Appunti sul presente

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Novembre-Dicembre n째 38 - 2011 Numero 1, Marzo 2012


Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale

Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Appunti sul presente, Mensile culturale on line, redazione: presso associazione culturale Inschibboleth Roma Sassari, redazione on line su skype; editore: associazione Inschibboleth, via A Fusco 21 - Roma, via Carso - Sassari, mail: associazione.inschibboleth@gmail.com. Direttore Responsabile: Aldo Maria Morace. Ufficio stampa, Marco De Pascale.


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Il progetto della tecnocrazia economica di Elio Matassi

Il compleanno di Antonia Pozzi di Roberta De Monticelli

L’epoca dell’ingratitudine di Andrea Tagliapietra

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InSchibboleth si evolve. Dal nome di un periodico-forum nascono due primi impegni editoriali: una rivista a vocazione internazionale Phasis e Quaderni di InSchibboleth che ospiterà innanzi tutto ricerche e saggi di giovani studiosi. Entrambe le riviste saranno parzialmente consultabili on line e saranno presto pubblicate in supporto cartaceo, ordinabili in siti collegati, opportunamente predisposti. Il forum non sarà più al centro del sito Inschibboleth. Conserverà la periodicità mensile ma si trasforma in Appunti sul presente e sarà consultabile insieme all’archivio in un link dedicato. Conterrà non più di due o tre editoriali a fuoco su temi o questioni al centro del dibattito pubblico. In questa scelta di un maggiore distacco dall’impegno più diretto sui temi della politica pesa un certo giudizio sul presente, la conclusione di una lunga fase costituente che ha visto impegnato il maggiore partito della sinistra italiana ed europea. Quella stagione di innovazione e di coraggiosa apertura verso nuove frontiere corre il serio rischio di esaurirsi e in ogni caso sembra terminata quella fase in cui sono circolate le promesse più convincenti per la riforma della politica e delle istituzioni della Repubblica. Il sito sarà potenziato invece nei suoi contenuti multimediali, nelle sezioni, negli scambi internazionali, e si dedicherà innanzi tutto alla ricerca filosofica. La Redazione di InSchibboleth


Il progetto della tecnocrazia economica di Elio Matassi

Il governo Monti, dopo aver superato i primi tre mesi di vita, sta sempre più rivelando quali siano le sue finalità. Dal punto di vista economico, i mercati stanno reagendo piuttosto bene, lo spread si sta assestando stabilmente intorno ai 350-360 punti, un livello accettabile per i nostri conti; ovviamente sugli altri due piani, quello dello sviluppo e quello dell’equità, siamo ancora molto lontani dal conseguimento di una sia pur minimale riuscita. Il governo Monti mostra, comunque, un notevole grado di pragmatismo ed efficacia legislativa; tutto ciò di cui si è parlato per anni ed è, per così dire, rimasto sostanzialmente inattuato, sta trovando soluzioni sempre più rapide, dimostrando con grande trasparenza qual è il fine centrale di tale governo tecnocratico, ossia di non essere affatto immune da tentazioni politiche, anzi, di evidenziarne alcune che, portate a compimento, potrebbero alla fine risultare molto pericolose per lo sviluppo e il rafforzamento della sinistra e, in particolare, del Partito Democratico nello scenario nazionale.


