvolti erano gruppi di giovanotti che fingevano sempre di andare all’accattonaggio per farsi una risata: partivano alla volta di qualche stalla, dove erano presenti donne, uomini e bambini per ripararsi dai rigori invernali. Finivano però sempre per mangiare fino all’ultima fetta di carne o di salame. L’altra categoria era quella della povera gente. Il padre tirava fuori dal ripostiglio il cestino che la moglie usava per portargli il pranzo in campagna, metteva dentro un capiente piatto, una grossa scodella e anche una bottiglietta vuota, che i benefattori, se erano generosi, riempivano di vino. Il padre, con un lacrimone e un groppo in gola, chiamava il più sveglio dei suoi figli e, con un sorriso forzato e irreale, gli dava le istruzioni del caso: posare la cesta vicino alla porta, picchiare leggermente, e poi scappare a nascondersi in un angolo buio del cortile. La cesta sarebbe stata ritirata e preparata con vari cibi; doveva attendere che venisse riposta fuori dalla porta. A quel punto il bambino, con passo leggero, si sarebbe dovuto avvicinare alla cesta, prenderla e dirigersi velocemente verso casa, dove lo attendevano in tanti. Ricordo che nella mia infanzia, quando questa abitudine era ancora in auge, noi bambini ospiti dei parenti, che avevano preparato il cenone del maiale, quando sentivamo picchiare alla porta, ci alzavamo dal tavolo e correvamo alla finestra per vedere chi fosse il postulante. Venivamo però 65


immediatamente richiamati dalle donne per farci ritornare ai nostri posti di tavola: anche la miseria aveva diritto ad un minimo di discrezione e dignità nell’anominato. A conclusione di questo lungo tracciato sulla civiltà del maiale, facciamo alcune considerazioni di carattere nutrizionale. Nell’immaginario collettivo, ma anche come convincimento, la carne di maiale è da sempre considerata come un alimento particolarmente ricco di grassi; e si è sempre ritenuto di consumarla in dosi molto ridotte nella propria alimentazione. In realtà, la composizione della carne di maiale si è modificata negli ultimi quarant’anni, poiché la percentuale di grassi è scesa dal 31 al 21% circa. Nella distribuzione dei diversi acidi grassi si rileva come il contenuto dei grassi polinsaturi, cioè i grassi utili al nostro organismo, sono più che raddoppiati nel periodo suaccennato. Quindi, in questa situazione, le carni di maiale e i prodotti da essa derivati possono tranquillamente entrare nell’alimentazione secondo gli usuali schemi a rotazione, cioè alternate con altri alimenti. Teoricamente la carne suina, per le sue caratteristiche nutrizionali, dovrebbe essere preferita a quella bovina. IL MENU DEL CENONE DEL MAIALE Anni ‘40 – zona della bassa Baraggia. – Salame sotto grasso dell’anno precedente – Gran bollito di costine, testina, musino, codino, ossa ben vestite, pancetta stesa, il tutto con sale, pepe, bagnetto rosso e verde

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– Insalata di verze dell’orto con aglio tritato fine e acciughe – Risotto nel brodo di cottura di quanto sopra, con sugo di arrosto e abbondante formaggio grattugiato – “Ris Neru”, o con dizione originaria “Ris e Brudà”, risotto cotto nel sangue di maiale – Gran misto di frattaglie in umido (fegato, polmone, cuore, rognone, fettine di lombo con cipolle e conserva) – Arrosti misti (lombo, filetto, spalla, coscia), il tutto con patate al forno – Formaggi (gorgonzola e grana) – Frutta (arance e frutta secca) – Vino (era quello di tutti i giorni, della zona di Fara e Sizzano). Alla fine del pasto, qualche bottiglia stupa, imbottigliata e tenuta per l’occasione. NOTE che riguardano l’ambiente contadino (anni ‘30-’40) relativamente a pranzi e cene. – I termini antipasto, primo, secondo, contorno, dessert, non erano usati. – La salsiccetta, che oggi è un ingrediente immancabile nel misto delle frattaglie in umido, a quei tempi non era conosciuta. – Per mangiare i risotti non si usava la forchetta, ma il cucchiaio. L’uso della forchetta iniziò nei primi anni del secondo dopoguerra, quando arrivavano i parenti da Torino, Milano e Roma. Furono loro ad insistere per farci usare la forchetta.

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LA PANISSA IL TERMINE “PANISSA” E LA SUA RADICE ETIMOLOGICA

Tra leggenda, storia di costume e alimentazione, è molto probabile che il sostantivo “panissa” derivi dal latino panicum, cioè panìco, uno dei cereali poveri, assieme a sorgo, spelta, farro, utilizzati per ottenere zuppe e focacce fin dall’alto Medioevo dai contadini di allora. Questo pestume di panìco era chiamato in termine dialettale o volgare panìciu. Il grano allora era prezioso perché poco redditizio; se ne seminava un quintale per raccoglierne tre o quattro. L’uso di questo panìciu andò avanti per secoli, così che, oltre che nello stomaco, entrò anche nell’immaginario collettivo, finché nella seconda metà del ‘400 arrivò nel Vercellese il riso. Inizialmente il riso veniva lavorato col sistema del mortaio-pillo; prima manualmente e in seguito meccanicamente. Questo sistema consisteva nella percussione del risone contenuto nel mortaio, mediante un pestello di legno con la punta di ferro, per poter decorticare il risone. Possiamo immaginare che prodotto ne veniva fuori…: mezzo rotto e in buona parte semidecorticato. Questo prodotto sostituì il panìco e venne dato ai contadini assieme alla remunerazione per i lavori eseguiti. Inizialmente era da loro poco gradito, abituati da secoli al consumo del panìco. Restò comunque il termine panìciu, con cui continuarono a chiamare questo primordiale riso. Ma 69


i mezzi di decorticazione del riso migliorarono, e verso la fine del 1600 si costruirono così le prime “pilerie”. Così il riso migliorò e nacque a questo punto un nuovo sistema di cottura del riso. Non più zuppe e polente, ma riso prima rosolato o fritto, in lardo o strutto, e poi bagnato con brodo fino alla cottura. Nacquero così i primi risotti, ai quali bisognava pur dare un nome: e il passaggio da panìciu a panìcia, paniscia, e a panissia, fu quasi automatico. Nacque così la panissa vercellese, la paniscia novarese, e la paniccia valsesiana (meno nota e preparata solo a Carnevale, talvolta con l’aggiunta di funghi). Questa tesi del passaggio del termine panìciu a panissa, mi è stata avvalorata dal professor Massimo Montanari, docente di Storia dell’Alimentazione Medievale all’Università di Bologna, con il quale ho avuto uno scambio di informazioni mediante fax e telefonate. Ritengo opportuno e necessario a questo punto scrivere, seppur sinteticamente, quale fu l’origine del riso cotto asciutto prima, e poi fritto e tostato. LA COTTURA DEL RISO O STORIA DEL RISOTTO La cottura del riso fin dall’inizio (fine ‘400) ha tre elementi basiliari, che praticamente si protrarranno fino ai tempi nostri, e cioè: il fuoco, il recipiente e l’acqua salata. Il fuoco cambierà col progredire della tecnologia, passando dal camino alla prima rudimentale stufa, fino ai moderni fornelli. 70


Il recipiente, che inizialmente era un vecchio paiolo o caldaia, diventerà poi recipiente di bronzo e in seguito di alluminio, fino al moderno sistema teflon. Non ci abbandonerà il padellame in rame, soprattutto quello indicato per la preparazione della nostra classica panissa, più per amore della tradizione che per una reale utilità. Ovviamente nell’acqua salata, elemento rimasto tale e invariato per secoli fino a tutt’oggi, erano aggiunti lardo e strutto, soppiantati poi da burro e olio. Gli ingredienti erano verdure diverse, oppure carni di cortile (polli, anatre, oche) e anche carni bovine. Il primo accostamento del riso a questi brodi fu attraverso la semplice bollitura. Il passaggio dal riso bollito al riso soffritto, e poi sottoposto a “tiratura” o brodatura, non deriva da successive variazioni o modificazioni del riso bollito, come qualcuno sostiene. L’origine del risotto come noi lo conosciamo oggi ha radici molto lontane. Il primo contatto con un riso asciutto assieme ad altri ingredienti ci deriva dalla “paella catalana”. A cavallo tra il 1500 e il 1600, durante la dominazione spagnola, soprattutto in Lombardia, la popolazione locale venne a conoscenza della preparazione della paella. Era preparata, allora come adesso, con iniziale friggitura in olio di pezzi di pollo e coniglio, e con l’aggiunta di verdure diverse; veniva quindi aggiunta acqua in quantità superiore a quella del riso. Il tutto passato al forno fino a cottura ultimata, ottenendo un piatto asciutto. Questa cottura può aver ispirato fra noi, vagamente, la preparazione di un riso asciutto. Ma non siamo ancora 71


alla tostatura, operazione irrinunciabile per la buona riuscita di un risotto. Questo metodo della friggitura o tostatura del riso sul condimento di base ha avuto origine in Persia con il “riso pilaf”, diffusosi poi in tutto il mondo arabo. Arriverà fino a noi attraverso gli assidui rapporti commerciali dei mercanti veneziani con il mondo ottomano. La preparazione del “riso pilaf” prevedeva la friggitura di burro e cipolla, la successiva tostatura del riso e l’aggiunta del brodo tutto in una volta. Il tutto passato in forno per la cottura e la completa asciugatura. Il piatto così ottenuto veniva usato come contorno assieme alle carni cotte nello stesso brodo usato per preparare il riso. Per amor del vero va anche detto che il sistema di friggitura era già conosciuto tra noi fino dal ‘400, come viene descritto dal grande cuoco Maestro Martino da Como. Nel suo “Libro de arte coquinaria” descrive la “ricetta per fare un soffritto di carne, pippioni, polastri e capretto”. Se il Maestro Martino in questa friggitura avesse aggiunto il riso … Verso la metà del 1800 avvenne un fatto eclatante. Dilaga come un’epidemia la corsa alla preparazione di questo risotto che fa moda, ma spegne anche tanti appetiti. La panissa diventa un piatto al quale tutti si avvicinano: poveri e ricchi, popolani e borghesi. Naturalmente, per i primi è un piatto di lusso, per gli altri del tutto normale; o, per meglio dire, un piatto d’eccellenza, ma abituale. Succedeva spesso che tra i meno abbienti, pur di non rinunciare al piatto di panissa, non disponendo dell’ingrediente principale, il salame sotto grasso, ricorressero a cotenna, costine o cotechino. 72


Diventa tanto confidenziale il rapporto con questo piatto, che qualcuno, anzi, più d'uno, dal temperamento originale e stravagante, pensa bene di inventarsi la propria panissa. Si instaura come una competizione nel tentativo di superarsi a vicenda nella preparazione della panissa, arrivando invece a delle preparazioni anomale. Abbiamo così la panissa dal “Giuàn di Capüsìn”, gestore di un’antica osteria del luogo, che aveva scoperto la “panissa senza salame”; evidentemente aveva pensato anche a coloro che i salami non li avevano. Altra tradizionale osteria era quella “Dal Mariu”, che sosteneva essere la miglior panissa quella “cotta coperta”. C’ era poi la panissa di “Nonna Angela”, che metteva il vino in due tempi, sulla tostatura del riso e alla fine della cottura. C’era poi la panissa “di cuscrìt”, dei coscritti, che la cuocevano in due tempi, con intervalli di dieci minuti tra la prima e la seconda cottura, quasi come in una partita di calcio. L’entusiasmo, la mira di emergere e di mettersi al centro dell’attenzione, portò a queste stranezze, che si protrassero fino ai giorni nostri. Questa situazione anomala e quasi grottesca fece sì che tutti procedessero “a ruota libera” nella preparazione di questo risotto senza un minimo di regole e raziocinio. Questo andazzo si protrasse nel tempo e arrivò fino ai giorni nostri, nonostante non fossero mancate precise indicazioni e insegnamenti. Ancora oggi, a centocinquant’anni dalla nascita della panissa ideale (quella di Larizzate), continua la sciocca corsa all’invenzione personale, cercando un “distinguo inutile”. E così si dice che la panissa non ha una 73


regola fissa, una ricetta unica, ma varia da paese a paese, e perfino da famiglia a famiglia. Con un convincimento del genere…è subito panissa! Oggi purtroppo si leggono ricette della panissa, pubblicate su libri a diffusione nazionale, che sorprendono e stupiscono. Voglio elencare qualche ricetta, ma sono tante le amenità che compaiono nelle seguenti: diamo la precedenza a quella che compare in un bellissimo libro uscito nel 2003, con una veste grafica meravigliosa, con carta patinata, fotografie e illustrazioni a colori di grande effetto. Edito sotto l’egida di tre importantissime istituzioni e associazioni che operano nel campo del riso. Vale la pena trascrivere l’intera ricetta originale: PANISSA - RISOTTO ALLA VERCELLESE la borsa della spesa per quattro persone: – 300 gr di fagioli borlotti sgranati – 300 gr di riso Baldo o S. Andrea – 70 gr di lardo o burro – 70 gr di salam ‘dla duja – 50 gr di cotica di maiale – mezzo bicchiere di Barbera – brodo di carne – olio extra vergine d’oliva, una noce di burro, uno spicchio d’aglio, una foglia di alloro, una cipolla

