Numero 5 (Nuova serie), Luglio 2012
Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale
Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).
Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Appunti sul presente, Mensile culturale on line, redazione: presso associazione culturale Inschibboleth Roma-Sassari, redazione on line su skype; editore: associazione Inschibboleth, via A Fusco 21 - Roma, via Carso - Sassari, mail: associazione.inschibboleth@gmail.com. Direttore Responsabile: Aldo Maria Morace. Ufficio stampa, Marco De Pascale. Numero 5, nuova serie. Prossimo numero 2 Ottobre 2012.
I
n d i c e
Il liberalismo politico e quello economico di Elio Matassi
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Contro il popolo sovrano di Bruno Moroncini
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Sull’antisemitismo di Paolo Corsini
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InSchibboleth si evolve. Dal nome di un periodico-forum nascono due primi impegni editoriali: una rivista a vocazione internazionale Phasis e Quaderni di InSchibboleth che ospiterà innanzi tutto ricerche e saggi di giovani studiosi. Entrambe le riviste saranno parzialmente consultabili on line e saranno presto pubblicate in supporto cartaceo, ordinabili in siti collegati, opportunamente predisposti. Il forum non sarà più al centro del sito Inschibboleth. Conserverà la periodicità mensile ma si trasforma in Appunti sul presente e sarà consultabile insieme all’archivio in un link dedicato. Conterrà non più di due o tre editoriali a fuoco su temi o questioni al centro del dibattito pubblico. In questa scelta di un maggiore distacco dall’impegno più diretto sui temi della politica pesa un certo giudizio sul presente, la conclusione di una lunga fase costituente che ha visto impegnato il maggiore partito della sinistra italiana ed europea. Quella stagione di innovazione e di coraggiosa apertura verso nuove frontiere corre il serio rischio di esaurirsi e in ogni caso sembra terminata quella fase in cui sono circolate le promesse più convincenti per la riforma della politica e delle istituzioni della Repubblica. Il sito sarà potenziato invece nei suoi contenuti multimediali, nelle sezioni, negli scambi internazionali, e si dedicherà innanzi tutto alla ricerca filosofica. La Redazione di InSchibboleth
Il liberalismo politico e quello economico di Elio Matassi
Il Manifesto dei valori del Partito Democratico prende correttamente le distanze da una visione che circoscrive i suoi confini entro l’esclusivo ambito del liberalismo politico; non si può infatti sottovalutare il fatto che il liberalismo, prima di essere una dottrina politica, ha una vocazione economica, che aspira a fare del paradigma del mercato autoregolatore il modello di tutti i fatti sociali. Quello che viene definito ‘liberalismo politico’ non è null’altro se non una modalità di applicare alla vita politica principi dedotti da questa dottrina economica, che tende a restringere, limitandola il più possibile, la sfera e la funzione del politico. Il liberalismo si presenta sostanzialmente come una dottrina che si fonda su un’antropologia di stampo prettamente individualistico, in altri termini, una dottrina che poggia le sue fondamenta su una concezione dell’uomo interpretato come un essere non-sociale. In virtù di ciò non sarà più l’insieme sociale ad avere la priorità, bensì esclusivamente degli individui titolari di diritti individuali, legati l’uno all’altro da contratti razionali interessati. L’individuo viene conce-
