Numero 4 (Nuova serie), Giugno 2012
Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale
Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).
Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Appunti sul presente, Mensile culturale on line, redazione: presso associazione culturale Inschibboleth Roma-Sassari, redazione on line su skype; editore: associazione Inschibboleth, via A Fusco 21 - Roma, via Carso - Sassari, mail: associazione.inschibboleth@gmail.com. Direttore Responsabile: Aldo Maria Morace. Ufficio stampa, Marco De Pascale. Numero 4, nuova serie. Prossimo numero 2 luglio 2012.
I
n d i c e
La democrazia digitale di Elio Matassi Dopo il voto di Maggio di Umberto Curi
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Lo spettro dell’antipolitica di Giovanni Invitto
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La fiducia nei partiti di Gian Piero Scanu
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InSchibboleth si evolve. Dal nome di un periodico-forum nascono due primi impegni editoriali: una rivista a vocazione internazionale Phasis e Quaderni di InSchibboleth che ospiterà innanzi tutto ricerche e saggi di giovani studiosi. Entrambe le riviste saranno parzialmente consultabili on line e saranno presto pubblicate in supporto cartaceo, ordinabili in siti collegati, opportunamente predisposti. Il forum non sarà più al centro del sito Inschibboleth. Conserverà la periodicità mensile ma si trasforma in Appunti sul presente e sarà consultabile insieme all’archivio in un link dedicato. Conterrà non più di due o tre editoriali a fuoco su temi o questioni al centro del dibattito pubblico. In questa scelta di un maggiore distacco dall’impegno più diretto sui temi della politica pesa un certo giudizio sul presente, la conclusione di una lunga fase costituente che ha visto impegnato il maggiore partito della sinistra italiana ed europea. Quella stagione di innovazione e di coraggiosa apertura verso nuove frontiere corre il serio rischio di esaurirsi e in ogni caso sembra terminata quella fase in cui sono circolate le promesse più convincenti per la riforma della politica e delle istituzioni della Repubblica. Il sito sarà potenziato invece nei suoi contenuti multimediali, nelle sezioni, negli scambi internazionali, e si dedicherà innanzi tutto alla ricerca filosofica. La Redazione di InSchibboleth
La democrazia digitale di Elio Matassi
Nell’ultima parte del suo libro, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Raffaele Simone s’interroga su quella che definisce ‘democrazia digitale’. Tutta la modernità è stata contrassegnata dal rapporto stringente che la politica ha contratto con i media. Esempi particolarmente significativi possono essere considerati i grandi regimi totalitari del Novecento, nazismo e fascismo, che, per procacciarsi consenso, utilizzarono i media del momento, la radio e il cinema; anche lo stalinismo adoperò la radio allo stesso fine, sfruttandone la capacità specifica di diffondere istantaneamente messaggi su territori di proporzioni vastissime. L’avvento della televisione ha generato addirittura quella forma di “populismo mediatico” con cui abbiamo convissuto negli ultimi vent’anni del nostro scenario nazionale. Un primo strappo decisivo a tale sistema è stato fornito dalle ultime presidenziali statunitensi, segnando il ruolo minoritario della televisione, decisivo invece per sfide di altre epoche storiche, si pensi in particolare a quella tra Kennedy e Nixon; invece, un ruolo determinante lo ha svolto il “movimentismo reticolare” nel successo di Barack Obama, per diventare poi addirittura protagonista fra il 2010 e 2012 nei Paesi arabi del Mediterraneo (Algeria, Egitto, Siria, Libia), dove l’obiettivo era in modo particolare politico. In alcuni casi, si sono raggiunti anche risultati drastici: il rovescia-
