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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008


Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti Coordinamento: Carmelo Meazza Adesioni Bruno ACCARINO (Univ. di Firenze), Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Maurizio IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Alessandro PAGNINI (Univ. di Firenze), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI (Univ. di Padova).

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Novembre-Dicembre 2008, n° 13. (Numero 14, 31 Gennaio 2009) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Enrica Sanna. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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Barak Obama: “l’audacia della speranza” di ELIO MATASSI

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Schibboleth e i nuovi orizzonti della laicità di DOMENICO VENTURELLI

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La barbarie inestirpabile di GIOVANNI INVITTO

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Considerazioni filosofiche sulla fede nelle reliquie di ANDREA TAGLIAPIETRA

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Terroni alla riscossa di Lino Patruno di GIUSEPPE VACCA

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Ancora sull’Università (una modesta proposta) di MAURO VISENTIN

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Lo Stato senza identità e la Chiesa cattolica di SEBASTIANO GHISU

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Barack Obama: “l’audacia della speranza” di Elio Matassi La recente vittoria elettorale di Barack Obama e del Partito Democratico statunitense non può non avere riflessi decisivi sullo scenario internazionale e rilevanti conseguenze per la sinistra nel suo insieme e, in particolare, per quella italiana e il Partito Democratico. Comincio da alcune riflessioni, in primo luogo, culturali a partire dal recente volume autobiograrafico e programmatico, L’audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo1. Per quanto concerne la speranza, la prospettiva generale di Barack Obama, è decisamente antispinoziana: infatti, nel celebre paradigma spinoziano, la speranza acquisisce spessore teorico solo nella sua intrinseca correlazione con la paura, un percorso scandito, per un verso, da un paradigma storiografico databile da Sallustio, Livio, Tacito e, per un altro verso, da dottrine filosofiche parzialmente ristrutturate da Seneca e dal neostoicismo di Giusto Lipsio, nelle quali l’intreccio di metus e spes, cadendo sotto il segno di una comune ricusazione, diventa canonico. Il rapporto complementare di paura e speranza, considerate egualmente dannose per l’anima umana, rappresenta il controaltare teorico – se lo si compara, ad esempio, alla teologia ed alla filosofia cristiana ed ebraica – a qualsiasi interpretazione apologetica del principio-speranza. Non è da considerarsi casuale se Goethe e Nietzsche, due grandi ammiratori di Spinoza, condanneranno contestualmente speranza e paura. In Goethe il nesso paura-speranza è paradigmatico in quei versi del secondo Faust, in cui la Paura e la Speranza vengono presentate dalla Prudenza come le maggiori nemiche degli uomini e, pertanto, da escludere radicalmente dal consorzio umano (Goethe, Faust, seconda parte, versi 5441-5443). In Umano, troppo umano anche Nietzsche considera la speranza come il peggiore dei mali e lo stesso Spinoza, condividendone il progetto di fare dell’intelletto la passione


più pregnante, come il più integro dei filosofi. Per esempio, la titolazione stessa e la prospettiva complessiva del recente volume del superministro dell’Economia, Giulio Tremonti, La paura e la speranza, è decimante spinoziana. La prima operazione intellettuale compiuta, invece, da Barack Obama, è quella di lacerare per sempre il nesso paura-speranza, di svincolare dalla sua correlazione intrinseca con la paura la speranza. Questo è in primo luogo il progetto filosofico sotteso alla formula ‘l’audacia della speranza’. Gli uomini vogliono innanzitutto avere uno scopo, vogliono essere riconosciuti nella loro dimensione individuale e, nel contempo, sentirsi parte di qualcosa di più grande, di una comunità condivisa. Vogliono poter credere, scrive Obama, “di non essere semplicemente destinati a percorrere una lunga strada verso il nulla”. Ha certamente ragione Paolo Rossi Monti nel suo recentissimo Speranze che vi sono speranze ‘smisurate’ e speranze ‘ragionevoli’ ma ha altrettanto ragioni da vendere Hegel con le stupende parole che quasi concludono Lo spirito del cristianesimo e il suo destino: “ad ogni visionario che fantastica solo di sé, la morte è benvenuta; ma colui che sogna la realizzazione di un grande piano, solo con dolore può lasciare la scena dove quello doveva realizzarsi, Gesù morì con la fiducia che il suo piano non sarebbe andato perduto”. Quello che ci indica con chiarezza Barack Obama è che la progettualità politica non può limitarsi alla semplice amministrazione della politique d’abord, ad un mero fare esclusivamente pragmatico che dovrebbe essere pregiudizialmente svincolato da ogni, sia pur minimale, vocazione. Non esiste questa tipologia di un fare totalmente asettico, depurato e deideologizzato, dietro questo ‘fare’ si cela la più pericolosa e fuorviante delle ideologie: la vita dell’uomo potrebbe godere al massimo di due dimensioni, del passato e del presente e mai di quella del futuro. Barack Obama ha per sempre messo da parte un paradigma che definisco autoreferenziale e ‘presenzialista’, un paradigma che nega in linea di principio l’essenza ed il fine di ogni uomo, quello di essere costitutivamente disponibile alla speranza. Quella di Barack Obama è, comunque, anche una laicizzazione della speranza, ossia di richiamarsi ad una speranza ‘ragionevole’, concreta, possibile, a misura, appunto, umana. Obama, sempre sul piano culturale, si rende perfettamente conto che l’esplosione della crisi finanziaria non rappresenta un semplice ‘accidente’, un incidente di percorso facilmente sanabile ma che ad essere in gioco è proprio il presupposto fondante dello stesso sistema che quella crisi ha provocato. Un sistema che era stato lucidamente e apologeticamente rappresentato dal politologo statunitense di origine nipponica Francis Fukuyama: “il progetto liberale moderno ha cercato di spostare la base delle società umane dal thymòs (platonico) al terreno più sicuro del desiderio. La democrazia liberale ‘ha risolto’ il problema della megalotimia costringendola e sublimandola attraverso tutta una serie di congegni istituzionali – il principio di sovranità popolare, il riconoscimento di determinati diritti, l’impero della legge, la separazione dei poteri, e così via. Il liberalismo, togliendo alla tendenza all’accumulazione ogni freno e facendola alleare con la ragione nella formula della scienza moderna, ha reso anche possibile il mondo economico moderno. Tutto ad un tratto si è aperto per l’iniziativa e l’inventiva dell’uomo un campo nuovo, dinamico ed infinitamente ricco”. Vi è, comunque, un ‘passaggio’ da non sottovalutare nella stessa sequenza argomentativa di Fukuyama, nel quale anche il politologo apologetico è costretto a riconoscere che nel presunto “periodo aureo dell’umanità” (ossia quello pre-crisi finanziaria), “nessun regime, nessun sistema socio-economico


è in grado di soddisfare tutti gli uomini in tutti i paesi”. Questo vale anche per l’opzione della democrazia liberale e non solo per l’incompiutezza della rivoluzione liberale (ossia perché i benefici della libertà non sono stati estesi a tutti i popoli). Al contrario, l’insoddisfazione nasce proprio dove la democrazia ha trionfato nel modo più compiuto: si tratta dell’insoddisfazione della libertà e dell’uguaglianza. Insoddisfazione che produce l’esigenza di un ampliamento-approfondimento-rafforzamento della democrazia stessa. A tal proposito bisogna sempre tener presente il monito di uno dei grandi ‘maestri’ del Novecento, Martin Heidegger : “Noi chiamiamo destino l’autotramandamento anticipante e deciso nel Ci dell’attimo. Qui trova il suo fondamento anche il destino comune, cioè lo storicizzarsi dell’Esserci nel con-essere con gli altri. Il destino-comune, carico di destino individuale, può, nella ripetizione, disgelarsi nella sua connessione con l’eredità ricevuta.” Ed ancora nel 1946, alla conclusione del secondo atto delle guerre civili europee e mondiali, poteva scrivere la parola probabilmente decisiva su questo punto: “L’uomo è piuttosto gettato, dall’essere stesso, nella verità dell’essere, affinché alla luce dell’essere l’ente appaia come quell’ente che è. Se e come esso appaia, se e come Dio e gli dei, la storia e la natura, entrino nella radura (Lichtung) dell’essere si presentino e si assentino, non è l’uomo a deciderlo. L’avvento dell’ente riposa nel destino dell’essere. All’uomo resta il problema di trovare la destinazione conveniente (schickliche) alla sua essenza che corrisponde a questo destino (Geschicht)…”. Tra Bestimmung e Geschicht, tra ‘destinazione’ e ‘destino’, vi è il campo libero della decisione politica. La via tracciata da Heidegger per sottrarsi alla con-divisione di un destino comune e quella prospettata Fukuyama per completare la rivoluzione liberale e democratica vanno, nonostante tutto, nella stessa direzione. L’eredità lasciataci dal Novecento sta proprio in quello che ho definito allergamento-approfondimento-rafforzamento della democrazia ed ho consapevolmente utilizzato Heidegger e Fukuyama (il pensiero continentale e quello statunitense, al di là delle differenze di statura) perché ritengo che il problema sul tappeto sia lo stesso per gli Stati Uniti come per L’Europa. Questa disamina culturale si traduce in un progetto politico convincente, un progetto che dovrà, sul piano nazionale, coinvolgere anche il Partito Democratico per reagire in maniera costruttiva alla sfide del tempo. Se, come argomenta E. Morin, il mondo contemporaneo è un mondo caratterizzato da una complessità dal tasso molto elevato, a differenza dello stato moderno che era nei fatti un sistema dal profilo di una complessità debole – i teorici dello Stato moderno lo interpretavano come un sistema sostanzialmente ‘chiuso’ –, sarà necessario prospettare un ordine mondiale qualificato dalla meta-stabilità e da continui flussi di relazione e comunicazione fra una pluralità di soggetti dotati di autonomia e capacità decisionale. E’ necessario spostare l’asse di riferimento in maniera graduale da un sistema monodecisionale ad un sistema polidecisionale, una scelta che si impone anche per l’approccio interculturale: relazioni interculturali e sistema polidecisionale costituiscono un parallelismo compiuto. E’ certamente questo la via più efficace per risponde al secessionismo di H.H. Hoppe e all’anarco-capitalismo in generale, ed anche al riduzionismo dei cosiddetti neocon che pensano ad una esportazione anche con gravi implicazioni belliche del modello liberal-democratico occidentale in altre realtà, persistendo, di fatto, nell’interpretare la politica internazionale come rapporti fra stati esattamente nella stessa maniera in cui gli individui si relazionano nello stato di natura hobbesiano. Le risposte di H.H. Hoppe ( Democrazia: il dio che ha fallito), così come quelle dei neocon, non sono in