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PREPARAZIONE: Cuocere a fuoco basso i fagioli in acqua bollente con 1 spicchio d’aglio e 1 foglia d’alloro, finchè comincino a rompersi. Bollite a parte la cotica del maiale e poi tagliatela a listarelle. In un tegame soffriggete con olio e lardo pestato la cipolla tagliata sottile, unite il riso e i fagioli scolati, poi irrorate con il vino e fate evaporare. Cuocete il riso bagnando ogni tanto con il brodo di carne bollente e aggiungete 1 mestolo di acqua di cottura dei fagioli. Aggiustate di sale e pepe a piacere. La prima sorpresa in questa preparazione è quella della scomparsa del salame. E’ entrato nella borsa della spesa tra gli altri ingredienti, e non ne è più uscito. I fagioli, cotti “finchè comincino a rompersi”, e per giunta messi scolati nel soffritto insieme al riso, avranno il tempo di cuocere altri 15-20 minuti assieme al riso! Così arriveranno alla fine esausti e disfatti, in modo che renderanno la panissa bella “polentosa”. E poi eliminare l’acqua di cottura dei fagioli, detta in dialetto vercellese bru-üra, è un colpo mortale alla tipicità della panissa. Il leggero sentore di nocciola e di erbaceo, soprattutto nei fagioli freschi (sgranati), conferiscono alla panissa un sapore particolarmente caratteristico, assieme al salame soprattutto, e al lardo. Infine 300 gr di fagioli sono troppi; considerando anche i 300 gr di riso, arriviamo a 600 gr di prodotto base per quattro persone; ma di questo parleremo più dettagliatamente in una prossima ricetta. 75


SECONDA RICETTA Parliamo ora di un’altra ricetta, apparsa in un opuscoletto edito da un noto ente all’avanguardia nel campo della risicoltura: “Provvedete a mettere a bagno i fagioli verdi o secchi in acqua salata. Trascorse 12 ore di ammollo, fate bollire i fagioli per un periodo non inferiore a quattro ore. Mettete i fagioli, con un salame sotto grasso, che andrà disfatto prima di essere messo sul riso, assieme al brodo dei fagioli”. OSSERVAZIONI: 1. i fagioli cosiddetti “verdi” non vanno mai messi a bagno. 2. una cottura di 4 ore almeno dei fagioli farà sì che, se sono verdi, scompariranno completamente; se sono secchi, si salverà forse qualche pezzetto di tegumento (pelle). Nel riso, invece del brodo di fagioli, entrerà una crema che renderà la panissa bella polentosa; e poi, il salame cotto 4 ore almeno, assieme ai fagioli: che necessità c’è di metterlo sbriciolato nella panissa, quando di gusto, dopo una così lunga cottura, non ne avrà più? Servirà solo per fare quantità. TERZA RICETTA Questa è una ricetta che ha due autori. Uno di questi è un simpaticissimo personaggio, non più giovanissimo, che scrive sovente, con molto entusiasmo. E’ un ottimista ammirevole. Però, a proposito di panissa …, è scivolato sulla buccia dei fagioli. Ecco la ricetta dedicata a un noto personaggio, ovvero come si prepara una buona panissa per quattro persone.

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– 300 gr di fagioli – 160 gr di riso di Baraggia – mezzo salame sotto grasso – 30 gr di lardo e cipolla – formaggio (quando c’era) OSSERVAZIONI: In questa ricetta si può andare tranquilli nel definirla una bella “fagiolata” di Carnevale, con aggiunta di riso. Partendo dal considerare che i fagioli più usati sono i fagioli di Saluggia o i borlotti, questi hanno un rapporto numero-peso, che è il seguente: – 100 gr di questi fagioli equivalgono a 180-200 semi (media 190) Pertanto in 300 gr avremo 3x190= 570 semi per quattro persone, per cui – 570/ 4 =140 fagioli circa a testa. Ve lo immaginate un piatto di panissa con 40 gr di riso e 140 fagioli? Giudicate voi, lettori… QUARTA RICETTA In un altro opuscoletto edito da un ente istituzionale locale, a proposito di panissa si legge che nel brodo di cottura dei fagioli si deve aggiungere sedano, carota, aglio, pomodoro, restando così in bilico tra la paniscia novarese e la panissa vercellese. Un noto ristorante-trattoria, che va per la maggiore, prepara una panissa dando queste indicazioni: tra gli ingredienti, riso, fagioli, carota, cipolla, 77


sedano, sugo di pomodoro, brodo di carne, 1 bicchiere di vino rosso, lardo, cotenna, salam ‘dla duja, olio d’oliva, pepe, burro. Fare un soffritto di olio, lardo, cipolla, carota, sedano, cotica e fagioli giustamente ammollati. Dopo adeguata friggitura, coprire d’acqua e portare il tutto a cottura. A parte iniziare la preparazione del risotto friggendo l’olio, aggiungere il riso, tostare e bagnare con il vino. Aggiungere poi i fagioli provenienti dal brodo di verdura, il salam ‘dla duja, il sugo di pomodoro, e terminare la cottura con brodo di carne; infine terminare la panissa mantecando con burro e formaggio. La sorpresa arriva con una notazione a parte, dove vien detto che il salam ‘dla duja può essere sostituito con salsiccetta. OSSERVAZIONI: – la prima stranezza deriva dal fatto che vengono preparati due brodi, uno di verdure con cotica e uno di carne. – il brodo di verdura parte da un soffritto della stessa, al quale vengono aggiunti anche i fagioli ammollati. E’ un trattamento dei fagioli, seppure di pochi minuti, che non rientra nell’uso corrente della friggitura. L’aggiunta della cotica in questo brodo proprio non so spiegarmela, perché quando le verdure, compresi i fagioli, saranno cotte, la cotica è ben lontana dall’esserlo; e se la sua funzione è quella di dare sapore al brodo, ancor meno. La cotica, se cotta 5 o 6 ore almeno, conferisce al brodo di cottura un po’ di mostosità (vedi la “pignatta” di Saluggia o la “tufea” canavesana, che cuociono 7-8 ore). Quindi l’immissone della cotica è inutile in questo caso, e vale solo come un richiamo alla tradizione popolare

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del lontano passato. Allora veniva usata con frequenza per sopperire alla mancanza del salame, che in certi ambienti era un bene raro e prezioso. Un altro ristorante poco distante da Vercelli, nella preparazione della panissa, ha qualcosa in comune con quello precedente: la tostatura, seppure breve, dei fagioli ammollati, come se fossero riso. L’altra stranezza è la brevissima cottura della cotica di maiale, nello stesso tempo degli altri ingredienti del brodo (cipolla, brodo, fagioli…), cioè un’ora, come indicato nel procedimento. Nessuna cotica di maiale al mondo può cuocere in un’ora. Poi sorprendono certi squilibri tra gli ingredienti; esempio: 280 gr di riso con 200 gr di fagioli. 70 +70 gr di lardo per 280 gr di riso, sono un’esagerazione. Infine la sorpresa dei fagioli, che non devono essere tutti aggiunti al riso, perché il riso deve prevalere sui fagioli, regolandosi di metterne un mestolo. Ma perché cuocerne così tanti, allora? Non si potrebbe far prevalere il riso sui fagioli, mettendo 100 gr di riso in più, e 50 gr di fagioli in meno? Ma il ristoratore potrebbe sollevare una giusta obiezione, e cioè che in questo modo otterrebbe meno sapore nel brodo di fagioli., la cosiddetta “bru-üra”. Una soluzione, però, esiste: si ricorre al sistema del prendere due piccioni con una fava, e cioè si usano 2 litri di acqua invece di 4, e 100 gr di fagioli anziché 200. Così i fagioli non prevarranno sul riso, e il sapore del brodo dei fagioli sarà lo stesso. Va anche notato che, oltre a non mettere tutti i fagioli per una ragione di equilibrio con il riso, non si potrà mettere neppure tutto il brodo di 79


fagioli, perché la quantità d’acqua utilizzata per cuocere i fagioli (4 litri), risulterà eccessiva per cuocere 280 gr di riso. Tra le tre ricette descritte, che si caratterizzano per l’impiego delle verdure, aggiungo anche quella pubblicata dalla Bonechi editrice, specializzata nella pubblicazione in fascicoli settimanali. A parte l’uso delle verdure nel brodo dei fagioli (cipolla, sedano,carote), presenta una ricetta della panissa per 6 persone abbastanza equilibrata nel dosaggio degli ingredienti, meno che nei fagioli. Per 500 gr di riso 800 gr di fagioli freschi e, se secchi, 400 gr. Evidentemente gli 800 gr di fagioli freschi sono da ritenersi probabilmente col baccello (i fagioli freschi sgranati calano mediamente del 50%). Comunque sia, 400 gr di fagioli sono decisamente troppi, perché, come ho già avuto modo di spiegare, trattandosi di borlotti, per 6 dosi ne vengono circa 130 fagioli per razione. Poi, a proposito del salame ‘dla duja, “così detto perché si conserva in vasi di coccio chiamati doje, riempite di strutto, che conferiscono all’insaccato un gradevole sapore”, va osservato che il gradevole sapore non è dovuto alla conservazione nei vasi di coccio, ma ha tutta un’altra provenienza, che spiegherò nel capitolo. “L’importanza del salame sotto grasso nella preparazione della panissa”. Proseguendo nel procedimento, si legge: “Come si potrà osservare, la panissa viene cotta come il classico risotto, con l’aggiunta poco a poco del brodo nel riso, e non come il tradizionale risotto piemontese (?), cioè versando tutto il brodo in una volta sul riso”. 80


Intanto, non esiste un tradizionale risotto piemontese, come esiste un tradizionale risotto milanese; e poi quel procedimento del brodo tutto in una volta, che io sappia, si usa solo nel “risotto alla pilota”. QUINTA RICETTA E, dulcis in fundo, una ricetta che è pubblicata sul supplemento di un quotidiano. Il dosaggio degli ingredienti è ben equilibrato. Anche questa ricetta fa parte di quelle che prediligono l’impiego di verdure: carote, sedano, cipolla abbondante, con in più una chicca: il prezzemolo. La solita rosolatura, il tutto versato nella pentola dei fagioli, e si prosegue nella cottura! Da sottolineare positivamente l’impiego del grande Vialone nano, che trovo per la prima volta, per la preparazione di questa panissa. Si procede così: si frigge l’olio d’oliva, al quale viene aggiunto il salame della duja senza pelle, ma intero; e appena sarà rosolato, bagnarlo con il vino, farlo ridurre e a questo punto aggiungere il riso. Poi si inizia a bagnare con il brodo dei fagioli e verdure, fino alla cottura ben al dente. Tutte queste panisse descritte, oltre alle negatività indicate, hanno un altro grosso difetto, quello della lunghezza dei tempi di preparazione. Indico per tutte l’ultima descritta (quella del prezzemolo), con i seguenti tempi dichiarati.

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PREPARAZIONE: 25 minuti, più 8 ore di AMMOLLO fagioli. COTTURA: 2 ore e 50 minuti. Diffondendo delle ricette con questi tempi di preparazione, credo che chi volesse avvicinarsi a questo piatto per la prima volta, non farà altro che leggerla, metterla in un cassetto e dimenticarla. Inoltre, va tenuto presente che chi scrive e diffonde ricette simili della panissa, non si rende conto di creare solo confusione e disorientamento relativamente al piatto più importante e conosciuto della cucina vercellese, distogliendo inoltre l’attenzione da quelle che sono le ricette storiche e tradizionali.