pito come un’unità monadica puramente autoreferenziale, mentre la società, non contemplando più in alcun modo alcuna priorità ontologica, finisce col diventare una datità irriducibile cui si chiede di non contrastare le esigenze di libertà. Individuo e mercato costituiscono, dunque, le due colonne della nuova visione del mondo che si sostengono a vicenda. Con il liberalismo, aggiunge Louis Dumont in Homo hierarchicus, l’individuo diventa “quasi sacro, assoluto, nulla esiste al di sopra delle sue legittime esigenze; i suoi diritti sono limitati soltanto dagli identici diritti degli altri individui. Una monade, insomma, ed ogni gruppo umano è costituito da monadi di questo tipo senza che il problema dell’armonia tra di esse si ponga minimamente al senso comune”. Facile dedurre le conseguenze: “Ogni uomo, in quanto individuo, incarna in certo qual modo l’umanità intera, è la misura di ogni cosa (in un senso pieno del tutto nuovo). Il regno dei fini coincide con i fini legittimi di ogni uomo e così i valori si rovesciano. Ciò che si continua a chiamare ‘società’ diventa il mezzo, la vita di ciascuno è il fine. Ontologicamente la società non esiste più, è solo un dato irriducibile a cui si chiede di non contrariare le esigenze di libertà ed uguaglianza”. Nella mitologia liberale Stato e mercato sono sempre stati messi in competizione ed in opposizione, anche se è interessante osservare che in modo particolare in Francia, ma anche in Spagna, il mercato non si costituisca in alcun modo contro lo Stato nazionale, quanto piuttosto grazie ad esso. Stato e mercato nascono insieme e progrediscono allo stesso passo, con il primo che crea il secondo nello stesso momento in cui si istituisce. Uno dei pensatori più spregiudicati della contemporaneità, da iscriversi nell’area della filosofia sociale, Karl Polanyi, ha insistito molto ne La grande trasformazione sulla “natura assolutamente inedita di tale avventura nella storia del genere umano”, sull’eccezionalità piuttosto che sulla normalità della nostra organizzazione sociale, sul carattere del tutto artificioso e per nulla naturale del nostro tipo di mercato, che va molto al di là della semplice sfera economica, dettando perfino le forme e le regole della vita sociale e politica. A tale mitologia ultraindividuale si accompagna una fede cieca nel mito di un progresso incessante, che rimuove completamente quello che rappresenta la grandiosa immagine dell’Angelo di Klee nella nona tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin. Questo angelo che, come annota qualcuno molto sottilmente, “sigla il nostro secolo con un segno indelebile”, presume, sempre secondo Benjamin, “il viso rivolto al passato. Là dove a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta”. Possiamo ancora in maniera plausibile chiamarci ‘progressisti’ dopo quest’immagine suggestiva di Walter Benjamin? Possiamo credere ciecamente in un paradigma di tempo lineare-progressivo, che dal passato procede in avanti verso il domani, in una concatenazione sequenziale degli eventi puramente ottimistica, presumendo sempre e
comunque che il futuro debba essere migliore del presente? Non è forse venuto il momento storico di rinunciare a tale semplificatoria pregiudiziale con tutto ciò che essa ovviamente comporta? In ultima analisi sono due le coordinate culturali da cui congedarsi: l’atomismo individualistico ed un progressismo di maniera, vacuo e privo di qualsiasi riscontro effettivo, senza per questo cadere necessariamente nell’antimodernismo e nel pensiero ‘reazionario’. Un’autentica rivoluzione culturale che il Partito Democratico deve intraprendere in primo luogo contro alcuni dei suoi miti di riferimento filosofico-culturali; in secondo, investendo di una rivoluzione culturale di altrettanta efficacia tutto il sistema formativo primario e secondario, ancora permeato dalla pregiudiziale neoidealistica, fortemente osteggiata dalle élites intellettuali, ma largamente presente e stratificata nella forma mentis della stragrande maggioranza di coloro che sono preposti alla formazione. .