Il passaggio che comincia a intravedersi esplicitamente sta nella trasformazione strisciante da un governo di tregua-compromesso fra forze politiche che rimangono essenzialmente eterogenee a un progetto politico complessivo che dovrebbe investire anche l’arco della prossima legislatura. Sul piano politico, due sono gli aspetti che risultano più evidenti: nel centrodestra, la spaccatura, sempre più irreversibile, tra il PdL e la Lega, che sta radicalizzando la sua anima populista e, sull’altro fronte, il centrosinistra, la divisione tra le due anime che coinvolgono la natura stessa del Partito Democratico, quella liberaldemocratica e quella riformista socialdemocratica. Divisione che sta maturando a proposito delle discussioni-implicazioni intorno alla possibilità di modificare l’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il progetto tecnocratico neocentrista, coltivato sostanzialmente dalle forze del Terzo Polo, sta pertanto realizzandosi nella costruzione di un blocco maggioritario, neocentrista, più autorevole e rappresentativo anche nei confronti delle istituzioni economiche internazionali rispetto al passato (il PdL nella configurazione tradizionale), che sia il risultato di una disgregazione dell’attuale blocco neopopulista, a destra e, a sinistra, della tendenziale ‘spaccatura’ del PD nelle due ali principali che lo compongono. Se questo progetto si realizzasse, risulterebbe devastante per la sinistra e, in particolare, per il Pd, che rinuncerebbe pregiudizialmente a rappresentare la guida della ricostruzione nazionale indispensabile. Una ricostruzione nazionale che segni anche un’effettiva redistribuzione del reddito, ormai irrinunciabile, e che recuperi, ristrutturandole compiutamente, senza lasciarle al proprio destino, sezioni del nostro apparato istituzionale pubblico, contrassegnate ormai da un fenomeno dissolutivo sempre più marcato, ossia, scuola, Università, beni culturali, sanità. Se si prende in considerazione il comparto di cui ho maggiore esperienza, l’Università, svolgendo la funzione di Direttore di un Dipartimento di filosofia da circa sei anni, non posso fare a meno di constatare che il governo Monti ha di fatto lasciata completamente inalterata la cosiddetta riforma dell’Università pubblica, che ormai è allo stremo, in particolare nel comparto rilevante dei saperi umanistici. Il primo risultato evidente di un simile processo, è stato quello della progressiva distruzione delle Facoltà di Lettere e Filosofia pubbliche, perché in realtà alla fine di questo processo, presumibilmente tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, non vi saranno più (tranne rarissime eccezioni) Dipartimenti di Filosofia nell’Università italiana, ma solo molte aggregazioni eterogenee, in linea di principio non valutabili, secondo la retorica contemporanea dell’efficienza produttivistica. Per chi, come il sottoscritto, ha avuto la possibilità di approfondire il problema e di comparare le diverse esperienze internazionali, sa perfettamente quali siano esattamente i termini del problema: i dipartimenti più prestigiosi a livello internazionale sono anche quelli più limitati sul piano quantitativo ma anche più coesi su quello qualitativo. In realtà, il disegno sotteso alla presunta riforma è quello di favorire i dipartimenti ‘professionalizzanti’, irregimentandoli in una logica puramente mercantile e di umiliare il settore dei saperi umanistici che offrono la formazione di base e il sapere critico, conducendoli a una progressiva estinzione.


Il progetto tecnocratico-neoliberista presume questa svolta anche per le altre istituzioni pubbliche: scuola, sanità,, beni culturali. Una deriva sempre più marcata nella sua irreversibilità, che era stata intuita lucidamente da uno dei nostri intellettuali più lungimiranti, Pier Paolo Paolini, il cui profilo culturale viene interpretato da un sociologo della statura di Franco Cassano nei termini seguenti: “La dinamica della liberazione cambia segno: lo sviluppo ininterrotto crea il consumismo, che sollecita sempre nuovi desideri, e la forma di cultura più funzionale a questo nuovo potere è quella che vieta di vietare, che chiede l’abolizione di tutte le interdizioni. Il soggetto più adatto a questo universo è un soggetto costantemente inappagato, una ‘macchina desiderante’, allergica alla nozione stessa di vincolo e di limite”. E ancora più avanti: “Pasolini avverte con straordinario anticipo, ben prima dell’Ottantanove, gli effetti distruttivi che questo nuovo potere comporta sulla cultura laica. Perdendo ogni tensione, essa subisce una drammatica contrazione e la sua liberazione dalla spinta escatologica coincide con la resa al nuovo ordine. Essa diventa pura grammatica dei diritti, un’algebra degli egoismi animata da una pericolosa esportazione verso l’esterno. Questo tipo di cultura, che conosce solo il pronome ‘io’, ha perso ogni respiro e regala immensi territori al ritorno della religione, regala alla Chiesa come istituzione la sovranità teorica sulla nozione di limite e su quella di senso e di valore”. Il saggio di Frano Cassano, Pier Paolo Pasolini: ossimoro di una vita, pone un problema centrale al dibattito culturale contemporaneo; è possibile conservare un’identità ‘di sinistra’ rinunciando pregiudizialmente alle nostre più grandi tradizioni, i saperi umanistici, il melodramma, i nostri beni culturali? Credo sia impossibile rinunciare a questo, perché tale rinuncia significherebbe anche il suicidio politico della sinistra. Dobbiamo essere in grado di resistere alle sirene del governo Monti, al ‘volto per bene’ del neoliberismo tecnocratico. Dobbiamo difendere con rigore ma con passione il nostro patrimonio da presunte modernizzazioni, perché, dopo il trionfo estremo del ‘disincanto’, è venuto forse il momento del ‘reincantamento’, ruolo che non può essere lasciato all’egemonia culturale della Chiesa. E’ necessario ‘reincantare’ la politica, almeno quella che aspira ancora a un progetto di sinistra e, per dare corpo a tale ambizione, è indispensabile tornare alle nostre grandi tradizioni, senza le quali sarà impossibile costruire un qualsiasi progetto convincente e vincente.