I VARI TENTATIVI PER FISSARE ALMENO GLI INGREDIENTI DELLA PANISSA TIPICA VERCELLESE Nei mesi di fine 2005 mi incontravo sovente all’ora della colazione presso un bar del centro con Lisa Greppi delle Cascine Stra. Era l’occasione per parlare di riso, cucina e soprattutto di panissa. Lei diceva che non si rendeva conto del fatto che in Vercelli e dintorni, nei ristoranti, la panissa fosse diversa da un posto all’altro, considerando questa cosa curiosa e anomala. Il discorso si allargò e si approfondì presso la sede dell’ A.N.G.A. in Piazza Zumaglini, associazione della quale allora lei era presidente. Si impostò un programma operativo, arrivando a fissare un incontro presso la sede dell’ Unione Agricoltori Interprovinciale. Alla riunione partecipò il presidente dell’Unione Agricoltori Vercelli-Biella, dottor Quirino Barone, e alcuni ristoranti invitati in precedenza, tra i quali il Ristorante 82


Garibaldi dei Cappuccini, il Ristorante del Modo Hotel, i dirigenti del Comitato Vecchia Porta Casale, organizzatori della Sagra della panissa, e il sottoscritto. Lisa Greppi espose il motivo del nostro incontro, che era quello di concordare una ricetta della panissa unica per tutta la fascia dei pubblici esercizi. Se si fosse raggiunto un accordo di massima, si sarebbe poi tenuto un secondo incontro invitando pubblici esercizi, associazioni, confraternite Pro Loco dell’hinterland vercellese. Dopo alcuni interventi vaghi e generici emerse evidente la difficoltà di raggiungere questo obiettivo, perché ognuno dei presenti aveva in testa la propria ricetta, alla quale non voleva certo rinunciare. Alla fine, visto che le cose ristagnavano, decisi di elencare quali erano secondo me gli ingredienti usati nella mia panissa, e cioè: lardo, fagioli borlotti o scozzesi, salame nel grasso con almeno tre mesi di maturazione, vino facoltativo. D’accordo con me si dichiararono gli amici della Sagra della Panissa. Qualcuno sollevò l’impiego della cotica, del pomodoro, del formaggio Grana. A questo punto, con questi ultimi ingredienti, la seduta terminò con l’impegno di ritrovarci, cosa che non avvenne più. Visto che passavano le settimane e i mesi, presi l’iniziativa di combinare un altro incontro. Chiesi l’ospitalità al Presidente del Comitato Vecchia Porta Casale, Guido Manolli, il quale si dichiarò ben lieto di ospitarci e di partecipare. Invitai a questo incontro il professor Sicheri, il dottor Gabriele Varalda, di Slow Food, l’onorevole Renzo Franzo e la signora Varalda. Queste riunioni si tennero nelle prime settimane di ottobre del 2006 presso la sede del contatto, la cosiddetta dal Mariubèl. La riunione divagò 83


inizialmente sulla questione della D.O.P. e dell’I.G.P. da ottenere per il piatto della panissa, ma la cosa non era possibile, perché nel novero della D.O.P. o I.G.P. non era mai entrata una preparazione gastronomica. Al massimo, a questo riguardo, si poteva arrivare all’elenco dei prodotti tipici regionali, dove compaiono già il salam ‘dla duja assieme, ovviamente, a moltissimi prodotti piemontesi. Si affrontò poi subito il discorso degli ingredienti da indicare per la preparazione della panissa vercellese. Ci si accordò sul fatto di indicare soltanto gli ingredienti della panissa, con specifiche relative, senza però stabilire né le dosi né il procedimento. Per gli ingredienti si tennero in molta considerazione i prodotti del territorio. Vennero così indicati i seguenti ingredienti: –

RISO prodotto nelle province di Vercelli e Biella, escludendo i risi aro-

matici, i rossi o pigmentati rossi, i neri, parboiled, integrali e semintegrali. – CIPOLLA , tutte le varietà, esclusa la rossa. – LARDO, fresco o salato, non il tipo aromatizzato. – OLIO, da usare solamente per ungere il recipiente prima della preparazione. – SALAME, rigorosamente dl’ula, con un minimo di 3 mesi di maturazione sotto grasso. – FAGIOLI, secchi del tipo Borlotti o Scozzesi. – VINO (facoltativo), se usato deve essere un rosso piemontese non aromatico. – POMODORO , o DOPPIO CONCENTRATO o PASSATA DI POMODORO. – SALE DA CUCINA o DADI DI CARNE PER SALATURA. 84


Arrivare a questo punto fu un risultato eccezionale. Si doveva a questo punto indire una riunione dei pubblici esercizi, delle Pro Loco e di ogni tipo di associazione o confraternita esistenti nella zona di diffusione e conoscenza della panissa. Ma la cosa purtroppo si fermò. Due anni dopo, precisamente nel novembre 2008, arrivò l’iniziativa clamorosa proposta dal consigliere regionale Luca Pedrale, che si riprometteva nel suo progetto di fare della panissa un piatto tipico nazionale. Furono indette numerose riunioni presso il Modo Hotel, con una partecipazione di addetti ai lavori non molto numerosa, considerando che l’invito era rivolto a tutta l’area vercellese. Dopo una decina di riunioni, durante le quali era emerso molto interesse riguardo a questo piatto, intervenni con queste dichiarazioni: “Per il conseguimento del nostro obiettivo condiviso, cioè la preparazione della tradizionale panissa alla vercellese, la prima cosa da fare è l’indicazione degli ingredienti, tenendo conto dell’opportunità di formulare due ricette (cosa che tra l’altro era già emersa nel corso delle precedenti riunioni)”. Le due ricette avrebbero dovuto rispecchiare, una l’origine nel campo della documentazione storica, l’altra in quello della tradizione profondamente popolare. Si può quindi trarre questa conclusione, che il risultato ottenuto fin qui si può considerare clamoroso, poiché, dopo quasi 200 anni di confusione di ricette della panissa, si è arrivati a concordare un elenco di ingredienti per la preparazione di questo piatto. E’ giunto il momento di rendersi conto che la panissa ha i suoi canonici 85


ingredienti, e il suo modo per “gestirli” al meglio nella preparazione. La sfida d’ora in poi sarà fra chi, seguendo questa traccia, riuscirà a ottenere il risultato migliore.

1ª RICETTA DELLA PANISSA ALLA VERCELLESE (tratta da documentazione storica) • CIPOLLA: tutte le qualità esclusa quella rossa; • LARDO: stagionato, non aromatizzato; consentito anche quello fresco; • SALAME: rigorosamente dl’ula; stagionato almeno 3 mesi; • RISO: delle province di Vercelli e Biella, esclusi gli aromatici, i rossi, i neri, i parboiled; • FAGIOLI: Saluggia, Borlotti, Scozzesi; • VINO: (facoltativo) rosso piemontese non aromatico; • POMODORO: concentrato, passata di pomodoro, pomodoro fresco; • SALE: da cucina o dadi da minestra; • FORMAGGIO: raspà, grattugiato (facoltativo) a scelta del consumatore.

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2ª RICETTA DELLA PANISSA ALLA VERCELLESE (di tradizione popolare) • CIPOLLA: tutte le qualità, esclusa quella rossa; • LARDO: stagionato o fresco; • COTENNE: zampini e costine di maiale; • FAGIOLI: Saluggia, Borlotti, Scozzesi; • SALAME: rigorosamente dl’ula, stagionato almeno 3 mesi; • RISO: delle province di Vercelli e Biella, esclusi gli aromatici, i rossi, i neri, i parboiled; • VINO: (facoltativo) rosso piemontese non aromatico; • POMODORO: qualsiasi versione; • ALLORO, ROSMARINO, PEPE macinato al momento; • SALE: da cucina o dadi da minestra; • FORMAGGIO: raspà, grattugiato (facoltativo), a scelta del consumatore. UN CHIARIMENTO NECESSARIO Un esponente della stampa locale, nell’affrontare l’argomento della ristorazione locale, non perde l’occasione per ritornare sul problema della monodose della panissa da preparare “al momento” da parte dei ristoranti. Ora, se mi sorprende la richiesta del summenzionato su un problema che in fondo non esiste, mi sorprende ancora di più che nessun ristorante della città abbia mai spiegato che preparare una sola dose di panissa “al momento” è materialmente impossibile. 87


Naturalmente, stiamo parlando di una panissa realizzata al massimo livello, rispettando le regole relative a ingredienti, dosi e procedimento. Tutto questo perchè si tratta quasi sicuramente di servirla a gente che non la conosce e che ne ha sentito parlare come di un risotto con i fagioli, piuttosto robusto, ma saporoso. Va da sé che una persona che va a cercare un piatto con queste vaghe indicazioni è persona buongustaia e appassionata; pertanto si deve fare di tutto per non deluderla o lasciarla insoddisfatta. Dovendo preparare, perciò, una panissa in simili circostanze non si deve tralasciare anche la più piccola regola. Il dettaglio più piccolo, che la panissa ha come caratteristica peculiare, è la preparazione in tre fasi, distribuite in due giorni: • la messa a bagno dei fagioli nel giorno precedente; • la cottura dei fagioli prima della preparazione del risotto; • infine, la preparazione del risotto stesso. Sarà utile ricordare che il brodo prodotto dalla cottura dei fagioli è definito in perfetto vercellese “bru-üra di fasö”. I fagioli mediamente hanno un tempo di cottura di circa 60 minuti; circa il doppio del tempo di cottura della panissa stessa. Inoltre, cosa importantissima, i fagioli vanno bolliti nella stessa mattinata della preparazione della panissa. Non vanno cotti il giorno prima per avvantaggiarsi, poiché perderebbero quell’aroma di leggero erbaceo e sentore di nocciola, che conferiscono alla panissa uno dei sapori caratteristici insieme a quello del salame sotto grasso e del lardo stagionato. Non si pensi di risolvere il problema mettendo in frigo il brodo e i fagioli 88


cotti il giorno prima, poichè nella cottura con il riso si romperebbero tutti, oltre alla perdita del caratteristico profumo. Quindi è dimostrata in quanto descritto l’impossibilità della monodose. Non si pensi di risolvere il problema aprendo una scatola di fagioli lessi. Stiamo parlando, lo ripeto, di una panissa al “top” e non di una panissa rabberciata! Una soluzione che non garantisce appieno il raggiungimento dello scopo sta nella caratterizzazione di alcuni ristoranti che preparano tutti i giorni una certa quantità di panissa con un riso adatto a poterla servire anche un’ora dopo la cottura, sperando che i due o tre richiedenti una dose di panissa arrivino in quell’ora, con la panissa ancora disponibile. Bisognerebbe, altrimenti, che il ristoratore cuocesse ogni mattina tre o quattro dosi di fagioli messi a bagno la sera precedente. Se dovesse, poi, in qualche giorno,avanzarli anche tutti, può sempre preparare una buona insalata accompagnata da tonno e cipolle! C’è un altro aspetto di difficoltà da affrontare: la maggior parte delle cucine delle trattorie e dei ristoranti locali non dispone di “chef professionisti”, ma di cuochi casalinghi, che non sono pronti a ricevere, nel pieno del lavoro, l’ordinazione di due o tre monodosi di panissa. Quindi scegliete voi come volete fare; io più di tanto non posso dirvi.

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CONSIDERAZIONI FINALI Panissa: Croce e delizia, Osannata e bistrattata, Discussa dibattuta e chiacchierata. Tutti questi attribuiti sono appropriati e confacenti. Questo per dire quanto posto abbia occupato questo piatto nella mente e nel cuore dei Vercellesi. Quanti discorsi fatti con enfasi nel descrivere una panissa ben riuscita! E quanta delusione nel parlare di una panissa scadente! A conclusione di questa lunga presentazione, resta il fatto che la panissa ha sempre occupato e continuerĂ ad occupare un posto di primo ordine nella cucina vercellese.

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AL SALAM D’LA DUIA O SALAM D’ULA TRA LEGGENDA E REALTÀ: OVVERO, SALAMINI ALLA VERCELLESE CONSERVATI SOTTO GRASSO

Nel lontano 1668, uno sconosciuto frate benedettino, Dom Perignon, nel convento di Hautvillers, nello Champagne, venne nominato “cellario” (esperto nel campo enologico). Siccome il convento era ricco di vigne, Dom Perignon profuse tutta la sua particolare predisposizione nel campo della viticoltura, vendemmia e vinificazione. Qualche anno dopo il nostro bravo e solerte fraticello, volendo far assaggiare a qualche amico quel meraviglioso vino che produceva abitualmente, pensò di riempire qualche bottiglia tappandola con dei cilindretti ricavati dalla particolare corteccia di quegli alberi che crescevano numerosi nel giardino e nella campagna circostante. Quando a primavera inoltrata Dom Perignon, curioso di vedere come si era comportato quel vino nelle bottiglie, ne aprì una, si vide schizzare addosso un fiotto di schiuma bianca profumatissima, mentre la bottiglia friggeva in una miriade di bollicine. Colmò la bottiglia e la richiuse, riaprendola dopo qualche mese con lo stesso risultato. Era nato, così, casualmente, lo Champagne, il più prestigioso e apprezzato vino del mondo.