Contro il popolo sovrano di Bruno Moroncini
Continua, pur se in tono dimesso, lo scontro tutto ideologico fra politica e tecnica su cui richiamavo l’attenzione già nel mio precedente intervento su Inschibboleth. Continua la polemica che vede contrapposti un governo democraticamente eletto e legittimato dal voto popolare e un governo tecnico nominato dall’alto, fosse pure questo ‘alto’ il presidente della Repubblica come garante della costituzione, un governo di competenti che supplisce temporaneamente alle difficoltà della politica. Continua, sia a destra sia a sinistra, prendendo a pretesto la debolezza dell’Europa dominata dall’egoismo tedesco, i provvedimenti impopolari del governo tutto tasse e niente crescita, la sua sottomissione agli interessi dei mercati e della speculazione finanziaria; continua attraverso la difesa di quei ceti che non vogliono perdere i propri privilegi e il fuoco amico che gli apparati di stato preoccupati di veder ridotta o eliminata la propria fetta di potere aprono contro il loro stesso governo e soprattutto contro il suo migliore ministro, il più brillante ed estroso, il più innovativo sul piano del linguaggio e dei comportamenti, sicuramente il meno assimilabile allo stile ipocrita e sussiegoso dei politici italiani, vale a dire la signora Elsa Fornero; continua soprattutto attraverso la minaccia ripetuta a ogni istante di elezioni anticipate invocate ufficialmente dai partiti come l’unico modo democratico con cui il popolo sovrano
può legittimamente riappropriarsi di sé e della sua storia, ma volute in realtà come estremo antidoto - sui cui effetti d’altronde è più che lecito dubitare - alla propria scomparsa. D’altra parte, se proprio si voleva andare alle elezioni, bisognava farlo appena dopo la caduta di Berlusconi e prima dell’insediamento del governo Monti, non ora; ma allora come adesso la paura, il vero e proprio terrore di andare a governare la crisi, ha spinto i partiti, piuttosto che a riconoscere il vuoto che li fagocitava, ad affidarsi, come il piccolo Hans freudiano, al ’gestore della tecnica’, l’idraulico capace di sostituirgli il fapipì rotto e ormai inservibile con uno nuovo di zecca. Mai come adesso, in un’epoca di globalizzazione, di Unione Europea e di decisioni assunte da organismi internazionali non eletti, cresce l’ipocrita nostalgia per le belle sovranità nazionali di una volta, per gli stati che battevano moneta, per le banche centrali che garantivano il debito e per le politiche di welfare finanziate con la spesa pubblica, senza contare le svalutazioni fatte per sorreggere le esportazioni. Ma dietro la foglia di fico del lamento e dell’indignazione per l’espropriazione della sovranità popolare cinicamente perseguita dai sempre più fantomatici ‘poteri forti’ si nasconde solo la resistenza che ceti, classi e gruppi di pressione, espressioni della società civile o annidati nei meandri dell’amministrazione dello stato, oppongono alla perdita dei privilegi e dei vantaggi acquisiti in passato e ai quali non si intende rinunciare. Su quelle che potremmo chiamare le mitologie della democrazia, prima fra tutte quella della sovranità popolare, ha posto l’attenzione Alessandro Pizzorno in un saggio comparso sull’ultimo numero de «il Mulino» - una rivista tornata a macinare idee dopo un periodo di appannamento dovuto all’indulgere da parte della precedente direzione a un antiberlusconismo di maniera - che già dal titolo mostra il suo carattere provocatorio: In nome del popolo sovrano? Pizzorno non nasconde che lo stimolo a elaborare una riflessione sull’incompatibilità fra esercizio del voto ed efficienza dei governi gli sia venuto proprio dal «fastidio per la vaghezza, fumosità, irrilevanza del chiacchiericcio che in questi giorni ha accompagnato le vicende politiche italiane», oscillanti fra gli appelli a tornare al popolo e le difese d’ufficio del governo tecnico che è in realtà anch’esso un governo politico. Un cicaleccio che o per ignoranza o per paura, o per entrambe, non affronta le questioni centrali