grado di raccogliere la sfida che propone il tempo della globalizzazione in cui viviamo. Per superare tale sfida, nella sua Etica E. Morin propone una riforma della società (che implica anche quella della civiltà) con le riforme della mente, della vita e dell’etica. Il tutto con il concorso di una scienza che, adottando il pensiero della complessità, origini un sapere “riorganizzato e accessibile ai profani” quale presupposto per una democrazia cognitiva: “L’insieme di queste riforme abbraccia la triplice identità umana individuo/ società/specie”. Morin su tali presupposti sembra rispondere alla necessità di una sintesi fra centralità e policentralità, fra pluralità di agenzie decisionali e gerarchia. Se, come egli sostiene, si tratta di promuovere una politica di civiltà alla cui base stiano ‘qualità della vita’, ‘economia plurale’, ‘commercio equo’, senza per questo cadere in eccessi retorici e utopistici e senza ignorare “le virtù o le qualità della civiltà occidentale”, allora dovrà essere ripensato il legame fra Civilization e civility, cogliendo la loro contiguità e la necessità di coniugarle. Ciò poteva avvenire attraverso un ampliamente ed una valorizzazione dello spazio pubblico con l’affermarsi di una ragionevolezza a livello planetario e attraverso la costruzione di istituzioni transnazionali che siano in grado di rappresentare e sintetizzare le esigenze emergenti da tale spazio. Il policentrismo e la partecipazione ai processi decisionali di una varietà di soggetti e di agenzie comporta, inoltre, da parte di questi ultimi il riconoscimento e la delega fiduciaria nei riguardi di tali istituzioni. L’etica planetaria di E. Morin e la nozione di ‘immaginario sociale moderno’, fornito da C. Taylor, - “Per immaginario sociale intendo qualcosa di più ampio e più profondo degli schemi intellettuali che le persone possono assumere quando riflettono sulla realtà sociale in un atteggiamento distaccato. Penso piuttosto ai modi in cui gli individui immaginano la loro esistenza sociale, il modo in cui le loro esistenze si intrecciano a quelle degli altri, come strutturare i loro rapporti, le aspettative che sono normalmente soddisfatte, e le più profonde nozioni e immagini normative su cui si basano tali aspettative” – sono due presupposti fondanti di Barack Obama e della sua “audacia della speranza” e del conseguente programma politico-economicoculturale. Vi è, in particolare, un contesto che riassume compiutamente tale progetto: “…la ‘società del possesso’ non cerca neppure di ripartire rischi e vantaggi della nuova economia fra tutti gli americani; al contrario, si limita a ingrandire i mal distribuiti rischi e vantaggi dell’attuale economia, ‘chi vince prende tutto’: se si è sani o ricchi o anche soltanto fortunati, lo si diventerà sempre di più ; se si è poveri o malati o si incappa in qualche avversità, non ci sarà nessuno a cui chiedere aiuto. Non si tratta della chiave per una vigorosa crescita economica o per la conservazione di un forte ceto medio americano., né certamente per la coesione sociale. Va anzi contro tutti i valori secondo cui abbiamo interesse al successo reciproco. Non è ciò che siamo come popolo”. E’, dunque, questo, lo scenario dell’immaginario sociale contemporaneo che si connota , anche, come sapere comune che rende possibili le pratiche comuni ed un senso di legittimità ampiamente condiviso, esattamente l’inverso del neoliberismo e della società del possesso che ha caratterizzato gli anni dell’amministrazione Bush. Si tratta di una ‘lezione’ che anche il nostro Partito Democratico dovrà tener presente, facendo propria una vocazione internazionale che sembra, all’oggi, essere praticamente inesistente. Bisogna recuperare ‘l’audacia della speranza’, una speranza svincolata per sempre dal suo rapporto di subordinazione alla paura, non vi può essere speranza dove questa viene accompagnata dalla paura. La speranza non può essere riducibile a un mero controaltare complementare, ma deve riacquisire tutto il suo valore dinamico di tensione propositiva.


Schibboleth e i nuovi orizzonti della laicità di Domenico Venturelli

Schibbòleth è parola ebraica che significa spiga di frumento, ramoscello d’ulivo ed altro ancora. Spiga. Il termine, allusione al dono congiunto della generosità della terra e del lavoro dell’uomo, può in certo modo farsi carico di un’antica promessa, in quanto, dando ali alla speranza, immaginiamo la terra come la vorremmo per le generazioni future: la dimora ricca di messi dell’uomo pacificato; l’oggetto costante delle sue attenzioni e della sua cura. Memoria della promessa, apertura all’avvenire, speranza di scoprire, al di là del mare, come nuovo Colombo, la terra mai vista finora si mescolano nel dire profetico di Nietzsche: Così amo ancora soltanto la terra dei miei figli, non scoperta finora, là nel mare remoto: alle mie vele ordino di cercarla senza posa...- non come terra di conquista, bottino e proprietà da spartire tra nuovi signori, ma come abitazione destinata a generazioni di uomini che conoscono la giustizia e la pace. Beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram (Mt 5, 5). Schibbòleth è un contrassegno linguistico atto a spartire, a separare, per la difficoltà che lo straniero incontra a pronunziare correttamente la parola, i membri d’una comunità altra da quella autoctona dei parlanti; perfino una parola d’ordine atta a discriminare i membri di una diversa tribù della medesima stirpe. In questo uso il termine s’incontra in un luogo del libro


dei Giudici 12, 6, che narra un episodio di tale crudeltà ed efferatezza da farci dubitare che la Bibbia sia un libro santo in ogni sua parte: «E gli uomini di Galaad bloccarono i guadi del Giordano agli Efraimiti. E quando i fuggiaschi dell’esercito efraimita chiedevano di passare, gli uomini di Galaad domandavano loro, uno per uno, se erano Efraimiti, e quelli rispondevano di no. Ma gli uomini di Galaad insistevano: “Dicci Schibbòleth!”, e l’altro invece rispondeva: “Sibbòleth!”, poiché non sapeva pronunziare correttamente la parola. Allora li afferravano e li sgozzavano sui guadi del Giordano. Degli Efraimiti, in quell’occasione, ne morirono quarantaduemila». Insieme alla guerra le divisioni, le inimicizie, gli odi feroci tra nazioni di cultura, lingua, religione diverse sono il più antico retaggio della storia umana e ogni nuova generazione, facendosi carico delle innumerevoli sciagure e degli infiniti dolori della storia passata, deve sforzarsi di non ricadere nei medesimi orrori, di porre un rimedio al retaggio della paura e dell’odio ripudiando la guerra, che certo, tra tutti, è il peggiore dei mali. Gli amici che sotto la direzione e il coordinamento di Elio Matassi, Ivana Bertoletti e Carmelo Meazza hanno ideato la Rivista e dato ad essa il nome Schibbòleth si sono richiamati indirettamente al libro dei Giudici, ma direttamente al titolo di una lirica del poeta di lingua tedesca Paul Celan (1920-1970), Schibbòleth, compresa nella raccolta Di soglia in soglia (Von Schwelle zu Schwelle), o, secondo quanto ha scritto Elio Matassi presentando il primo numero della Rivista, al titolo della silloge dedicata dal filosofo franco-algerino Jacques Derrida (1930- 2004) all’opera poetica celaniana: Schibbòleth pour Paul Celan. In questi passaggi il termine assume nuove sfumature significanti. Per un verso diventa parola di reciproco riconoscimento per uomini che, nel mezzo delle bufere della storia, coltivano gli stessi ideali di libertà, fraternità, eguaglianza, vivono la stessa speranza messianica; per altro verso continua a evocare l’esperienza di una cesura, di una frattura irriducibile tra me e l’altro, proprio così risvegliando, col senso dell’alterità e della differenza, il bisogno della condivisione, l’esigenza della parola vera che, in uno scenario di rovina, testimoni per noi due contro ogni violenza. Seguendo queste o simili suggestioni il nome della Rivista si fa evidentemente espressione cifrata di un compito che oggi, nell’epoca della globalizzazione, non è certo possibile eludere: unificata la terra sotto i profili dell’economia, delle finanze, delle comunicazioni, dell’informazione è chiaro infatti che gli uomini, a meno di seguire la via dell’autodistruzione, sono chiamati in ogni angolo del globo a nuove forme di coesistenza, di solidarietà, di cooperazione, rispettose delle differenze culturali nate dalla storia, della pluralità dei popoli, delle lingue, delle religioni - per quanto possa essere ancora un focus imaginarius, un ideale regolativo l’ordinamento cosmopolitico repubblicano pensato da Kant nella Pace perpetua (1795) e in altri suoi scritti come la mèta finale della storia dell’umanità. *** All’esigenza di una nuova condivisione di valori civili attuabile nel rispetto delle differenze culturali e religiose, al bisogno di una società aperta, libera dalla paura perché regolata da leggi di libertà, risponde la ricerca di nuovi orizzonti della laicità, più ampi, più inclusivi rispetto al passato; il carattere militante ma non ideologico di Schibbòleth, la sua attiva speranza di concorrere alla necessaria riforma del costume e della politica in Italia.


La ricerca di nuovi orizzonti è un compito teorico-pratico imposto in prima istanza dal mutare delle circostanze, perché anche la società italiana è e verosimilmente sarà sempre più composita, per la coesistenza in essa di gruppi culturali non omogenei, per la compresenza di una pluralità di fedi, confessioni e comunità religiose alle quali il potere pubblico dovrà garantire, nei limiti dell’osservanza di leggi comuni, eguali libertà ed eguali diritti. Nella loro relativa novità e continua mutevolezza le circostanze non sono però, per chi ha vocazione politica, una penosa costrizione, ma l’ambito di una generosa e intelligente progettualità, di una prudente iniziativa, di un’azione responsabile. La laicità dello Stato e la democrazia liberale, fragili conquiste che l’Europa civile ha pagato al prezzo di lunghi e sanguinosi conflitti, restano, in vista d’una società multiculturale integrata e pacifica, le condizioni imprescindibili e i beni essenziali, per quanto siano beni esposti - oggi come ieri - a tutti i venti della storia. È, se così si vuol dire, il paradosso per il quale solo uno Stato laico, non uno Stato confessionale, solo una democrazia liberale, non un regime confessionale, può essere garante della libertà religiosa dei cittadini e della pluralità delle fedi: un paradosso che mi pare esprima di per sé la superiorità assiologica del principio della libertà su quello della confessione. Nella pratica ciò significa che il potere politico, come non imporrà ai cittadini una determinata visione del mondo (per esempio secolare e profana), così nemmeno favorirà una particolare confessione religiosa (per esempio, in Italia, il cattolicesimo), facendone così una religione di Stato, conforme alla formula religio instrumentum regni. Al di là di quanto è dettato da contingenze politiche immediate agisce forse, nell’odierna riproposizione del tema laicità-religioni, un impulso più intimo, collegato al sorgere, da un lato, di una nuova sensibilità laica per il fenomeno religioso (per la centralità che esso ha nella vita di milioni di uomini, per la sua rilevanza nella sfera pubblica) e, dall’altro, di una nuova sensibilità religiosa per i valori della laicità (in primo luogo l’autonomia e l’inviolabilità delle coscienze individuali). Si tratta di nuove, convergenti sensibilità che potrebbero sortire effetti di riforma grandiosi, se arrivassero davvero a permeare congiuntamente la comunità politica a-venire e le diverse comunità religiose, non esclusa la Chiesa cattolica. Non c’è dubbio, infatti, che c’è anche bisogno, non soltanto per il nostro paese, di una Chiesa romana rinnovata, capace, per usare l’espressione di Rosmini, di curare le sue piaghe, disposta finalmente a lasciarsi penetrare - in base al significato più religioso che politico della formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato» - dal vituperato principio di libertà dei moderni. In fondo, non si tratterebbe che di ritrovare, nella libertà vincolata alla responsabilità per l’altro uomo, il principio stesso del cristianesimo, che attinse la sua legge «unicamente dalla voce interiore, non da comandi e precetti esterni», e appunto perciò, per ripetere parole del laicissimo Croce, «il suo affetto fu d’amore, amore verso tutti gli uomini, senza distinzione di genti e di classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il mondo che è opera di Dio e Dio che è Dio d’amore, e non sta distaccato dall’uomo, e verso l’uomo discende, e nel quale tutti siamo, viviamo e ci moviamo». In una prospettiva allargata al rapporto con le religioni mondiali (ebraismo e islamismo in prima istanza) dovrebbe apparire ancora più evidente che la ricerca di nuovi orizzonti della laicità non può essere veramente disgiunta dalla concomitante ricerca di nuovi orizzonti della religiosità. Potremmo anzi dire, mutuando formule concettuali di Gadamer e di Troeltsch, che si


