Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008
Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale Adesioni Bruno ACCARINO (Univ. di Firenze), Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Maurizio IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI (Univ. di Padova).
Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Aprile-Maggio 2009, n° 17. (Numero 18, 30 Maggio 2009) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Enrica Sanna. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.
I
N
D
I
C
E
Il PD e il ritorno al “Noi”. di ELIO MATASSI
p. 3
Federalismo ed elezioni europee di UMBERTO CURI
p. 6
Torniamo alle domande fondamentali di WALTER TOCCI
p. 8
Intervista a Gianfranco Dalmasso a cura di BACHISIO MELONI
P.
15
Oltre il berlusconismo di GIORGIO RUFFOLO
P.
20
A proposito de Il paradosso antropologico di MASSIMO ADINOLFI
P.
25
In memoria di Franco Volpi di MASSIMO DONA’
P.
29
Il PD ed il ritorno al “Noi” di Elio Matassi
La svolta epocale rappresentata dall’esplosione della crisi finanziaria è un’occasione decisiva per riflettere e per rimettere in discussione alcuni presupposti, per esempio, l’intangibilità del mercato rispetto a cui, per alcuni decenni, la sinistra europea ed, in particolare, quella italiana hanno mostrato una totale subalternità intellettuale. Sia chiaro: nessuno ed, ovviamente neppure la comunità politico-culturale che si riconosce in “In schibboleth” chiede l’eliminazione tout court del mercato. Sarebbe però opportuno per un partito riformista e di ‘sinistra’ come il Partito Democratico liberarsi dalla mitologia del mercato, dal pensarlo come valore supremo, come ispiratore della legge politica e di quella morale, come misura di tutte le cose, anche di quelle che non rientrano nel suo ambito. E, nello stesso tempo, sarebbe necessario mettere in discussione la mitologia parallela, quella dell’individuo, altra bella invenzione, altro artificio culturale, sconosciuto ai nostri simili prima dell’Iluminismo. Nelle pagine iniziali de Le parole e le cose, Michel Foucault mette addirittura in dubbio l’esistenza dell’’Uomo’, che secondo lui “non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli una semplice piega nel nostro sapere, e che sparirà non appena questo avrà trovato una nuova forma”. Figurarsi, dunque, quanta realtà possa avere l’individuo, elaborazione quasi
metafisica dell’Uomo, ma dentro i cui confini siamo orami abituati a pensarci ed a immaginarci. In poco più di due secoli, abbiamo assistito ad una specie di miracolo. Sono stati sufficienti, infatti, press’a poco duecento anni perché gli uomini e le donne dell’Occidente, opportunamente indottrinati, imparassero non solo a considerarsi “monadi tra altre monadi”, individui astratti ed isolati invece che parti di una comunità e di una società, ma si convincessero perfino che questa fosse la condizione naturale dell’essere al mondo: in principio c’era l’Io. Un Io, come osserva Todorov, “autonomo ed interessato, precedente ad ogni forma di vita sociale, una sorta di padrone di casa desideroso soltanto di arricchirsi, come se le relazioni con le persone potessero essere esattamente come quelle che ci legano agli oggetti”. Invece, come sottolinea Dumont, “la percezione di noi stessi come individui non è innata, ma appresa. In ultima analisi ci è prescritta ed imposta dalla società in cui viviamo”. D’altronde, già all’epoca in cui questa “grande trasformazione” si stava verificando, non erano stati solo i pensatori per così dire ‘reazionari’ a cercare di opporle resistenza. Per Rousseau, infatti, l’uomo è un essere che ha bisogno degli altri e la socialità è la definizione stessa della condizione umana. Secondo lo Hegel letto da Kojéve, “per essere umano è necessario essere almeno in due”. Più tardi, già nel XX secolo, Martin Buber, come osserva Valentina Pazé, dirà che il neonato entra in rapporto con il mondo ben prima di acquisire la consapevolezza di sé: la relazione, dunque, non segue l’io, ma lo precede; l’uomo diventa un io solo a contatto con un tu. E Bataille affermerà che “alla base di ogni essere esiste un principio di insufficienza”. Nella contemporaneità, Remo Bodei in Destini personali, con parole che ricordano Fernando Pessoa, dirà che “in noi c’è un conflitto tra tante individualità: l’io è propriamente un noi”, mentre perfino in biologia, da Mario Ageno a Robin Dunbar tra gli altri, si sostiene che, nell’essere umano, la posizione eretta, la grande capacità di memoria, l’autocoscienza, lo sviluppo del sistema nervoso centrale capace di produrre evoluzione culturale, devono essere messi in relazione, più che con la necessità di fabbricare strumenti o mappe mentali dell’ambiente, con la formazione di gruppi sociali. In ultima analisi, come spiegherà Todorv, “non esiste un io costituitosi in precedenza, come un capitale ricevuto in eredità che si potrebbe dilapidare distribuendolo ad altri, o rinchiudere accuratamente nel proprio retrobottega per poterne approfittare a piacimento. L’io esiste soltanto nelle sue relazioni con gli altri e grazie ad esse; intensificare lo scambio sociale significa intensificare l’io”. Non si tratta affatto di rimpiangere le società antiche, organiche, olistiche, dove i legami sociali e comunitari, se offrivano sicurezza, erano spesso anche costrittivi e liberticidi. Si tratta sol di tener presente in maniera perspicua, ancora con Todorov, che “gli uomini non vivono in società per interesse, per virtù o per un motivo esterno, quale che esso sia; lo fanno perché non esiste per loro nessun’altra forma di esistenza possibile”; si tratta di ricordare che l’esistenza, secondo una formula molto incisiva di Roberto Esposito, “non può essere declinata che alla prima persona plurale: noi siamo”. Io contro Noi, dunque. Il circuito vizioso è stato determinato dal fatto che in questi due secoli,una parte consistente della sinistra ha dimenticato di essere nata proprio per dire “Noi”, introiettando e sedimentando in profondità le mitologie dell’Io. Cosa ha dunque guadagnato la sinistra a dimenticare il Noi, a contribuire alla distruzione dei legami sociali, a mettere l’individuo sul trono del sovrano assoluto? Certamente nulla. E’ venuto il momento di recuperare la logica filosofica e politica del ‘Noi’. Questo è il grande compito che il Partito
democratico, per uscire in maniera definitiva dall’empasse in cui si trova, dovrà abbracciare. La grande sfida del Noi contro un Io astrattamente e atomisticamente concepito è anche la sfida del Partito Democratico; una logica che avrà come compito specifico soprattutto quello di riformulare le regole del mercato, travolte dalla speculazione finanziaria. Il ‘Noi’, il prevalere della logica del Noi non è una regressione o un abbandono dei presupposti della democrazia liberale. Si tratta esattamente del contrario. E’ stata la speculazione finanziaria (la visione ipertrofica dell’Io) a distruggere l’idea stesa di mercato ed a minare in maniera irreparabile l’idea stessa di democrazia. La speculazione finanziaria, il capitalismo finanziario ha distrutto alle radici una tradizione che ha il suo punto di riferimento in Smith; è pertanto necessario tornare a Smith che è probabilmente fra i più citati ed i meno letti dei maestri dell’economia del passato. Ma che lo si legga o no, egli è certamente insieme a Marx – ha ragione Giovanni Arrighi a sostenere questa tesi – uno dei più fraintesi. La sua ricezione è sempre stata accompagnata da tre mitologie: a) che sia stato un teorico ed un sostenitore della capacità di ‘autoregolazione’ del mercato; b) che sia stato un teorico ed un sostenitore del capitalismo come motore di una espansione economica ‘senza fine’; c) che sia stato un teorico ed un sostenitore del tipo di divisione del lavoro praticata nella “fabbrica di spilli” descritta nel primo capitolo della Ricchezza delle nazioni. In realtà queste tre verità presunte sono altrettante mitologie perché Smith non fu nulla di tutto ciò. Come ha autorevolmente osservato Donald Wintch, Smith definisce perfettamente le proprie intenzioni quando considera l’economia politica come “un ramo della scienza dell’uomo di stato o del legislatore” ed il suo stesso contributo come una “teoria” o insieme di “principi generali”, riguardanti le leggi ed il governo. Ben lontano dal teorizzare un mercato autoregolantesi che funzionerebbe al meglio con un apparato statuale che dovrebbe essere residuale se non addirittura inesistente, nella Ricchezza delle nazioni, così come nella Teoria dei sentimenti morali o nelle inedite Lezioni sulla giurisprudenza, Smith presuppone l’esistenza di uno Stato forte, capace di creare e riprodurre le condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso, capace di servirsene come di un efficace strumento di governo e capace di imporgli delle regole intervenendo attivamente per limitarne le conseguenze socialmente e politicamente negative. I consigli di Smith al legislatore si fondono sempre su considerazioni di carattere sociale o politico piuttosto che economico. Neppure in Smith esiste, pertanto, un interpretazione del mercato fine a se stessa, un mercato che può autoregolarsi all’infinito senza l’intervento dello Stato che fissa limiti a tale sviluppo. La critica ad un liberismo sfrenato comincia a nascere da uno dei padri fondatori dell’economia politica. Il Partito Democratico dovrà assumere il compito storico di capovolgere la linea di tendenza che ha finito per prevalere dagli inizi degli anni settanta fino ai nostri giorni, un mutamento radicale che è stato adottato dall’attuale Presidenza degli Stati Uniti a tutti i livelli e che dovrà contraddistinguere anche il programma di un partito moderno ed al contempo riformista come il Partito Democratico.