poste dalle democrazie moderne, dal modello cioè impostosi dappertutto in occidente solo dopo la fine della seconda guerra mondiale e che da qualche tempo mostra, nonostante il discorso ideologico dominante, la corda. Questioni che essenzialmente riguardano l’affermazione che le democrazie intese come esercizio della sovranità da parte del popolo attraverso il voto siano proprio per questo in grado di attenuare, se non di eliminare, la povertà e le disuguaglianze sociali. Dopo una divertente analisi sull’irrazionalità del voto individuale per cui, come dimostrano indagini e inchieste sociologiche, accade che elettori con preferenze presenti nei programmi dei partiti di sinistra votino a destra e viceversa, Pizzorno enuncia la sua tesi principale sul voto cosiddetto democratico: il diritto di voto viene concesso dalle élites dominanti non allo scopo di rendere più giusto ed efficiente l’esercizio del governo, ma per garantirsi la pace sociale. Il risultato delle rivoluzioni, da quelle passate come la francese dell’ ’89 a quelle
arabe dei giorni nostri, è sempre lo stesso: l’estensione del diritto di voto a tutto il popolo al solo scopo di cooptare nell’esercizio del potere quella parte del popolo che con le sue rivendicazioni ha dato inizio alla turbolenza rivoluzionaria. Per fare questa distinzione fra tutto il popolo e una parte del popolo giustamente Pizzorno rimanda al duplice significato del termine greco demos e quindi alla teoria classica della democrazia come forma di governo: per i Greci antichi il termine demos poteva riferirsi sia alla Polis, nel suo complesso di collettività politica, sia alla parte plebea della città. Il corollario di questa affermazione è, come è ovvio, che i significati del termine demos siano fra di loro contraddittori, che si escludano a vicenda; e che per questa ragione la Polis, che altro non è se non l’articolazione delle due declinazioni del demos, sia in se stessa conflittuale, sempre a un passo dalla guerra civile dichiarata. Ne discende allora che quando nella modernità la società, la Polis, viene attraversata dai nuovi conflitti aperti dall’avvento del capitalismo, le vecchie e nuove oligarchie usino l’estensione del diritto di voto a tutto il popolo come merce di scambio per evitare la stasis, la guerra civile, e per ottenere la pace. Alla lunga infatti ‘tutto il popolo’ edulcorerà, rendendole del tutto innocue, le rivendicazioni potenzialmente rivoluzionarie della ‘parte del popolo’ o del popolo come ‘parte’ (‘senza parte’ se usiamo il linguaggio di Ranciére). Questo scambio che, secondo Pizzorno, si trova a fondamento delle democrazie moderne, se assicura da un lato la neutralizzazione del conflitto, rischia di produrre dall’altro l’inefficienza del governo. Quest’ultimo infatti è indotto a «prendere decisioni che all’elettorato, o a una parte decisiva di esso, appaiono aver effetti favorevoli per il periodo delle imminenti elezioni; ma che le analisi di esperti dicono aver conseguenze dannose nel lungo periodo per la situazione economica o sociale del paese». A ben guardare è esattamente la critica che recentemente Mario Monti ha rivolto ai partiti politici italiani e alla loro miopia che li porta, in nome del consenso necessario per vincere le elezioni, a favorire gli interessi immediati dei ceti di cui vogliono essere i rappresentanti anche se ciò avviene a scapito degli interessi generali del paese. Corollario di questa affermazione è il rimprovero da sempre rivolto alla democrazia di mettere la decisione sul bene della città in mano agli incompetenti piuttosto che ai competenti (i tecnici). La conseguenza da trarre da queste e altre considerazioni è che il sistema rappresentativo delle democrazie moderne fondato sul principio della sovranità popolare esprimentesi nel voto e nel criterio maggioritario non possa che risultare deleterio per la vita delle comunità storiche: esso dovrebbe produrre situazioni di inefficienza tale da smentire anche il motivo per il quale era stato adottato, quello di garantire la pace sociale. Tuttavia ciò non è avvenuto e il sistema rappresentativo non solo prospera ma si estende trasferendosi dall’occidente al resto del mondo (almeno ci prova). La risposta di Pizzorno a questo paradosso è altrettanto sorprendente e provocatoria: «se il sistema è più o meno rimasto immutato nella sua formula rappresentativa, ciò è avvenuto perché lo Stato ha generato capacità immunitarie che riescono, pur parzialmente, a controllare le conseguenze deleterie del metodo». Come lo Stato aveva concesso il