Per il compleanno di Antonia Pozzi 13 febbraio 2012 Teatro Franco Parenti di Roberta De Monticelli

Questa è una piccola lettera per te, una lettera per la festa dei tuoi cent’anni, Antonia. Voglio cominciarla coi primi versi di una tua poesia – una delle più belle: Le montagne Occupano come immense donne la sera: sul petto raccolte le mani di pietra fissan sbocchi di strade, tacendo l’infinita speranza di un ritorno.


Mute in grembo maturano figli all’assente [……] Ora a un franare di passi sulle ghiaie grandi trasalgon nelle spalle. Il cielo batte in un sussulto le sue ciglia bianche. Madri. E s’erigon nella fronte, scostano Dai vasti occhi rami delle stelle: se all’orlo estremo dell’attesa nasca un’aurora e al brullo ventre fiorisca rosai. Ecco. Se penso a te, così mi appari. Una delle mie montagne – le immense donne che tacciono una speranza infinita. Una delle madri che ho avuto, splendide, alte abbastanza da scostarsi dalla fronte i rami delle stelle – per vedere se all’orlo estremo dell’attesa nasca un’aurora…. Come lo riconosco bene, quel franare di passi sulle ghiaie. So come si cammina sui ghiaioni – gli stessi, credo, che il tuo piede ha calcato. Le stesse montagne, lo stesso mare, le stesse stelle abbiamo amato. Le cose che restano ferme, quello sono ancora lì, come le hai viste e fotografate tu. Del resto, è cambiato tutto. Eppure noi abbiamo camminato sulle stesse vie, perfino qui - lungo gli stessi marciapiedi di questa città. Ricordo una passeggiata che feci, lunga, risalendo il corso di un fiume, un povero piccolo fiume strozzato quasi alla fonte dalle condotte forzate di una grande diga – lo conoscevi bene anche tu, quel povero fiume strozzato. Volli risalire fino alla vera sorgente, che non è facile trovare, oltre l’invaso. Antonia cara, da principio mi sei apparsa così, materna e immensa come una montagna – eppure non ho mai smesso di rivolgermi a te come a una coetanea, anche se man mano che passavano gli anni tu mi parevi sempre più giovane e nuova, quanto migliori e più adatte all’ascesa le tue lunghe gambe delle mie, su per quei ghiaioni…. Nella mente mi battevano povere parole che ti avrei mandato in una lettera, quel giorno che improvvisamnentre mi sei apparsa non madre, ma sorella. Ecco: si partiva dalle bocche dell’Adda dietro l’Albergo Vecchio dove è l’imbocco delle prime estati. Salgono a balze e prati fino alle bocche dell’acqua confusa di polle solforose e di ghiacciaio. Ora sempre nascente, acqua sorella confusa vita, promessa ventura parola che resisti, impura - dove per condotta forzata grazia stravolta in furia chiami profonda ancora tibi laetitiam. A questo nata


e sviata a servire dove - sorella, vita, acqua, parola sorgi tenue, segreta. Da Boscopiano vedi la centrale selva d’alta tensione. Dov’era il fiume un rivolo lucente, acqua di neve che non toglie la sete. Dove rinasce non lo vedi ancora: guardavo in alto e mi tornò alla mente l’onesto Nicodemo. E vidi fra due abeti l’invisibile, altissimo filo di ragno luccicare al sole. Di lì sale la strada militare ai laghi di Cancano. Come nell’alto il largo scintilla la sua vita arginata alla fonte Dal basso appare prima della diga un riso che dilaga e non discende - una quiete di smalto. Non ha corso né storia oltre l’invaso ma l’alto si fa largo liquido prato in lei si sciacqua contenta fra gli spalti. No, non pare soffrire. Pare una vasta domenica d’acqua. Ma in questi anni, se il pensiero si volge a quell’età in cui anch’io potevo ancora chiamarti sorella, un’altra montagna mi si para davanti. Nera, fangosa, morta, enorme e informe. Io sono nata sull’altro versante della montagna di male e di morte, fascismo o indifferenza - che ha sepolto la tua giovinezza. Oltre le ultime balze, dove già da un pezzo era rifiorita la primavera e poi l’estate, e pareva che nessuno ricordasse neppure più che era esistita una Pasturo come la tua – con l’atroce miseria e anche la poverissima bellezza dell’anteguerra. Nascevo a una tarda, lentissima, svagata consapevolezza, lungo le strade italiane del boom, mentre la speranza vera già dava le sue dimissioni, nel rapido crescere di asfalti, ingordigie e facili fortune che chiama-