Federalismo ed elezioni europee di Umberto Curi
Negli stessi giorni in cui la Direzione nazionale del Partito Democratico varava definitivamente le liste per le prossime elezioni europee, al Senato il gruppo parlamentare dei Democratici si asteneva – e dunque più o meno esplicitamente approvava – il provvedimento legislativo che dà avvio alla realizzazione del federalismo fiscale. La contraddizione, esaltata dalla contestualità temporale fra questi due comportamenti, non potrebbe essere più evidente, fino al punto da apparire imbarazzante. Per quanto imperfetto nei temi definiti, e soprattutto ancora troppo indeterminato nei contenuti specifici, il federalismo fiscale al quale il PD ha fornito il suo avallo implica concettualmente il riconoscimento dell’originarietà dei poteri locali, e dunque rovescia il preesistente rapporto fra centro e periferia, in nome del criterio della sussidiarietà. Viceversa, la composizione delle liste per il Parlamento europeo, più vistosamente in alcune circoscrizioni (quelle del Nord-Est e del Nord-Ovest, soprattutto), ma in sostanza anche nelle tre rimanenti, obbedisce al primato del centro rispetto alla periferia. Di conseguenza, gli apparati regionali del Partito si sono visti inviare i nomi dei capilista
senza avere alcuna reale possibilità di esprimere il loro orientamento, né ancor meno di proporre candidature alternative. Il tutto, in nome di alcune opzioni che potrebbero in qualche caso essere anche ragionevoli, ma che comunque sono catapultate dall’ “alto”, in barba ad ogni pur sbandierato principio di autonomia. La contraddizione ora segnalata non è di poco conto, né lievi sono le conseguenze che da essa potrebbero scaturire. Si dimostra, infatti, in questo frangente, fino a che punto nella dirigenza dei Democratici il federalismo non sia affatto un approdo culturalmente e politicamente condiviso, ma sia piuttosto un terreno sul quale, con evidente riluttanza, ci si sente costretti a procedere per ragioni tattiche e di mera convenienza politica. Si conferma, inoltre, un punto che più volte si era affermato nel recente passato, e cioè che senza un’organizzazione federalista dello stesso Partito, l’appello a scelte politiche di taglio federalista non poteva che suonare ipocrita, dettato soltanto da circostanze contingenti. Non si può sperare, infatti, di convincere l’elettorato sulla genuinità della propria scelta di campo, in favore di un superamento del centralismo, perseverando in pratiche centralistiche nella gestione del Partito. Ma vi è, fra i molti, un aspetto che forse più di ogni altro rende pericolosa e comunque mortificante la vicenda delle candidature per le elezioni europee. Al di fuori di ogni retorica di stampo leghista, e di ogni impropria celebrazione ideologica, il principio base di un federalismo concepito senza estremismi o improvvisazioni è costituito dalla responsabilizzazione delle istanze locali, rispetto al potere centrale. Non si tratta di una scelta semplice, né immune da rischi. Ma corrisponde comunque ad una tendenza, avviatasi impetuosamente dopo la svolta dell’89, e tale da potersi considerare sostanzialmente irreversibile. Non si vede con quale coerenza lo stesso Partito possa assecondare un provvedimento legislativo che responsabilizza le istanze locali sul piano della riscossione dei tributi e dell’erogazione dei servizi pubblici essenziali, e poi nelle stesse ore confiscare quelle stesse istanze dal diritto-dovere di esprimere autonomamente una propria rappresentanza politico-parlamentare, rivendicando la supremazia del potere centrale. Con queste premesse, solo un miracolo potrà risparmiare al PD quella batosta elettorale, verso la quale un misterioso ed irrefrenabile cupio dissolvi sembra volerlo orientare.
Torniamo alle domande fondamentali di Walter Tocci*
È accaduto un fatto storico poche settimane fa nell’assemblea costituente del Pd, curiosamente sfuggito all’attenzione della pubblicistica e degli stessi protagonisti. Si è infatti consumato lo scioglimento dei Ds. La decisione era stata presa al congresso di Firenze, ma solo alla Fiera di Roma si è compiuta in modo definitivo. Se in futuro ci sarà un candidato diessino a segretario non avrà più il sostegno di tutti i diessini, ma sarà espresso da una diversa configurazione del dibattito politico nel Pd. Da quella appartenenza, inoltre, non verranno più nei prossimi anni i candidati a sindaco delle grandi città. E neppure il segretario del circolo della mitica via dei Giubbonari. Si è esaurito il ciclo di V. Veltroni e D’Alema e di tutto il ceto politico che si è formato intorno a quel dualismo, trovandosi a gestire una cosa non da poco come la transizione postcomunista. Quella generazione ha molti meriti: ha portato la sinistra per la prima volta al governo; ha realizzato l’ingresso in Europa; ha assicurato buona amministrazione nel Paese e nei territori. Risultati strabilianti rispetto alle difficoltà di oggi. Però quel ceto politico, di cui anche il sottoscritto fa parte, porta la responsabilità di non aver mai affrontato la sostanza della crisi della sinistra
italiana, di aver sempre aggirato il problema riconducendolo alla fondazione di un nuovo partito – le varie cose uno, due – fino a portare tale crisi in dote al Pd. Nato per espandersi verso il centro, questo partito ha sfondato nell’elettorato di sinistra con l’illusione del voto utile, senza poi avere la capacità di mantenere quei consensi proprio perché il suo motore di sinistra era inceppato da tempo. Franceschini lo ha capito meglio dei dirigenti ex diessini e questo porta un vantaggio all’intero Pd. Rimane insoluto l’altro lato del problema di un ampliamento dei consensi nell’area moderata e spoliticizzata, senza il quale la vocazione maggioritaria rimarrà un flatus vocis vocis. Lo scioglimento dei Ds elimina un equivoco e rende più chiara la questione. Infatti, quel partito portava già in sé la contraddizione tra una dichiarata identità di sinistra e la difficoltà nel corrisponderla nei fatti: era una formazione di scarso peso elettorale, a insediamento prevalentemente regionale, con un debole radicamento sociale, tutti caratteri sottodimensionati rispetto alla storia e alla potenzialità della sinistra italiana. D’altronde, non è più entusiasmante il bilancio di coloro che erano partiti per un’orgogliosa rifondazione per poi approdare a confusi cartelli elettorali senza rappresentanza. Lo scioglimento dei Ds facilita la fondazione del Pd. Purché si prenda coscienza anche della crisi della tradizione dei cattolici democratici, la quale, per ragioni diverse, si trova di fronte all’esaurimento delle condizioni che ne hanno fatto per decenni una delle culture politiche più fertili: non c’è più la Chiesa conciliare, né il radicamento popolare democristiano da cui traeva la linfa vitale, né le grandi strutture pubbliche – dall’Iri, alla Rai, alle banche – da cui veniva la formazione della classe dirigente. Occorre, quindi, una maggiore modestia per rilanciare il progetto, dicendoci apertamente che abbiamo intrecciato due decadenze, della sinistra italiana e del cattolicesimo democratico, e che solo in un contenitore più ampio possiamo affrontarne le cause e trovarne le vie d’uscita. Dalla consapevolezza dei rispettivi limiti può venire la disponibilità a mettersi in discussione. Ad esempio, è inutile aver unito laici e cattolici se continuiamo a ripeterci stancamente le stesse cose di prima, ci siamo uniti col presupposto che proprio dallo stare insieme potessero scaturire sintesi più avanzate rispetto alle vecchie convinzioni. Un approccio più pensoso verso le rispettive culture può diventare una forza creativa. In ogni caso esso renderebbe evidente l’impossibilità di tornare indietro alle case di origine, per il semplice motivo le troveremmo diroccate. Il Pd nasce da una rielaborazione critica delle tradizioni di provenienza e solo in questo modo è in grado di raccogliere il suo frutto migliore, prima che sfiorisca, cioè quella straordinaria curiosità e disponibilità che ha portato tanti cittadini a impegnarsi in politica per la prima volta, senza aver mai frequentato i vecchi partiti. La sinistra italiana si trova al punto di massima debolezza in un secolo di storia, se si esclude il periodo della tirannide fascista. Mai come oggi è stata tanto evanescente sul piano politico, sociale e culturale. L’avversario ne è consapevole e intende assestare colpi decisivi mai tentati in precedenza, non esclusi quelli costituzionali. Certo, è un problema europeo, ma è indubbio un fattore nazionale di aggravamento. Eppure le condizioni al contorno sarebbero favorevoli, se l’ideologia a noi avversa che ha dominato il campo per trentennio ora è crollata sotto il peso dei subprime. Alla massima opportunità corrisponde anche la massima difficoltà e ciò non può dipendere da fattori contingenti. Dovrebbe essere giunto il momento di porsi domande fondamentali, le Grundfragen, quelle che una volta poste aprono nuove strade del pensiero, che non annichiliscono