mento e la cacciata di Ben-Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto (2010 e 2011), il rovesciamento e l’eliminazione di Gheddafi in Libia (2011) e poi la progressiva destabilizzazione inflitta al regime dittatoriale di Assad in Siria (2011 e 2012). Sequenza che raggiunge il suo apice nei moti londinesi del 2011. Altre analoghe forme di manifestazioni si sono avute in Spagna, in Italia, negli Stati Uniti, tra l’agosto e la fine del 2011, fenomeno verificatosi anche in Russia, dove centinaia di migliaia di persone, per la prima volta nella storia, convocandosi per posta elettronica o telefonino, cominciarono a manifestare contro i risultati delle elezioni politiche, anche a rischio di tremende repressioni. Nello scenario nazionale, il movimentismo reticolare ha prodotto lo straordinario successo del Movimento 5 stelle alle recentissime aministrative, un successo crescente, stando agli ultimi sondaggi, che vedrebbe il movimento di Grillo attestarsi intorno al 20 per cento, diventando, dopo il Pd, il secondo Partito italiano. Il nodo della questione su cui riflettere sta proprio su questo aspetto della nostra vita politica nazionale, che non può essere ricusato, definendolo in maniera semplificatoria “antipolitica”, in quanto mette in questione tutte le mediazioni istituzionali della democrazia rappresentativa e, in primo luogo, quella della forma Partito, in una crisi sempre più irreversibile. Sul piano internazionale e nazionale, il movimentismo reticolare sembra essere la risposta più immediata, una sorta di autodifesa spontanea alla globalizzazione economica, sempre più invasiva, e alle crisi finanziarie che negli ultimi anni stanno destabilizzando tutta la zona euro e, in particolare, i Paesi mediterranei, Grecia, Spagna, Portogallo, Italia. Si tratta di un movimento d’opinione trasversale che è fondamentale interpretare e canalizzare costruttivamente per la salvezza e l’avvenire della stessa democrazia rappresentativa. È un compito storico che il Partito democratico non può più eludere, trincerandosi nel limbo di un governo tecnico, molto lontano dai problemi del Paese reale.
Dopo il voto di Maggio di Umberto Curi
Fa tenerezza Pierluigi Bersani, quando protesta contro chi parla di un collasso dell’intero sistema dei partiti, affiorato in occasione delle elezioni amministrative. Vorrebbe che non si facesse di ogni erba un fascio, e che fosse riconosciuta la “diversità” (ahi, ci risiamo!) del Pd rispetto alle altre forze politiche. Basterebbe replicare al segretario che, dati alla mano, questa presunta “diversità” non è stata riconosciuta dall’elettorato, dal quale è semmai venuta una penalizzazione talora perfino troppo severa anche per il partito erede dei Ds e della Margherita. E’ vero, infatti, che rispetto al crollo fragoroso del Pdl e alla batosta subìta dalla Lega, si potrebbe argomentare – come sempre si fa quando si vuole minimizzare il significato di una sconfitta - che il Pd ha “tenuto”. Ma sarebbe davvero esiziale per le sorti future del centrosinistra “consolarsi” per qualche amministrazione locale difesa o conquistata, dimenticando o sottovalutando il significato complessivo del voto. Un simile comportamento impedirebbe di registrare il dato fra tutti più importante e macroscopico, vale a dire la bancarotta di un sistema politico del quale il Pd è visto – e per molti aspetti con ragione - come parte integrante, e non come una anomalia. Al di là di singoli casi particolari, che sarebbe comunque opportuno analizzare con cura, il voto amministrativo testimonia infatti il compimento di una definitiva rottura fra l’elettorato e le forme e i soggetti della rappresentanza politica, quale si è espressa dal dopoguerra ad oggi. Se mettiamo insieme, come è opportuno e