tende probabilmente da più parti, con maggiore o minore consapevolezza, a una fusione d’orizzonti in grado di comporre in un punto di vista superiore, in una sintesi culturale nuova e più ampia, il logoro dissidio di laicismo e confessionalismo. In definitiva, i nuovi orizzonti della laicità, i nuovi orizzonti della religiosità restano da scoprire giorno per giorno. Ma nessuna sincera ricerca è possibile senza il rifiuto di quello spirito settario, ora arrogante ora saccente, sempre autoritario mai autorevole, che muta la laicità in laicismo, la religiosità in fanatismo. Cacciare dagli altari la religione per porre su di essi la scienza e la tecnica, o, al contrario, restaurare la religione lasciando cadere l’anatema sul mondo moderno, è indice, dovunque avvenga, di una preoccupante mancanza di finesse e di un modo di pensare inadeguato al momento. Invero, dovrebbero essere abbastanza ampi, i nuovi orizzonti della laicità, da includere nella loro sfera i valori religiosi; dovrebbero essere abbastanza ampi, i nuovi orizzonti della religiosità, da includere nella loro sfera i valori della laicità, e con ciò cadrebbero vecchi e anacronistici steccati, né si costruirebbero nuove, artificiali barriere tra l’umanesimo e la religione. In ultimo la convergenza e la compenetrazione, in base al principio della libertà, degli orizzonti della laicità e di quelli della religiosità, avrebbero la conseguenza che la stessa distinzione tra l’uomo di mondo e l’uomo religioso, tra l’uomo consacrato e l’uomo profano - quasi due distinte tipologie umane -, apparirebbe oltremodo problematica. Di più, la stessa opposizione tra la ragione umana e la rivelazione divina tenderebbe in certo modo ad attenuarsi, sorgendo più chiara la consapevolezza che la coscienza degli individui, nella sua inviolabilità e nel suo segreto, è il luogo stesso della rivelazione.


La barbarie inestirpabile di Giovanni Invitto

L’integralismo non è solo quello religioso. Sta riavanzando un integralismo più pernicioso e subdolo: quello razziale. In periodi di miseria culturale il razzismo è la fenomenologia del disagio, la risposta rozza. Pochi giorni fa è avvenuto in un campo di calcio di un grosso centro del Salento che i tifosi della squadra locale abbiano inveito contro il portiere ospite, senegalese, con lo slogan: “Sporco negro. Fratello di Obama”. Inutile qui cercare la fonte, molto evidente, di chi, in Italia e non solo in Italia, ha innescato su e contro Obama l’irrisione razzistica. È lo stesso personaggio che aveva detto che la cultura occidentale è di gran lunga superiore alla cultura islamica: altra logora affermazione integralistica. Ma non interessa qui una querelle esclusivamente politica. Si tratta di rendersi conto che la nostra comunità nazionale si era progressivamente attestata come una realtà dell’accoglienza, dell’intercultura, della pluralità. Quando scoppiano le crisi economiche, ci vogliono bandiere e slogan che distolgano dai reali problemi. Si creano miti negativi, ritornano fantasmi che pensavamo dissolti. Ma laicità vuol dire consapevolezza che culture, fedi, valori sono relativi e che, quindi, pur se non condivisi, vanno rispettati. Ma qui ci troviamo, addirittura, davanti ad un fatto pre-culturale, qual è la razza e il colore della pelle. E se i nuovi barbari fossimo noi?


Considerazioni filosofiche sulla fede nelle reliquie di Andrea Tagliapietra

Nel corso dell’ultimo secolo il corpo sembra aver vinto la bimillenaria battaglia che, all’interno della cultura occidentale, lo opponeva all’anima e alle sue ragioni. Dal corpo carcere e tomba di Platone, alla carne peccatrice del Vangelo, fino alla macchina corporea di Cartesio, l’Occidente ha pensato il corpo come un luogo opaco e passivo, come la sorda resistenza della materia, come l’inerzia senza intelletto della pura vita animale. Il corpo è involucro disprezzabile, sperma fetido, sacco di sterco e cibo per i vermi, come diceva san Bernardo. Ma il corpo è, anche, il corpo di Dio, quell’incarnazione che fa risorgere il sangue e le membra ferite, che pone sugli altari cristiani d’Occidente il Crocifisso, l’icona del Dio invisibile, ovvero l’immagine di un corpo straziato e piagato, di un cadavere appeso al legno con incise nella carne le iscrizioni della più crudele delle sofferenze. Il corpo è reliquia, anatomia del sacro che ne restituisce l’immaterialità nel paradosso mummificato della carne, nella lingua, nel dito, nella ciocca di capelli, nell’occhio del beato,


nelle spoglie incontaminate del santo, come quelle di papa Giovanni, il “papa buono”, che, dopo quarant’anni, hanno conservato nella morte il suo sorriso. Pare che il cranio di Donatien-Alphonse-François de Sade, meglio noto come il “divin marchese”, sia stato acquistato da un frenologo di nome Spurzheim, prendendo subito la via dell’America. Si narra che del grande Napoleone Bonaparte gli inglesi, come ultima forma di spregio, abbiano voluto asportare dalla salma, che ora riposa sotto il marmo rosso del mausoleo degli Invalides, l’augusto ed imperiale sesso, riponendolo in un’ampolla di cui, in seguito, si giunse persino a fare mercato. Conservato con cura, dentro un vaso di vetro pieno di formaldeide è, invece, il cervello di Albert Einstein, che le autorità accademiche dell’Università di Princeton esibiscono ai visitatori di riguardo, quasi si trattasse di un cimelio inestimabile. Così, di fronte ai cuori celebri della collezione conservata presso l’Università di Padova non può non venire in mente la parentela inconfessabile fra questa raccolta, scientificamente ordinata, classificata e conservata, e il sacro culto delle reliquie, che dei santi smembrava i corpi, disossava le carni, scuoiava le pelli, ben prima che la Chiesa riconoscesse la liceità morale delle pratiche anatomiche. La simbologia sacra della reliquia e il rigore positivista del reperto anatomico si sposano nella comune volontà di vedere l’invisibile, nell’esaltazione del valore esaustivo piuttosto che allusivo della stessa presenza corporea. Come appare, in figura, nel celebre frontespizio del De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, il manuale in sette libri che, nel 1543, inaugura la storia dell’anatomia moderna, dove il corpo dissezionato di un uomo prende il posto del libro e il medico, rappresentato nell’atto di sfilare i tendini del braccio, cessa di essere il lettore di un libro per diventare l’interprete di un corpo. Oppure nelle Tabulae anatomicae di Julius Casserius, di qualche anno precedenti, dove è il cadavere stesso che si rialza fino al mento la pelle dell’addome, quasi fosse un grembiule, procedendo all’orgogliosa ostentazione dei propri intestini, «rigogliosamente espansi», scriveva Roger Caillois commentandone l’incisione in un suo saggio, «come una grande corolla barocca»(Au coeur du fantastique, Gallimard 1965). Anche qui, certo, non può sfuggire la diretta analogia con la di poco successiva rappresentazione devozionale dei santi barocchi, dal petto squarciato e con il cuore in mano, successivamente moltiplicati all’infinito dall’iconografia popolare dei cosiddetti «santini». Ecco sant’Agostino, ecco la Vergine Maria, ecco, soprattutto, la possente simbologia del Sacro Cuore di Cristo, trafitto da spade e da frecce. Se ancora ai tempi di Galileo, nei teatri anatomici delle Scuole di medicina non era infrequente che un sacerdote amministrasse l’ufficio funebre mentre il medico sezionava il cadavere; scene pressocché simmetriche si svolgevano, da sempre, nei sotterranei delle canoniche e dei conventi, sul corpo di badesse, abati e vescovi in odor di santità, sottoposti a macabre operazioni di bassa macelleria, con rudimentali dissezioni eseguite da mani tanto devote quanto tremanti. Nell’ambito del cristianesimo contemporaneo la venerazione delle reliquie è un fenomeno del tutto trascurabile, che viene spesso confinato nella dimensione eminentemente folkloristica delle feste patronali. Infatti, l’ingombrante corporeità della reliquia, l’imbarazzante materialismo che essa evoca, appaiono in stridente contrasto con la progressiva spiritualizzazione della religiosità collettiva, che tende ad assumere forme sempre più sfumate ed astratte. Se la religione si razionalizza e si moralizza, se essa