rono “miracolo italiano”, e rendeva questa Lombardia sempre più somigliante allo stato gaddiano del Serruchon, la Brianza de La cognizione del dolore…Passarono gli anni sessanta e settanta, sembravano non aver lasciato traccia. Franco Fortini, che era un vecchio ragazzo dei tuoi tempi e abitava dietro casa mia, a noi trentenni ci chiamava “i fratelli angelici”, intendendo forse prendersela a modo suo, un po’ sarcastico, col nostro supposto intimismo, fatto ormai di disimpegno civile e di prolungata cameraderie, ma senza più nemmeno le rotture e i drammi esistenziali, la sperimentazione e le sregolatezze degli anni che furono i tuoi, almeno dove ancora non era arrivata la massa di piombo e infamia dei fascismi. Lui ci rimproverava questa sonnolenta gentilezza: ma non aveva voluto vedere quanto il male si fosse fatto meschino, anche nelle nostre beneducate coscienze. Il male s’era fattobanale. Ma sotto quella coltre di piombo e di infamia cosa facevano, Antonia, i tuoi maestri? Mah, a volte li chiamano ancora “i neo-illuministi lombardi”. Ma cosa illuminavano? Mi pare di provare ancora tutto lo sconcerto e l’angoscia che sentivo io, di fronte ai tuoi compagni poi diventati piccoli maestri, ma maestri di cosa? Già tu ti sconcertavi di questo cocktail di Dostoevskij, storicismo e filosofia tragica che così a lungo avrebbe imperversato anche dopo, oh molto dopo, come se la lezione non bastasse mai. Ecco le tue parole sconcertate: “….una visione filosofica come quella di Banfi applicata alla vita di un giovane porta a spaventose conseguenze pratiche . Comprendere tutto, tutto giustificare. L’assassino, l’idiota, il santo. Ma allora anche noi possiamo farci assassini, pur di non rifiutare nessuna esperienza?” E pensare che Banfi era molto più quadrato, morale e razionale, in filosofia, dei suoi discepoli! E quelli? Basterebbe pensare alla sicumera con cui alcuni di loro sventolavano allora i loro piatti sofismi del nulla, permettendosi per di più di accusare di “disordine” te, e tu che gli davi retta, e giustificavi, pur perplessa, i loro stupidi giudizi. Tu, che nei tuoi versi fai splendere una mente limpidissima e nitida, ben più di quella dei tuoi compagni esperta di meraviglia ed esattezza nella restituzione del visibile al pensiero. Formula che qui propongo come una possibile definizione di fenomenologia. Questa resa limpida anche quando visionaria, questa esattezza nelle cose della natura e dell’anima è un esercizio, oserei dire, di attenzione pura – l’esatto contrario, stando a una delle maggiori tue coetanee che furono per me madri-montagne, Simone Weil, di quegli esercizi muscolari della volontà che Remo Cantoni consigliava alla “disordinata” Antonia. Il che fa un po’ sorridere, se si pensa alla fama di farfallone amoroso che Cantoni conservò a lungo fra le innumerevoli studentesse sfiorate dalla sua attenzione più o meno pura, non sappiamo se anche dalla sua ordinata volontà. Ma – a proposito di alcuni fra i nostri maestri - ce ne è uno che fece eccezione quanto a egolatrica volontà e sicumera nei giudizi, e anche fece eccezione quanto alla misura di scetticismo pratico, di anti-illuminismo filosofico, di Weltanschauung tragico-danzante, che imperversava in quegli anni in quell’ambiente, e di cui forse un po’ finisti per morire. E’ lo schivo e onesto Dino Formaggio, l’amico che ricevette l’ultimo dono e gli ultimi messaggi….