diritto di voto per neutralizzare il conflitto potenzialmente rivoluzionario, così, una volta concessolo, ne neutralizza gli effetti ‘comunitari’, di contaminazione, di apertura all’altro chiunque esso sia (l’altro è per definizione incompetente se non peggio), ripristinando un campo decisionale sottratto alle oscillazioni del voto popolare, senza però mutare l’assetto formale delle democrazie rappresentative, anzi esaltandolo come l’unico possibile. È evidente che a questo punto la sovranità popolare svolga nient’altro che una funzione mitica. Dei dispositivi immunitari elaborati dallo stato per ovviare agli effetti deleteri della sovranità popolare Pizzorno ne indica tre: 1) il formarsi di canali di rappresentanza degli interessi alternativi a quello elettorale; rientrano in questo ambito tutte le forme di pressione esercitate direttamente sullo stato senza passare per la mediazione parlamentare: manifestazioni pubbliche, cortei, scioperi, petizioni, ma anche azioni lobbistiche, tentativi di organi dello stato di influenzare altri organi dello stato, etc. 2) La trasformazione nella natura degli obiettivi che vengono proposti nel dibattito elettorale come segno distintivo della rappresentanza: quanto più il suffragio si allarga tanto più gli obiettivi specifici di governo risultano alla maggior parte degli elettori o incomprensibili o eccessivamente settoriali con la conseguenza, tipica degli stati moderni, di spostare l’attenzione sul benessere complessivo della nazione e quindi su scopi genericamente etici o educativi o salutistici. Anche in questo caso i movimenti extra-parlamentari avranno la meglio rispetto ai partiti storici. 3) Lo spostamento dal principio di maggioranza a quello di competenza nel rapporto di collaborazione fra il cittadino e lo Stato: un esempio appariscente di questo dispositivo immunitario è rappresentato dalla proliferazione delle cosiddette ‘autorità indipendenti’ che valutano comportamenti ritenuti decisivi per la vita complessiva dello stato solamente in base al principio di competenza o come si dice adesso del ‘merito’ (un caso esemplare è l’agenzia per la valutazione del sistema universitario). Due conclusioni si possono trarre da tutte queste considerazioni. La prima è che l’opposizione fra politica e tecnica non funziona: se la politica è caratterizzata dal richiamo al popolo come a una realtà olistica dalla cui sovranità espressa attraverso il voto democratico discende la legittimazione a governare, essa è la stessa politica che, una volta vinte le elezioni, per governare effettivamente è costretta a ricorrere ai dispositivi immunitari e quindi a bypassare il parlamento come prodotto della sovranità popolare; la seconda è che l’invocazione di un ritorno al popolo contro i tecnici al governo è un trucco mitico, un raggiro: la presunta sovranità popolare non esprimerà una volontà unitaria, la volontà di tutto il popolo, ma in nome del più bieco principio di maggioranza stabilirà chi saranno i funzionari addetti a un determinato compito dell’organizzazione dello stato, quello cioè di proporre le leggi. Un atto amministrativo sarà surrettiziamente elevato a espressione della sovranità di tutti. Era già vero per Rousseau: la volontà generale, la volontà di tutti, si decide a colpi di maggioranza; e poi è chiaro che ci vogliono i tecnici perché le cose marcino. Nessun dubbio che il discorso di Pizzorno riecheggi fino a esserne quasi una copia conforme quello reazionario e aristocratico di Plato-