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Questo era avvenuto perchè quel vino ancora giovane, tappato anzi tempo, iniziò una silenziosa fermentazione in bottiglia. In quegli stessi anni nelle nostre campagne un anonimo contadino era solito allevare, ogni anno, il suo maiale. Lo faceva con la massima cura e attenzione, nutrendolo con i migliori prodotti che la natura gli consentiva di ottenere, come mais, frumento e quant’altro. In questo modo otteneva sempre delle carni che, sia nelle parti magre sia nelle grasse, erano meravigliose, belle, sode e profumate; tagliate a punta di coltello nella preparazione dei salami risultavano sempre di qualità eccelsa. Però la sua famiglia doveva consumare anche le parti meno nobili, quelle che oggi vengono definite “il quinto quarto”, e cioè la testa, gli zampini, gli ossi spolpati; tutto conservato rigorosamente sotto sale. Queste, insieme a cotechini e sanguinacci, costituivano il mangiare suo e della sua famiglia fino a primavera inoltrata. A quel punto cominciava a consumare meravigliosi salamini; solo che la stagione calda avanzava, e con essa anche le mosche e le vespe, che erano nemiche dichiarate di quel ben di Dio. Doveva trovare ad ogni costo la soluzione al problema. Siccome, come sempre accade, la necessità aguzza l’ingegno, pensò di sistemare i suoi salami dentro a qualche vasca o bacinella, o qualsiasi recipiente che fosse, coprendo poi il tutto con quello strutto bianchissimo che gli serviva abitualmente per friggere verdure, frittate e qualche volta anche per condire l’insalata. In questo modo i suoi salami sarebbero rimasti riparati da mosche e vespe; ma l’idea non lo convinceva del tutto, dovendo usare recipienti destinati ad altro uso. Dopo qualche tempo, però, andando alla fiera di un paese vicino, notò 92


per la prima volta dei recipienti di diverse dimensioni in terracotta fatti a mo’ di “pera” e perfino belli lisci nell’interno. “Questi fanno proprio al caso mio”, pensò e ne comprò uno di media dimensione. Nell’inverno, dopo la macellazione del maiale, ripose i salami dentro quel nuovo recipiente, tutti in posizione orizzontale, coprendoli poi con il bianchissimo strutto. Pensò tra sé e sé: “Almeno così sono salvaguardati dalle maledette mosche e vespe! E tra qualche mese potrò tirare fuori i miei salamini come quando li ho messi sotto grasso”. Ma non andò così, perchè dopo quattro o cinque mesi, tirando fuori qualche salame da quel magico recipiente, percepì un profumo molto particolare, suadente e penetrante, constatando come gli stessi fossero morbidi al tatto e sapidi al gusto. Il contadino aveva prodotto a sua insaputa per la prima volta i salami sotto grasso “alla vercellese”, meglio conosciuti come “salami della duja”. Così il fraticello Dom Perignon e il contadino vercellese nelle loro manipolazioni ottennero un risultato diverso da quello che si erano proposti: un risultato che passa attraverso la casualità. Va tenuto in considerazione il meccanismo chimico-fisico che ha causato il cambiamento o trasformazione, e cioè: la fermentazione alcolica dello Champagne, la fermentazione proteica dei salamini. Alla giusta maturazione, questo salame in una degustazione organolettica e sensoriale si rileva al gusto un po’ asprigno, leggermente tannico, 93


molto sapido, con profumi che ricordano il formaggio Grana e a volte con una sfumatura di nocciola (vedi ghiande). Questo salame unito a riso, cipolla, lardo, fagioli lessi darà un contributo essenziale e insostituibile per la preparazione della panissa alla vercellese. Questo piatto tipico della cucina vercellese denota abitualmente queste caratteristiche: sapido e accattivante, di una certa struttura e robustezza in un esaltante insieme gustativo e olfattivo, che non trova riscontro in tutto lo scibile gastronomico nazionale e internazionale. Questo sapore ha quasi del magico, che ti attira e ti avvolge. Il vino giusto che viene abbinato esalterà tutto in un piacere suadente. Estimatori e seguaci di una tradizione ultrasecolare a livello di semplice pratica alimentare e mercantile, sempre sana e leale, troveranno nelle pagine seguenti quello che la scienza e la chimica scrivono ed espongono a questo riguardo, e cioè la trasformazione avvenuta in seguito a processo fermentativo delle parti proteiche grasse e magre. Per dimostrare quanto sia importante l’impiego di un buon salam d’ula è necessario partire da nozioni che ci derivano dalla scienza dell’alimentazione e della nutrizione, con particolare attenzione a regole di chimica organica. Il salame sotto grasso deve essere preparato solo con carni suine ottenute da animali allevati con prodotti della terra, soprattutto cereali. Si ottiene così un animale con un giusto rapporto di parti magre e grasse. E 94


sono proprio queste parti grasse che hanno allontanato in questo ultimo mezzo secolo tanti consumatori, influenzati da false regole dietetiche. Al contrario, la scienza della nutrizione considera il grasso suino il più nobile tra i grassi animali. È pur vero che, se consumato fresco, è di difficile digestione, ma se opportunamente trasformato in seguito a fermentazione, il grasso diventa facilmente digeribile. Vediamo, quindi, l’aspetto di questi in generale, partendo dal termine che li comprende tutti: I LIPIDI. I lipidi alimentari sono costituiti da una molecola di glicerolo (glicerina), legato ad acidi grassi. Gli acidi grassi si dividono in due grandi branche: grassi di origine vegetale e grassi di originale animale. Gli acidi grassi a loro volta si dividono in: • ACIDI GRASSI SATURI: quando gli atomi di carbonio sono legati tra loro da un solo legame: —

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(es. acido stearico presente soprattutto nei grassi solidi: lardo, pancetta, sugna); • ACIDI GRASSI MONOINSATURI: quando due gli atomi di carbonio sono legati tra loro da un doppio legame —

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(es. acido oleico, contenuto nell’olio d’oliva); • ACIDI GRASSI POLINSATURI: quando due o più atomi di carbonio sono legati tra loro da un doppio legame —

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(es. acido linoleico, presente nell’olio di semi). 95


Ritorniamo quindi al nostro salame contadino, preparato con la sua percentuale di carni magre e grasse, confezionato e insaccato in apposito budello, asciugato e leggermente essicato; il tutto in dodici-quindici giorni. I salami vengono poi messi a dimora in appositi recipienti e coperti da grasso fuso. Questo grasso è ottenuto da sugna (massa di grasso attorno ai rognoni del maiale) e da parti grasse non adatte alla preparazione del salame. La sugna e le parti grasse vengono fuse in una lenta e lunga cottura. Il liquido ottenuto viene filtrato e poi lasciato indurire. Verrà poi reso liquido al momento della messa a dimora dei salami. La liquefazione su esposta delle parti grasse produce i famosi ciccioli, in vercellese sunsìn, che sono le parti non del tutto liquefatte. Per i salami messi sotto grasso inizia il loro mutamento. La presenza di microrganismi mette in moto un processo fermentativo che, a differenza di quello del vino, non è tumultuoso, ma è di una fermentazione silenziosa. Questa fermentazione li porterà, attraverso una certa trasformazione, alla “maturazione”, che si accentuerà con il passare dei mesi (da quattro a quindici). Detto periodo varia a seconda delle condizioni ambientali. Questo processo fermentativo diventa un fattore di fondamentale importanza ai fini dietetici (alimentazione razionale). Diventa dietetico soprattutto quel grasso che è entrato nell’impasto del salame, “pesante da digerire”, e che ora, dopo la suddetta fermentazione, si trasformerà da grasso saturo a grasso polinsaturo. Esso ha un contenuto di provitamine che il nostro organismo trasformerà in vitamine vere e proprie del tipo B1 - A - E; e si sa quanto siano importanti le vitamine per la normale funzione di tutti i tessuti epiteliali, favorendo l’accrescimento corporeo di tutti gli 96


organismi in via di sviluppo, tutelandone l’integrità contro l’attacco dei radicali liberi. Questo salame appena uscito dalla sua tana cerca due compagni inseparabili: pane fragrante, di pasta dura, e vino Barbera; probabilmente perchè questi tre alimenti hanno in comune la fermentazione. E come dev’essere il vino da abbinare? Un vino dal sapore ampio e sontuoso, con acida austerità di fondo e dai tannini fini. Ma certo! Un Barbera con queste caratteristiche ci darà un abbinamento al top! Si tratta di un abbinamento per similitudine (l’opposto di quello di contrasto), che consente il felice incontro tra i due tannini, quello fine del vino e quello altrettanto fine del salame. Questo salame, unito al riso, ai fagioli, alla cipolla, al lardo, darà un contributo essenziale ed insostituibile per la preparazione della panissa vercellese. Una notazione interessante a proposito dell’ambiente metereologico e climatico di maturazione. Il salame sottograsso ha un compagno di alto prestigio che matura nelle sue stesse condizioni: il Culatello di Zibello. Il primo matura tra le umide nebbie della pianura vercellese; il secondo tra le nebbie della bassa parmense.

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L’IMPIEGO DEL FAGIOLO NELLA PREPARAZIONE DELLA PANISSA

Per noi dei paesi limitrofi, e anche per la città stessa di Vercelli, nell’immaginario collettivo il fagiolo ideale per la preparazione della panissa è il fagiolo di Villata. Questo vale soprattutto per la popolazione più anziana, in quanto si sono quasi perse del tutto le tracce di questo fagiolo negli ultimi anni. Avendo io dei parenti in questo paese, mi recavo alla visita cimiteriale per la ricorrenza di Ognissanti e in questa occasione ero solito fare rifornimento dei fagioli di Villata appena raccolti e puliti. Durante gli anni Novanta la quantità disponibile andava via via riducendosi di anno in anno, tanto che nel 1996 riuscii a procurarmi solo mezzo chilo di fagioli. A questo punto scatta il campanello di allarme! Cerco nei paesi del circondario di trovare qualche contadino disposto a seminare qualche decina di piante in mezzo al grano turco, come si era soliti fare negli anni addietro. Tuttavia non riuscii nel mio intento, a causa della superficialità, disinteresse, mancanza di orgoglio e di attaccamento ad un prodotto tradizionale (quest’ultimo aspetto avrebbe dovuto interessare soprattutto i contadini di Villata). Non mi arresi e, consapevole di essere arrivato quasi a un punto di non ritorno, cioè alla loro scomparsa dalla scena se nell’annata del 2001 non se ne fossero seminate almeno una decina di piante, scrissi su un giornale locale, facendo dapprima una descrizione tecnico-scientifica di questo prodotto. 99


Questo fagiolo che a Villata viene definito fasòla, è della famiglia del tipo scozzese, gigante a forma ovale. Il fagiolo, pianta erbacea appartenente alla famiglia delle leguminose, si divide in due varietà: rampicante o nana. Può avere uno sviluppo determinato o indeterminato. Nel primo caso la fioritura e la maturazione è ristretta in un breve arco di tempo di 10-15 giorni; nel secondo caso, invece, si protrae anche in un arco di due mesi. Il fagiolo di Villata appartiene alla secondo categoria, ovvero rampicante di tipo indeterminato. Il fagiolo ha un valore proteico ed energetico assai elevati ed è quindi molto consigliato dai nutrizionisti. Queste caratteristiche sono assai accentuate nel fagiolo di Villata ed è per questo che è considerato di alta qualità. É coltivato esclusivamente nel comune di Villata da almeno tre secoli, come risulta dalla lista di pitansi dal disne d’la spusa (1738). Dopo queste note illustrative, scrissi un vero appello rivolto agli abitanti di Villata, affinchè non lasciassero scomparire questo grande prodotto della terra vercellese. Fortunatamente il mio appello venne raccolto da Umberto Uga, Presidente della SOMS di Villata. Così, invitato da Umberto Uga, andai a Villata con qualche speranza. Egli mi disse di aver letto i miei articoli e di essere in pieno accordo con me nel tentare il recupero di quel fagiolo. Contammo i semi disponibili: 120 lui e 83 io. Si calcolò di poter seminare un centinaio di piante e trovammo il posto, gentilmente offertoci da Celestino Bellardone, che ci riservò un pezzo di terreno recintato accanto al suo orto. Umberto Uga ed io concordammo di sostenere le spese 100


al 50% ciascuno. Umberto si mise a disposizione per i lavori manuali: semina, cannatura, zappatura, pulizia e raccolta. Producendo, infine, quattro chili di fagioli, potevamo ben dire che la varietà era salva. A questo bisognava cercare ulteriori appoggi: prendemmo contatto con la Dottoressa Ricci, del Settore Servizio Agricolo della Regione Piemonte e successivamente ci recammo presso l’Assessorato all’Agricoltura per un colloquio con la suddetta. La Dottoressa Ricci ci promise di farci assistere da un organismo, che collabora con la Regione, il CRESCO (Consorzio di Ricerca e Sperimentazione per l’Ortofrutticoltura Piemontese). Lasciammo come campione una ventina di semi e la Dott. Ricci ci comunicò che saremmo stati contattati dal Dott. Baudino della CRESCO: tornammo, così, fiduciosi e soddisfatti. Dopo due mesi di attesa, non ricevendo nessun segnale in proposito, chiedemmo un incontro con il Dott. Cavallera, Assessore all’Agricoltura della Regione Piemonte, il quale ci fissò un appuntamento nel febbraio 2002, presso il Palazzo della Regione di via Giolitti. Durante quell’incontro facemmo una dettagliata relazione all’assessore che ci promise il suo pronto interessamento. Una decina di giorni dopo, infatti, ci fece telefonare dalla segretaria, che ci annunciò il giorno dell’arrivo a Villata del Dott. Baudino; ci confessò che era rimasto molto favorevolmente impressionato dal campione che la Dott. Ricci gli aveva fatto pervenire. Il Dott. Baudino ci indicò dove potevamo trovare le canne necessarie ad un impianto sperimentale. Purtroppo non fu un’annata favorevole sotto il profilo meteorologico e non producemmo più di venti chilogrammi. Nel 2003, l’anno successivo, ottenemmo piccoli risultati in più. A questo punto Umberto 101