Nel 1971 entravo all’Università. Il primo corso e forse l’ultimo che seguii…. Poi fuggii via da milano – fu sugli scritti politici di Kant. Era Dal Pra che leggeva, quello stesso Dal Pra che aveva vissuto e scritto della Resistenza, e che così cercava di riannodare il suo passato azionista a Kant, tenendo insieme il pensiero, l’azione, l’etica – e la storia. Si poneva la questione cruciale : come rimettere nella nostra coscienza e nelle nostre mani il dovere di fare di questa terra, cioè del mondo sociale, anche un mondo morale. Quella, era la fede razionale, non quella dei dostoevskiani di allora, cara Antonia. Ma io non ne sapevo nulla, e così avrei continuato a ignorare il piccolo e sacrosanto Regno dei Fini di questo nostro bellissimo e disgraziato paese, forse per trent’anni ancora…. Tu hai fermato la tua vita intera in una sola giornata. Questa che ora leggo è la poesia tua che forse amo di più – per la sua splendida parabola – luminosa e infine quieta nella sconfitta che tutti ci attende. Alti orli ghiacciati si disfecero al mondo. Solcava enta e lieve la barca laghi d’oro, andando così noi nel sole abbracciati. Gracili reti bionde imprigionavano l’ora. E nacquero brividi; crebbero voci tristi; fischiò a sponda il dilacerarsi delle canne. Belve chiare Guardarono dal folto A lungo Il tramonto nell’acqua, andando così verso l’ombra io libera e sola per sempre.


E allora a me non resta che chiudere questa lettera già troppo lunga e risalire con te dall’ombra, augurandoti buon compleanno: con il colore più forte di tutte le tue canzoni, Antonia, checché ne dicano. Il colore dell’evidenza, del candore e del rigore, della filosofia. Il colore incolore, oltre il colore: la fonte dei colori, la loro condizione. Il sole. Lettera ad Antonia Pozzi Tonia, bambina mia, per vie di luce passano gli immortali angeli vele venti chiari pensieri, bianchi bastimenti solcando lo splendore. E’ piena estate. Così stanno i viventi in riva al mare stupefatti, un istante e sono belli come ragazzi al sole. Poi vanno via. Tonia, bambina mia, ma tu rimani anni di sole mentre tu guardi passano: e tutto venne ciò per cui pregammo anime nuove e figli e bianchi panni stesi nel sole nuove città, e pensieri grandi e lontani come i bastimenti. La sera è ancora chiara all’ancora la nave, stesi i panni sul prato ad asciugare. Ma tu rimani lì con gli immortali tuoi poveri, affamati anni di sole Tonia, bambina mia, ventisei anni.


L’epoca dell’ ingratitudine di Andrea Tagliapietra

L’ingratitudine è la bancarotta dell’economia del dono. Con una differenza, tuttavia, rispetto a quanto accade nella partita finanziaria dei debiti e crediti, che già Rousseau rimarcava: «la riconoscenza è sì un dovere a cui bisogna adempiere, ma non un diritto che si possa esigere». Anche per quanto concerne l’ingratitudine, cioè, emerge l’impossibilità di ridurre il fenomeno della donazione al mero fatto economico e alla simmetria del dare e dell’avere, ossia si palesa la difficile miscela di libertà e di obbligo che il dono contempla. Se sono libero di donare, parimenti dovrei esser libero di ringraziare e di manifestare gratitudine. Ma le cose non sono così semplici. Perché, mentre il benefattore sta all’inizio della catena del dono e può scegliere, in certa misura senza incorrere nelle accuse di insensibilità o di avarizia, se donare o no, il beneficiato non può che subirne le conseguenze. Quand’anche fosse libero di respingere il dono, non può evitare l’imbarazzo, né il rischio che il suo rifiuto venga interpretato come un atto ostile. Inol-