necessario, la percentuale degli astenuti, mai così alta, con l’affermazione di una formazione “antisistema” ( e dunque tutt’altro che antipolitica), quale è il Movimento 5 stelle, e a questi impressionanti dati quantitativi aggiungiamo alcuni aspetti qualitativi sovente ignorati, quali ad esempio le sconfitte regolarmente riportate nelle primarie dai candidati “ufficiali” dei partiti, risulta perfino lampante il distacco dei cittadini non rispetto a questa o quella forza politica, ma al sistema in quanto tale. Ebbene, il Pd si trova al centro di un paradosso, con tutte le implicazioni problematiche o apertamente negative ad esso connesse. Da un lato, infatti, esso ha agito come alimentatore e moltiplicatore della denuncia delle malefatte del sistema, giungendo al punto da suggerirne più o meno apertamente l’irriformabilità. Dall’altro lato, non solo non ha “incassato” pressochè nulla del tracollo subìto dagli altri partiti, ma in diverse circostanze si è trovato ad essere coinvolto nel polverone delle macerie prodotte da quel crollo. Mentre il Pdl è in caduta libera pressochè ovunque, con perdite che ne riducono il peso elettorale ad un terzo o a un quarto del precedente bottino di voti, e la Lega arretra uniformemente e in maniera molto consistente, il Pd non riesce ad intercettare neppure uno dei voti liberati, confermando una vocazione – o una maledizione – minoritaria, frutto di decenni di subalternità culturale. Ma l’aspetto forse più importante, e più gravido di possibili ripercussioni future, riguarda l’immagine con la quale la formazione di Bersani è ormai da tempo identificata. Per dirla in breve, il Pd non incarna più, in nessun modo, la speranza del cambiamento. Non rappresenta il nuovo, non attira i ceti proiettati verso l’innovazione, non cattura i giovani interessati ad un futuro migliore, non catalizza le forze che puntano al progresso. E’ vissuto come parte integrante del “vecchio”, come complice delle nefandezze del sistema, come solidale alle troppe responsabilità negative di una classe politica del tutto screditata. Nello stile, nel linguaggio, nei comportamenti, il ceto politico dei democratici appare indistinguibile, rispetto a quello del Popolo della libertà o della Lega. Tutti ladri, tutti corrotti, tutti inadempienti, tutti inaffidabili, tutti ipocriti. Non importa se, in realtà, questa assimilazione faccia torto a tante brave persone, e alla quasi totalità dei militanti, che si ritrovano sotto le bandiere del Pd. Ciò che conta è che, come partito, esso non è riuscito a marcare una differenza reale nei confronti degli altri. E dunque rischia di essere travolto dal crollo del sistema che esso stesso ha auspicato. I risultati elettorali ci dicono che, allo stato dei fatti, oggi le spinte al mutamento si riconoscono nel movimento di Beppe Grillo. Non tutto, per il momento, è perduto. Ma senza qualcosa che almeno assomigli a quella “rigenerazione” invocata da Napolitano, il Pd è condannato a vedere ribadita ancora per decenni la sua marginalità politica.
Lo “spettro” dell’antipolitica di Giovanni Invitto
Uno “spettro si aggira” per l’Italia: l’antipolitica. Abbiamo sentito questa previsione di sciagura prima e, soprattutto, dopo le ultime elezioni amministrative. Non abbiamo ascoltato tale minaccia di sciagure solo dai diretti interessati, ma persino da personaggi autorevoli e di primario livello istituzionale, come il Presidente della Repubblica, già comunista. Il problema non è deprecare l’antipolitica come forma di qualunquismo, ma vedere che cosa ne genera il fenomeno. Siamo proprio convinti che non sia la classe politica a produrre in maniera automatica e immediata la reazione dell’antipolitica? Ci troviamo di fronte ad una classe che, in una fase di assoluta recessione, taglia tutto a dipendenti, lavoratori, pensionati ecc. e non taglia niente dei propri proventi e dei propri privilegi arroganti. Avete mai sentito parlare, da quando c’è questo Parlamento, di una riforma del sistema elettorale? Ci troveremo ancora nel 2013 con la nomenclatura di candidati decisi dai vertici di partito in ordine di eleggibilità? Perché andare a votare, allora? Perché, ad esempio, un assessore regionale viene incriminato e, per dargli l’immunità dall’arresto, diviene senatore, grazie alle dimissioni di un collega? Dove è la democrazia, che prima voleva dire “governo del popolo”? Chi ha creato e sta ora alimentando l’antipolitica? Alla fine degli anni Quaranta, mi si dice, i democristiani, quando e dove perdevano, definivano gli elettori “popolo bue”. La metafora era palese: il bue non ha attributi “maschili”. Ma fino a quando i politici di oggi