nella risposta ma intraprendono con essa un corpo a corpo per tenere in tensione il problema. Le domande fondamentali si collocano all’estremo opposto degli indovinelli, i quali prima creano l’incertezza assoluta e poi fanno scomparire l’interrogativo. 1. Quale capitalismo? La prima Grundfrage è imposta dalla crisi: che razza di capitalismo è questo? Oggi che è in affanno possiamo domandarcelo senza apparire irriguardosi. Quando eravamo giovani comunisti i nostri dirigenti ci insegnavano a con- contrastarlo, ma anche a rispettarlo. Il profitto, ci dicevano, è pur sempre una ricchezza meritata dall’imprenditore e la distinguevano dalla rendita che invece il rentier incassa senza alcun merito. Le migliori energie riformiste in Italia sono state spese in passato per separare le due forme di ricchezza, ma oggi quei dibattiti sembrano fuori tempo. Non perché la questione sia stata risolta ma perché il problema è molto complicato. Con l’ascesa della finanza, infatti, la rendita ha sopravanzato il profitto e lo ha intrappolato nella propria logica. Il profitto è tale in quanto entra in un prodotto finanziario. E tale subordinazione diventa ancora più forte verso il lavoro. Infatti, nella ripartizione della ricchezza l’aumento più forte è andato a favore della la rendita, poi del profitto e il tutto a discapito dei redditi da lavoro. Nella regolazione dei processi e nell’allocazione delle risorse la componente finanziaria è diventata il dominus rispetto all’economia reale. Perfino la struttura dell’impresa è stata piegata nell’unico interesse degli azionisti finanziari, a discapito di tutti gli altri stakeholder, come spiega il, bel libro di Silvano Andriani che ha per titolo, appunto, L’ascesa della finanza. Ha vinto l’economia del possesso contro l’economia della produzione. Ciò non poteva che avere una risonanza speciale in Italia, dove ha risvegliato le corde premoderne del patrimonio familistico – la «roba» verghiana – e ha favorito il ripiegamento del grande capitalismo nei settori regolati per via politica, telefoni, autostrade, televisioni ecc. Non solo, la rendita finanziaria ha trascinato la gemella rendita immobiliare in un’organica economia di carta e di mattone che ha sostenuto un intenso e lungo ciclo edilizio, consumando una quantità di suoli pari all’estensione di due regioni come il Lazio e l’Abruzzo. Mentre fioriva la retorica sulle tecnologie immateriali gli investimenti in edilizia superavano per la prima volta quelli dei macchinari industriali. Questa economia del possesso non poteva che trovare in Berlusconi il suo interprete più autentico; l’appropriazione è, infatti, l’unico registro della sua attività imprenditoriale e politica, che si tratti di reti televisive, aziende, parti- riale partiti o persone. Ha utilizzato tutte le risorse comunicative, da politico e da tycoon, per diffondere anche nell’immaginario collettivo l’idea della ricchezza come possesso piuttosto che come relazione. E la sinistra? Certo, ha compreso il ritorno alla grande del protezionismo e ha pensato di contrastarlo con le liberalizzazioni. A questo obiettivo è stato dedicato almeno un decennio del riformismo italiano, con grande impegno e incerti risultati. Anche per me, se rifletto sulla personale esperienza di amministratore, questo è stato il fronte di battaglia più forte, dai tassisti alle gare europee sulle reti dei trasporti. Rimango convinto della bontà di quelle politiche, ma vedo oggi con maggiore distacco l’infatuazione della sinistra italiana. Abbiamo avvertito il ritorno della rendita, ma in modo confuso e come una parvenza del processo strutturale che lo causa. Abbiamo letto, secondo una lunga tradizione, i fenomeni di rendita come espressione dell’arretratezza del capitalismo
italiano e certo questa era una componente, ma non la sola. Anzi, il fatto nuovo del capitalismo consiste proprio nel ritrovare un collegamento con l’atto originario dell’appropriazione, a lungo dissimulato dall’economia classica. L’accumulazione del capitalismo nasce, infatti, nel momento in cui si recintano i terreni liberi formando così la rendita assoluta; in seguito si afferma il mercato che cerca di far dimenticare nell’equilibrio concorrenziale quella prepotenza iniziale. Oggi, con il dominio della rendita finanziaria il capitalismo torna al primato del possesso rispetto a quello della produzione. Le transazioni finanziarie sono molto più eteree e sofisticate dell’atto di recintare un terreno, ma l’atteggiamento di fondo è il medesimo. Il recintare è un atto fondativo non solo per l’economia, ma anche per la politica. Il nomos viene da nemein che significa appunto «dividere un pascolo», e da qui discende, secondo la classica lettura schmittiana, una categoria fonda- fondamentale del politico. Più semplicemente, basta aver visto un film western per sapere che quando si recinta un terreno si forma una rendita e allo stesso tempo si crea un nemico. Il capitalismo finanziario risveglia questi fenomeni primordiali e rilancia il momento dell’appropriazione come terreno comune tra l’economia e la politica. Il primato della rendita porta con sé un potere costituente. Per questo la forma capitalistica contemporanea è accompagnata da una formidabile verticalizzazione del potere in tutti i campi, nello Stato, nell’impresa, nella società. Avremmo dovuto contare su un altro potere costituente, non potevano bastare le pur necessarie liberalizzazioni. Non si trattava solo di modernizzare il processo economico eliminando i suoi arcaismi corporativi e proprietari. No, il vecchio era intrecciato al nuovo, la rendita parassitaria era diventata la forza regolativa della produzione moderna. Un altro potere costituente poteva venire solo dal lato produzione, dal lavoro delle donne e degli uomini come la dimensione non solo economica ma politica. Proprio su questo terreno invece è stata massima la dimenticanza della sinistra non solo italiana. Nei casi migliori ce ne siamo occupati come problema della distribuzione del reddito, come regolazione dell’offerta di manodopera, come relazioni sindacali. Ma è completamente scomparso il tema lavoro come dimensione della cittadinanza, come principio ordinatore della società, come fattore costituzionale, tutto ciò, insomma, che è contenuto nel mirabile incipit della Carta, la Repubblica fondata sul lavoro lavoro. E la mancanza si è fatta sentire nella scarsa qualità delle relazioni sociali e politiche. La subordinazione del lavoro è la causa principale della frantumazione corporativa, del prevalere di ogni egoismo, dell’involgarimento dello spirito pubblico. 2. Quale Stato? Le sconfitte del Novecento hanno reso quasi impossibile parlare del lavoro come principio politico. Eppure, solo dal lavoro può scaturire un altro potere costituente capace di contrastare quello della rendita sul terreno sia interessi sia degli ordinamenti: produzione contro possesso relazione contro appropriazione, socialità contro egoismo. Tutto ciò si è realizzato a suo tempo nel grande compromesso del Welfare State. Il potere costituente del lavoro si è espresso mirabilmente nello Stato novecentesco fino a essere scritto appunto nelle costituzioni, non solo quella italiana. Se, infatti, il classico conflitto capitale-lavoro si manifesta nel processo di accumulazione, il conflitto rendita-lavoro si media nella statualità.
Da qui sorge allora la seconda Grundfrage: che razza di Stato abbiamo di fronte? Fino a poco tempo fa poteva sembrare una domanda fuori tempo. I cantori della globalizzazione ne annunciavano una graduale estinzione e alla fine ci ritroviamo con la rinascita delle Partecipazioni statali a Wall Street. Per quasi un ventennio la stessa parola «Stato» è sembrata quasi una bestemmia, non solo per il liberismo della destra, anche per il ‘nuovismo’ della sinistra. E oggi, invece, tutti lo cercano, tutti lo invocano, tutti lo piegano alle proprie esigenze. Ha svolto molti mestieri in passato, come proprietario di aziende pubbliche, come regolatore dei processi, come assicuratore del welfare, ma non si era ancora visto all’opera come discarica dei rifiuti tossici della finanziarizzazione, per dirla con l’icastica definizione di Cavazzuti. Come deve essere interpretato questo fenomeno? È il ritorno oppure il declino dello Stato? Ecco un tema da approfondire; certo, è una grande occasione per la sinistra poter tornare a parlare di politiche pubbliche, ma c’è anche pericolo che tutto si riduca a un intrappolamento delle funzioni pubbliche nel riassetto del turbocapitalismo, come una sosta ai box per riparare il motore e poi ripartire come prima. Quale Stato? Ritorna tutta la grandezza della questione e dalla risposta che ne daremo dipenderà in gran parte l’esito della crisi, non solo in campo economico, ma negli assetti civili e morali. Che cos’è questo Stato che pretende di entrare nella nuda vita decidendo contro l’individuo e la stessa famiglia quando si debba morire? Come si concilia il rifiuto dello Stato espresso dall’opinione pubblica in tante forme con il bisogno di sicurezza altrettanto forte? E si può parlare di Stato se almeno in un terzo del Paese non è assicurata la funzione primordiale del presidio del territorio, curata come si vede nella gestione dei rifiuti, nella lotta alle mafie e nel controllo dei flussi migratori? E poi ancora, a quali condizioni la nazione italiana potrà continuare esprimersi mediante uno Stato unitario? La crisi economica mondiale porta in primo piano il problema della statualità e gli specifici caratteri nazionali rendono ancora più lacerante. Anche di ciò abbiamo avuto una percezione superficiale nel ventennio passato, ce ne siamo occupati sotto il titolo delle riforme istituzionali, dando peraltro risposte non sempre efficaci. Legge elettorale, Senato federale, forma di governo e altri marchingegni di questo tipo sono rimasti al di sotto della mutazione del ruolo dello Stato nell’epoca globale e al di sopra della crisi tra amministrazione pubblica e organizzazione civile. L’ingegneria istituzionale ha visto solo la parvenza del fenomeno ben più corposo della crisi di statualità. 3. Quali partiti? Proprio la crisi di statualità ha fatto mancare il terreno di incontro tra politica e società. La volontà del progetto non ha più incontrato la spontaneità della trasformazione. Quando la politica è vigorosa instaura un rapporto intenso, quasi erotico, con la società e lo Stato ne costituisce l’alcova. Il venir meno della dimensione statuale è all’origine di un forte senso di estraneità, come ha messo in evidenza Enzo Roggi. Da una parte la società si è depoliticizzata e lo vediamo perfino nei movimenti più impegnati sui temi di sinistra; le prime parole dei giovani dell’Onda erano spese per prendere le distanze dalle forze politiche. D’altro canto la politica stessa si è desocializzata, ha perso la funzione di rappresentanza dei soggetti sociali. Da questa perdita di realtà è venuta la degenerazione della forma partito in una mera organizzazione del ceto politico. Si impone così la terza Grundfrage Grundfrage: che razza di partiti abbiamo di fronte? Le classi politiche attingono la linfa vitale