tre, spesso la condizione di bisogno del beneficiato non consente a quest’ultimo una concreta possibilità di scelta. Il divario incolmabile fra benefattore e destinatario del dono è stato fissato, con la consueta lucidità, da Kant, nella Metafisica dei costumi, per cui «non è possibile sdebitarsi con alcun compenso di un beneficio ricevuto, perché il beneficiato non riuscirà mai a togliere al benefattore il merito di esser stato il primo a manifestare all’altro la sua benevolenza». Allora, la difficoltà essenziale della gratitudine sta nell’accettazione, da parte del beneficiato, di uno stato di dipendenza che è tanto più pesante quanto più ingente è il valore del dono ed elevata la posizione del donatore. I potenti della Terra, del resto, hanno sempre usato graziose elargizioni di doni per esercitare la loro influenza su sudditi e cortigiani, per comprarne la deferenza e affermare la propria sovranità. Il potere assoluto finisce per corrompere assai più di quanto tiranneggi. Plutarco racconta che Alessandro Magno, avendo deciso di regalare un’intera città ad uno dei suoi ufficiali, che sembrava riluttante nel ricevere un beneficio così grande, disse « Non mi preoccupo di che cosa ti convenga accettare, ma di che cosa mi convenga dare». Se il dono del potente è un dono avvelenato, perché in realtà è strumento del suo stesso potere, allora l’ingratitudine potrebbe essere catalogata come una forma, benché tardiva e meschina, di ribellione. Vile, dal momento che essa si manifesta, assai spesso, in coincidenza con l’indebolimento o la caduta del potente, quando non si sperano benefici, né si temono rappresaglie. Del resto, sull’aspetto politico dell’ingratitudine si soffermava già Machiavelli in vari passaggi della sua opera, come nel famoso capitolo dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (libro I, cap. XXIX) che si interroga Quale sia più ingrato, o uno popolo o uno principe, nonché in un breve componimento in terzine, dedicato a Giovanni Folchi e redatto probabilmente prima del 1518. In questo poemetto l’autore del Principe osservava che il vizio dell’ingratitudine «trionfa nel core/d’ogni potente, ma più si diletta/nel cor del popul quando egli è signore». La storia, infatti, da Temistocle, che non ebbe la riconoscenza degli Ateniesi per la vittoria sui Persiani e morì in esilio, a Scipione l’Africano che, dopo aver sconfitto Annibale, arrivò a pronunciare la famosa invettiva ingrata patria non avrai le mie ossa, attesta la tendenziale irriconoscenza dei popoli verso i loro capi e condottieri. L’asimmetria tra il principe e i suoi sudditi presto o tardi dev’essere risarcita, anche al di là dei meriti e delle colpe del potente. L’ingratitudine è, per Machiavelli, un sentimento complesso, figlio d’avarizia e di sospetto, nutrito e cresciuto al seno dell’invidia. Esso trafigge il cuore degli uomini con tre frecce, che testimoniano tre gradi o forme d’ingratitudine diverse: la prima spinge a ricevere i benefici senza ricambiarli; la seconda a riceverli negando di averli ricevuti; la terza, la più odiosa, non solo non ricambia e nega, ma, se può, fa che «il suo benefattor laceri e morda». Nietzsche, citando l’arguzia di Swift, sosteneva che «gli uomini sono riconoscenti nella stessa misura in cui covano vendetta». Fatta salva la predisposizione dei rari animi nobili alla generosità e, quindi, anche alla gratitudine, c’è un sotterraneo risentimento, anzi, una percezione risentita della propria inferiorità, che, guardando alla