si trasforma in un generico sentimento di ecumenica solidarietà umana, connesso con quei diritti della persona che nessun uomo dovrebbe negare al proprio simile, i simboli religiosi sembrano diventare qualcosa di tendenzialmente superfluo. Ma l’uomo, che i filosofi si ostinano a definire un “animale razionale” è, per molti altri buoni motivi, un “animale simbolico”. E quest’animale simbolico non dimentica che il simbolo centrale intorno a cui ruota la fede cristiana, ovvero la fede che tanta parte ha avuto nella formazione dei paradigmi della cultura occidentale, è quello di un corpo che patisce, che muore e che risorge. I milioni di pellegrini e di curiosi, con il corollario della morbosa attenzione dei media, che seguirono, qualche anno fa, l’evento dell’ostensione della sindone, a Torino, non fecero, in fondo, che ribadire il disarmante bisogno di presenza corporea soddisfatto dal paradosso di un’immagine materiale, una reliquia in cui la sacralità faceva un tutt’uno con la spettacolarizzazione. In questo non si può non scorgere un tratto perfettamente congruente fra l’antica pietà popolare nei confronti delle reliquie e i meccanismi della moderna civiltà dell’immagine. Non a caso, infatti, il simbolo della sindone acquisisce importanza con il progredire di quei mezzi tecnici che, nell’intento di studiarla, la riproducono indefinitamente (fotografia, analisi radiografiche, stereometrie computerizzate, ecc.). Di qui il fascino profano di un oggetto di devozione che rappresenta, al contempo, l’anello di congiunzione fra le più arcaiche e selvagge forme del sacro e il referto spettacolare, solo apparentemente disincantato, della scienza contemporanea. D’altra parte, in analogia con la scienza, ciò che la reliquia presuppone non è la fede, ma l’incredulità e la volontà di sostituirne il dubbio, non con una fede più salda, bensì con quella certezza che della fede non ha più bisogno. La reliquia pretende per sé il valore del fatto, non quello del simbolo. Ogni reliquia ripete in se stessa il gesto di quel Tommaso che, nel racconto evangelico (Gv. 20,24-28), protende la mano verso il costato del risorto per toccarne le ferite. Allora, se la sacra sindone di Torino, l’inquietante telo di lino recante l’impronta del cadavere di un uomo crocefisso che, secondo alcuni, è effettivamente il sudario che avvolse il corpo del Cristo dopo il supplizio del Golgota, mentre per altri, fra cui gli scienziati che nel 1988 ne sottoposero una serie di campioni all’esame del radiocarbonio, è solo un’abile contraffazione medievale, fosse ciò che i sostenitori dell’autenticità ritengono che sia, essa sarebbe, come opportunamente osservano Orazio Petrosillo e Emanuela Marinelli, «la reliquia più preziosa della cristianità»(La sindone. Storia di un enigma, Rizzoli 1998). Una reliquia è, in senso stretto, un reperto corporeo o oggettuale connesso con il culto di un santo. La reliquia ribadisce materialmente la reale storicità del personaggio, evocandone e testimoniandone fisicamente la presenza e, quindi, l’effettiva protezione (di qui, soprattutto nel Medioevo, le frequenti dispute per le spoglie dei santi e, in absentia, la conseguente falsificazione delle reliquie). Del Cristo, tuttavia, non vi possono essere, ovviamente, almeno per il credente, reliquie corporee, dato il dogma della resurrezione, ma solo reperti oggettuali con cui il corpo di Gesù è venuto in contatto - il legno della croce, i chiodi e, appunto, la sindone, vale a dire il sudario funebre che ne avvolse il cadavere prima del miracolo della fede (un altro oggetto, vanamente ricercato, soprattutto in età medievale, è il mitico graal, il calice dell’ultima cena ove Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo). Ora, mentre la storicità dell’uomo Gesù e dei


suoi patimenti non viene più messa in discussione quasi da nessuno, oggetto di fede continua ad essere il mistero del Dio-uomo, vale a dire l’evento centrale, per i fedeli cristiani di tutte le confessioni, della resurrezione. L’insostenibile misto di ingenuità e di arroganza teologica, se così ci si può esprimere, presupposto nella soluzione positiva dell’enigma della sindone è, allora, la sua pretesa di costituire materialmente il reperto stesso della resurrezione, dal momento che, se si accettasse che essa non è frutto di falsificazione alchimistica, ossia di una sofisticatissima e, a tutt’oggi, irriproducibile manipolazione pittorica dell’uomo a fini devozionali, si dovrebbe spiegarne la formazione come l’impronta del corpo del Cristo che, scrivono André Marion e Anne-Laure Courage, «al momento della resurrezione, avrebbe miracolosamente attraversato la stoffa»(Nouvelles decouvertes sur le suaire de Turin, Albin Michel 1997). In questo modo la sindone traduce sul piano materiale, anzi materialistico, ciò che l’orientale teologia dell’icona sosteneva sul piano spirituale, vale a dire la mistica presenza, nell’immagine del divino, della divinità stessa. La sindone, infatti, pretende per sé lo statuto ontologico di un’impronta. A differenza dell’immagine che, come ha ben mostrato Jean-Luc Nancy indagando la ricca tradizione iconografica del Noli me tangere, del me mou háptou, «non toccarmi» o «non trattenermi» (Gv. 20,17) - le parole che, secondo il Vangelo di Giovanni, Gesù avrebbe rivolto alla Maddalena protesa verso di lui accanto al sepolcro scoperchiato -, evoca una tangenza senza contatto, un’assenza in quanto assenza, (Noli me tangere. Essai sur la levée du corps, Bayard 2003), l’impronta si istituisce come prova della presenza. Se l’immagine è già, in qualche misura, astrazione del corpo, sua sublimazione fantasmatica nella sottigliezza differenziante e nella presa di distanza che sono proprie della vista, l’impronta è, al contrario, il peso e la gravità del corpo, la sua concreta tangibilità sensoriale, la conseguenza della traccia impressa dalla sua presenza, dal suo esserci stato. Per documentare questa presenza, in un inquietante miscuglio di positivismo scientista e di devozione religiosa, vengono scomodati dai “sindonologi” che intendono contrastare il responso dell’analisi di laboratorio al carbonio 14 (ossia l’attribuzione del tessuto all’epoca medievale), radiazioni e raggi luminosi, fonti di calore e bombardamenti di protoni, riducendo il centro del mistero della fede cristiana ad una specie di Star Trek dell’antichità. Del resto, come si diceva, ciò che i fautori dell’autenticità della sindone in realtà desiderano, consapevolmente o meno, è di smettere di credere, cioè di non dover più sopportare l’immane fatica del dubbio. La fede, infatti, si nutre del dubbio, lo esercita e lo coltiva quotidianamente, ritornandovi in ogni istante. Nel dubbio sta la croce della fede e, quindi, anche il suo merito, in cielo, ma soprattutto in terra, dove, giorno dopo giorno, il dramma del Christus patiens si ripete, senza il conforto di resurrezione alcuna. La sindone che si ostende è, allora, più icona del dolore che reliquia della gloria e del miracolo, simbolo dell’opacità del corpo piuttosto che traccia spettacolare e paradossale dell’incorporeo e della trascendenza. Essa, infatti, ha sempre molto da insegnarci quale immagine della sofferenza di quel Cristo che ogni uomo è, inchiodandoci proprio sul confine, spesso doloroso, della nostra umanità. Come accadde a quel discepolo che Gesù amava e che, racconta ancora il Vangelo di Giovanni (Gv. 20,5), giunto per primo al sepolcro e viste le bende per terra, rimase sulla soglia e non volle entrare.


Terroni alla riscossa di Lino Patruno La solitudine del Sud come vulnus della nazione di Giuseppe Vacca*

Questi scritti dell’ultimo decennio che Lino Patruno opportunamente raccoglie non sono solo cronache e neppure solo la testimonianza di una doverosa difesa degli interessi della Puglia, della Basilicata e del Mezzogiorno. Sono anche questo, ed era giusto che il direttore del maggiore quotidiano pugliese e lucano assolvesse questo compito. Ma sono molto di più: sono il ripensamento della questione meridionale come questione nazionale nel decennio in cui, espunta la ‘questione’ dall’agenda politica italiana, l’unità del Paese sembra definitivamente compromessa. Se si vuole venire a capo di quell’insieme di problemi che generano il «declino dell’Italia», da dove si deve ricominciare? A me pare questo l’assillo di questi scritti solo apparentemente occasionali. E la risposta di Patruno non solo è del tutto persuasiva, ma, a mio avviso, è anche l’unica possibile:


si tratta di riproporre, con i dovuti aggiornamenti, l’eredità del pensiero meridionalistico. Il meridionalismo non va confuso con il problema del Mez-zogiorno. Certo, classici ed epigoni del meridionalismo – liberali, cattolici, socialisti, comunisti – partivano sempre da questo. Ma non a caso ho detto pensiero meridionalistico. In realtà, da Pasquale Villari a Giustino Fortunato, da Fran-cesco Saverio Nitti a Luigi Sturzo, da Gaetano Salvemini ad Antonio Gramsci, per ricordare solo i maggiori, il pensiero meridionalistico è il tratto distintivo del pensiero politico nazionale. Non esiste un pensiero politico italiano, dopo l’unità, che possa prescindere dai problemi affrontati in quella ‘tradizione’ pur così composita e differenziata. Il meridionalismo è stato il solo continuatore del pensiero politico risorgimentale poiché, se questo aveva affrontato il problema dell’unità d’Italia, il meridionalismo ha scavato nelle cause della sua fragilità e della sua congenita, debole competitività. Se dovessi scegliere uno di questi editoriali come prefazione al libro, sceglierei quello dell’8 gennaio 2006, Sud buono anzi fin troppo. Con una sintesi mirabile per lucidità e semplificazione comunicativa, Patruno scandisce in sei ‘atti’ la vicenda meridionale dall’unità al secondo dopoguerra. Ma non è la storia del Mezzogiorno, è la storia d’Italia. Non v’è dubbio, se non si pone al centro della storia d’Italia la questione del dualismo NordSud, non solo non si capisce la storia del nostro Paese, ma viene anche a mancare il fondamento di qualsiasi programma politico nazionale. In fondo anche il ‘blocco nordista’ che ha preso il sopravvento nell’ultimo quindicennio pensa e opera secondo il paradigma meridionalistico, connaturato alla realtà del Paese. Infatti, solo chi dà per persa la sua unificabilità e non pensa che l’Italia possa più dare battaglia per migliorare la sua posizione internazionale, ripiega sulla parte più ‘forte’ credendo di poter rimuovere (o continuare a gestire demagogicamente) i problemi dell’altra parte. Non è un paradosso perché anche il ‘blocco nordista’, rinunciando ad assolvere una funzione nazionale, parte dal problema del dualismo; solo che lo considera irrisolvibile. Patruno descrive questo molto bene nell’editoriale del 27 luglio 2003 Quel vento che fa male solo al Sud. Rimettere all’ordine del giorno nei suoi giusti termini la questione del dualismo è un compito arduo, culturale prima ancora che politico. Sono almeno trent’anni che la ‘questione’ è stata derubricata: prima dalla vita intellettuale, poi dalla vita politica. La querelle cominciò nella seconda metà degli anni Settanta, quando fu dichiarata la fine della questione meridionale. E la dichiarazione di morte presunta veniva pronunciata da punti di vista solo apparentemente opposti. Le élite politiche partivano dall’idea che l’Italia era sostanzialmente unificata e le classi dirigenti avevano forza e consapevolezza sufficienti per affrontare i problemi delle «aree in ritardo». In fondo si trattava di correggere le patologie d’uno sviluppo «distorto» e l’Italia, divenuta ormai la quinta (o sesta) potenza mondiale per produzione di reddito, era pronta a farlo. Le nuove scuole di pensiero economicosociale partivano da un’analisi opposta, ma implicitamente concordavano con quella visione. Ricognizioni minute dello sviluppo economico mettevano a fuoco i processi di differenziazione territoriale in termini sempre più sofisticati. Il Mezzogiorno appariva una realtà talmente diversificata da renderne impossibile una nozione unitaria. Il paradigma sociologico prendeva quindi il posto di quello storico-politico. Non c’erano Nord e Sud, ma