non più dallo Stato centrale ma dai monopoli locali. Prima, con le Partecipazioni Statali agivano sul processo di accumulazione, ora gestiscono le rendite del territorio. E infatti la forma dei partiti ormai assomiglia all’organizzazione in franchising delle reti di vendita delle agenzie immobiliari. Entrando in un negozio di Tecnocasa o di Toscano si tratta con un rivenditore locale, ma si ha l’impressione di entrare in contatto con un’azienda nazionale più affidabile. Anche i partiti vanno assumendo ormai questa organizzazione in franchising: sono tenuti insieme dal simbolo e da leader televisivi, pur essendo ormai costituiti da notabili locali dotati di una forza elettorale personale che spesso trasportano da una lista elettorale all’altra. La struttura politica è falsamente unitaria e la divisione dei compiti è netta: i notabili alimentano il patrimonio, mentre i leader curano il marchio; ai primi il voto di scambio e ai secondi il voto di opinione. Non sono ammesse invasioni di campo, dal locale non vengono obiezioni sulla linea politica nazionale e viceversa i leader lasciano fare la gestione dei patrimoni locali. Questa forma articolata conferisce ai partiti moderni quel tipico carattere leggero all’apparenza e pesante nella sostanza. Tante feudi inespugnabili, ma pronti a cambiare le alleanze con i principi. Che ciò possa costituire il brodo di coltura di una nuova questione morale è del tutto ovvio, l’anomalia consiste semmai nell’accorgersene solo dopo l’iniziativa dei magistrati, mai mentre il processo strutturale era sotto gli occhi di tutti da almeno un ventennio. Anche senza il malaffare questa forma politica è devastante soprattutto per la sinistra. I partiti in franchising sono adatti ad attrarre clienti, non i cittadini; curano lo scambio locale, ma rimangono indifferenti ai progetti politici; mantengono il ceto politico, non selezionano la classe dirigente. Anche in questo caso ci siamo occupati della parvenza del problema. Si è parlato dei partiti solo in termini politologici, come attori del sistema politico-istituzionale, mai come strutture di rappresentanza della società, mentre proprio su questo terreno essi intanto subivano la trasformazione più corposa, seppure in forma deteriore. Soprattutto qui si era vista una via d’uscita con le primarie, ma sono state confuse con una mera procedura elettorale, o per acclamare i prescelti o per fare la conta tra i notabili locali. Invece, le primarie potevano essere qualcosa di più, un paradigma di organizzazione per ripensare in termini moderni una forza politica a insediamento popolare. A quei tre milioni e mezzo di cittadini che avevano mostrato disponibilità a spendere un’ora del proprio tempo bisognava dire dopo poche settimane a quale porta dovevano bussare, quale telefono chiamare, quale militante cercare e invece si sono perfino smarriti gli elenchi. Sarebbe stata una esperienza nuova di partecipazione politica, ma avrebbe comportato lo smantellamento del partito in portato franchising e non c’è stata la forza o la volontà di farlo. Riassumendo, la crisi della sinistra italiana presenta questo filo conduttore: sono stati avvertiti i problemi nuovi dell’epoca nostra, ma sempre mediante una parvenza, mai per una presa di coscienza diretta e sostanziale. Abbiamo capito il ritorno della rendita, ma come problema di ammodernamento dell’economia da realizzare con le liberalizzazioni. Abbiamo avvertito la questione dello Stato, ma è stata declinata come esigenza di riforme istituzionali. Sentivamo che i partiti non erano più quelli di una volta e abbiamo cercato di rinnovarli agendo dall’alto con le ricette della politologia e delle procedure elettorali. È tempo di abbandonare le parvenze e guardare alla sostanza: il principio
costituente del lavoro, la nuova statualitĂ , i partiti radicati nella societĂ . Bisogna uscire dalla caverna platonica, dove abbiamo combattuto con le ombre. Si deve venire alla luce del sole per guardare in faccia la realtĂ e trovare la strada per la rinascita della sinistra italiana.
* In collaborazione con Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri
Dalla veridicità alla verità (o sulla genesi del senso) Intervista a Gianfranco Dalmasso a cura di Bachisio Meloni
Tentiamo una breve quanto sommaria esposizione di ciò che il Professor Dalmasso sostiene in “Chi dice io. Razionalità e nichilismo” (Jaka Book, Milano 2005): uno dei problemi cruciali, se non il problema per eccellenza, che egli pone è la fondamentale questione del “rapporto di un soggetto pensante con l’origine del suo atto di pensare, con l’origine della sua parola, questione classicamente neo-platonica e agostiniana”, ma che di fatto diventa possibile ritrovarla in Hegel. Tale esigenza del “Generativo” – l’esser cioè in sintonia non con “la scienza di ciò che si dice” ma con “la scienza della genesi di ciò che si dice” – particolarmente sentita nella tradizione del pensiero ebraico e nella meditazione del pensiero contemporaneo, presente specie in autori da Dalmasso più volte citati (Levinas e Derrida su tutti), più che portare i filosofi a “muoversi a livello di una mera rappresentazione di
ciò che dicono”, coincide, secondo la prospettiva metodologica dell’autore da noi interpellato, col tentativo di riposizionamento o di collocazione originaria del soggetto in ciò che egli definisce – sia in antitesi alla coscienza che tutto sa e dispone sia in antitesi alla percepita assenza nichilista di un senso remoto per ogni significato – “il punto sorgivo del pensiero”. Professor Dalmasso, possiamo, con il suo aiuto, se mai fosse pienamente possibile nella brevità di questo nostro dialogo, addentrarci in tutta la radicalità di tale dirompente proposta filosofica qui appena riassunta? Tale punto sorgivo del pensiero – ritenuto fondamentale da Platone ad Aristotele, dagli stoici fino a Plotino – è origine che sembra scaturire da un’in-condizione radicale, da un prima non cronologico identificabile con la fondamentale nozione di “Alterità” (eterotes), cui peraltro si lega l’altro nome identificativo del Bene (l’agathon, inteso in senso extra-morale, cioè non volto a “negare” il male, quanto a sovrintendere ad ogni possibile disposizione al pensare e all’agire). Alterità che, come Lei tiene a ribadire, assurge a “luogo ospitale” – di questioni ritenute da più parti e a gran voce centrali – ma che di fatto più di tutte fra le nozioni è in grado di accogliere la domanda “sia dell’essere sia del nulla sia della stessa opposizione tra essi”. Unico “fondamento” che risiede nel “rapporto tra l’uno e i molti” in grado di scongiurare due possibili quanto talvolta inevitabili soluzioni negative: intellettualismo raziocinante e perdurante resa alla capitolazione del senso. Insomma, già da Platone – e su ciò Lei mostra a più riprese di insistere – viene inaugurata la nozione costitutiva di alterità, la quale è concepibile all’interno del discorso, della struttura dialogica, ossia nell’ambito delle contraddizioni intra-mondane, come una negazione che più propriamente non annienta o non nullifica. Questa precisazione, in effetti, sembra scompaginare del tutto il rischio che la nozione di alterità possa fungere da termine eufemistico da porsi quasi a paravento del nulla o che del nulla tenti di suggerire il volto meno lugubre e terrificante. Una paradossale nozione di presenza/assenza, di un vuoto che, anziché nientificare, funge da sfondo entro e al di là del quale poter pensare l’origine stessa della significazione. Sono d’accordo con ciò che Lei afferma a riguardo degli antichi pensatori greci. La risorsa, inesausta, da cui è nata la filosofia, mi sembra in grado di mettere a fuoco e di rilanciare la questione della razionalità anche nell’oggi dell’Occidente, anche nella prospettiva, giustificata ma anche fuorviante, di un “post ”. Ancor prima di quanto poteva suggerire il neutro nella prospettiva di Blanchot (ma come paradossale assenza di prospettive) come “pas au delà” (dove il ‘pas’ tende ad equivocare sia l’idea del ‘non’ al pari di quella del ‘passo’ al di là di ciò che si sostiene in un determinato discorso, sia esso filosofico o letterario). Ciò che si determina cristallizzandosi in concetto o discorso filosofico subisce l’opera di un’implacabile legge dell’alterità (e molto vi sarebbe da dire su tale senso di “giustizia” nel discorso) che spinge inevitabilmente alla condizione (o in-condizione) della destrutturazione e dell’indeterminato. L’idea di ricondurre all’unificazione tra quanto si dischiude in questo sfondo abissale accennato poc’anzi della realtà e l’io che accenna un qualche remoto tentativo di determinazione appare come un procedimento infinito in continuo divenire. Insomma, come Lei