penseranno (o spereranno?) di avere davanti solo un popolo bue? Se qualcuno ricorda loro che “quando il popolo si desta, Dio si mette alla sua testa”, come diceva una poesia del periodo risorgimentale, molti si preoccuperebbero. Certamente Dio ha altre cose da pensare. Ma forse i “filo-politicanti” dovrebbero cominciare a fare l’esame di coscienza. ,
La fiducia nei partiti di Gian Piero Scanu*
La perdita di fiducia che vivono i partiti oggi non può essere senza significato. Non possiamo ancora cercare scuse. Il calo di credibilità che il Paese ha avuto negli ultimi anni ha obbligato i partiti ad accettare un ruolo debole, ai margini del dibattito pubblico, quasi da rendere tollerabile che essi siano in democrazia un dannoso orpello, costoso e privo di utilità. La situazione di coazione nella quale ci troviamo, con una discussione parlamentare ai minimi storici e un’iniziativa legislativa tutta in mano al governo, è l’epigono di un progressivo svuotamento di senso che i partiti stanno subendo da alcuni anni a questa parte: voti di fiducia non necessari, parlamentari non eletti dal popolo sovrano, una concezione militaristica del bipolarismo. Questi sono alcuni elementi che sicuramente non hanno contribuito alla salute pubblica. Se oggi il Partito Democratico si trova a sostenere un governo cosiddetto tecnico, è solo perché riteniamo che l’Italia non potesse continuare sulla strada del baratro in cui l’aveva condotto il berlusconismo. Oggi a sostenere il governo ci troviamo anche insieme a chi, a quel disfacimento del tessuto sociale e civile, ha partecipato. Non credendo alle facili redenzioni, è bene ricordare le motivazioni che ci hanno spinto in questa direzione, in modo tale da non confondere i dolori della cura con quelli della malattia. Tuttavia non posso considerare che sia questa l’esperienza più naturale per chi ritiene che la buona politica debba essere il baricentro che coordina e regola
la vita pubblica di una nazione. Ora, il tracollo di fiducia nei partiti è l’indicatore del fatto che un tratto distintivo si sta perdendo. Un tratto di diversità culturale e morale che deve intercorrere tra due schieramenti politici. Un tratto che se cancellato in nome della neutralità tecnica del governare allontanerà sempre più la politica dai cittadini. Premetto questo perché, malauguratamente, c’è chi auspica che un’esperienza di tipo “montiana” si verifichi anche all’indomani delle nuove elezioni politiche. E cioè, una grande coalizione come quella che attualmente sostiene il governo Monti, con la differenza, non piccola, che si avrebbe l’intenzione di sancire tale operazione attraverso le urne. E aggiungo, fare un’ammucchiata con il PDL vorrebbe dire avere la memoria troppo labile e l’animo troppo negligente. Non sarebbero pochi gli elettori che ci accuserebbero di essere troppo disinvolti; infatti dopo aver additato gli anni del governo delle destre, imputando loro il declino del paese, suonerebbe incomprensibile un’attuale intesa. Un’operazione che non sarebbe altro se non la somma di tutti gli errori dilettantistici possibili a cui si aggiunge una visione angusta dell’orizzonte d’azione politica. Non facciamo che ripeterci che viviamo un momento eccezionale, uno scenario globale mai visto prima; eppure non facciamo che ripetere gli stessi errori, gli stessi calcoli limitati. Ci continuiamo a comportare come se vivessimo un momento di