tanti Nord e tanti Sud, e le disuguaglianze di sviluppo avevano matrici multiple e radici lontane, che risalivano alle oscillazioni secolari del mercato mondiale. L’Italia non era quindi una formazione economicosociale storicamente determinata, ma un ritaglio geopolitico occasionale, in balia dei flutti dell’economia internazionale. Figurarsi se aveva senso mantenere una visione unitaria di una parte di essa! Il punto d’arrivo era già scritto: se tutto si riduce ai processi di differenziazione territoriale, è ovvio che le parti più forti impongano alle parti più deboli i loro interessi e la loro visione del Paese. Così si è arrivati all’assurdo che la tematizzazione oggi in voga del ‘problema italiano’ è la «questione settentrionale». In altre parole, le priorità che s’impongono nell’agenda politica sono dettate dalla parte più forte e Patruno opportunamente ricorda che, mutatis mutandis, questo è sempre accaduto. Ma non è la stessa storia che si ripete. Rappresentare il problema italiano come «questione meridionale» vuol dire quanto meno proporsi di unificare un Paese diviso; declinarlo invece come «questione settentrionale» vuol dire giocare una parte contro l’altra, logorando quello che resta dell’unità dell’Italia. Non credo di forzare il pensiero di Patruno. Da parte mia sottolineo che la visione accennata, e soprattutto la cultura che la sottende, non appartiene solo alle forze che ho sinteticamente indicato come ‘blocco nordista’, ma è ormai introiettata – nei comportamenti concreti quando non nella retorica politica – da quasi tutta la classe dirigente ed è divenuta senso comune. Ma, a differenza del passato, non si tratta del prevalere d’una parte sull’altra dentro un Paese che si vuole unito, ma di compromettere le possibilità persino di pensare unitariamente il futuro dell’Italia come nazione. Questa situazione non si è creata dall’oggi al domani. Per risalire all’origine bisogna ricostruire un processo lungo e ciò richiede conoscenza storica e consapevolezza critica. Negli editoriali di Lino Patruno ci sono l’una e l’altra. I suoi scritti non sono opera di denuncia, sono stati, invece, un lavoro paziente e tenace di indirizzo politico e direzione intellettuale. Le risposte sono già in essi e ne cito ancora uno, a titolo d’esempio. La grande beffa, 29 marzo 1998, contiene le indicazioni essenziali per capire come si è giunti al punto in cui siamo. Con la nascita della Repubblica, la «questione meridionale» fu posta per la prima volta al centro della vita politica e l’Italia intera visse una stagione di sviluppo e di progresso che non aveva mai conosciuto prima. Tuttavia, la modernizzazione industriale e civile dell’Italia repubblicana si fondava su un compromesso fra Nord e Sud che teneva unito il Paese, ma ne riproduceva il dualismo, perché nell’Italia del ‘miracolo’, dell’economia mista e dell’intervento straordinario, il Nord aveva interesse a favorire il passaggio del Mezzogiorno da ‘colonia interna’ a mercato di sbocco dei prodotti della sua industria. Le matrici strutturali del dualismo non furono quindi aggredite e quando quel modello di sviluppo si esaurì il Mezzogiorno venne «lasciato solo dallo Stato in condizioni tali da non poter mai competere con il Nord» scrive Patruno «perché ha meno strade, ha meno porti, ha meno aeroporti, ha meno università, ha meno centri di ricerca». Non è difficile mettere nomi e date a questa vicenda. Vorrei aggiungere, però, che il problema non riguarda solo la competitività del Sud, ma la competitività dell’Italia nel suo insieme. Perciò vorrei allargare l’orizzonte della riflessione. Il «compromesso» fra Nord e Sud di cui parla Patruno s’incrinò alla metà degli anni Settanta perché si stava concludendo il lungo ciclo della regolazione politica dello sviluppo nazionale. L’economia mista, da motore d’una esperienza di modernizzazione eccezionale, divenne una gabbia in cui si consumava la deriva del Paese: declino della grande


impresa, emarginazione dalle nuove frontiere industriali, liquidazione di un’industria culturale fra le più significative dell’Europa continentale, politiche industriali ridotte a salvataggio di aziende decotte, infeudamento dell’economia pubblica a un sistema partitico anacronistico e bloccato. I commentatori più influenti indirizzarono il colpo contro la «razza padrona» e i «bo-iardi di Stato», e la più qualificata schiera di manager che il capitalismo italiano avesse mai conosciuto, generata dal settore pubblico dell’economia, uscì di scena in silenzio quando non nel dileggio. Certo, il controllo partitico delle Partecipazioni Statali aveva allevato anche folte schiere di tirapiedi. Ma dov’erano i ‘capitani coraggiosi’ pronti a subentrare per rilanciare le sorti del Paese? L’altra metà del paesaggio economico e industriale – quella privata – era punteggiata di avventurieri e profittatori di regime che un primato l’avevano sicuramente conquistato; ma era quello di primeggiare nella gara a far deragliare le grandi imprese, con finalità e comportamenti molto meno nobili di quelli esibiti dai «boiardi di Stato». Il momento della verità venne quando si dovette smantellare l’economia mista e non s’è visto nessun gruppo privato in grado di valorizzare i ‘gioielli di famiglia’ che gli venivano generosamente regalati. È una vicenda amara, che ha chiuso ingloriosamente il lungo ciclo in cui l’Italia aveva saputo completare la sua matrice industriale e mutare sensibilmente il suo ruolo nella divisione internazionale del lavoro. È anche una vicenda conclusa; allora, perché rivangarla? Perché non c’è né consapevolezza, né accordo sulle ragioni per cui è andata così. E non si tratta di individuare capri espiatori, quanto piuttosto di rimarcare i limiti di un’intera classe dirigente (innanzi tutto politica, dato il regime di regolazione di un’economia mista con un settore pubblico molto vasto) per il modo un cui ha affrontato il passaggio degli anni Settanta e Ottanta, durante i quali cambiò radicalmente la regolazione dell’economia mondiale. In estrema sintesi, con la fine del sistema Bretton Woods tutte le economie nazionali si trovano nella necessità di orientare le maggiori imprese alla competizione internazionale. Non era questione che si potesse affrontare contrapponendo pubblico e privato, anzi, quanto più ampio e più solido era il settore pubblico, tanto più agevole sarebbe potuta essere l’internazionalizzazione dell’economia. Gran Bretagna, Germania, Francia, (per citare i nostri principali partner e competitori), con strumentazioni diverse che rispecchiavano le rispettive storie nazionali, imboccarono questa prospettiva. L’Italia, invece, scelse la strada del protezionismo, dell’irresponsabilità finanziaria e di un dirigismo anacronistico e inefficace. Con estrema approssimazione, direi che le élite del Paese non furono in grado di comprendere il mutamento dello scenario internazionale. Scambiarono l’avvio della ‘globalizzazione asimmetrica’ e del ‘conflitto economico mondiale’ per una ‘crisi dello sviluppo capitalistico’. E non furono capaci di ricollocare degnamente l’Italia nel concerto delle nazioni: non furono capaci – governo e opposizioni – di rigenerare quella visione del nesso nazionale-internazionale che aveva permesso il grande balzo degli anni Cinquanta. Tuttavia l’Italia non è sostanzialmente arretrata dalle posizioni conquistate nel primo trentennio repubblicano nella produzione di reddito e nei consumi, e questo ha favorito la rimozione degli errori strategici commessi negli anni Settanta e Ottanta. La fine di Bretton Woods spingeva le élite politiche più avvertite ad accelerare il processo d’integrazione europea. Anche in Italia una manipolo di leader illuminati fece sì che il Paese non ne fosse tagliato fuori. Ma come si ricollocava l’Italia in Europa? Alla crisi della grande impresa e alla involuzione dell’economia mista l’Italia reagiva con


l’exploit delle piccole e medie imprese: una novità significativa, che destava l’attenzione degli studiosi, dei politici e degli operatori economici in tutto il mondo perché sembrava riprodurre con successo un modello di sviluppo export-led molto vitale. Ma restavano nell’ombra i magheggi: certo che quel modello di sviluppo sembrava solido, ma si fondava sulle svalutazioni competitive e sull’elusione fiscale, mentre la coesione territoriale e sociale era finanziata con la crescita esponenziale del debito pubblico. Ma forse ancora più dannosa fu la rappresentazione del Paese che sull’exploit delle Pmi fu costruita. Il focus si spostò dallo sviluppo nazionale allo sviluppo locale. Altro che ‘problema italiano’! Non due, ma tre Italie, in cui quella delle Pmi e dei distretti industriali indicava il percorso anche alle altre. Naturalmente gli economisti più avvertiti sottolineavano che la vitalità della piccola impresa si fonda sulla rendita ricardiana. In altre parole, su un complesso di condizioni favorevoli esterne, italiane e internazionali, che non è facile riprodurre. Chi studia l’economia in prospettiva storica – e in Italia ci sono eccellenti Cassandre che possiedono questa qualità – ha sempre avvertito che l’exploit delle Pmi aveva alle spalle il poderoso processo di industrializzazione promosso dalla mano pubblica. Che ‘l’Italia dei distretti’ era figlia di una grande tradizione artigiana accuratamente accudita da una buona scuola tecnica e professionale, e favorita da amministrazioni consapevoli ed efficienti. Insomma, il fenomeno non era estrapolabile, né generalizzabile: era strettamente legato a particolarità territoriali generate da una storia secolare, che non si potevano facilmente riprodurre e diffondere a scala nazionale. Ma questa era la realtà economica più vitale che s’era creata in Italia e quando, dopo Maastricht, si è posto nuovamente il problema della regolazione dello sviluppo, parve che non vi fosse altra via che quella della «nuova programmazione». Che questa fosse la chiave di un ‘nuovo meridionalismo’ è stato smentito dalla realtà e non è tema da approfondire in questa sede. Rinvio ai numerosi editoriali che Patruno dedica soprattutto alla Puglia, per richiamare l’attenzione su due dati fondamentali: malgrado la vitalità e la relativa diffusione dei suoi sistemi d’imprese, che la fanno così ‘diversa’ dalle altre regioni meridionali, la Puglia è una regione del Mezzogiorno e non può spiccare il volo da sola. Inoltre, malgrado i grandi mutamenti verificatisi nella società meridionale nell’ultimo cinquantennio, il Mezzogiorno continua a essere terra di incongruenze e di ristagno, e non è alle viste il decollo d’una classe amministrativa – politica e burocratica – capace di ottimizzare i fondi europei, che hanno preso il posto dell’intervento straordinario, malgrado la catena di comando che vi presiede sia costruita molto meglio del vecchio intervento straordinario. Il sommario excursus che ho tracciato conduce ai problemi dell’oggi sui quali vorrei segnalare le altre due questioni nodali messe a fuoco da Patruno: l’inquadramento della «questione meridionale» in prospettiva europea e il problema delle nuove classi dirigenti. Dopo Maastricht, e ancora di più dopo l’ultimo allargamento dell’Ue, il criterio che distingue gli schieramenti politici nazionali è divenuto, molto più che nel passato, il confronto fra «europeisti» ed «euroscettici». Il confronto ha alle spalle la contrapposizione fra sostenitori dell’Unione come grande area di libero scambio e fautori dell’Ue come nuovo attore politico globale (l’Europa come ‘potenza civile’). Non è un caso che in Italia lo schieramento ‘euroscettico’ sia incentrato sul ‘blocco nordista’ che propugna un neomercantilismo a scala continentale. L’economicismo che impronta la concezione europea di queste forze è speculare a quello che ispira la loro visione dell’Italia, nella