suggerisce, il compito della filosofia dai Greci a noi – mi dica se sbaglio – sembra non aver perso il suo spirito di fondo. E questo anzitutto a riprova di quanto la questione del nichilismo, come Lei sostiene, più che come un formidabile sintomo di un malessere sociale e individuale del pensiero sia impassibilmente interpretato o vissuto come una tragica “visione” di ‘valori’: a testimonianza di quanto sia ancora difficile il tentativo di smarcarsi dalla contesa classica – ma ormai ridotta non più che alla caduta nel più spossante degli stereotipi nel destino del discorso – tra “essere” e “non-essere”, vi è (purtroppo non ultimo) il più recente richiamo di Ratzinger contro il supposto profetismo nichilista di Nietzsche. Blanchot, io credo, mette in luce come l’alterità, che è in discussione – e qui mi ricollego con quanto mi suggeriva nella Sua prima questione –, non sia ospitabile, come tale, da un soggetto che, disposto “passivamente”, cioè senza presunzioni di dominio, potrebbe accoglierla. Per Blanchot il soggetto non è luogo ospitale di un’alterità. In lui mi sembra intervenire una temporalità come struttura di sospensione, di interruzione. Ciò che in Hegel è Aufhebung, toglimento e conservazione, è in lui disastro, sorta di struttura messianica e apocalittica in cui il soggetto può costituirsi. Nella tradizione neo-platonica tale interruzione, oblio, indecidibile, è comunque un legame, ma conoscibile in quella forma che è il bello (vedi qui i testi di Carmelo Meazza), indicibilmente donata, legame fra sé (l’anima) e ciò cui l’anima appartiene. Il soggetto tuttavia è “luogo” attraverso uno, per così dire, spossessamento e la forma di tale spossessamento rimanda il soggetto ad un tempo e ad un’etica, essi stessi imprendibili, ma originariamente sorgivi. Proprio per scongiurare l’intellettualismo razionalistico, riguardo ad ogni possibile meditazione filosofica, si tratta di soffermarsi sul sapere, non tanto come certezza di punti di vista né come validità di dottrina, bensì nei termini del riconoscimento della genesi del significato. A tale proposito, citando Agostino, occorre, secondo Lei, puntare al cruciale rapporto dell’io con una più autentica disposizione al proprio sapere, ovvero alla condizione personale del sapersi. Per questo, nell’elaborazione del senso a partire dall’identificazione della sua origine, il ritorno è al problema centrale della costituzione topologica della soggettività. Giungendo ad Hegel, parliamo del generativo di realtà e verità più propriamente quali ‘prodotti’ di una coscienza e di una singolarità di coscienza. Più che una contesa tra razionalità ed assenza nichilistica di verità la conoscenza di sé da parte del soggetto è tale a patto che questo atto del conoscere sia avvertibile come movimento (di “varietà”, ma non per ciò di ambiguità) di continua trasformazione di sé e del sé. Se ci si appiattisce in una visione centralizzante ed egoica di sé, quasi in piena ostilità ad ogni prospettiva del diverso, il rischio è quello di una chiusura entro un mero punto di vista, chiusura entro i propri atti di coscienza, entro una totalità o sistema di idee. Ma, a parte questo mio rapido tentativo di sintesi di quanto Lei osserva, il Suo riferimento costante (mi riferisco anche al Suo saggio “La verità in effetti. La salvezza dell’esperienza nel neo-platonismo”, Jaka Book, Milano 1996) è quello relativo alla tradizione platonica e neo-platonica, quella nozione di alterità attiva, quell’al di là dell’essenza che ha caratterizzato tanta parte della filosofia francese di fine Novecento (pensiamo ancora, ovviamente, a Levinas e a Derrida in particolare). A tale proposito, per
sottolineare l’origine e le dinamiche interne a questo pensiero, la Sua lettura di Hegel in senso neoplatonico, giunge in soccorso dimostrando precedenti tentativi tesi a scongiurare esiti intellettualistici: la metodologia filosofica messa in atto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (1830), predisposta quanto più ad esplicitare un pensiero “senza oggetto” tiene conto di una fondamentale relazione in grado di stabilire presupposti di verità; “ai suoi occhi”, Lei scrive, in questo tentativo di “conoscenza”, di trasformazione e di ricostruzione della soggettività come il luogo di ogni possibile presupposto di verità, “il risultato del divenire è quindi il concetto del vero”; la verità “in effetti” può determinarsi – come Lei sottolinea a partire dalla proposta speculativa hegeliana – “solo a partire dalla continua riscoperta dell’unificazione dell’io con la realtà”, anche quella o specie quella più tragica e dolorosa, unificazione che è al contempo individuale e universale. Non vi è dubbio su quanto Lei sostiene. Ma proprio a tale riguardo vorrei soffermarmi sull’importanza di Hegel, a proposito del quale ritengo effettivamente che il suo stile e il suo metodo di pensiero costituiscano una chance e una risorsa oggi attualissimi. In lui infatti il negativo e la negazione non funzionano come annichilimento, ma come un altro modo di affermare, di rapportarsi a un positivo. Si tratta di una trasformazione del soggetto, della sua coscienza di sé che è soggetta a questa sorta di resurrezione che è il “lavoro del concetto”. Lavoro del concetto per Hegel significa processi, atti, avvenimenti, storia piuttosto che astrazioni universalizzanti e false universalizzazioni che, esse sì, portano al nichilismo come morte in pura perdita. Lavoro del concetto significa, come è noto, rapporto con la nozione di vita che, in Hegel come nei greci, è legata alla nozione di razionalità: vita come dislivello fra l’io e il suo sapersi, fra l’io e l’origine del suo desiderio. La realtà e l’idea di Verità, ma come veritas redarguens, o per dirla in termini kierkegaardiani, di “verità perseguitata”, suggeriscono, più che la fissità di una rappresentazione, una continua messa in questione o messa in relazione fra elementi o condizioni diverse del sapere. Come suggerisce un altro pensatore francese, Alain Badiou, nel suo Manifesto per la filosofia (da poco ristampato in Italia da Cronopio), la configurazione filosofica è procedura che tiene conto di un insieme di procedure sulla base di un tentativo di relazione delle condizioni fondamentali dell’essere (il matema, la poesia, la politica, l’amore), la loro compossibilità. A partire da “L’essere e l’evento” (tr. it., Il Melangolo, Genova 1995), ogni condizione, presa ognuna per sé, e avente per fine il proprio ambito speculativo, per Badiou, è in grado di garantire solo elementi di veridicità (ossia, di non-verità), cosa assai diversa da un’autentica disposizione di articolazione con la verità vera e propria. Tale modalità teoretica indica come il ruolo del filosofo, oggi, possa assumere caratteristiche in grado di sottrarlo a quella che può essere l’accusa di fumosa astrattezza e di celeste marginalità (non parlo ovviamente di mera professionalità da ‘consulenza filosofica’, forse pure utile in determinati aspetti dell’attività pubblica e sociale). Ma perché non si decreti nuovamente da qualche parte lo scadimento, quando non addirittura il ricorso alla deliberazione della “fine” stessa della filosofia, e perché la filosofia sia ancora possibile, in che termini, oggi, secondo Lei, la realtà contemporanea, magari anche quella più apparentemente marginale (e su questo tipo di sollecitazione in fondo si tiene lo spirito di una rivista
come InSchibboleth), può determinare, suggerendole, nuove articolazioni di verità? Su quest’ultima domanda, ossia riguardo al compito della filosofia oggi, tenuto conto anche delle tesi di Badiou, io credo che la chance inesausta di quella forma di esperienza e di discorso che è la filosofia consista proprio nella sua resistenza, direi; o meglio, nel suo calcolato e strategico spiazzarsi da ogni forma di “visione del mondo”. Anche essa a ciò è continuamente sospinta da tutti coloro che si sentono a loro agio in una visione, in una rappresentazione del mondo e rifuggono e non ne vogliono sapere delle cause e delle origini di tali rappresentazioni. La filosofia non può tuttavia essere rinchiusa in un “punto di vista.” Agostino, nel dialogo De magistro, così si esprime: “Chi di noi è così stoltamente curioso da mandare il proprio figlio alla scuola per sapere cosa pensa il maestro?”. Agostino cioè non crede e non confida in un punto di vista, ma nel rigore del linguaggio, nel rigore di una disciplina (disciplina è un termine che in Agostino equivale a dialettica) Del resto, in pieno Medio Evo, Guglielmo di Saint- Thierry (XII secolo) definiva la filosofia: “il corpo delle arti liberali”. Non quindi una visione del mondo, nemmeno una dottrina, ma i giunti, i legami, viventi (di corpo si parla) che tengono insieme le discipline (retorica, grammatica, astronomia, aritmetica ecc.). Vicinanza dunque con Badiou. Del resto la chance, io credo, di un lavoro filosofico oggi consiste nel poter funzionare come lo strumento per introdurci nella realtà della tradizione. Riinterrogarsi sulla realtà della tradizione non significa ritorno al passato, ricupero di valori ecc., ma piuttosto comprendere come la trasmissione del sapere, al di fuori della quale c’è la barbarie, significa appunto tradere. Tradere vuol dire consegnare. Ognuno di noi è portato da un linguaggio che riceve e, volente o no, trasmette e questo trasmettere lo cambia, lo trasforma nell’atto stesso in cui lo trasmette. Tradere vuol dire non solo trasmettere, consegnare, ma anche tradire. Nell’intreccio fra la consegna e il tradimento si costituisce il lavoro del filosofo come coscienza critica. E in questione, anche qui forse accordo con Badiou, è in questione il valore irriducibile dell’atto, il valore irriducibile dell’individuo. In ogni altra prospettiva si può parlare solo fintamente di universalità. La razionalità e il rigore, come pensa Derrida, devono contenere e implicare la singolarità e la fine. Una filosofia, a mio avviso, è, alla lettera, bene-detta, se contempla il rapporto con l’origine del suo discorso: il luogo, non dominabile, in cui l’esperienza dell’io si lega all’esperienza del discorso. In questo modo la filosofia sembra riaprire, in modo originario e indomabile, l’esperienza della libertà, la più difficilmente leggibile nel nostro ordine culturale.