ordinaria amministrazione. Invece non è così. E trattandosi di una crisi di una sistema, i rischi non vengono risparmiati a nessuno, meno che mai alla attuale classe politica. Il rischio di venir cancellati, spazzati via, è reale; non si percepisce più una qualche necessità per cui i partiti dovrebbero svolgere quella funzione assegnata dalla Costituzione. Ma proprio per questo ci dovremmo riscuotere, e dimostrare perché, a nostro avviso, una democrazia senza partiti è più povera. Diciamo pure che ci dobbiamo riguadagnare il posto, in termini di consenso e credibilità presso la società. Questi allarmanti segnali ci dovrebbero spingere a ritrovare l’orgoglio e la ragion d’essere; ci dovrebbero distogliere dall’insana idea di allearci, o peggio, confonderci con chi in una situazione di normalità non dovrebbe avere niente a chi fare con noi. Da qui alle elezioni del 2013 il Partito Democratico deve dettare l’agenda e dare l’esempio su alcuni temi di particolare interesse e sensibilità: finanziamento pubblico ai partiti e legge elettorale sono i primi argomenti di cui il PD deve essere in grado di presentare proposte di forte rottura con il passato. Ma poi sicuramente anche una visione alternativa, politica in senso vero, di uscita dalla crisi economica. Dobbiamo anche avere il coraggio di dire che certi provvedimenti li abbiamo votati più per necessità che per convinzione; dobbiamo saper dire che con un nuovo governo, legittimato dai cittadini, si dovrà cominciare una pagina nuova della storia del Paese. Se arriviamo con la testa alta, con le idee chiare e con regole certe all’appuntamento elettorale, allora potremmo evitare che forze di dubbia capacità costruttiva riscuotano un successo dettato dai soli demeriti della politica.
Invece, una grande intesa delle forze dell’arco costituzionale è solo il modo eufemistico per mascherare l’assenza di fermezza e di immaginazione politica; è il modo pigro per evitare di elaborare un proposta progressista seria ed europea. Più il tempo passa, più rischiamo di perdere questa opportunità. La prima cosa che ora bisogna dire con insistenza è che il ruolo che il PD gioca nella dinamica di questo governo non è la stessa che avrà, se sostenuto dai cittadini, in un nuovo esecutivo. Viviamo una transizione della storia politica della Repubblica; ora, nei confronti di questa transizione possiamo allungarne i tempi di incertezza e di grigiore, oppure possiamo decidere di inaugurare un’epoca nuova, sottraendoci al logorio a cui siamo sottoposti in questo momento. Senz’altro è una chiamata di responsabilità, cui dobbiamo rispondere rispolverando la distanza che ci separa dai nostri avversari, la nostra diversità; sapendo che, se questa volta falliamo, potrebbe essere la volta definitiva. * Senatore della Repubblica, PD
Recensione Nicola Comerci, I giovani nel Partito Democratico. Idee per una comunità che avanza, Mimesis, Milano, 2012. di Giuseppe Mascia
Il lavoro di Comerci può essere letto come una riflessione derivata dall’impegno politico all’interno di quella “sinistra” che ha poi contribuito a edificare il Partito Democratico, una militanza coniugata e coadiuvata dall’attività di ricerca in ambito filosofico. Tale riflessione si dipana nel tentativo di formulare alcune prospettive attraverso le quali poter contribuire a quel processo di continua comprensione e ridefinizione che il Pd parrebbe aver abbracciato fin dai suoi esordi. Il lavoro inizia proprio dalla considerazione che il Pd rappresenterebbe il punto di riferimento dell’orizzonte riformista in Italia. Tuttavia Comerci avverte subito che un certo senso di novità del partito in questione avrebbe a che fare innanzitutto con il fatto che esso «è nuovo perché non è ancora nato del tutto» (p. 13). Un laboratorio politico che porterebbe quindi con sé un insieme di difficoltà fin dalla sua origine: «non un nuovo partito ma un “partito nuovo”, è nato per