mano che dona, in realtà, desidera soprattutto addentarla. Per questo, consiglia il filosofo tedesco, il benefattore non dovrebbe mai dimenticare di dissimulare il suo gesto, di nasconderlo, ossia di praticare il pudore di colui che dona. Se si vuole neutralizzare il veleno del dono, suggerisce Derrida un secolo dopo Nietzsche, bisognerà pensare ad un dono paradossale, che prevede un donatore anonimo e un beneficiato per caso. Del resto, cosa sono le grandi istituzioni assistenziali nazionali e internazionali, come la Fao o l’Unicef, se non strutture donative di questo tipo? Exemplum classico dell’ingratitudine, a cui Seneca dedicherà un intero capitolo del suo De beneficiis, è Bruto. L’assassino di Cesare, secondo le voci dell’epoca, si diceva fosse addirittura suo figlio naturale e, comunque, un suo beneficiato, trasformando l’uccisione del “Padre della Patria”, ossia il tirannicidio dei congiurati delle idi di marzo, in un autentico parricidio, cioè nel cupo dramma di una doppia ingratitudine. Ma la storia umana dell’ingratitudine cresce proprio intorno ai rapporti affettivi apparentemente più naturali e spontanei, padre-figlio, madre-figlio, moglie-marito, o tra gli amanti, come narrano le vicende tragiche di Didone ed Enea, di Arianna e Teseo e di Medea e Giasone. Inoltre, il famoso detto, tratto dall’Etica nicomachea di Aristotele, per cui sono amico di Platone, ma lo sono, assai di più, della verità, esprime, nobilitandola teoreticamente con il confronto fra i due maggiori filosofi dell’antichità, l’ingratitudine che spesso caratterizza il rapporto fra allievi e maestri. Tuttavia, l’ingratitudine può essere anche il tratto distintivo di un’epoca, come insinuava, qualche anno fa, il filosofo francese Alain Finkielkraut (L’ingratitude. Conversation sur notre temps, Gallimard, Paris 1999), sostenendo che il nostro tempo è l’età ingrata della democrazia radicale, incapace dell’“arte di ereditare”. Al di là del suo ultraconservatorismo e del mancato bersaglio critico – il decennio abbondante trascorso dall’uscita del suo libro mostra che la nostra è tutt’altro che l’età della democrazia radicale, avviandosi l’epoca piuttosto verso un neototalitarismo (l’eurocrazia), per ora di velluto, ma alla lunga devastante -, Finkielkraut ci fa riflettere sul nesso molto stretto fra gratitudine e cura della memoria, nonché sul valore cognitivo e infine coscienziale che collega la “ri-conoscenza” alla responsabilità storica e al valore della trasmissione culturale. Il futurocentrismo dell’età moderna e l’assolutizzazione del presente di quella postmoderna concordano nel confinare il passato nell’inutilità accessoria di un ornamento. Eppure, facendolo, tali declinazioni collettive della temporalità non riescono a mascherare quella percezione risentita e vendicativa che, come suggeriva Nietzsche, anima il sentimento dell’ingratitudine. Certo, sembra davvero assai lontana l’autorappresentazione di quei primi moderni che si sentivano come dei nani sulle spalle di giganti. Ma anche la furia iconoclasta dei contemporanei e dei postmoderni nei confronti del passato e persino della sua stessa idea denota un persistente nanismo spirituale, un complesso irrisolto che, forse, ha la sua remota radice in quella che Blumenberg avrebbe chiamato la legittimità dell’età moderna. L’epoca dell’ingratitudine è l’età del tramonto della cultura. Non di una cultura, ma di ogni cultura. Tutte le principali questioni del


nostro tempo sembrano potersi ricondurre a un paradigma generale complessivo che è sintetizzabile come la credenza che la naturalizzazione, ossia la riduzione a dispositivi non simbolici, dell’essere umano, della sua vita sociale e della sua stessa attività espressiva, sia un fatto possibile, perseguibile e per certi versi, anzi, auspicabile. Questa naturalizzazione ha come suo corollario la rimozione della prospettiva storica, ritenuta, assieme alla dimensione sociale, un fattore di superficie e secondario, mentre la stessa attività tecnica degli esseri umani, inseparabile dalla prospettiva simbolica e collettiva, viene ridotta alle figure della produzione e dello scambio, concepite entrambe in un quadro che vede l’economia, anzi una certa idea storicamente determinata dello spazio economico, svolgere non la funzione di parte integrante, ma quella di un tutto immutabile. Non sono lontani i tempi in cui l’autocomprensione del contemporaneo descriveva la nostra epoca come quella della “fine della storia”, sintetizzando in questo slogan non tanto un dato di fatto sorto dalle rovine novecentesche del Muro di Berlino e dall’affermarsi di un’idea di globalizzazione che oggi mostra tutte le sue contraddizioni, quanto una strategia e un’interpretazione che potremmo riassumere nel programma di “farla finita con la storia” di modo che i popoli, le società e gli individui si convincano che “questo” modo di vivere è “il” modo di vivere. In una parola: per limitare, da principio prevalentemente in alcuni campi sensibili come quello della vita collettiva o dei modi e dei rapporti di produzione, la capacità delle società e degli individui di pensare e di vivere diversamente. Del resto, che la storia non sia più magistra vitae è forse uno dei sintomi dell’incapacità di ereditare che, non soltanto condanna alla ripetizione e alla smemoratezza degli errori delle generazioni passate, ma soprattutto induce a non fare mai i conti fino in fondo con l’incubo del presente e con il dovere critico di affrontarlo e di rifiutarlo, di assumersi la piena responsabilità storica che seppero esercitare quei popoli e quegli individui che ebbero il coraggio di dir di no. Infatti, come insegnava Ernst Bloch, si può ereditare anche dal presente (Eredità del nostro tempo (1935), il Saggiatore, Milano 1992). Basta saper guardare. Ma per guardare bisogna avere gli occhi ben addestrati, bisogna saper vedere attraverso la polvere sollevata, giorno dopo giorno, dal conformismo e dalla banalità quotidiana. Il presente, infatti, è spesso opaco e si rischia di capire troppo tardi che cosa abbiamo realmente davanti. Oggi, quando si parla ancora di storia, è di moda il processo sommario, soavemente persuasi che una prospettiva imbalsamata del presente permetta l’arroganza del giudizio e l’inesorabilità della sentenza definitiva. Insomma, per non tornarci più sopra, per naturalizzare anche il ricordo. Ma questo modo di guardare al passato non serve a nulla. Al limite, aiuta solo a dimenticare meglio, organizzando e istituzionalizzando “giornate della memoria” per non dover ricordare tutti i santi giorni ciò che è importante e decisivo. Invece, direbbe Bloch, bisogna saper ereditare qui e ora, perché l’eredità è qualcosa di vivo e presente che, se passa, passa con noi. Come negli anni Trenta del Novecento l’impiegato tedesco e il commerciante impoverito dalla crisi economica distoglievano lo sguardo dalla concreta realtà storica per lasciarsi inebriare dal mito dei «sas-