Oltre il berlusconismo di Giorgio Ruffolo*
Farò quindi un’incursione in direzione di due temi collegati. Il primo riguarda il contesto dal quale questa crisi è emersa e che a sua volta è caratterizzato da due altre crisi di fondo. Quella della leadership mondiale del capitalismo e quella della sostenibilità ecologica della crescita. Il secondo, che a me appare dominante e decisivo, è quello della crisi etica del capitalismo; e si presta ad alcune considerazioni sulle vicende politiche del nostro Paese. Il messaggio centrale del documento è l’origine reale, non finanziaria, dell’attuale crisi. La crisi finanziaria è un modo di svolgimento della crisi che ha origini nell’economia reale e torna all’economia reale. La natura reale della crisi riguarda due aspetti cruciali. Lo squilibrio nella allocazione delle risorse (tra beni privati e beni sociali). Lo squilibrio nella distribuzione delle risorse (tra redditi di lavoro e redditi di capitale: profitti e rendite). Questi squilibri hanno generato la necessità di ricorrere in forma massiccia all’indebitamento per finanziare, soprattutto, consumi privati. Il ricorso all’indebitamento è diventato endemico e sistematico. L’economia è stata rifondata sul debito. Le banche e il sistema finanziario sono diventati il pivot attorno al quale ruotava il sistema. Si potrebbe dire che si tratta di una strategia keynesiana generalizzata. Quella poneva l’accento sull’indebitamento pubblico, sotto il controllo dello Stato; questa, sull’indebitamento totale, sotto il controllo di nessuno. Era, questo, un modo sicuro per conciliare la crescita con la diseguaglianza e con il consenso politico all’interno degli Stati Uniti, Paese centrale del si-
stema mondiale. A questo esito ha dato un contributo decisivo la finanziarizzazione della grande impresa. All’impresa fordista più simile a una comunità di gruppi associati (stakeholders) rivolta all’espansione delle sue quote di mercato (del suo territorio) è subentrata l’impresa dominata da una stretta alleanza tra i grandi azionisti (shareholders) e i grandi manager manager, e rivolta alla massimizzazione del profitto nel più breve termine. La strategia dell’indebitamento sistematico non ha investito solo i rapporti tra il credito e la produzione all’interno degli Stati Uniti, ma si è estesa a livello dell’intera economia americana che si offriva ‘generosamente’ di assorbire il «surplus» di risparmio, indebitandosi con il resto del mondo. Politiche monetarie espansive alimentavano questo circuito singolare per cui il risparmio dei Paesi poveri finanziava i consumi del Paese più ricco del mondo. La bolla è scoppiata in un punto del sistema, quello immobiliare, investendo poi con incredibile violenza l’intero settore del credito, minacciato da una paralisi che è stata evitata a costo di formidabili flussi di liquidità dallo Stato ame- tata americano, e poi dagli altri Stati dell’Occidente a mano a mano ricano, che la macchia si estendeva. Finora questa risposta, per quanto poderosa, è apparsa insufficiente. E si profila sempre più il rischio che essa degeneri in una altra risposta di tipo statalistico, nazionalistico, protezionistico. Come si affronta e chi affronta una crisi così globale? Un’azione coordinata e concordata tra le grandi potenze economiche mondiali, si dice. E in effetti, mai come di questi tempi i leader del mondo si sono frequentati con tanta assiduità in appuntamenti di portata variabile: G7, G8, G20… Ogni volta, per darsi un appuntamento successivo. Qualche cosa di simile accadeva nelle diete feudali. I grandi feudatari si riunivano per giurare fedeltà al re. Dopo di che ciascuno tornava a governare a casa sua. Qui non c’è nep- neppure il re. Il capitalismo, nelle sue varie fasi storiche, un re lo aveva. La sua funzione era svolta dal Paese economicamente dominante, che esercitava, più o meno responsabilmente una sua egemonia. L’ultima, quella americana, ha assunto le forme di una vera e propria ideologia: l’esportazione della democrazia occidentale (in pratica, americana) in tutto il mondo. Questa ideologia è diventata, nell’era Bush, una teologia. Si sa co- come è andata a finire: in un fallimento. E meglio di tutti lo sa il nuovo Presidente degli Stati Uniti che di quel fallimento eredita le conseguenze. Per qualche anno l’equilibrio economico del sistema mondiale ha ruotato non attorno a una egemonia americana, ma al debito americano: il finanziamento dei consumi americani col risparmio cinese. Può essere questa paradossale, e per quanto tempo ancora, la chiave di volta del sistema? E intanto, chi e per quanto tempo continuerà a finanziare debiti dei quali è ancora ignoto l’ammontare? Si può continuare, con ingegnosi marchingegni, a versare acqua nella vasca, attraverso ricapitalizzazioni, riaccorpamento di de- debiti, ristrutturazioni di scadenze, senza domandarsi se, in quella vasca, c’è un buco? Una singolare risposta ci è stata offerta in questi giorni da un valoroso economista. A quei debiti, dice, corrisponde non il niente, ma beni reali, che prima o poi riacquisteranno il loro valore il quale non può essere pari allo zero. Se qualcuno si offrisse di ricomprare quei titoli oggi privi di valore a un valore positivo, si ristabilirebbe la fiducia che è la sola cosa che oggi manca. A parte che il ragionamento è privo di qualunque spiegazione del perchè la fiducia sia venuta a mancare, chi ne potrebbe rischiare una puntata così fatidica? ll solo a poterlo fare è lo Stato. In tal caso, la soluzione
è stata già inventata da tempo. Si chiama nazionalizzazione. Insomma: una risposta perfetta a una crisi che è stata definita perfetta si è fatta maledettamente difficile. Il rischio che questa risposta finisca per essere di tipo regressivo e cioè statalistico, nazionalistico, protezionistico comincia a essere alto poiché nessuno è in grado di stabilire un punto supremo dal quale tutte e tre le crisi – quella di liquidità, quella di governabilità e quella di sostenibilità – si possano dominare; e di concentrarvi la riserva di potere necessaria per istituire un sistema stabile. Per la prima volta, dunque, si pone per l’umanità un problema ineludibile e, insieme, disperatamente arduo di governance mondiale rispetto al quale le sue riserve istituzionali e, ancor più, quelle dei suoi valori appaiono allo stato attuale inadeguate. Non è proprio quest’ultimo, dei valori, il problema vero: la chiave di tutti i problemi? Affrontando questo terzo e ultimo punto, faccio un inciso non inopportuno. C’è un aspetto apparentemente paradossale di questa crisi. Essa costituisce un fallimento clamoroso dell’autoregolazione del mercato, un principio fondante dell’ideologia della destra liberista. Ma la destra politica, almeno in Europa non sembra soffrirne alcun danno. Anzi. Quasi dappertutto essa si trova in vantaggio. Il fatto è che il tema forte della destra, almeno in Europa, non è più, oggi, la speranza dell’arricchimento: ma la paura: la minaccia alla sicurezza rappresentata soprattutto dall’immigrazione. Ora, la prospettiva aperta dalla crisi, di una disoccupazione massiccia, non può che aggravare questa minaccia, instaurando un clima di violenza e di aggressività. E già successo in Europa, dopo la crisi degli anni Trenta. Ora, è un fatto che la sinistra, in Europa e soprattutto in Italia, dove il fenomeno presenta caratteristiche più acute, ha gravemente sottovalutato. Certo, non si devono inseguire pulsioni e le fobìe razziste; ma occorre, dove la legge è violata una severa repressione e dove la percezione dell’offesa è particolarmente grave, come nel caso delle violenze sessuali, comportamenti della magistratura che non lascino spazio a interpretazioni indulgenti. Soprattutto occorrerebbe sollecitare non la formazione di ronde punitive, ritorno a concezioni di primitiva rozzezza, ma la cooperazione organizzata delle comunità di lavoro e di residenza dei cittadini immigrati in comuni iniziative di formazione, di informazione di discussione, a tutti i livelli possibili. Se la sinistra continuerà a sottovalutare questa riserva di paura che cova sotto la società io temo che continuerà a perdere terreno, ancor più se e quando la crisi si aggraverà. La crisi non potrà che accentuare questo rischio con l’aumento della disoccupazione e della sottoccupazione. E non varrà allora il discorso giusto sui valori della solidarietà. Se si vuole puntare sull’integrazione, come è giusto, non bisogna esitare quando viene il momento della repressione. E soprattutto bisogna avere una strategia dell’integrazione, che non c’è. Si tratta di organizzare una grande rete che coinvolga le rappresentanze delle comunità esistenti sul nostro involga territorio in un comune lavoro di informazione, di formazione; sì anche di repressione, ma soprattutto di educazione e di intervento urbano, soprattutto nei quartieri degradati. La risposta che ci si dovrebbe aspettare dalle forze democratiche della sinistra alla crisi economica deve essere data ovviamente, però, prima di tutto sul piano economico. Bisogna combattere la vergogna criminale dei paradisi fiscali. Bisogna inserire fattori di rallentamento dei movimenti di capitale altamente speculativi, come più volte e da più parti proposto da fonti autorevoli e regolarmente inascoltate. Bisogna reintrodurre politiche dei redditi che proporzionino lavoro e produttività. Bisogna introdurre misure di