essere un partito e ancora non è un partito, nato per essere democratico e ancora non è democratico» (p. 14). In tal senso la situazione che il Pd si ritroverebbe ad abitare segnerebbe il confine tra modernità e sperimentazione, tra esclusione e partecipazione, peraltro senza una identità politica che «superi la definizione» di partito di “centro-sinistra”. Il Pd infatti – afferma – evita volentieri di affrontare i grandi temi che «potrebbero dividere la pluralità delle anime» che lo compongono: oscillazioni valoriali, ambiguità decisionali, continua messa in discussione degli organismi e delle regole, rigido centralismo, ricorso continuo alla mediazione tra gruppi dirigenti. Comerci non pone solo la questione di cosa il Pd non sia, ma guarda soprattutto al tentativo di delineare cosa il Pd potrebbe essere una volta intrapresa la strada indicatagli dalla sua stessa nominazione di “partito democratico”. Nonostante un certo scetticismo iniziale, pare chiaro all’autore come il Pd sia l’unico partito che possa realmente diventare una «comunità democratica»: questo il punto di vista di una parte di quella generazione che ha assistito alla “discesa in campo” di Berlusconi, il cui operato istituzionale e morale avrebbe rappresentato il declino di tutti i capisaldi politici, morali e sociali del paese. Tesi di fondo del libro è che il Pd potrà essere un partito nuo-
vo se si presenterà come «comunità», una categoria che riscoperta e ripensata con una certa opportunità sarà da intendersi «nel segno dell’inclusione e non dell’esclusione» (p. 17). L’analisi di Comerci inizia con un commento di ciò che ha rappresentato il periodo in cui il fenomeno “Berlusconi” ha occupato la scena della politica italiana: un ventennio che «verrà ricordato per gli innumerevoli debiti che ha contratto con la politica, l’economia, la cultura, la mentalità e la storia italiana» (p. 19). Il senso a cui Comerci vuol ricondurre la propria denuncia è così dichiarato: il fenomeno “Berlusconi” «rappresenta una costante sfida al senso comune» che ha causato una mutazione per la quale la «verità non ha più a che fare con il buon senso, ma si è trasformata in consenso» (pp. 20-21). Questo dispositivo starebbe alla base della strategia di stordimento che gli elettori hanno subito, con l’esito di aver provocato uno spaesamento «culturale ed esistenziale». Spaesamento che ha diffuso ulteriormente alcuni rischiosi atteggiamenti, tra cui un acritico culto della learship e una sofferenza nei confronti delle istituzioni (pp. 23-24), non in sé ma nella loro stessa finalità. L’Italia al tempo di Berlusconi appare così come un paese disorientato, confuso, spaesato, tra illusioni mediatiche, disperazione finanziaria e crisi sociale. Detto ciò, l’idea del Pd nasce proprio dal tentativo di reagire a questa «pericolosa» curva che l’Italia sta attraversando. Ora, venendo al momento genetico, secondo Comeci, sbaglierebbe chi interpreti la nascita del Pd come un’«ennesima tappa di spostamento verso il centro degli eredi del Partito Comunista»; allo stesso tempo sarebbe un errore ricondurla a un cambiamento che prende le mosse dai “partiti di centro” (p. 37). Il Pd nascerebbe invece dall’opportunità di raccogliere e trasformare un’eredità della storia sociale italiana fondata sulla «mancanza di una espressione partitica diretta della classe borghese». Dopo il biennio che va dal 1992 al 1994, il quale ha rappresentato il definitivo crollo del sistema partitico italiano, il radicale cambio del quadro generale ha però lasciato spazi aperti per l’inserimento della borghesia nella scena politica, la quale grazie a questo nuovo assetto sembrò trovare nei partiti di centro-destra «finalmente un riferimento diretto» nell’ordine della rappresentanza istituzionale (pp. 45-46). Come è ormai noto le speranze della borghesia sarebbero state fin da subito disattese: il partito Forza Italia dimostrò subito