soni senza foresta», «rimpiazzando il pane imburrato» con il piacere di sentirsi biondi e nobili come i cavalieri teutonici delle favole, così oggi il lavoratore precario con la lettera di licenziamento sempre in tasca e il giovane assunto a tempo determinato credono, forse ancora in buona fede, nel mito della crescita infinita e dell’innovazione continua, nello Star Trek della scienza e della tecnica. Si prospetta loro, in quanto appartenenti all’indefinita categoria dei “giovani”, che ha nella disoccupazione e nell’irrilevanza economica le sole determinazioni effettive, un domani in cui dovranno cambiare lavoro spesso, vivere all’estero o lontano dai loro cari e parlare una lingua straniera. Se non li immaginate, come vuole lo spot dell’inebriamento collettivo, gironzolare in finanziera o tailleur firmato per i quartieri della City di Londra o per le strade della moda e del lusso di Parigi o di Manhattan, avrete la condizione sociale, attualissima e non certo invidiabile, dell’immigrato extracomunitario, sottopagato e costretto a vivere da solo e sradicato dai propri affetti. Magari questi cosiddetti “giovani”, funzionali all’argomentazione repressiva come i “bambini non-nati” nei dibattiti sull’aborto degli anni Settanta, si gingillano con l’i-pad comprato a rate e fabbricato dal loro avvenire di schiavi cinesi d’Europa. Essi così potranno sognare a occhi aperti, stringendo in mano l’icona in bianco e nero di Steve Jobs, che, infatti, le “offerte di lavoro” le prometteva già nel nome. D’altra parte, anche se i “giovani”, disillusi in numero sempre maggiore, non credono più al mito costruito a loro spese, non si ha la forza di pensare diversamente. Sospetto che ormai non vi siano neppure i mezzi intellettuali e morali per farlo, se si accetta senza fiatare lo scambio semantico della parola “diritto” con “privilegio” e se si continua a chiamare “riforma” (il più ambiguo dei termini del lessico politico) la progressiva abolizione dei diritti, ossia un sostanziale regresso civile. L’indignazione, di cui si fa un gran parlare per mettere un’etichetta sulle fin troppo moderate proteste contro lo scandalo del presente, è solo un sussulto nel corpo comatoso della rassegnazione. Già Nietzsche, in Al di là del bene e del male (II, § 26), diceva che nessuno mente tanto quanto l’uomo indignato, che - integriamo il detto del grande diagnosta -, è soprattutto abile nel mentire a se stesso. Egli non sa dir di no, ma soltanto urlare, come il coniuge tradito, perché non possiamo ancora dir di sì? e, quindi, continuare tutto come prima. Privi di quella che una volta si chiamava “coscienza di classe” e nel deserto europeo della rappresentanza politica, i giovani e i vecchi, disoccupati e pensionati, vanno verso il macello sociale del futuro con la stessa visione del mondo dei loro sobri e compassati pastori. Allora è forse di fronte alla superiorità e al dono del coraggio di chi, in passato, seppe dir di no, combattendo e accettando ogni rischio per il valore non negoziabile della propria dignità, che i contemporanei si vergognano e distolgono lo sguardo, ormai gonfio d’ingratitudine. Si imprigiona così l’epoca che stiamo attraversando nella più grande sterilità e grettezza simbolica, di cui la crisi materiale globale è solo il riflesso. Infatti, chi non sa ringraziare, non sa neppure donare, e il terrore della bancarotta monetaria nasconde una bancarotta già avvenuta, quella dello spirito.




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