ne contro la democrazia contenuto nel libro VIII della Repubblica: la democrazia mette i destini della Polis nelle mani del primo venuto, dell’uno qualsiasi, dell’incompetente e dell’immorale, essa trasforma la città in un mercato e sfocia inevitabilmente nella tirannide. Ma il richiamo di Pizzorno al doppio significato del termine greco demos apre uno spiraglio: la democrazia degenera solo laddove voglia essere di tutti. Invece la democrazia è il governo di una parte o dei molti e il dominio del voto può essere corretto dal sorteggio e/o dal buon funzionamento delle assemblee. Quel che conta è liquidare la tesi borghese-moderna in base alla quale la legittimazione del governo riposa sulla sovranità popolare espressa attraverso il voto democratico: lungi dal dare vita al buon governo (tema oggetto di un saggio di Angelo Panebianco compreso nello stesso numero del Mulino e altrettanto interessante), questo metodo lascia chi deve governare in balia delle mediazioni partitico-parlamentari costringendolo poi a dover ricorrere ai dispositivi immunitari. Tanto varrebbe attribuire direttamente al voto comunitario, quindi di parte, il potere di rendere il governo immune dalle mediazioni partitico-parlamentari, piuttosto che mantenere in vita il feticcio della democrazia rappresentativa per ritrovarsi poi in balia dei governi tecnici. Che poi questa soluzione nel dibattito attuale della politica italiana si presenti sotto il nome di presidenzialismo è la cosa meno importante: quello che conta è che ci si decida a cambiare la costituzione. D’altronde, lo ricorda Pizzorno in chiusura del saggio, nel dibattito della Costituente italiana si trattò a lungo se parlare di sovranità dello Stato, di sovranità nazionale, o popolare o della legge. Se alla fine fu scelta la dizione di ‘popolo sovrano’ è perché si pensava alla funzione dei partiti. Ma oggi che, nella forma storica in cui li abbiamo conosciuti, i partiti sono scomparsi, che senso ha conservare quella formula? È tempo di rifondare la repubblica italiana non tanto contro quanto senza la volontà del popolo sovrano: fare un passo al di là e lasciarsi alle spalle il mito della sovranità del popolo.
Sull’antisemitismo di Paolo Corsini
C’è un elemento che mi ha particolarmente intrigato nel corso del nostro lavoro: il fatto, cioè, che si sia proceduti sulla base di una rigorizzazione, oserei dire scientifica, delle categorie del linguaggio che abbiamo utilizzato. E questo dato non è particolarmente diffuso nel costume politico contemporaneo che è portato, quasi naturaliter,alla banalizzazione ed alla semplificazione dei propri assunti, ad una loro volgarizzazione espressiva. In effetti nel Documento che oggi viene presentato si operano opportune distinzioni circa le categorie che vengono utilizzate, categorie quali razzismo, antiebraismo, antigiudaismo, antisemitismo, anti-israelismo, antisionismo, fino alla tematizzazione degli sviluppi più recenti e più preoccupanti del negazionismo. Così se l’anti-ebraismo greco-romano nasce dalla percezione dell’estraneità della cultura ebraica e da una situazione di separatezza – la circoncisione, le norme sui cibi, il divieto di contrarre matrimonio con i non-ebrei, la proibizione delle immagini e la non partecipazione al culto pubblico –, nel caso dell’antigiudaismo cristiano esso è imperniato sull’accusa di carnalità e “deicidio”, sulla punizione dell’esilio e sulla funzione di popolo testimone attribuita agli ebrei, su un “insegnamento del disprezzo”: un’opposizione nei confronti degli ebrei sostenuta da un’ideologia religiosa in particolar