Uga ed io ci convicemmo che il fagiolo di Villata non riusciva più a trovare l’habitat congeniale, vedi clima, diserbanti e quant’altro. Alla fine della terza campagna dovetti lasciare a malincuore il progetto per impegni personali, mentre Umberto Uga continuò da solo in questa impresa. Intanto, il mensile Natural tramite il suo corrispondente Gianni Gennaro ci pubblicò un pezzo dal titolo “I semi contati”, nel quale descrisse le vicende relative al recupero del fagiolo di Villata. A partire dall’anno 2005 Umberto Uga sperimentò la semina in commistione e in concomitanza con il grano turco, che fungeva da tutore e canna di sostegno al fagiolo. I risultati furono decisamente positivi, per cui Umberto Uga si convinse che questo era il sistema migliore per la coltivazione del fagiolo di Villata. La storia più recente del fagiolo di Villata (anni ’30-’50) dice che furono questi gli anni di maggior produzione di questo “scozzese gigante”; produzione che si calcola non abbia mai superato i quindici quintali annui. Ciò nonostante la nomea di questo fagiolo era abbastanza diffusa. Era venduto nei negozi “Ris e farin-a” anche nelle città di Torino e Milano, grazie alle caratteristiche organolettiche molto apprezzate. La produzione così limitata era dovuta al fatto che questo fagiolo non ha mai conosciuto la coltivazione in pieno campo, ma solo nelle “pertinenze” di ogni singolo contadino (orto, fondo aia, piccoli appezzamenti vicino alla casa). Questo probabilmente per due ragioni: la prima, perché la coltivazione di questo rampicante, richiedeva un impiego di manodopera notevole; la seconda, perché i contadini temevano che la coltivazione in aperta campagna fosse facilmente soggetta a furti. 102


Il fagiolo di Villata sta navigando sulla Sesia da 10 anni in attesa di essere coltivato nel suo habitat congeniale, e poter così esprimere le sue qualità impareggiabili (disegno di Giuseppe Rinaldi).

Si calcola che il consumo nel comune di produzione fosse di circa 200300 chilogrammi annui su un numero di circa 2500 abitanti. Il resto veniva venduto tramite qualche mediatore locale a commercianti di sementi. Il più noto tra questi era la ditta dei fratelli Lesca, che ritirava circa la metà della produzione e pagava, negli anni ’45 – ’50, circa 150 lire al chilogrammo. Dopo gli anni Sessanta, anni della grande svolta nell’agricoltura vercellese, inizia il lento inesorabile declino del fagiolo di Villata. Prende sviluppo, sempre in questo comune, la varietà borlotto, pianta a cespuglio con estese coltivazioni in campo, che consentivano impiego di mezzi e attrezzature meccaniche disponibili in quel tempo. Così il fagiolo di Villata (la fasòla), perde sempre più terreno, venendo coltivato in 103


minima parte da pochi nostalgici, tanto che negli anni Novanta il prodotto arrivò a zero. Tra quelli che non si sono mai arresi merita di essere ricordato Bellardone Francesco, detto “Cicano”. Anche grazie a lui possiamo dire che il fagiolo di Villata è stato salvato. “Grazie Cicano, grazie anche a nome di tutti i buongustai della panissa, che aspettano questi fagioli per prepararla come una volta; perchè i fagioli di Villata conferiscono una marcia in più alla panissa”. “Grazie anche all’amico Umberto Uga, che con testardaggine contadina, ma con intelligenza e costanza, si è dedicato in tutti questi anni alla coltivazione di questi fagioli, superando mille difficoltà e sacrifici. Se il fagiolo di Villata esiste anche in piccole produzioni il merito è suo”. È lui che ha constatato che, se il fagiolo di Villata avrà un futuro, potrà averlo solo se coltivato in concomitanza con il granturco, che funge da suo “tutore”. Il fagiolo di Villata attende un secondo rilancio, che mi auguro avvenga molto presto; anche perchè gli è stato preparato un logo che è lì che attende.

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LA POLENTA

Dopo aver trattato tutti gli aspetti della panissa, parliamo ora di un piatto caratteristico della vecchia cucina vercellese, la polenta. “Sarebbe ora di polenta, sì proprio lei, girata nel paiolo, con il bastone caratteristico, lungo 60 cm e liscio come una stecca da biliardo, un po’ bruciacchiato per il lungo uso che se ne è fatto”. Se vogliamo dargli il suo nome “di battesimo”, lo chiameremo pulantìn, vero termine dialettale, come lo hanno chiamato generazioni di gente di campagna. Il vocabolo non ha traduzione in lingua italiana, se non “bastone da polenta”. Nella sua forma a panettone, un po’ appiattita e molliccia, generosa e abbondante, mi richiama alla mente quelle donne dall’aspetto giunonicoprovocante. Si adatta a tanti “mangiari” ed è desiderata e apprezzata, soprattutto, in certe situazioni meteorologiche. Ecco perchè si dice “questo è tempo di polenta!”; soprattutto in quelle serate “tagliate” da sferzate di vento di tramontana con un cielo limpidissimo e un freddo cagnino, oppure in quelle serate di neve già ghiacciata e con quella leggera nebbiolina preludio della “galaverna”. L’atmosfera più indicata è, indubbiamente, quella serale …; ché a mezzogiorno é tutta un’altra cosa. La polenta è quasi un simbolo, quello della concordia, della fratellanza, della convivenza spensierata e allegra; chi non recepisce questi effetti non è di questa “ taglia”; pertanto resta fuori dal giro. La polenta di per sé non nutre un granché (acqua e farina), ma ha quel 105


potere magico di creare quasi dal nulla l’atmosfera appena descritta. Chi è ospite porti con sé un atteggiamento tra il serio e il faceto, che sarà un buon biglietto da visita. Tutta diversa dai suoi colleghi, spaghetti o risotti che siano, perchè questi, in particolare oggi, sono come delle piccole sculture, ricamati con sac à poche o spatole, ornati con gingilli vari; la polenta no! Tolta dal suo fornello di cottura (una volta era appesa alla catena nel camino), agguantando il paiolo con mano ferma e sicura, la padrona di casa la gira quasi sbattendola sul suo piatto di servizio: l’asse rotondo con il suo manico, che assomiglia ad un banjo. Una nube di vapore sale dal centro del tavolo, come una benedizione per tutti i presenti. Niente filo, che è troppo geometrico e scolastico nel dividerla: roba da collegio! No, niente filo, ma cucchiaiate che ognuno affonda come gran pizzicotti nella provocante giunonica polenta. Il cucchiaio deposita il suo carico delicatamente nella scodella piena di latte freddo, per essere stato tutta la notte appartato, in attesa di quello stato di panna spessa come un foglio di cartone e dal colore bruno rossiccio. Sarà questa panna che impreziosirà il tutto: pulenta e lat, una squisitezza! Per proseguire, la padrona di casa, che di squisitezze se ne intende parecchio, ha preparato una padellata di fegato, polmone, cuore, lombo e salsiccetta in una gran bagna di cipolle, con una punta di conserva e mezzo bicchiere di marsala secco. I bambini, che sono stati finora bravi e tranquilli, cominciano ad agitarsi, mandando occhiate fugaci al paiolo ancora caldo. Sanno che dentro c’è il loro pezzo preferito: la crosticina del fondo, una vera golosità! 106


La padrona di casa, conoscendo i loro gusti, appena rovesciata la polenta, ha provveduto a mettere nel paiolo un bel bicchiere di latte per ammorbidire quel ben di Dio. I bambini si avvicinano con cucchiaio e forchetta per staccare quel “rivestimento”, dividendoselo con qualche contestazione sulle dimensioni delle parti. Certo che la polenta ha del mistero intorno a sé. Nel suo aspetto ti appare negletta, povera e un po’ rozza, ma se le metti a fianco il compagno giusto, si trasforma subito in una gran dama, signora di altri tempi. In ultimo, la sua “leggerezza”: ti riempi fino al naso, ma dopo due ore ti senti leggero come una piuma. E ora entriamo nel campo specifico culinario. Un elenco di accompagnamenti per tanti matrimoni “d’amore”, termine di Veronelliana memoria, per indicare un abbinamento al top: • polenta e merluzzo fritto; • polenta e merluzzo con sugo di pomodoro e cipolla; • polenta e merluzzo al latte con fontina; • polenta con tutti i tipi di tome e gorgonzola; • polenta con umido di cipolle, fegato, cuore, polmone, lombo, salsiccetta; • polenta con tutti i tipi di pesce di acqua dolce fritti e tutte le preparazioni di rane; • un po’ meno, ma sempre gradevole, con costine e verze o con la ciburéa; e infine la polenta e latte (rigorosamente di montagna); • la polenta cumudà, quella con soffritto di strutto freschissimo, latte, formaggio e un po’ di pepe: è poco conosciuta ma, gradita a tutti quelli che l’assaggiano; 107


• per i bambini soprattutto, quella tagliata a fette e fritta in padella il giorno dopo e zuccherata. Viene usata anche in una esclamazione: “Oh santa polenta!â€?. A questo punto bisogna chiudere e pensare ad altro.

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UNA CELEBRAZIONE DEL RISOTTO IN BRODO D’OCA CON LE VERZE

Era abitudine in passato offrire questo piatto insieme all’altro, semplice ma tradizionale, dell’oca con le verze. Era il menu fatto preparare dal proprietario terriero al suo fittavolo quando, dopo San Martino, andava a pagare l’affitto dei terreni. Erano mazzetti di biglietti di banca che venivano estratti da quei grandi portafogli a fisarmonica e contati con estrema attenzione su quel tavolo già imbandito. Se l’annata era stata buona il pranzo si protraeva lungo in una atmosfera di giovialità e allegria con tutta la famiglia ospitante. Diversamente, sarebbe stato un pranzo amaro per il povero fittavolo. Partivano di buon mattino, quando l’alba cominciava a irrorare di luce tenue il nuovo giorno che si annunciava. I bambini imbacuccati per ripararsi delle prime brume novembrine già pregustavano con gioia questa gita in carrozza, con pranzo fuori casa, che per loro rappresentava una giornata inusuale, di evasione e spensieratezza. Davanti a loro si spalancava un nuovo giorno, ma soprattutto una nuova vita: quella di futuri coltivatori di riso; vita che ha segnato per secoli la civiltà di una terra e le sue genti. In Italia, ma soprattutto in Piemonte e Lombardia, l’allevamento dell’oca e il suo consumo ha origini antichissime: è attestato fin dal tempo ellenistico e dall’antica Roma. Ebbe il suo periodo di massimo splendore dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento.

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In questo periodo, oltre che per le carni, l’oca era allevata per il suo fine piumino, apprezzatissimo per il corredo delle spose (cuscini e materassi). L’oca in cucina trova la massima esaltazione se preparata con le verze, dell’orto possibilmente (soprattutto se sono già state brinate, risulteranno più croccanti e saporite). Il dolce della verza con la carne dolce dell’oca ci dà un accostamento perfetto, tenendo conto anche del fatto che il sapore caratteristico della verza alleggerisce il gusto un po’ grasso e impegnativo dell’oca. Un consiglio: non preparate l’oca e verze con la polenta; verrebbe compromesso tutto quanto descritto. Il risotto cucinato nel brodo d’oca con le verze segue lo stesso profilo dell’oca e verze, ma ha una “marcia in più”: il petto a pezzetti, preparato con verdure, conferisce a questo risotto sapore ed eleganza. Un risotto che tocca l’apice della cucina vercellese. Oggi viene preparato con riso superfino Carnaroli o Baldo, mentre in passato ci si accontentava di Bertone, Originario, Balilla. Un vino da abbinare a questo risotto è il dolcetto di Ovada o il dolcetto di Dogliani. Ecco la ricetta del risotto con oca e verze. (dosi per persona) INGREDIENTI PER IL BRODO: • 100 gr di oca privata del petto; • 20 gr di cipolla pulita; 20gr di carota; 10gr di sedano; • 5o gr di verza (parte bianca), sale.