decenza nella sfrenata corsa delle rendite manageriali. Bisogna osservare proporzioni programmatiche nella dinamica rispettiva dei consumi pubblici e di quelli privati. Insomma, bisogna passare da una economia priva di limiti – letteralmente sterminata e devastante, sul piano ecologico come su quello mo- morale – a una economia dell’equilibrio della convivenza e della cooperazione. Romano Prodi, in un articolo recentissimo, è tornato su due fondamentali proposte a suo tempo avanzate da Jacques Delors, riguardanti il rafforzamento del bilancio comune dell’Unione europea, ridotto oggi a dimensioni inferiori a una soglia minima di intervento efficace; • alla possibilità di emissione di titoli europei sul mercato finanziario. Ecco due modi di realizzare, anche se in dimensioni minimali, un ruolo attivo dell’Unione europea nella gestione della crisi. In conclusione bisogna che la finanza rientri entro la sfera dell’economia reale e che l’economia rientri nei grandi equilibri della convivenza sociale. Ciò significa che la sinistra deve uscire dal terreno strettamente economico per misurarsi su quello dei valori sociali. Giorni fa su «Repubblica» Jean Paul Fitoussi ha parlato di un ritorno dell’etica nel capitalismo. Quasi con le stesse parole un giovane e poi purtroppo immaturamente scomparseconomista inglese, Fred Hirsh, venti anni fa, prima che il vangelo dell’avidità dilagasse per il mondo, ammoniva, in un’opera famosa sui limiti sociali dello sviluppo, sulla assoluta necessità di quella che chiamava la « moral reentry» dell’economia. Ora che da venti anni dalla pubblicazione di quell’opera il disfrenamento di quei limiti ha prodotto tutti i suoi guasti, abbiamo bisogno di quello che in un mio libro molto meno famoso ho chiamato lo sviluppo dei limiti. Abbiamo bisogno da una parte, di reintrodurre limiti allo sfruttamento della natura, all’inflazione finanziaria di ricchezze inesistenti, alla corsa forsennata delusiva e distruttiva della gara al successo; e dall’altro a liberare energie vitali verso gli scopi superiori della conoscenza della ricerca della cultura dell’arte. Una ricerca che non conosce limiti. È una vita che ripeto la meravigliosa frase di un grande economista liberale, John Stuart Mill. Abbiamo bisogno, diceva, di «coltivare le grazie della vita». Io non voglio chiudere questo discorso di speranza senza evocare il suo rovescio. Un rovescio che riguarda il nostro Paese, dove spira un’aria ben diversa. Dove a ogni piè sospinto sentiamo ripetere di smetterla con l’antiberlusconismo, una cantilena che trae dalla noia ripetitiva la sua efficacia: l’avete sempre con lui. È l’invidia, per i soldi che si è fatto, ne siete capaci? Fa delle gaffe che dio lo benedica. Scherza sulle donne. Insomma: via, che male c’è? E invece c’è molto male. Perché questa nuova sindrome tutta italiana inserisce con apparente innocuità nel sangue politico della nostra democrazia un veleno mortale. Il veleno che chiamerei con formula commerciale del privatismo populistico. Una miscela di plebiscitario all’idologia apolitica dei fatti propri, che dissolve la democrazia. Si tratta di una possente offensiva culturale privatistica condotta in nome degli interessi individuali e familiari contro una politica indicata come sovrastruttura intellettuale e parassitaria della società che produce e lavora. Questa offensiva si è largamente valsa dell’indebolimento delle organizzazioni di classe e soprattutto del declino del prestigio culturale, parallelo all’aumento del potere di amministrazione e di influenza clientelare e affaristica, dei grandi partiti politici della democrazia repubblicana. Essa ha alimentato un populismo diffuso, base fertile dell’ascesa plebiscitaria di un personaggio avventuroso. L’Italia è stata, come altre volte, il teatro politico di sollevazione, che raccoglieva, grazie a una alta capacità di manipolazione
mediatica, confluenze di varia origine: dal rigetto tardivo di una unità nazionale sofferta come costo economico e soffocamento identitario, ai forti residui dell’esperienza fascista, al diffuso sentimento particulare che ha animato tanta parte della storia di questo Paese. Ora, in perfetta simmetria oppositiva allo slogan che da ogni parte della saggezza convenzionale e della tradizionale risuona (basta con l’antiberlusconismo) è missione imprescindibile della democrazia quella di denunciare la minaccia mortale che questo mostro mite costituisce per il nostro Paese. In un momento in cui una crisi totale si profila per il capitalismo non è la sinistra, come in altri tempi si sarebbe pensato, a profittarne, ma una destra populista retrograda, il peggio della storia italiana, che può emergerne. La disperazione dei disoccupati, la paura suscitata dagli immigrati può innescare una miscela esplosiva. Il genio nazionale, sempre prodigo di avanspettacolo, le conferisce anche i guizzi e i lazzi dell’eterna commedia dell’arte. E non mancano, a contrappeso di questa che il sociologo napoletano Pasquale Turiello chiamava la scioltezza italiana, la gravitas degli editorialisti del «Corriere», che ci rivolgono pressantemente l’invito a non occuparci delle barzellette di Berlusconi, come tanto tempo fa, che Dio gli perdoni, Benedetto Croce e certi liberali di allora invitavano gli italiani a non prendere troppo sul serio le «smargiassate» fasciste. Pensate, ci dicono, alle cose serie. Io penso, cari amici, che la cosa seria è l’unità di questo Paese. E che è in pericolo. Io penso, che compito essenziale della democrazia italiana sia quello di ricostruire l’unità d’Italia, anzitutto quella tra il Nord ancora ma sempre meno prospero e un Sud ormai dimenticato, proprio attorno all’antiberlusconismo, al rigetto di questa antistoria d’Italia, l’assalto proditorio alle sue vere glorie, dal Risorgimento alla Resistenza, l’attacco alla Costituzione, l’ammiccamento esplicito all’evasione fiscale, l’indifferenza scandalosa all’impunità di una corruzione politica pubblicamente accertata. Certamente. È compito di un partito democratico e riformista dare una risposta seria e concreta alla crisi che ci sovrasta. Per questo deve mobilitare le intelligenze, elaborare i progetti, suscitare le alleanze. I partiti sono personaggi complessi. Non si inventano. Le loro classi dirigenti si rinnovano. Non si azzerano. Né si improvvisano. Il ricorso a procedure di legittimazione diretta di scelte alternative deve essere preceduto da una fase di chiarimento e di selezione delle scelte, che ha bisogno di informazione, di dialogo, di confronto. Tra la lista preconfezionata da votare per ovazione e la pagina bianca riempita da un sondaggio c’è l’organizzazione di un dibattito da cui emergano con chiarezza i temi, le proposte, i nomi. Di fronte alla marea populista della destra, la risposta non può essere quella di un populismo della sinistra, ma quella della mobilitazione di un esercito nuovo, democratico e strutturato. Quello che nel linguaggio della politica si chiama partito.
* In collaborazione con Argomenti umani, diretta da Andrea Margheri
A proposito de Il paradosso antropologico di Massimo Adinolfi
Si può fare un’ontologia del presente? L’espressione, che è di Michel Foucault, ha un carattere paradossale: indica un oggetto di studio – il presente, le forme di vita contemporanee, quel che sta capitando proprio ‘adesso’ – che è storico quant’altri mai, e che anzi costringe persino a inseguire la cronaca; ma scomoda l’ontologia, cioè un sapere che, al riparo dal divenire storico, si propone di delineare le strutture universali e necessarie proprie di ogni ente in quanto tale: ieri come oggi, e oggi come domani. Perché dunque il proposito di costruire le linee di un’ontologia del presente non appaia soltanto un equivoco, occorre avanzare l’ipotesi che quel che sta succedendo oggi è perlomeno l’annuncio di qualche profonda modificazione in corso, che tocca se non la natura in generale, almeno la natura umana. Alla natura umana, infatti, è dedicato l’ultimo libro di Massimo De Carolis, che aveva già condotto un’affascinante esplorazione del nostro tempo storico ne La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Bollati Boringhieri, 2004). Nel solco di quella ricerca si colloca adesso Il paradosso antropologico. Nicchi, micromondi e dissociazione psichica (Quodlibet, 2008). E se in quel volume era a tema il fatto, di per sé inquietante, che l’uomo è ormai
l’oggetto di una potentissima ingegneria scientifica e tecnica, tanto sul piano biologico (si pensi all’ingegneria genetica), quanto su quello cognitivo (si pensi agli studi sull’intelligenza artificiale), nel nuovo libro l’attenzione è portata sulle trasformazioni non meno preoccupanti che interessano sia la psiche individuale che i sistemi sociali. Ma non basta. Perché sia l’antropologia filosofica, cioè lo studio filosoficamente avvertito della natura umana, ad occuparsi di simili trasformazioni, occorre avere un concetto non riduttivo di natura. La pietra, la pianta, l’animale sono infatti enti meramente naturali, ed è più o meno accettato che siano i saperi scientifici a dirci tutto o quasi intorno alla loro natura. Mineralogia, botanica e zoologia ci appaiono, dopo tutto, sufficienti allo scopo. Nel caso invece dell’uomo la cosa è decisamente più controversa: da un lato, non regge più la tradizionale dicotomia fra scienze delle natura e scienze dello spirito, con il poco credibile sottinteso che i privilegi esclusivi detenuti dall’uomo lo collochino in una dimensione non naturale e letteralmente meta-fisica, situata cioè al di là della natura fisica (nel mondo dello spirito, per l’appunto); dall’altro, le scienze naturali tendono volentieri a semplificare, quando non a saltare a piè pari le prestazioni fondamentali che rendono un uomo tale: che gli permettono ad esempio di parlare un linguaggio e non semplicemente di scambiare segnali, di comprendere e pensare e non semplicemente di elaborare informazioni e manipolare simboli, di percepire il mondo circostante e non semplicemente di reagire agli stimoli. L’approccio ‘ingegneristico’ delle moderne scienze dell’uomo risponde peraltro ad un’esigenza precisa: riprodurre tecnicamente quanto l’uomo compie naturalmente. Ora però, quel che sembra specifico dell’uomo – nel percepire e nell’agire, nel parlare e nel pensare – quel che rappresenta un autentico paradosso, è proprio la capacità di inventare, di interpretare, di non attenersi a schemi dati, ripetitivi e fissi: tutto quello che insomma sembra sottrarsi in linea di principio alla possibilità di una mera codifica tecnica. Basti pensare alla parabola che ha conosciuto l’interesse per il gioco degli scacchi, nell’ambito delle ricerche sull’intelligenza umana. Quando si è riusciti a programmare una macchina in grado di battere il campione del mondo, ci si è accorti di avere ottenuto un potentissimo strumento di calcolo, ma nulla che somigliasse al modo in cui effettivamente funziona il pensiero, e l’interesse per il gioco, dal punto di vista di una comprensione della natura umana, è così rapidamente crollato. Orbene, per l’antropologia filosofica a cui la ricerca di De Carolis si ricollega, ed il cui arco si distende da Aristotele ad Heidegger, questa capacità può essere rappresentata in maniera sufficientemente unitaria nei termini della facoltà di formare un mondo, che sarebbe propria dell’uomo e non dell’animale (né tanto meno della pianta o della pietra). L’espressione prende il suo senso rigoroso se il termine ‘mondo’, che non fa affatto riferimento a un semplice dato oggettivo, viene contrapposto ad ‘ambiente’. L’animale ha infatti un ambiente, cioè uno spazio definito dentro il quale si muove secondo schemi di azione e risposta fissati dal corredo di istinti proprio della sua specie; l’uomo invece è correlato a un mondo, cioè ad un ambito non già assegnato dalla natura alla specie umana, ma da essa ritagliato (inventato, appunto) secondo operazioni ‘culturali’ – la prima delle quali, si potrebbe dire per accentuare il paradosso, consiste precisamente nell’invenzione della cultura come ambiente specificamente umano. Ora, va bene l’ontologia, ma tutto questo cosa c’entra con il presente, con quel che capita adesso? C’entra per una ragione essenziale, che nel libro di De Carolis è posta in piena luce. Il fatto è che oggi la capacità specificamente