modo diretta contro la forma assunta dall’ebraismo in epoca postbiblica, dunque un’avversione ispirata da motivazioni prevalentemente teologico-religiose [...] Si assiste, in definitiva, ad una sorta di progressivo scivolamento a motivo del quale l’antisemitismo viene a manifestarsi in una condizione storica in cui l’osservanza religiosa da parte degli ebrei non è più considerata un elemento essenziale ai fini della definizione della loro identità. Sotto questo profilo, com’è drammaticamente documentato dalla persecuzione nazista, che si prefigge la “soluzione finale” della questione ebraica, la definizione di ebreo si coniuga alla convinzione, chiaramente riconoscibile nella stigmatizzazione razzista, che la condizione di un ebreo costituisca un dato immutabile. Come ha scritto Marcel Simon “per gli antisemiti hitleriani un ebreo diventato cristiano resta ebreo, perché un ebreo è definito tale a motivo della propria razza”.Ciò che comunque va sottolineato è che l’antigiudaismo cristiano ha di fatto costituito brodo di coltura per la nascita e lo sviluppo dell’antisemitismo moderno che può essere letto, pur non trascurando i fattori di novità ed il terrificante salto di qualità che esso introduce, come una forma di secolarizzazione di tradizionali orientamenti antiebraici. […] Quanto al negazionismo nelle sue espressioni più radicali, esso non si limita alla negazione della natura “unica” del “genocidio unico” costituito dalla Shoah (valgano a questo proposito analisi e considerazioni ampiamente sviluppate da Bernard Bruneteau nel suo Il secolo dei genocidi), ma rimuove drasticamente l’esistenza stessa dello sterminio, finendo con l’avvalorare quella grande impostura che tirannie contemporanee - è il caso dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad - utilizzano a scopi politici in vista della distruzione dello Stato di Israele. Se pure credo abbia ragione David Bidussa quando, in Dopo l’ultimo testimone, scrive che la Shoah non è elemento totalmente esaustivo di decifrazione dell’identità ebraica. […] Infine i guadagni apportati dal Documento, oggetto della nostra riflessione, sotto il profilo politico. È estremamente interessante quel che la relazione conclusiva dei lavori del Comitato di indagine chiarisce in ordine ad un problema oggi dirimente, dalla cui soluzione dipendono le sorti stesse della pace, della democrazia, della coesistenza, della stabilità delle relazioni internazionali: qual’è la soglia della critica alla politica dello Stato d’Israele?[…] Resta, dunque, fissato che le critiche al Governo d’Israele, anche le più aspre, anche le più radicali, sono del tutto legittime – nel caso della condotta dell’attuale Governo d’Israele, a mio avviso, assolutamente doverose - sul piano politico e non costituiscono in alcun modo una forma di antisemitismo. Tuttavia adottare due pesi e due misure (il cosiddetto “doppio standard”), pretendendo da Israele ciò che non si chiede agli altri Stati della Comunità internazionale, utilizzare i simboli o fare ricorso ai topoi classici quali le accuse di “deicidio”, il blood libelo la teoria della cospirazione, ancora, ritenere tutti gli ebrei indistintamente responsabili in quanto collettività delle azioni di volta in volta adottate dal Governo israeliano, attribuire alla “lobby ebraica” responsabilità di eventi disastrosi, dagli attentati alle Torri Gemelle alla crisi economica in atto, tutto ciò costituisce certamente espressione di antisemitismo.[...] L’antisemitismo on line costituisce, infatti, oggi la frontiera più espo-
sta in quanto l’avvento di internet ha trasferito e amplificato a dismisura quanto prima avveniva in forma residuale e ridotta con scritte deturpanti e aggressive sui muri delle città o in pubblicazioni di nicchia, ingigantendo la possibilità di portare ad una graduale accettazione processi di demonizzazione e di disumanizzazione del popolo ebraico. Come ha osservato André Oboler nel corso della sua audizione, “il pericolo non è tanto che la gente possa leggere contenuti ispirati all’antisemitismo quanto piuttosto che sia indotta ad accettarli come punti di vista validi, come dati di fatto, ovvero come contenuti sui quali si può essere o no d’accordo, ma alla cui diffusione non è necessario opporsi”. Questo il rischio. Non c’è dubbio, dunque, che la risposta dev’essere globale e che si può ipotizzare e perseguire coerentemente un rovesciamento nell’uso dello strumento per cui il network può diventare prezioso alleato di chi pronuncia parole veritiere.