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INGREDIENTI PER IL SUGO: • 3 gr di olio di semi di mais; • 20 gr di cipolla (passata al mixer), 30 gr di carota, 15 gr di sedano; • 50 gr di petto d’oca; sale. INGREDIENTI PER IL RISOTTO: • 100 gr di riso superfino; • 5 gr di olio di semi di mais, 15 gr di cipolla, 25 gr di buon vino bianco secco. PREPARAZIONE: Supponendo di preparare un risotto per 4 persone, bollite per 90-120 minuti 400 gr di oca senza il petto, in 4-5 litri di acqua in pentola scoperta. Il brodo che si ricava è sufficiente per cuocere il risotto. Bollire a parte 200 gr di verza tagliata abbastanza fine; quando sarà quasi cotta passatela nel brodo che avete liberato dall’oca giunta ormai a cottura. Portate a cottura la verza e spegnete. Per il sugo, tagliare il petto a pezzetti (200 gr per 4 persone) e unitelo a 80 gr di cipolla passata al mixer, 100 gr di carota a pezzetti e 50 gr di sedano sempre a pezzetti. Friggere il tutto in 15 gr di olio e cuocere a fuoco basso per 40-50 minuti, aggiungendo un po’ di brodo. Iniziate il risotto con un soffritto di 20 gr di olio, 60 gr di cipolla tritata. Aggiungete il riso e fatelo tostare; bagnate con il vino e fate evaporare, iniziate a brodare con il brodo di cottura dell’oca. A 5 minuti dalla fine aggiungere il sugo preparato con il petto e portate a cottura il risotto. È un risotto che richiede una buona dose di formaggio grattugiato.

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LE RANE

Per parlare di rane sotto il profilo gastronomico bisogna entrare appieno nella cucina tipica vercellese. Se, per conoscenza e tradizione, dobbiamo annoverare come piatti più consumati la panissa e il salame sotto grasso, non da meno sono da considerare le rane. Questo batrace per secoli ha sfamato generazioni di famiglie contadine, sia per la sua versatilità nell’impiego in cucina sia per l’abbondanza di questo anfibio nelle nostre risaie. A disposizione di chiunque volesse pescarle, senza la benchè minima limitazione e senza uno straccio di permesso o autorizzazione: il tutto a costo zero. In queste condizioni era ovvio che per il ceto contadino costituisse alimento primario e quasi unico per sei o sette mesi all’anno. Il consumo della rana in cucina iniziava proprio quando erano finite le scorte di frattaglie, ossa spolpate e salate, insieme a zampini e musino del maiale macellato in inverno. Solo i salami sotto grasso rimanevano ben custoditi in cantina: quasi da centellinare, nelle grandi occasioni (parenti e amici in visita) o nelle grandi fatiche dei lavori di campagna, quando le donne non avevano nemmeno il tempo di accendere il fuoco. Quando invece il lavoro concedeva un po’ di respiro, ecco entrare in cucina la rana: fritta, in frittata, in carpione (con aceto, vino, aglio e salvia), rane in guazzetto con cipolle e pomodoro, rane al verde con bietine e 113


prezzemolo; e infine il risotto con le rane in varie versioni...: una vera specialità! Tutte preparazioni che non disdegnavano affatto una gustosa polenta come accompagnamento. Certo gustosa e saporita questa polenta, perchè proveniente da coltivazione biologica: allora tutto era ecologico! Sono piatti, questi, che conferiscono alla nostra cucina sostanza e ricercatezza, eleganza nel sapore, avvolto nei profumi della memoria. Il binomio della cucina tipica vercellese, connotata soprattutto da questi piatti di rane, è semplicità e genuinità nel rispetto della natura. Queste sono le prerogative della cucina mediterranea. I professori Roberto Sindaco e Franco Andreone, studiosi di fauna selvatica, indicano 11 specie di rane conosciute nel territorio italiano. Due di queste popolano le nostre risaie: sono la rana lessona e la rana hyla. La prima è quella a chiazze verdastre, la seconda a chiazze grigie. Purtroppo bisogna ammettere che la qualità della carne delle rane di oggi non è più quella di 50 anni fa: questa è una mia considerazione personale, che deriva da più di mezzo secolo di consumo di rane preparate nelle varie ricette della cucina vercellese. Questo è dovuto all’habitat in cui vivono oggi, che non è più pulito, sano e naturale come un tempo. Quello che preoccupa maggiormente è la quantità che purtroppo è scarsa; e questo, ovviamente è la causa dei prezzi elevati. Quando correvano i tempi dell’abbondanza delle rane in cucina, il vero 114


modo per dimostrare di apprezzarle, era quello di consumarle interamente, ossicini compresi. Fin da piccoli si imparava a consumarle così; al massimo si scartavano gli ossi delle cosce (i più grossi); e chi, ospite invitato occasionalmente, nel mangiare le rane faceva il mucchietto degli ossicini sul bordo del piatto, non era considerato un buongustaio estimatore di rane. Era la stessa cosa di chi fosse stato servito di un bel pezzo di cappone bollito e fumante e si mettesse a togliere tutta la pelle. Oggi, parlando di rane di casa nostra sul piano del costume e della tradizione, si potrebbe parlare della fine di un’epoca: epoca nella quale la “capitale della rana” era considerata la piccola borgata alle porte di Vercelli, i Cappuccini. Qui, per decenni, ogni famiglia era legata al mondo della rana: dalla pesca al commercio, alle preparazioni gastronomiche, fino alla scuola della pesca con la canna, trasmessa dalle donne anziane alla giovinette. Ora i Cappuccini hanno perso questo primato. Molto intelligentemente, però, hanno salvato questo retaggio storico con la celebrazione del “rana day”. Nella prima settimana di settembre di ogni anno ai Cappuccini organizzano una sagra, dove, tra musiche, canti e pranzi, non disdegnando gare sportive e rassegne culturali di vario genere, fanno rivivere tempi passati e parte della nostra civiltà contadina. Ora i pescatori di rane sono altrove; in piccoli paesi e cascine della Baraggia, che non sono come i Cappuccini altrettanto noti, anche perchè un po’ di segretezza oggi è d’obbligo, data la difficoltà che si incontra nel reperire queste benedette rane nostrane. 115


In questa rete un po’ ovattata e misteriosa esistono almeno una decina di pescatori e pescatrici, che si fanno i loro 100-150 kg a testa ogni anno. Ciò dimostra che il problema esiste e sta tutto nella insufficiente quantità di rane pescate rispetto alla richiesta, da parte della ristorazione in particolare. Qui la legge della domanda e dell’offerta impone le sue ferree leggi come per tutti i beni di questo mondo. Il prezzo di 25 euro al kg per le rane pulite (escluse le piccole) è un prezzo appena remunerativo per chi deve stare alcune ore per pescare un kg di rane. Questo, però, è un prezzo troppo elevato per i ristoratori, che sono costretti a mettere in carta prezzi molto sostenuti, ma appena remunerativi anche per loro. Gli affezionati e golosi avventori, così, le ordinano due o tre volte all’anno, “tanto per togliersi la voglia”, come si usa dire. Questo stato di cose venne denunciato qualche anno fa da chi era sensibile al problema della tradizione gastronomica locale. Il problema venne recepito dall’Amministrazione Provinciale, che ne rilevò anche l’aspetto ambientalistico ed ecologico, nel quale la rana è un importante elemento. Così, organizzato dalla Provincia, si tenne il 29 ottobre 2004 un importante convegno nazionale dal titolo: “Le rane in risaia: tradizione, scienza e risorsa”. Scienziati, studiosi ed esperti affrontarono l’argomento sotto tutti gli aspetti. In conclusione del dibattimento vennero indicati quali potevano essere gli interventi in risaia, onde salvare ed incrementare le rane. Gli interventi suggeriti si richiamavano tutti al vecchio e tradizionale sistema di coltivazione del riso: l’aratura primaverile e non quella autunnale; la gestione delle paglie e delle stoppie lasciate sul terreno, quale 116


protezione delle rane nel periodo invernale; il sistema delle siepi ai bordi dei fossi e dei canali. Io vedo la tutela e l’incremento della rana in risaia in un modo molto semplice e chiaro, ovvero: creare delle “riserve” che non siano altro che delle risaie condotte “all’antica”: – aratura primaverile; – immersione continua senza asciutta; – eliminazione delle erbe infestanti in modo manuale, come si faceva una volta; – lasciare le stoppie dopo il raccolto in giacitura sul terreno (ottimo rifugio invernale per le rane). Bisogna ricreare l’habitat naturale congeniale alla rana.

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LA CUCINA POVERA

Una cucina “povera per poveri”, che ha cavalcato per secoli la tradizione della civiltà contadina, ma che annovera tra i suoi piatti anche preparazioni oggi apprezzate e che vengono definite “piatti dal profumo e dal sapore della memoria”, era quella che preparava il pranzo e la cena con poco e povero “materiale”, ben condito da estro e fantasia. Nella sua semplicità aveva un grande valore aggiunto: la salubrità, la naturalezza, la freschezza; e quindi sapore, profumo e sostanza. Tanta parte di questa cucina traeva le sue fonti di approvvigionamento dalla libera raccolta, dalla pesca o caccia locali. Tra le raccolte primeggiava quella delle “erbe” di campagna in primavera e quella dei funghi in autunno. Prima di entrare nei particolari di questa cucina, vorrei soffermarmi a descrivere nei dettagli certa pesca e certa caccia che veniva praticata con metodi primordiali che richiamavano gli arbori della civiltà. Nelle acque basse dei fiumi (10-20 cm), lungo le piccole rapide, era praticata la pesca con le mani, cercando di catturare i pesci che si nascondevano sotto i sassi oppure negli anfratti sotto riva. Questa pratica richiedeva una certa abilità, che pochi avevano (molto più facile quella delle rane, con le mani nelle risaie appena allagate). Un altro sistema di pesca era quello di gettare un grosso sasso sopra il sasso dove si era rintanato il pesce. Quasi sempre veniva catturato perchè rimaneva intontito o ferito. 119


La pesca primordiale più redditizia era quella della “asciutta”, che veniva praticata dopo che erano state tolte le acque nei canali, rogge e fossi di irrigazione delle risaie (agosto). I pesci dei fossi si raccoglievano sotto i ponticelli perchè lì, nella “tomba”, il fondo era sempre più basso di quello del corso dei fossi; e pertanto il maggior livello d’acqua offriva loro un rifugio per sopravvivere. L’operazione di cattura dei pesci avveniva in questo modo: veniva costruita una diga un paio di metri a monte della “tomba” con terra, sassi e rami, in modo da bloccare il piccolo rigagnolo che ancora defluiva. Stessa diga veniva costruita qualche metro a valle della “tomba”. In quel piccolo laghetto, antistante la diga a valle, si piazzavano due ragazzi muniti di ventola (ventilabro-galoscia), una specie di pala molto simile a un grosso cucchiaio (arnese usato per ammucchiare i cereali sulle aie). I ragazzi con una certa lena buttavano l’acqua oltre la diga in modo di asciugare il tratto compreso tra le due dighe. Era un lavoro molto faticoso perchè andava fatto il più velocemente possibile, in modo da lasciare i pesci “contenuti” fra le due dighe all’asciutto, prima che la diga a monte cedesse. Man mano che il livello dell’acqua si abbassava i pesci cominciavano a sguazzare e lì ci si rendeva conto se la pesca sarebbe stata abbondante o meno. Con una rete a imbuto si cominciava a catturare a monte e a valle tutto il pesce possibile; ma il grosso del pesce si raccoglieva sotto il ponte, dove l’acqua, essendo ormai alta solo 10-15 cm, permetteva ai pesci un movimento limitato. A questo punto il più coraggioso, o presunto tale, munito di colino a rete si infilava sotto il ponte, il cui tubo non era mai alto meno di 70-80 120


cm. Procedendo carponi, cercava di catturare il maggior numero di pesci possibile e, dopo aver percorso i 4-5 metri della lunghezza del ponte, usciva con l’applauso degli astanti con il retino quasi pieno. Erano circa 5 - 10 kg di pescato: meravigliosi cavedani, carpe, il persico, che per il suo alto contenuto di lische veniva sempre scartato pur avendo una carne gustosissima. C’erano, inoltre, qualche tinca, barbi e, talvolta, anche qualche piccola anguilla. La battuta di pesca era finita: si tornava a casa come trionfatori. Per quanto riguarda la spartizione del bottino, qualcuno si chiamava fuori; così i restanti portavano a casa una quantità maggiore. La volta seguente, probabilmente, le parti sarebbero state invertite, ma non vi erano mai discussioni per la spartizione. Tra i detentori del pescato c’era chi, avendo già la prenotazione da parte di qualcuno in paese, non aveva difficoltà a tramutare il tutto in un gruzzoletto. Gli altri, invece, sapendo di avere scorte di cucina e di cassa piuttosto basse portava a casa la cosiddetta fricia. Questo termine è sempre stato incerto nel suo significato; molto probabilmente voleva intendere una piccola pescata da friggere. Quel pesce, infatti, dopo essere stato pulito e lavato, veniva passato in farina di meliga macinata fine e poi fritto in padella in olio di ravizzone e accompagnato da una gran polenta. Era un mangiare ricco di sapori e profumi, che rendeva una serata felice a gente semplice e modesta. Una polenta con pesci freschi di acqua dolce fritti in padella era veramente una squisitezza. 121


Le operazioni testé descritte relative alla pesca “selvaggia” inducono a qualche considerazione e riflessione sotto l’aspetto sociologico e psicologico. Cosa poteva rappresentare per dei ragazzi di 13-14 anni se non l’evasione e l’avventura, caratterizzate dalla brama della cattura predatoria, insita nella natura dell’uomo fin dalla sua origine? Il “raccolto” dell’operazione passava in second’ordine, anche se l’utile connesso aveva la sua importanza; ma veniva dopo. Una caccia intrisa di crudeltà era l’asportazione dei piccoli dal loro nido. Si trattava soprattutto di corvi e gazze. Queste prede non avevano commercio: erano operazioni eseguite da poveracci, quando a casa si rischiava il pranzo e la cena. Richiedevano grandi arrampicate su alberi di alto fusto, prima per controllare il numero e lo stato di sviluppo; poi, nei giorni successivi, l’asportazione vera e propria. Appena arrivati a casa, la soppressione, la piumatura e tutto il resto; fino ad entrare in una padella con abbondanza di cipolla e pomodoro e l’immancabile polenta.