umana di formare un mondo si è singolarmente ridotta nella più modesta capacità di formare nicchie, cioè mondi dentro mondi. Non solo mondi più piccoli, in realtà, ma mondi in certa misura illusori, da cui cioè ci si illude di poter tenere fuori la realtà, come prima accadeva solo nella dimensione del gioco o dell’arte (oppure, nei casi patologici, nei fenomeni di scissione della personalità). Non si tratta perciò di una semplice riduzione di formato: come se, rispetto al vasto mondo in cui una volta si muoveva l’uomo e a cui l’uomo aspirava a dare un senso complessivo, prevalesse ormai un senso di sfiducia e di stanchezza, e ci si contentasse di sottrarre la propria piccola barca ai flutti minacciosi dell’esistenza – resi radicalmente più incerti dal venire meno di ogni quadro stabile di riferimento – costruendo porti sicuri, senza più l’ambizione di capire cosa ci sia fuori, cosa ci riservi il futuro o cosa ci sia da salvare del passato. Le litanie sulla deriva nichilistica contemporanea, venate di nostalgie per l’umanesimo moderno, ma anche le altrettanto superficiali esaltazioni euforizzanti dell’homo technologicus, appaiono lontane dal comprendere la portata della trasformazione in corso. Si situano, entrambe queste retoriche, nel solco di una frattura tra modernità e postmodernità di cui non sanno però cogliere il significato. L’ipotesi di De Carolis è decisamente più robusta, ed è che la molteplice formazione di nicchie, in luogo della universale formazione di un mondo unitario, comporti un profondo riassestamento tanto dei sistemi sociali quanto dei sistemi psichici individuali. Lo spazio sociale così come quello psichico moderno era infatti organizzato secondo una linea di divisione ‘orizzontale’ che separava il sopra e il sotto, il piano simbolico e quello pulsionale, l’imperium rationis e l’imperium passionis. Al piano di sopra stavano quindi la legge e lo Stato (e la cultura, e insomma tutto ciò che apparteneva un tempo alla dimensione dello spirito) mentre al piano di sotto stavano le etnie, gli interessi e gli egoismi sociali. Analogamente, sul piano individuale, di sopra stava il soggetto, la sua autonomia e la sua libertà, conquistata però relegando nel sottosuolo le pulsioni e gli istinti, cioè la sfera degli egoismi individuali. Orbene, questa ‘topica’ sembra non funzionare più: la formazione di nicchie è frutto di una scissione non più orizzontale ma verticale, con la quale l’identità individuale si moltiplica in una serie indefinita di ruoli, e il mondo intero si divide in una molteplicità di spazi fra di loro isolati e protetti, la cui stabilità dipende dalla possibilità di tenere fuori da essi tutto il resto della realtà (o più radicalmente dalla possibilità di fabbricarsi una realtà ad hoc). Il fascino di questa ricostruzione delle forme di vita contemporanee è indubbio: essa coglie infatti fenomeni molto diversi tra di loro, che impegnano volta a volta l’etnologia critica di Ernesto De Martino e la psicanalisi di Freud e Winnicott, l’antropologia filosofica di Gehlen e Schmitt e le analisi linguistiche di Austin e Wittgenstein, riuscendo a ricondurre tutto questo materiale su un piano di comune intellegibilità. Ma il terreno ultimo e decisivo su cui De Carolis si misura è quello politico. Benché protesti in apertura del libro di non cimentarsi se non marginalmente con i problemi della teoria politica, è a questi che tutto il libro guarda, avendo potuto mostrare l’obsolescenza di gran parte del lessico politico moderno, fondata su concetti (popolo, Stato, sovranità) per i quali si dovrebbe dire che, letteralmente, non c’è più spazio, nel senso che appunto lo spazio psichico e quello sociale si prospetta oggi secondo linee molto diverse da quelle moderne. Le nicchie tagliano trasversalmente le comunità di appartenenza tradizionali e non si lasciano ricondurre a denominatori comuni.
La scommessa è in definitiva se in esse prevarrà solo il tratto della chiusura autoreferenziale, fino all’isterilimento e all’atrofizzazione della duttilità e inventività proprie della natura umana, o se invece non si possa formare, con esse e a partire da esse, “una nuova sfera pubblica”. È una scommessa difficile, come ogni tentativo radicale di sporgersi oltre la cornice statuale moderna. Che per un verso appare logora, per l’altro rimane comunque quella che ha meglio saputo assicurare, finora, una misura di uguaglianza giuridica tra gli uomini. Ma la consapevolezza che la posta in palio tocca la sfera politica perché tocca la radice antropologica dell’umano, quella, almeno, dovrebbe accompagnare ogni seria riflessione sulle trasformazioni della politica contemporanea, che non voglia rinunciare a comprendere il proprio tempo in pensieri.
In memoria di Franco Volpi. Un semplice ricordo di Massimo Dona’
Era proprio bravo… sì, un filosofo ‘di razza’. C’eravamo incontrati a Padova, nella sua Università, appena venti giorni fa, per presentare il nuovo libro di un comune amico. Come altre volte, c’eravamo scambiati opinioni sullo stato della filosofia, avevamo fatto progetti per il prossimo futuro, relativi a pubblicazioni e iniziative di vario genere. Sarebbe dovuto venire a Cesano Maderno nel prossimo autunno, per alcune lezioni nel contesto del dottorato di Metafisica da me diretto presso il San Raffaele. Era sempre stimolante confrontarsi con la sua intelligenza – un’intelligenza che faceva tutt’uno con una grande generosità ed un’umanità davvero rare nel mondo dell’Accademia italiana. Sì, Franco Volpi era un intellettuale autentico e un amico sincero; in
lui erudizione e vivacità speculativa, vis ermeneutica e attenzione filologica erano una cosa sola. Come sempre dovrebbe essere! Gran traduttore – l’hanno ricordato tutti, in questi giorni, in seguito alla sua scomparsa –, capace di far diventare il complesso ed enigmatico pensiero heideggeriano un sistema metafisico comprensibile e quanto mai lontano dalle stereotipate immagini che del filosofo tedesco ancora circolano in terra italica (ma non solo). Grandissimo interprete della filosofia tedesca, si era dedicato all’opera di Heidegger, ma anche a quella di Schopenhauer – che, grazie alla complicità della casa editrice Adeplhi, era riuscito a diffondere anche presso il grande pubblico. Ma aveva scoperto anche altri pensatori, di lingua spagnola, e non solo. Era un filosofo sempre disposto a ragionare sulle grandi questioni della modernità; per quanto fosse cresciuto lavorando con Giuseppe Faggin e con Enrico Berti sulle pagine di Plotino e Aristotele. Aveva una preparazione davvero rara; ma soprattutto sapeva farla diventare alimento per una riflessione sempre in fieri che gli consentiva di individuare, con grande lucidità, le questioni nodali intorno a cui ci si sarebbe dovuti confrontare, per condurre la filosofia fuori dalle secche di un accademismo davvero poco interessante. Il suo saggio sul nichilismo, pubblicato qualche anno fa da Laterza, rimane ancor oggi imprescindibile. Aveva partecipato con Antonio Gnoli – suo grande amico ed estimatore, giornalista di “La Repubblica”, con il quale aveva curato più di qualche opera con l’editore Bompiani – ad un ciclo di incontri che io e Raffaella Toffolo avevamo organizzato circa quattro anni fa a Venezia per conto di Chorus Cultura. Da quegli incontri avevamo tratto dei volumetti con Cd audio allegato (pubblicati da Albo Versorio); quello suo e di Gnoli, dedicato al comandamento che invita ad onorare il padre e la madre, è un gioiello di finesse filosofica. Consiglio vivamente di leggerla e ascoltarla, quella conferenza. Era curioso a 360 gradi. Si interessava infatti non solo di filosofia, ma anche di arte e di fotografia. Gli interessava ragionare intorno a ciò che riteneva in qualche modo meritevole di considerazione. Girava il mondo come un forsennato; forse perché aveva bisogno di stimoli ed aveva una mai paga sete di conoscenza; credo avesse bisogno di sorprendersi continuamente. Sentiva stretto l’ambiente accademico dell’Ateneo patavino, a cui era comunque molto legato e in cui poteva vantare un seguito studentesco davvero esagerato. Forse i giovani riconoscevano nel suo sorriso spesso ironico e beffardo, se non sornione, una capacità che andava ben oltre le competenze rigorosamente filosofiche. In quegli occhi veloci e attenti, riconoscevano forse quella stessa ‘sapienza’ e ‘saggezza’ che anch’io ho sempre ‘avvertito’ in lui; un disincanto che gli consentiva di non prendersi mai troppo sul serio – per quanto serissime e illuminanti fossero sempre le sue lezioni, le sue conferenze, i suoi seminari e le sue provocazioni intellettuali. Scriveva per il quotidiano “La Repubblica” articoli sempre misurati, ma nello stesso tempo mai banali; aveva sempre un’idea interessante da proporre. Insomma, sapeva stimolare anche il lettore non specialista – dimostrando di possedere una dote davvero non comune! Eh sì, era proprio bravo Franco Volpi. Si dice sempre, anche a sproposito: “se ne vanno sempre i migliori…” – ma mai come questa volta è vero, assolutamente vero. Comunque rimane la sua opera, che mi auguro venga nei prossimi
anni sistemata e pubblicata in un corpus unitario che renda il più possibile evidente la rilevanza del suo contributo. E’ un filosofo che rimarrà, infatti – ne sono certo. E ce ne accorgeremo con il passar degli anni. Mi auguro anche che, prima o poi, vengano resi pubblici i molti materiali inediti che saranno sicuramente rimasti nel suo studio di Vicenza. Perché tutti noi se ne possa trarre vantaggio; perché la sua riflessione rimanga viva così come rimarranno sicuramente vivi nel nostro cuore la sua rara umanità e la sua naturale generosità. Grazie Franco.