quale signifi il Mezzogiorno è considerato, come ai primi del Novecento, una ruolo cativo nella costruzione europea. In secondo luogo perché da ‘palla essa al piede’ scaturisce che siuna potrebbe possibilità anche inedita lasciardi rotolare modernizzazione fuori dalla storia. del Paese, Negli puntando scritti di Patruno a farne una l’inquadramento grande piattaforma dellalogistica «questione del nuovo meridionale» Mediterraneo nella prospettiva europea non è fruttovede di grandi teorizzazioni, mapossibilità oggetto delle (è la prospettiva in cui Patruno giustamente le grandi che si battaglie creerebbero concrete anche sostenute per il Mezzogiorno). nel decennio e In di terzo proposte luogo politiche perchéfondate questa èsulauna bussola visioned’una strategica politica altrettanto europeaconcreta. dell’Italia Lecapace battaglie di più coniugare significative una visione hanno riguardato unitaria dell’interesse l’Euro e l’Allargamento. nazionale con Si l’impegno leggano glipiù editoriali energico delper 1° l’unità febbraio dell’Ue 2004, In dinanzi difesaalle dell’euro grandicioè sfide deldella Sud,politica e quellomondiale. del 27 maggio Ma vorrei 2001, Sud, meglioqualche scegliererifl ilessione mare aperto. Il 2004 era il terzo anno del secondo aggiungere ulteriore. Quando, governo Berlusconi nel 2001, Eurolandia e molti suoi decollava ‘capi’, dallo e la crescita stesso premier, europeaaripartiva, Tremontiglie Stati a Bossi, Uniti, dopo con aver l’esplosione gestito condella spregevole bolla speculativa negligenzache il passaggio aveva sostenuto dalla lira il ciclo alla moneta della new unica, economy, tuonavano entravano contro in l’euro recessione. accusandolo Non della era una lievitazione normale caduta dei prezzi. del Era cicloanche economico l’anno ma in cui unanon nuova solo forma il deficit, di crisi: il debito nel edecennio la spesa pubblica tornavano impennarsi, maglobalizzazione il governo aveva anche prosciugato precedente gli shocka originati dalla asimmetrica avevano colpito l’avanzonumerosi primario Paesi ereditato periferici dal governo e la Russia precedente, di Eltsin. crollavano Ora unoi shock consumi da globalizzazione e l’Italia si stabilizzava colpiva ilnella cuore crescita dell’economia zero. Infimondiale ne, era l’anno rivelandone in cui la Commissione europea avviavagliuna procedura contro il nostro Paese per fragilità e la nuova condizione: interessi americani e quelli dell’economia mondiale la crescente noninadempienza coincidono più del epatto anzi didivergono stabilità. in Patruno misuradenuncia crescente. senza La mezzifavorì termini la demagogia del egoverno: «Certi ministri internazionale che sull’euro crisi la vittoria della destra Bush cambiò la politica degli continuano Stati Uniti. a sparare, Dal si canto guardano suo l’Ue, benecolpevolmente, dal trarne le conseguenze: dopo la creazione uscire dalla moneta unica». va alaveva cuoreproceduto del problema: lievitazione dell’euro e della BceEnon allalacreazione di incontrollata istituzioni di dei prezzi s’era verificata nel settore dei di servizi, serbatoio dei governo dell’economia chesoprattutto ne garantissero una unità comando. Non era voti di Forza Italia. Dunqueililcompito lassismodidel governo non era né casuale, in grado, quindi, di assolvere secondo polmone dell’economia mondiale. né innocente, Seguendo e Patruno i dettami centradella benesua il bersaglio: ‘dottrina’, «Sappiamo Bush piazzòtutti unache guerra chi nel ha potuto cuore aumentare del Mediterraneo quei prezzi chesenza non motivo solo inferse si è arricchito un duroalla colpo grande, alla anche se ora è tanto spudorato da lamentarsi perdivisioni il calo profonde dei consumi». proiezione dell’Ue verso quest’area, ma provocò fra i Mi viene a mente unsono passostate dei ancora Quaderni del carcere sulpassaggio liberismol’Italia come suoi partner che non superate. In quel ideologia. Postulando la separazione di economia e politica, dice Gramsci, il smarrì la missione unitaria che aveva conquistato come Paese fondatore della liberismo Comunità di solito europea, maschera e daunallora programma non l’hapolitico più riconquistata. ben preciso:Mi «Afferma sembra opportuno che l’attività ricordare economica tuttoè questo propriaperché, della società se è vero civile chee ilche Mediterraneo lo Stato nonè dovrebbe suainternazionali, regolamentazione. Ma … anche liberismo tornato al intervenire centro dei nella traffici è altrettanto vero ilche questo è una “regolamentazione” di carattere statale, e mantenuto non può essere fonte di asimmetrie e frizioni conintrodotto gli Stati Uniti che solo per Ue via coesa legislativa e coercitiva ... . Ilattore liberismo è un programma politico, una e capace di agire come politico globale può affrontare. È destinato un problema a mutare enorme, … il perché programma si tratta economico di costruire dello unaStato nuovastesso, partnership cioè a euroatlantica: mutare la distribuzione un nuovodel asse reddito fra Usa nazionale» e Ue orientato (A. Gramsci, al multilateralismo Quaderni del Einaudi, di Torino 1975, p. 1590). ecarcere, alla creazione un ordinamento mondiale multipolare, fondato sul Ma quellod’interdipendenza, che in questa sede importadella di più sono internazionale, gli argomenti in principio il rispetto legalità lo sviluppo difesa dell’euro. sostenibile L’euro, e l’affermazione scrive Patruno, dei diritti vuol dire umani, Europa, nella cooperazione e l’essere in comporta in lo ordine» e «defi cit non più alto di una certa eEurolandia nella reciprocità. Ma«bilanci è anche scenario in cui il Mezzogiorno si potrà giovare percentuale»; della nuova «significentralità ca anche del inflazione Mediterraneo minima e difesa l’Italiadi svolgere una moneta un ruolo che altrimenticome sarebbe sbattuta ai quattro venti», e tassi di interesse contenuti; dignitoso nazione autonoma, responsabile e unita. Se «signifi queste ca sono arrivolealsfiSud de della dei globalizzazione, fondi europei anzitutto quale cheper siale il federalismo infrastrutture»; che dagli «signifi schieramenti ca infine nuovi politici mercati italiani a disposizione si propugna, delle emerge imprese una meridionali». responsabilità In conclusione, zerogovernano sull’euro èlel’altra faccia della demagogia sul Sud comune dellesparare forze ache regioni meridionali. Nel contesto creato ‘palla aldalle piede’ politiche e su «Roma regionali ladrona». europee Ma denunciarla e dai nuovi mettendo poteri deiingoverni campo gli interessi delpolitica Mezzogiorno non èha‘leghismo bensìunitariamente riattivazione locali la classe meridionale il dovere sudista’, di affrontare idel problemi paradigma del Mezzogiorno meridionalistico come persedimostrare operasse in ancora un’unica una macroregione. volta che non Il si può suo primo pensare compito la nazione è diitaliana metteree insieme rappresentarne le risorse glifondamentali interessi se non dello si ha la volontà di renderla unita ereti, piùlogistica forte tutta intera, e Sud sviluppo territoriale: acqua,più energia, e simili. PerNord questo nel 2004 insieme. Patruno Questo salutava oggi appare con enfasi con chiarezza giustificata persino l’iniziativa maggiore dei ‘governatori’ se si iscrive il problema di deldardualismo italiano nella dimensione europea. può meridionali vita a una concertazione macroregionale. EgliCome scriveva: l’Italia che è ‘due’ competere efficacemente e dare un contributo rilevante alla costruzione Certo non europea sarà la fise ne quel dei vizi ‘due’, delinvece Sud, adicominciare provare a essere dall’incapacità ‘uno’, si


riduce a metà? Ma oltre all’euro il ‘blocco nordista’ attaccò anche l’allargamento, agitando demagogicamente l’argomento che l’ingresso nell’Ue di tanti nuovi Paesi poco sviluppati avrebbe finito per tagliare fuori il Mezzogiorno dai fondi europei. È il tema dell’editoriale Sud, meglio scegliere il mare aperto, già citato. L’argomento principale di Patruno è che l’allargamento non è un ‘pericolo’, ma una ‘opportunità’, perché crea nuovi mercati, più idonei alla proiezione internazionale delle imprese meridionali. La risposta alla sfida dell’allargamento non può essere un nuovo protezionismo, peraltro improponibile, ma la modernizzazione dell’economia meridionale, per la quale internazionalizzazione e competizione sono leve essenziali. È, ancora una volta, la lezione del pensiero meridionalista, che combatteva il protezionismo in quanto impalcatura del patto leonino fra i ‘poteri forti’ del Nord e del Sud fondato sulla soggezione del Mezzogiorno prima come ‘colonia interna’, poi come ‘mercato di sbocco’ del Nord industriale: due soluzioni che, come abbiamo detto, hanno riprodotto il dualismo e magari l’hanno spostato più avanti, ma non ne hanno aggredito le matrici. È la lezione di un liberismo non ideologico, consapevole della realtà del Novecento, il secolo nel quale la storia è divenuta storia mondiale, i nazionalismi sono stati l’origine delle più grandi catastrofi, interdipendenza e globalità sono i paradigmi necessari per maneggiare realisticamente i problemi delle grandi e delle piccole nazioni, la storia d’Italia è una convenzione culturale e si può scriverla correttamente solo ripercorrendone le interazioni con la storia europea e mondiale. Dopo la fine di Bretton Woods, della guerra fredda e del mondo bipolare tutti i Paesi si confrontano con una nuova realtà: la produzione, la circolazione e la distribuzione della ricchezza si distaccano dai territori, non rispettano più le frontiere degli Stati nazionali né le barriere amministrative, doganali e persino militari. Di qui l’ultimo aspetto di questi scritti su cui vorrei attirare l’attenzione. Di fronte a tale mutamento, Patruno riprende la lezione di Salvemini e di Sturzo che cercavano la soluzione ai problemi meridionali in una proiezione geopolitica del dualismo italiano. In un mondo aperto e globale una visione realistica dei problemi del Mezzogiorno può fondarsi solo su una proiezione internazionale differenziata delle aree del Paese, saldamente guidata, però, da una classe dirigente nazionale, unitaria, consapevole e responsabile. Una geopolitica della questione meridionale si può oggi fondare sulla nuova centralità del Mediterraneo. «Il Mediterraneo» scrive Patruno nell’editoriale del 30 marzo 2008, Rischio uscita dalla storia «è tornato il cuore dell’Europa. Dal Mediterraneo passano i traffici mondiali come avveniva prima che Colombo partisse da Palos … e spostasse le rotte verso l’America. Ma questi traffici il Sud deve saperli intercettare per evitare che lascino soltanto briciole di passaggio … . Altrimenti il Mezzogiorno si gioca anche una posizione geografica che da marginale è diventata strategica e competitiva». Vedremo fra breve come Patruno individui le nuove responsabilità della classe dirigente meridionale al riguardo. Vorrei prima aggiungere qualche considerazione al brano citato. Che la globalizzazione post-’89 ricollocasse il Mediterraneo al centro dei traffici internazionali era una opportunità percepita lucidamente dalle élite europee che avevano concepito il trattato di Maastricht. Infatti, la creazione dell’euro fu seguita dal varo del Partenariato euromediterraneo (il ‘processo di Barcellona’ del 1995) e venne rafforzata la proiezione mediterranea dell’Ue. È opportuno ricordarlo per alcune ragioni fondamentali. Innanzi tutto perché solo in questa prospettiva l’Italia può assolvere un