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LA CATTURA DEI PASSERI

Negli anni che vanno, grosso modo, dal 1930 al 1960, la civiltà contadina della risaia raggiunge il suo massimo splendore. Dopo questa data subirà un profondo cambiamento con l’avanzare del tecnicismo e della chimica, che stravolgeranno il mondo agreste del passato. Relativamente a quel periodo, si prenderà in considerazione il rapporto tra l’uomo (soprattutto i giovani) e l’avifauna, cioè tutto quello che era il mondo locale dei volatili. Questo era un rapporto che si esprimeva attraverso l’ammirazione visiva delle varie specie di uccelli per la loro forma, piumaggio, per il loro cinguettio e il loro modo di nidificare. L’incanto visivo cadeva quando subentrava la crudeltà predatoria della caccia, poiché l’estimazione e la considerazione che l’occhio ne faceva non era altrettanto supportata dal sentimento. Solo un volatile si salvava: la rondine, che era considerata quasi sacra. Ci dicevano che la rondine è un uccello mandato dal Signore; e quando si trovava una rondine morta, perchè fulminata o uccisa da rapaci, veniva seppellita nell’orto. A questo punto parleremo della cattura dei passeri. Quest’uccello, tra tutti i volatili, era quello più numeroso. Questo conviveva quasi con la gente del posto, in quanto mangiava nelle aie, negli orti, nei cortili con le galline e dormiva nei fienili: sembrava apparentemente addomesticato. 123


Per questo motivo, essendo il più presente nella vita locale, era anche il più cacciato. I sistemi di cattura dei passeri erano diversi: l’uso delle trappole, l’uso dell’asse, l’uso delle reti davanti alle gronde dei fienili, e la cattura all’interno dei magazzini di cereali. Il sistema della trappola prevedeva trappole color rame a forma di due semicerchi tenuti aperti da una astina di filo ramino che si appoggiava sotto la molla, coperta da un sottile strato dei chicchi di meliga. La trappola, ovviamente, scattava e si chiudeva catturando il passero, quando esso beccava l’esca di meliga. Il sistema dell’asse si usava in inverno dopo abbondanti nevicate. Questo prevedeva la pulitura di un paio di metri quadrati sull’aia, dove si spargeva della mondiglia e tritume di fieno per contrastare il colore della neve circostante; sopra il tutto veniva sparsa un’abbondante manciata di chicchi di meliga. Veniva piazzato un asse, delle dimensioni dello spazio preparato, tenuto inclinato da un filo che partiva dal bordo superiore e legato ad un’altra estremità ad una distanza di circa 20 metri. Una volta che i passeri venivano attirati dall’esca, il filo veniva tagliato e i volatili rimanevano bloccati sotto l’asse: dopodiché venivano raccolti dal cacciatore. La cattura con le reti veniva effettuata, sempre nel periodo invernale, dopo il crepuscolo, cioè nel momento in cui i passeri si infilavano nelle gronde dei fienili per andare a dormire. La rete era a forma rettangolare e fissata alle due estremità con dei bastoni di circa tre metri. Due cacciatori si posizionavano davanti alla gronda del fienile, uno con la rete aperta in 124


posizione di cattura, mentre il secondo batteva contro la grondaia per far uscire i passeri. Una volta usciti, il primo cacciatore chiudeva la rete e i passeri erano cosÏ catturati. Si passava poi al lavoro piÚ lungo, ovvero la spiumatura e la pulizia. Le preparazioni in cucina erano diverse. Uno dei piatti piÚ apprezzati, ottenuti con l’utilizzo dei passeri, era un delizioso risotto a base di ragÚ, ricavato dalla macinatura delle parti migliori del volatile. Venivano anche preparati fritti in padella con cipolla, oppure con un gran sugo di pomodoro cipolla e prezzemolo; naturalmente accompagnati dalla ormai immancabile polenta. Per chi voleva fare un piatto particolare, vi erano i passeri ripieni con verdure, uova e formaggio; cuciti e poi passati con un rudimentale spiedo sulla brace del camino.

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LA CUCINA POVERA DELLA RACCOLTA

Un’elencazione dei piatti di questa cucina, raggruppati secondo preparazione e consumo, potrebbe essere questa: minestre in brodo, risotti, zuppe, frittate. Caratteristica è la minestra di riso ed erbe primaverili raccolte in campagna, tra le quali : • il papavero; • il tarassaco o piscitello o bocca di leone: il tutto, in termine dialettale, pisacàn; • erba cicerbita, in dialetto laciarìn; • crespino, ovvero lacët; •

la punta degli steli volubili di piante rampicanti detti lavartìs: difficile e impegnativa la raccolta, in quanto, dovendosi raccogliere solo la punta, questa richiedeva molto tempo. Certo è che queste punte conferivano al riso in brodo un sapore e un gusto ineguagliabile;

• i germogli di ortica (più indicati per il risotto). Queste erbe trovano il loro habitat migliore nelle stoppie di grano turco. Andavano raccolte tenere, prima della piena vegetazione primaverile. Inoltre, assolutamente inadatte con la pasta, erano adattissime per frittate, oppure passate in padella come contorno.

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La cicorietta era adatta per insalate con uova lesse e acciughe. Molto preparato in inverno era il riso e cavoli (ris e vérsi) nel brodo di ossi di maiale e pancetta. Gustosissimo, anche, il riso e rape con il burro. Riso e spinaci, riso con verdure varie (cipolle, carote, sedano, porri, spinaci). Riso nel brodo di rane, un classico della vecchia cucina, leggero e sostanzioso, soprattutto per convalescenti e puerpere. La zuppa di fagioli con costine e pancetta di maiale. Tra i risotti, oltre alla panissa ovviamente, il risotto nel brodo di ossi bovini e di maiale. Al risòt di caminànt, detto così perchè veniva preparato dai viandanti girovaghi che si spostavano da una cascina all’altra, e che lo preparavano alla meglio, in aperta campagna, con un pezzetto di lardo, un po’ di verdura di campi, riso, conserva e sale. Risotti poveri, come si vede! Tutte minestre di per sé molto saporite e appetitose. Purtroppo qualche volta preparate con poco condimento; e in questi casi si diceva che la minestra era stata cundìa cun l’aria ‘d l’üs (condita con l’aria della porta). Meravigliosa la panàda, preparata con pane secco in brodo di ossi di bovino, cotta molto lentamente. Oggi si prepara con brodo di pollo, burro e con abbondante formaggio grattugiato. Tra le frittate ricordiamo quella con patate o con cipolle o con spinaci. Classica la frittata con il salam d’ula: la famosa frità rugnüsa. Finissima e gustosissima la frittata con i lavartìs già menzionati nelle minestre di riso. E il riso e latte? Quello con la zucca, o con le castagne secche o con i 128


fagioli freschi? Quest’ultimo poco conosciuto, ma molto gustoso. E poi la put, preparata con farina di semola cotta nel latte e tenuta molto morbida. Tra i secondi della cucina povera, primeggia la ciburèa, ottenuta dal quinto quarto dei volatili da cortile, che una volta era chiamata la müda. Comprendeva la testa, il collo, le ali, le zampe, il fegato e il polmone. Veniva preparata in umido con le patate e l’immancabile polenta. Meno indicate per questa preparazione le verze. Non va dimenticato il sangue dei volatili da cortile, che veniva mescolato al pane grattugiato e al formaggio con sale e pepe, e poi arrostito a fettine. Era una vera squisitezza! Un altro secondo molto apprezzato e preparato soprattutto in primavera erano i friciulìn ad patati, preparati con patate lessate al dente, tagliate a pezzetti e aggiunte a formaggio grattugiato e carne avanzata tritata e un pizzico di limone grattuggiato. Da questo impasto si ricavavano delle frittelle, fritte in olio di ravizzone o nello strutto, molto appetitose e gustose. Una rarità era la müla, che veniva preparata in occasione della macellazione del maiale. Conservata sotto grasso veniva cotta in occasione della Pasqua, servita affettata con spinaci in padella, che con la loro “dolcezza” spegnevano il saporito della müla. Ora la müla è praticamente scomparsa: viene preparata da qualche laboratorio, ma come un insaccato qualunque; la müla invece non è un insaccato, ma un “confezionato” (impasto di salame, strisce intere di carne intercostale e strisce di lingua di maiale; il tutto con sale e pepe).

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MERENDE E COLAZIONI

Una colazione eccezionale, soprattutto per gli uomini al lavoro in campagna, era il lardo tirato su dalla sua salatura. Tenerissimo, tagliato a fette, bianco un po’ rosato con la classica vena rossa, condito con un po’ di pepe: ineguagliabile. Povera, ma egualmente consumata, era la soma d’àj: si strofinava uno spicchio d’aglio su una pagnotta poi salata: semplice, ma molto appetitosa. Colazioni e merende veloci erano un semplice pomodoro dell’orto con un po’ di sale, oppure un panino con conserva, olio e sale. Poco conosciuto era il fritùn, una specie di frittella ottenuta schiacciando i fagioli lessi con un filo di olio e sale, oppure friggendo la frittella di fagioli in padella. Per i bambini molto gettonati a merenda erano i fichi secchi, quelli infilati nel loro ramoscello, oppure quelli “di lusso”, cotti al forno con una mandorla all’interno. Molto apprezzata a merenda era la polenta del giorno prima, tagliata a fette, arrostita e poi zuccherata. Molto gradite anche le fettine di zucca fritte in padella e zuccherate. Una preparazione speciale, soprattutto per i bambini, era la cosiddetta “mostarda”: si otteneva facendo bollire per molte ora gli acini di uva americana assieme a fette di mela cotogna e con molto zucchero. Qualche volta veniva preparata anche la “povera marìana”: zucchero e caffè macinato nel quale si intingeva il pane; ma non era molto gradita.

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Tra i dolci, oltre a quelli tradizionali di carnevale, il semolino dolce fritto in padella, lo zabaione (rosso d’uovo sbattuto con zucchero e marsala), la fugàsa, che era pane vecchio inzuppato nel latte, schiacciato e impastato con farina da polenta, uova e zucchero e poi cotto sulla brace. Non molto conosciuta era l’ursümà, uovo sbattuto con vino e zucchero; bevuto freddo era un ottimo corroborante durante i faticosi lavori di campagna.

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“IL PANE” “… Dacci oggi il nostro pane quotidiano” “Ti procurerai il pane col sudore della fronte” Questi due versetti, il primo di fonte evangelica, l’altro di estrazione biblica, conferiscono entrambi al pane una simbologia altamente significativa. … Dacci oggi il nostro pane quotidiano: è l’invocazione al Padre, per avere il sostentamento attraverso l’alimento basilare, insostituibile nell’alimentazione dell’uomo; ma anche la forza per poter procedere nel cammino indicato da Dio. … Ti procurerai il pane col sudore della fronte: con la cacciata dall’Eden, per l’uomo si apre il destino terreno della fatica nel lavoro; e in questa nuova legge la conquista del pane assume il valore di una possibile dignità nella “condonna” del lavoro. Provo a immaginare il pane come simbolo, bene primario, compreso tra momenti epocali che spaziano dalle origini ai tempi nostri.

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Una delle civiltà più antiche, quella degli Egizi, lo otteneva dai cereali ridotti in polvere e impastati con l’acqua, e poi cotti sul fuoco, facendo assurgere quasi a divinità questo primordiale “pane”. Nell’“Ultima Cena” Gesù, spezzando il pane e offrendolo agli Apostoli, disse: “Prendete, questo è il mio corpo…”. Ecco la simbologia: il pane diventa simbolo del sacrificio divino: è questo un momento altamente significativo per la Cristianità. La moltiplicazione dei pani e dei pesci ribadisce nel miracolo il valore del cibo quotidiano offerto da Dio: che per i cristiani, come nell’ultima cena, ha valore di pegno di fede. Nell’assalto ai forni di manzoniana memoria, il pane diventa per la folla il segno dello scandalo dell’ingiustizia, molla degli eventi di Milano in rivolta. Nelle grandi carestie medievali il pane, pur ottenuto da pestume di cereali poveri, tuttavia è l’ultimo appiglio per gli affamati disperati. Durante l’ultimo conflitto (1940-1945) il pane subisce come un “oltraggio” per quello che ha sempre significato nella storia: viene distribuito attraverso dei punti-bollini, quasi si trattasse di una lotteria o di una riffa. In mezzo a questi e altri eventi l’umanità ha vissuto la civiltà del pane, dando ad esso valore sacrale, simbolico e sociale.