un approccio volto a tutelare gli interessi delle grandi lobby industriali alto-borghesi, deludendo le aspettative della piccola e media borghesia. Per Comerci è in una simile direzione che il Pd dovrebbe cercare di intercettare tutte le derivate di queste vicende e assumerle come proprie in un quadro politico più ampio: «il Partito democratico costituisce l’ultima tappa di trasformazione del centrosinistra in chiave borghese» e questo in virtù proprio di una presa di coscienza tesa a creare una struttura politica capace di rispondere alle esigenze della borghesia italiana. Il Pd si troverebbe quindi in un delicato incrocio tra «innovazione e tradizione», delicato perché segnerebbe il passaggio da un semplice «nuovo partito» a un più concreto «partito nuovo». Le difficoltà che ancora oggi esso incontrerebbe infatti devono la propria consistenza alle modalità dell’atto fondativo del partito stesso: da questo punto di vista l’autore non indugia nell’indicare i problemi arrecati dalla gestione della “segreteria” da parte di Veltroni: «un
mélange confuso e indistinto che non ha permesso agli elettori di capire bene chi stessero votando» (p. 49). Un clima di indistinzione che avrebbe avuto come esito primario quello di non aver saputo indicare una linea valoriale e politica chiara. Nonostante ciò Comerci non può non rilanciare l’elemento di forza propositiva del Pd come unica «novità del panorama politico italiano» (p. 68): la scelta di affrontare “le primarie” come strumento di autoverifica e di autocomprensione si inseriscono infatti proprio in un nuovo modo di intendere la forma-partito e di quella democraticità che deve sostenerlo. Tuttavia anche questo momento aurorale, nonostante le buone intenzioni, ha espresso una anomalia: quella per la quale le candidature erano per lo più prescelte dalle segreterie delle diverse anime partitiche che componevano il Pd. Comerci riporta come esempio la richiesta a Bersani di «fare un passo indietro». Al di là di ciò la procedura inaugurata va vista come un fatto nuovo e soprattutto foriero di positività: un modo per contrastare gli effetti della “vecchia politica” si affermerebbe – per Comerci – in un «ritorno ai partiti», non nella forma in cui questi hanno costituito il recente passato, ma nella modalità di un Pd spogliato di tutte quelle distorsioni e anomalie che lo configurerebbero nell’alveo dei “normali” partiti, semplicemente partiti. L’unica via di uscita da questa impasse sarebbe quella per la quale il Pd declini la propria struttura in termini di «comunità», categoria che va ripensata e riformulata rispetto a una certa tradizione. In tal senso vi sarebbe l’opportunità di abbozzare la figura dell’«homo democraticus», che nel discorso che si sta seguendo sarebbe il portato di un orizzonte di senso che si declina e si connota come un «essere-in-comune» e un «agireinsieme-agli-altri». La rotta verso una ridefinizione dell’idea democratica come «essere-in-comune» è offerta dalla proposta filosofica di Jean-Luc Nancy: una strategia filosofica che obbliga a ripensare la “comunità” in una differenza radicale dai concetti di identità e appartenenza. Questa linea di pensiero aiuterebbe a comprendere la «comunità come ciò che consente una configurazione del senso in un ambito di circolazione continua e relazionale, sempre aperta e inclusiva» (p. 83). Una concezione etica e politica basata su una «comunione non appropriativa», in cui a essere in comune è ciò che non lo è, o meglio «ciò che accomuna nel separare: la distanza, la differenza, la diversità». Detto ciò la rivisitazione del concetto di “comunità” offrirebbe l’opportunità di orientare la dimensione politica e quindi – per Comerci – anche quella «partitica» (p. 91). La offrirebbe poiché aiuterebbe a intonare l’azione politica non secondo un logica esclusiva, bensì in una modalità aperta e inclusiva. In tal senso il «partito-comunità» sarebbe