di farsi sentire ad una sola voce. Ma ciò che è avvenuto a Napoli giorni fa, è avvenuto per la prima volta dall’Italia unita. I presidenti di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Molise decidono di collaborare vedendosi a date fisse e cercando una posizione comune su problemi comuni. E provava a buttar giù un’agenda incentrata sui temi sopraelencati (Bravo Sud ad una voce sola, 7 marzo 2004) incitando, otto mesi dopo, i governatori meridionali a esprimere un «pensiero» e a far valere un’agenda comune (Ma il Sud dica infine cosa vuole, 7 novembre 2004). L’anno dopo si creò persino una omogeneità politica fra quei governi regionali: il centrosinistra, tranne in Molise, vinse dappertutto e nel 2006 conquistò anche il governo del Paese. Ma, malgrado l’omogeneità politica fra governi regionali e governo nazionale, un’azione comune dei ‘governatori’ meridionali capace di riproporre la «questione meridionale come questione nazionale» non mi pare si sia sviluppata. È necessario provare a darne una spiegazione. E la spiegazione penso che stia nello stato attuale del sistema politico. Sulle ceneri della Prima Repubblica si è impiantata una filiera di leggi elettorali del tutto incongruenti: sette leggi diverse – dalle circoscrizioni al Parlamento europeo – il cui tratto comune consiste nel favorire la personalizzazione della politica e i particolarismi più eterogenei. Questo ha impedito la ricostruzione di veri e propri partiti e favorito la loro frammentazione. Un fenomeno analogo si è originato nelle organizzazioni d’interesse, sempre più corporative e incapaci di adempiere i loro compiti secondo una visione dell’interesse generale. Insomma, non si sono creati veri e propri partiti nazionali, e non sono partiti nazionali neppure i pochi partiti la cui rappresentanza è distribuita più o meno proporzionalmente in tutto il territorio del Paese. I partiti attuali sono costruiti o su un agglomerato di interessi corporativi, o su una retorica dei diritti di stampo parasindacale. E sono partiti che non promuovono la partecipazione, ma al massimo la mobilitazione elettorale. Sono organismi dominati da leadership personali e da cordate di boss che non assolvono alla formazione di nuove classi dirigenti e impediscono al loro interno il ricambio delle élite. La ragione fondamentale è che non sono costruiti su una visione complessiva dell’interesse nazionale perché non si fondano su una interpretazione della storia d’Italia. In generale i partiti, anche quando sono fondati sulla visione dell’interesse nazionale, lo declinano in modo parziale: esprimono visioni di parte e interessi di parte. Ma assolvono la loro funzione solo se in questo modo di operare, che è il sale della democrazia, le parti hanno l’ambizione di giustificare la propria parzialità con una visione realistica dell’interesse nazionale. In altri termini, partiti nazionali sono quelli che fondano i loro programmi su una propria visione delle grandi questioni del Paese, ma per i quali le questioni nazionali sono le stesse, anche se declinate in modi contrastanti. Provo a spiegarmi meglio con un esempio. Se guardiamo al passato, l’Italia ha conosciuto veri partiti nazionali solo con la nascita della Repubblica perché, se ad esempio consideriamo la storia della Dc e del Pci, quei partiti proponevano soluzioni diverse ma agli stessi problemi. Dc e Pci ebbero opzioni contrapposte sulla collocazione internazionale dell’Italia, ma condividevano l’idea che questa dovesse contribuire alla pace e alla collaborazione fra i popoli. Quanto alla politica interna, erano partiti costruiti su interpretazioni diverse, ma componibili, della questione meridionale, della questione cattolica e della questione vaticana. Mutatis mutandis, nulla del genere esiste o è in gestazione nella Seconda Repubblica.


Con l’iniziativa apprezzata da Patruno i ‘governatori’ delle regioni del Sud hanno individuato una strada valida per rimodulare la «questione meridionale», ma per farla avanzare non basta la costruzione d’una agenda fondata sugli interessi comuni. È necessario correggere radicalmente gli indirizzi generali della politica italiana e creare un nuovo spirito pubblico. ‘Una riforma intellettuale e morale’, si sarebbe detto in altri tempi, che senza nuovi partiti nazionali non può avere la forza per affermarsi. In tutti questi scritti aleggia il fantasma di Bossi, che viene esecrato come personificazione della disunità d’Italia e di tutti i suoi mali. Per necessità comunicativa il giornalismo è ricco di metafore e credo che Patruno abbia scelto Bossi come testa di turco delle sue battaglie per rendere più facile la comunicazione sintetica del suo pensiero. In realtà la Lega Nord è una metafora illuminante dei nostri rischi in modo più profondo di quanto non dica il suo folclore. Sul cadavere dei partiti nazionali, che giaceva lì da tempo non ancora rimosso, alla fine degli anni Ottanta Bossi costruì un partito regionale che, pur agendo come un ‘sindacato territoriale’, ha elaborato una visione del Paese e una politica conseguente. In altre parole, è una risposta, anche se da combattere, al collasso della ‘repubblica dei partiti’. Ma se non rinascono i partiti nazionali la Lega farà scuola; anzi la sta già facendo, con risultati ancora più spregevoli. Cresce a macchia d’olio l’area dei gruppi sociali e dei territori che concepiscono la politica come pura proiezione corporativa dei propri interessi. E cresce il rischio che in altre aree del Paese, che non hanno la consistenza ‘del Nord’, nascano altri partiti regionali molto peggiori, macchine elettorali di avventurieri politici spregiudicati che non hanno neppure lo spessore dei Bossi, dei Calderoli e dei Maroni, né il seguito di classe amministrativa localistica e corporativa, ma efficiente e dignitosa che la Lega Nord bene o male ha allevato.

* In collaborazione con la rivista Argomenti Umani diretta da Andrea Margheri. Pubblichiamo l’Introduzione al volume di Lino Patruno «Terroni, alla riscossa», che uscirà il prossimo dicembre per i tipi dell’editore Manni di Lecce


Ancora sull’università (una modesta proposta) di Mauro Visentin

Da qualche settimana l’università è sotto accusa. Il governo, dopo aver introdotto con la legge 133 significativi tagli al fondo di funzionamento ordinario che alimenta le casse degli atenei italiani dal prossimo anno a seguire in modo sempre più accentuato (si parte da una decurtazione di 63,5 milioni nel 2009, per arrivare a 455 milioni nel 2013, a regime), si è trovato a dover fronteggiare una levata di scudi imprevedibilmente massiccia e unitaria, che ha coinvolto studenti e docenti, forse mai prima d’ora così concordi. Ed è corso ai ripari. Come tutti quelli che non hanno una coscienza proprio limpida e specchiata, l’attuale maggioranza ha iniziato a difendersi attaccando. E ha subito trovato una facile sponda nella diffusa abitudine giornalistica di criticare tutto e tutti (salvo se stessi), facendo appello alle migliori risorse della demagogia italica (trans- e cispadana, per una volta unite e convergenti). Professori incapaci e impreparati, con pochissimo appeal all’estero – cioè quell’eldorado dove, com’è noto ad ogni italiano che si rispetti, regnano sovrane l’incorruttibilità, la meritocrazia, la virtù – (a


parte, beninteso, i giovani ricercatori meritevoli, costretti, dalla sordida camorra baronale, all’esilio); un sistema di reclutamento che premia il servilismo e l’ignoranza; una inverosimile proliferazione di sedi e corsi di laurea dai nomi talvolta bizzarri che forniscono competenze insufficienti o inutili; una massa crescente di studenti fuori corso e una spesa decisamente fuori controllo; un assenteismo generalizzato e un livello della ricerca da terzo mondo. La lista potrebbe continuare. Tutto falso? Nemmeno per sogno: tutto (o quasi) in buona misura vero (a parte le iperboli e le esagerazioni volte al perseguimento dell’“effetto”). Ma nulla che si possa curare con i tagli alla spesa. I tagli avrebbero senso se il malato fosse terminale. Ovvero se non ci fossero terapie disponibili per tentare di risollevarlo dal misero stato in cui versa. E’ così? Ebbene, se fosse così bisognerebbe essere onesti fino in fondo e, sfidando il paradosso, rischiare la lapidazione per dire, chiaro e tondo, che allora sarebbe anche del tutto inutile parlare di “riforma”, e che i tagli, di qualunque entità, sarebbero comunque insufficienti: se fosse così meglio tagliare tutto, non solo qualche punto percentuale, e chiuderle, una buona volta, queste università indecorose, mandando i nostri studenti all’estero con il danaro pubblico tanto virtuosamente risparmiato! Se però le cose non stanno così, e nonostante tutto l’università italiana è un malato grave ma curabile, i tagli non servono a nulla, o servono soltanto a peggiorare le cose (e magari a coprire i buchi di bilancio che qualche elargizione elettoralmente mirata in settori diversi dalla scuola e dalla formazione è inevitabile che apra). Se l’Italia è (o ritiene di essere) un Paese moderno, in grado di competere con quelli ad essa affini e assimilabili, deve comportarsi come questi ultimi: non deve risparmiare sulla formazione e sulla ricerca, ma spendere di più e meglio. Sul primo punto (spendere di più) dubito che il governo (e in particolare il ministro dell’economia) sia d’accordo. Sul secondo (spendere meglio) chi non sarebbe pronto a consentire? Viva il merito e abbasso il demerito! (come dire: viva il bene e abbasso il male). Senza dubbio, ma come? Ecco, qui le ricette abbondano. Non c’è nessuno che non abbia la sua. Ma ci sono alcune “ricorrenze”. Per esempio, i professori stranieri nelle commissioni di concorso. Un uovo di Colombo che il provincialismo mai sazio di governanti, giornalisti e docenti anglofoni non si stanca di riproporre. Ora, a costo di apparire baronale, nazionalista, corporativo, insomma un difensore dei privilegi male acquistati della casta accademica, non posso esimermi dall’osservare quanto segue. E in primo luogo che questo metodo (comprensivo di un criterio di valutazione basato sull’ impact factor) va bene, può andar bene (forse), fatta salva la devastante immagine che la ricerca italiana darebbe di sé al di fuori dei nostri confini (ma si può sempre sostenere che questo sia, di fronte alla corruzione dilagante nei concorsi, il male minore), solo per le discipline scientifiche e, in generale, per quelle in cui è diventato ormai corrente l’uso della lingua inglese, visto che un simile uso rende i testi che vengono pubblicati per divulgare gli esiti delle ricerche, di qualunque provenienza e nazionalità siano coloro che li redigono, accessibili a tutta la comunità scientifica internazionale. Ma non va bene, non può andar bene, per le discipline nelle quali, a causa di ragioni che sono indipendenti dalla volontà e dalla solerzia degli studiosi, non può essere utilizzato un simile “esperanto”. Appartengono a quest’ambito la filologia (anche se, nel caso dell’italianistica, l’obiezione non sarebbe dirimente, per il fatto che i – pochi – studiosi stranieri che se ne occupano, l’italiano devono conoscerlo per ragioni professionali), la filosofia (con l’eccezione della logica formale e matematica) la storia, l’archeologia, il diritto. Tutti campi nei quali la