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ED ORA PARLIAMO DEL PANE IN CASA NOSTRA La vecchia civiltà contadina vercellese non ha mai praticato il sistema della cottura del pane in forni domestici. Tutti in città e campagna si sono sempre serviti presso panetterie artigianali. Queste, soprattutto nei paesi, concedevano anche il credito nel periodo della monda e del taglio del riso. Erano, questi, periodi nei quali i panettieri dei paesi assumevano giovani garzoni soprattutto per la consegna del pane nelle cascine. Erano giovani robusti, volenterosi e muniti di biciclette dotate di grossi portapacchi anteriori e posteriori. Su questi venivano fissati dei cestoni ripieni di pane, che, percorrendo stradine di campagna e stretti sentieri, provvedevano a consegnare alle mondine sparse nelle cascine del territorio. Ma altrettanto faticoso era il lavoro dei panettieri, che iniziava con vere levatacce all’una o alle due del mattino. Il lavoro del bravo panettiere era difficile soprattutto perché doveva operare in ambiente sempre condizionato dalla situazione meteorologica e climatica: il vento, l’umidità dell’aria e la temperatura erano fattori che solo la grande esperienza e professionalità riuscivano a controllare. Inoltre doveva operare con un giusto rapporto tra farina, acqua e lievito, condizionati dai suddetti elementi metereologici. Il pane vercellese, fin dalla metà dell’ 800, era diviso in due categorie: il pane ottenuto con farina di grano e quello ottenuto dai cereali più poveri, in particolare prodotto con farina di mais (il cosiddetto pan mélia). Inoltre tra questi c’era il pan pistìn, ottenuto da una miscela di farina di 135


frumento e di riso. Veniva prodotto anche, seppure in quantità limitata, il pan d’biava, una miscela di farina di frumento e farina di segala. Ovviamente, siccome la differenza di prezzo tra il primo e gli altri era notevole, si formarono fin dall’inizio due fasce di consumatori: quella dei più agiati, che consumavano solo pane di frumento, e quella dei meno abbienti, che ricorrevano soprattutto al pane di meliga. Da questi ultimi il pane di frumento era consumato solo nelle grandi occasioni. Le forme classiche dell’“arte bianca” vercellese erano: – la micca, in dialetto mica* o michëta – la rosetta, in dialetto la rusëta – al grisiòt. La micca era una forma rotonda, con un taglio nelle parte superiore, che ne permetteva la lievitazione. La sua pezzatura era di circa 80/100 gr. Se prodotta in forme più piccole, circa la metà, e leggermente condita, assumeva il nome del famoso pan micòt o pan michìn. Questo era veramente un pane di lusso. La cosiddetta rosetta, prodotta in un unico formato, di circa 60-70 gr, aveva nella parte superiore, come disegnata in rilievo una rosa (stampino), con i suoi petali e la sua corolla centrale.

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Il termine mica era usato per la locuzione: vadagnèsi la mica (guadagnarsi la pagnotta, cioè di che vivere).

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Aveva la caratteristica di essere ben cotta e lievitata, tanto che aveva nell’interno una cavità più o meno estesa. Era un pane molto appetibile proprio per la sua leggerezza. La rosetta è ancora prodotta tutt’ oggi in 3 o 4 panetterie di Vercelli. Al grisiòt è una specie di banana, affusolata alle due estremità. Era prodotto in due versioni: quella secca e quella morbida; quest’ultima molto richiesta dai…delicati di dentatura, che a quei tempi erano numerosi tra gli ultracinquantenni. Un tipo di pane che ha avuto sempre un grande successo è stato il pane cosiddetto di “pasta dura”, che, come dice il termine stesso, era prodotto con un impasto diverso dal solito (più sodo). La forma più prodotta era la bèsula: una forma di pane che partiva dalla parte posteriore con una punta larga 2 cm circa, e si allargava fino a 7-8 cm per una lunghezza di 15 cm: gli ultimi 5 cm venivano rivolti all’indietro sulla forma stessa, e questa parte rivoltata assumeva una forma molto simile al mento di una persona: così, quando qualcuno aveva un mento un po’ pronunciato, si diceva: a jà ‘na bèla bèsula cul lì!”. Altra forma caratteristica era la treccia, che ha dato origine, nel dopoguerra, ai famosi “gioppini”, di produzione industriale. Un’altra forma di pasta dura erano i “groppini”, una specie di nodo incrociato. I pesi delle forme suindicate erano: la bèsula 100-120 gr, il groppino 80 gr e la treccia 50 gr. Ora il pane di pasta dura è prodotto ancora in 3 o 4 panetterie di Vercelli, ma bisogna prenotarlo. 137


Nei primi cinquant’anni del secolo scorso il pane ebbe un’importanza capitale soprattutto nell’alimentazione delle famiglie contadine. Erano anni in cui il consumo pro capite si aggirava sui 300/400 gr al giorno. Era sicuramente l’alimento primario nella nutrizione di quei tempi. Il consumo del pane iniziò, a partire dagli anni ’50, un lento inesorabile declino, dovuto soprattutto a false indicazioni dietetiche, ma anche alla vita sempre più sedentaria.

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“PANE PER QUELLI DI OLDENICO” Il fatto che sto per ricordare proviene da uno dei tanti racconti che mio padre mi fece, con dovizia di particolari, quando era in vita. Il fatto, realmente accaduto, non è fedele soltanto nei nomi dei personaggi, poiché quelli veri si sono persi nel tempo.

Correva l’anno 1885: Eusebio, Filippo, Vittore, Giovanni e Basilio, cinque baldi giovani di Oldenico, decisero di andare alla fiera di S. Mattia a Vercelli. Questa fiera si teneva a fine febbraio nella zona del Beato Amedeo, detta Campo di Marte. Come la fiera dei Santi (1° novembre), anche quella di S. Mattia era una grande esposizione di animali domestici di ogni genere: buoi, cavalli, mucche, maiali di ogni taglia. Erano manifestazioni che attiravano in città una grande moltitudine di gente delle campagne circostanti. I cinque giovani summenzionati erano dei bravi braccianti di campagna, contesi dalle grandi cascine della zona. Quell’anno, finiti i lavori autunnali della raccolta del riso, avevano trovato tutti e cinque impiego presso la ditta di Grasso Carlo-Giuseppe (mio nonno), abbattitore di piante d’alto fusto, soprattutto di pioppi, che, dopo essere stati abbattuti e selezionati, venivano venduti alle cartiere. Andare alla fiera di S. Mattia per loro era un pretesto. Non avevano nessun impegno di fare affari o acquisti: a questi avevano già provveduto i loro genitori, sicuramente più esperti, in occasione della fiera dei Santi. 141


Il loro programma era quello di andare a fare un giro nella fiera per recarsi poi in una certa trattoria che era stata loro consigliata dal fattore del Marchese Mercurino di Albano come luogo di buona cucina a prezzo contenuto. Il lavoro dell’abbattimento delle piante, durato da novembre a gennaio, aveva reso bene, in quanto, lavorando a cottimo, guadagnavano il doppio della paga normale. Intorno alle 11, 00 erano tutti e cinque assaliti da un tale appetito che, guardandosi in faccia, senza proferire parola, a passo sostenuto, presero la strada diretta alla trattoria del “Capèl vërt”, che si trovava nei pressi del passaggio a livello in zona Belvedere (allora non esisteva ancora il cavalcaferrovia). Entrarono un po’ titubanti in un ambiente già pieno di avventori di ogni genere: commercianti, mediatori, sensali, contadini, agricoltori, conducenti e facchini. Un mondo variegato e spensierato, in mezzo al quale aveva buon gioco qualche menestrello della Füria con chitarra e buona voce, e qualche venditore di stringhe e cravatte con codazzo di bambini al seguito. Appena entrati si fece loro incontro una delle tre donne addette al servizio ai tavoli e li fece accomodare in uno dei tavoli ancora liberi. L’ambiente, pur nella sua modestia, aveva un che di vezzoso. Ottima pulizia, tavoli in noce coperti da belle tovaglie a quadri rossi e bianchi, piatti e bicchieri di una certa eleganza. Una trattoria sì, ma di tutto rispetto. La donna li fece accomodare, pregandoli di attendere qualche minuto, 142


che sarebbe venuta a prendere l’ordinazione. I nostri, già prima di sedersi, avevano adocchiato un cestino di pane posto in mezzo al tavolo: pane bianco, soffice e profumato. Loro, un pane così, lo mangiavano, sì e no, tre o quattro volte all’anno; il resto era polenta e tanto pane di meliga. Non ci fu bisogno di prendere accordi, che cinque mani callose si avventarono su quei “fiocchi” profumati, e in pochi minuti il chilo circa di pane era sparito, divorato. La donna quando si recò al tavolo, notò che il pane non c’era più, ma fece finta di niente e chiese che cosa volessero ordinare. “An fiàsc ad vin” (un fiasco di vino), disse uno, e “salàm di cul bun e bundànt” (salame di quello buono e abbondante), aggiunse un altro; “cun tant pan” (con tanto pane), dissero tutti insieme. La donna arrivò con un cestino grosso il doppio del precedente, che posò sul tavolo assieme al fiasco, mentre una giovinetta la seguiva con un piatto enorme di profumatissime fette di salame. La cosa non sfuggì ai vicini di tavolo che, dandosi qualche colpetto di gomito, sorridendo meravigliati commentavano a bassa voce il grande appetito di quei giovani. Dopo pochi minuti i nostri chiamarono con un gesto la loro cameriera intenta a servire altri tavoli, e ordinarono abbondante trippa in umido, e soprattutto tanto pane. Questa volta la donna volle sapere qualcosa di più di quei giovani, e chiese loro di dove fossero, e se venivano da lontano. Filippo, il più vivace della compagnia, le rispose: “Suma d’Aunì e iùma gnì a pé fin-a Varsé” (siamo di Oldenico e siamo venuti a piedi fino a Vercelli). 143


La donna, che aveva un pronunciato accento veneto, diede l’impressione di non capire interamente la frase. Allora Basilio, il più “acculturato”, ripetè: “Siamo di Oldenico e siamo venuti a piedi e torneremo a piedi facendo in tutto 20 km”. La donna annuì, e si recò in cucina per ordinare la trippa e tanto pane, raccontando il tutto al padrone, che prese la cosa sul ridere e disse: “Adesso ci penso io”. Si mise in spalla un intero cesto di pane, di quelli che arrivavano dalla panetteria, ed entrando in sala ripeté più volte: “Pane per quelli di Oldenico!”, suscitando un coro di risate e di applausi che accompagnarono tutta la scena. Il padrone, che tutti chiamavano, per via della sua grossa mole, Carlone, avvicinò una sedia al tavolo e vi posò sopra il cestone di pane, dicendo ai cinque: “Se per caso non vi basta, di là ce n’è ancora”.

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(Illustrazione di Marco Serravalle)

1929 - Carlo Grasso (Zio Carlìn) mentre guada la Sesia da Oldenico verso Villata, per portare il pane alle famiglie di “Cascina Risi”.


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SOMMARIO

Presentazione di Giacomo Grasso ..................................................................... 5 Presentazione di Angelo Fragonara ...................................................................7 Presentazione di Gianni Mentigazzi ...................................................................11 Le origini di Vercelli ............................................................................................ 13 La cena di Torquato Tasso ospite dei Bulgaro (1578) ...................................... 17 Lista di pitansi dal disné d’la spusa .................................................................... 36 Ricetta d’la panissa dal cüsiné dal ricet ad Larisè e quella di Virginia Galante Garrone ................................................................. 39 Il pranzo al “Leon d’oro” (1901) ....................................................................... 45 La civiltà del maiale ............................................................................................ 51 La panissa Il termine “panissa” e la sua radice etimologica .............................................. 69 Al salam d’la duja o salam d’ula tra leggenda e realtà: ovvero, salamini alla vercellese conservati sotto grasso .................................91 L’impiego del fagiolo nella preparazione della panissa ................................... 99 La polenta ...................................................................................................... 105 Una celebrazione del risotto in brodo d’oca con le verze ............................ 109 Le rane ...............................................................................................................113 La cucina povera............................................................................................... 119 La cattura dei passeri ....................................................................................... 123 La cucina povera della raccolta ....................................................................... 127 Merende e colazioni ..........................................................................................131 Il pane ............................................................................................................... 133 “Pane per quelli di Oldenico!” ..........................................................................141

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