un’occasione per rimodulare il rapporto tra partecipazione e appartenenza. I plessi a cui rinvia l’idea in questione riguardano innanzitutto una «partecipazione intesa come condivisione» che sia legata in modo esclusivo al «ricorso della democrazia diretta»: nel discorso di Comerci quest’ultima rimanda alla procedura delle “primarie”, le quali sono senza dubbio uno strumento importante ma che al tempo stesso nascondono qualche rischio o pericolosa deriva ove l’elettorato non fosse messo in condizioni di «comprendere a fondo» le questioni e le dinamiche in oggetto (pp. 93-94). Alla luce di ciò non stupisce che
il discorso di Comerci a un certo punto confluisca in un tentativo di riproposizione di un ambito tematico tanto centrale quanto irto di difficoltà, quello dei «valori». L’autore dichiara che l’unica formula che il Pd dovrebbe evitare sarebbe la seguente: il valore inteso come «oggetto di processi di scelta, in relazione alle decisioni che ogni gruppo dirigente assume e decide di imporre» (p. 105). Da ciò infatti procederebbe un andamento del Pd che rappresenterebbe la negazione di quelle «conquiste ideali» che ne hanno costituito la premessa storica, ovvero «l’umanesimo» e «l’antifascismo». Umanesimo come dimensione dei diritti della persona e antifascismo come lotta al dominio e all’oppressione. Il terreno verso cui il «riferimento ai valori» dovrebbe rivolgersi è abitato così dal rispetto, dalla tutela e dalla promozione della «differenza» come luogo della razionalità e della solidarietà, del «dialogo» come principio e metodo, della «scelta» come responsabilità da assumersi, della «temporalità» come garanzia di nuove prospettive, della «costruzione» come capacità di proporre e di guidare (p. 115). In linea con la via intrapresa Comerci è persuaso che una tutela e un autentico rilancio della democrazia sarebbe possibile solo se questa fosse declinata come «inequivalenza». Una delle derive che più di altre hanno nuociuto allo sviluppo dell’idea-democratica si costituirebbe infatti nell’interpretazione «dell’uguaglianza in termini di equivalenza», ovvero quella «indistinzione propria della società di massa che ha trasformato la concezione della democrazia in uniformità indiscriminata» secondo un principio che schiaccerebbe «la differenza e la singolarità» (p. 119). Il senso e il significato del tentativo da parte dell’autore di ripensare i termini “regolativi” su cui far ripartire l’esperienza del Pd confluiscono nell’ultimo tema affrontato nel lavoro: i «giovani». Questo tema in effetti ha la forza di mostrare il problema insito non solo nel Pd, ma in tutta l’esperienza politica italiana. Nonostante nel Manifesto del valori si affermi che la “questione giovanile” debba essere avvertita come centrale, in realtà si è finora evitato di aprire una reale discussione su questo tema. La linea del Pd pertanto si sarebbe mantenuta – secondo Comerci – in uno stato di semplice e inefficace formalità. Partendo dal presupposto che la cosiddetta “rottamazione” di cui parla Renzi non possa configurarsi all’interno del paradigma comunitario finora declinato, la posizione qui affermata coglie i rischi che una frettolosa ascesa senza criteri dell’intero corpo-giovanile comporterebbe. In altre parole, Comerci vorrebbe a nostro avviso affermare un principio per il quale il rispetto di una certa storia non deve precludere altri dalla possibilità di averne una propria. In conclusione: il libro di Comerci è un lavoro che si regge su una consapevole difficoltà e concreta centralità delle questioni sollevate, il cui ripensamento dovrebbe intercettare e riguardare il “bene” del Pd che potrebbe così trovare nella propria e congenita “democraticità” un punto di svolta. Rimane aperta la speranza che questo stesso punto di svolta nel segno di un certo “bene” per il Pd possa intercettare anche il “bene” dell’Italia nella medesima modalità. Giuseppe Mascia