produzione scientifica, nella maggior parte dei casi (e, come dicevo, per fondati motivi, visto il legame più intrinseco che in queste discipline l’oggetto stabilisce con la forma dell’esposizione), si presenta sotto la veste di testi redatti nella lingua madre degli autori. Per adottare il metodo tanto caldeggiato nella formazione delle commissioni relative ai concorsi che riguardano le aree disciplinari appena elencate, occorrerebbe rivolgersi sempre ai (pochi) studiosi stranieri che sommano alla competenza scientifica in questi ambiti una buona conoscenza dell’italiano, e dal momento che questi studiosi sono, come è inevitabile, quelli, tra gli stranieri, maggiormente legati all’Italia e ai ricercatori italiani, ne consegue che il risultato finirebbe con l’essere, si può ritenerlo molto verosimile, più di facciata che di sostanza, almeno riguardo allo scopo che i proponenti l’auspicata riforma si prefiggono, ossia quello di moralizzare i concorsi. Altro tema ricorrente, il mercato. Mettere, cioè, gli atenei in competizione virtuosa fra loro. Ora, se si accampa questa proposta senza avanzarne altre, significa che, seguendo una tradizione presso di noi sempre molto fiorente, si preferisce appellarsi ad un principio astratto (e spesso ideologico) piuttosto che confrontarsi con la situazione effettiva con cui si ha a che fare. Infatti il mercato è un regolatore efficace solo se l’università è privata, o meglio, quando il sistema universitario come tale è, in massima parte e nelle sue espressioni più eccellenti, non pubblico (come negli Stati Uniti). E questo significa: solo se il titolo di studio che gli atenei rilasciano non ha valore legale, ovvero non è riconosciuto dallo Stato. Ma questa – che è, se si pretende di affidare al mercato la selezione meritocratica fra le diverse università, l’unica proposta seria e coerente – è un’idea avanzata solo, al momento, da qualche “bello spirito” (come Giovanni Sartori e come l’estensore – di cui ignoro il nome – di una proposta di legge in tal senso che mi risulta essere stata già da qualche tempo depositata in Parlamento, non so bene se presso il Senato della Repubblica o la Camera dei deputati). L’ipotesi è avanzata solo da uno sparuto drappello di sostenitori. E se i sostenitori sono così pochi non è per caso ma per ottime ragioni. In linea di principio, sia l’università pubblica sia quella privata hanno i loro pregi e i loro difetti. Mentre si può senz’altro dire che un sistema misto come quello che si è cercato di introdurre (e in parte si è introdotto) da noi con l’autonomia (e ancora di più, se il progetto dell’attuale maggioranza passasse, verrebbe introdotto con la trasformazione degli atenei in fondazioni di diritto privato), cioè, per intenderci, un sistema pubblico che funzioni (o finga di funzionare) privatamente, è, senz’ombra di dubbio, molto peggiore di entrambi gli altri due (nel primo dei quali – ossia quello pubblico – può certo rientrare anche una forma mista in cui il privato funga da erogatore di un servizio che si rivolge alla collettività nazionale e dunque funzioni in modo pubblico e non privato). Vediamo allora di esaminare partitamente, per poterci orientare meglio, i pregi e i difetti di tutte e due le forme “pure” di ordinamento universitario che si sono affermate nel mondo occidentale (quella pubblica che adotta criteri di funzionamento pubblici e quella privata che funziona privatamente). Il sistema privato ha, in linea di principio, due limiti fondamentali. Uno riguarda i costi della formazione che restano a carico dei cittadini e che sono infinitamente più alti di quelli del sistema pubblico. Con la conseguenza di risultare un modello di formazione superiore molto squilibrato dal punto di vista dell’equità sociale. L’altro concerne la ricerca di base, che è assai meno appetibile, agli occhi di un finanziatore privato, di quella applicata, ma che è imprescindibile per l’avanzamento generale del sapere


e che ha (in tempi che non sono, tuttavia, prevedibili con certezza e che possono essere anche molto lunghi) ricadute spesso decisive nel campo stesso della scienza applicata e della tecnica. Si tratta, insomma, di un investimento a lungo raggio, fondamentale ma molto oneroso e dalla rimuneratività non immediata. Dunque, di rischio elevato per chi investe capitali propri e non pubblici. In compenso, il modello statunitense è in grado di fornire, in un relativamente ristretto numero di casi, servizi molto efficienti, strumentazioni d’avanguardia e docenti di fama, garantendo, perciò, a coloro che hanno i mezzi per accedere alle università più prestigiose, un avvenire quasi certamente di successo. Un modello di questo tipo può parzialmente ovviare ai due limiti che ho appena denunciato con un efficiente sistema di borse di studio per i non abbienti meritevoli e per le minoranze etniche, da un lato, e, dall’altro, con una fiscalità fortemente agevolata per chi investe in operazioni culturali di tipo mecenatesco, contribuendo così anche ad indurre comportamenti virtuosi in una larga componente del ceto imprenditoriale, che, infatti, negli Stati Uniti manifesta una propensione ad investire in cultura e ricerca a fondo perduto assai più significativa di quella che si registra da noi in Europa. Il sistema pubblico è certamente più equo di quello privato, ma per evitare sprechi e disservizi (tutto ciò che è pubblico – specie in un Paese come l’Italia, contraddistinto da un senso di appartenenza nazionale così flebile da risultare a tratti del tutto sfuggente – viene spesso utilizzato e gestito con grande sciatteria) è necessario che sia sottoposto a vincoli precisi e molto rigidi, il cui rispetto deve essere imposto e tutelato in modo centralistico. Questi vincoli devono avere essenzialmente un obiettivo: evitare che la necessaria autonomia amministrativa (è infatti assurdo che un ateneo debba rivolgersi al ministero dell’università anche per acquistare un temperamatite) si trasformi, in misura progressiva, in autonomia politica (relativa, cioè, a scelte strategiche e di indirizzo riguardo alla formazione e alla ricerca), ovvero ad impedire che, come dicevo prima, l’università pubblica funzioni in modo privato (socializzando gli oneri e privatizzando i ricavi). Il più importante di questi vincoli deve essere affidato al sistema di valutazione. E in proposito occorre affermare con chiarezza un principio, ovvero che un modello di istruzione universitaria a base pubblica non può essere regolato con criteri privatistici, cioè, in altre parole, da meccanismi di mercato. Il mercato, per un sistema di questo tipo è un pessimo regolatore, e non ci vuole molto a capire perché. Abbiamo detto che un sistema pubblico implica (e impone, se si vuole che le parole abbiano un senso) che il titolo rilasciato da ciascun ateneo che ne fa parte (sia esso pubblico o privato) abbia valore legale e riconoscimento giuridico. In tal caso, dovunque conseguito, il titolo è lo stesso e ha lo stesso valore. In un sistema di questo tipo, finanziare le università ricorrendo a criteri come il numero degli studenti iscritti, quello degli studenti in corso o anche quello degli studenti laureati significa fare esattamente il contrario di ciò che tutti riconoscono come necessario, ossia premiare il merito, la virtuosità, l’efficienza degli atenei. Perché? Non ci dovrebbe essere neppure bisogno di chiarirlo, tanto la cosa è evidente: quando l’esito è comunque garantito ed è dovunque lo stesso, il numero affluisce là dove il risultato si consegue con lo sforzo minore. Un regime di erogazione dei fondi basato su questi criteri non potrebbe, pertanto, fare altro che favorire una concorrenza al ribasso, una corsa all’abbassamento del livello di severità e rigore per quanto riguarda la qualità dell’insegnamento impartito e la selettività delle prove da superare per conseguire il titolo. Per questo, come ho già detto,


un’università pubblica che funzioni con criteri privati (adottando, cioè, il mercato come regolatore), al di là delle buone intenzioni con le quali da parte di qualcuno si propone convintamente di imboccare questa strada, è il peggiore dei modelli possibili. L’unico modo con il quale, in un sistema di istruzione superiore essenzialmente pubblico, si può validamente misurare l’efficienza degli atenei e la qualità del servizio erogato (in termini di trasmissione del sapere, livello della ricerca e capacità formativa) è quello di conferire ad un’agenzia indipendente il compito di misurare il grado delle competenze in entrata e in uscita, rispettivamente, degli iscritti, dei laureati e degli specializzati di ogni singola università, dando così luogo ad una classifica nazionale, che possa essere resa pubblica e quindi anche accessibile a società e aziende private. Adottando un metodo di valutazione come questo, la competizione fra università statali diventa virtuosa e un sistema di istruzione superiore a base pubblica può presentare livelli di qualità e di efficienza in tutto e per tutto paragonabili a quelli di un sistema a base privata, e per quanto riguarda la ricerca fondamentale perfino più elevati. Il problema, in ogni caso, è scegliere con coerenza, evitando i pasticci e le confusioni: proprio il contrario di quello che, sin qui, si è fatto da noi, da parte di governi di ogni colore. In generale, visto che trapiantare un sistema radicalmente diverso e nato per soddisfare esigenze diverse in un contesto dove tradizioni, abitudini e mentalità non sono conformi ad esso presenta costi elevatissimi e richiede un tempo di rodaggio molto lungo, nel corso del quale sprechi, disagi e inefficienze probabilmente aumenterebbero anziché diminuire, è evidente che, ove questo sia compatibile con un miglioramento significativo degli standard di prestazione che al momento appaiono insoddisfacenti, risulterà preferibile mantenere, migliorandolo, il sistema in vigore piuttosto che sostituirlo con uno completamente nuovo. In queste settimane, come ricordavo all’inizio, L’università italiana è al centro di uno scontro molto acceso fra studenti e docenti, da una parte, il ministro e la maggioranza che sostiene compattamente il governo, dall’altra. E, come sempre avviene in questi casi, la demagogia e la retorica di cui si serve, per difendersi, soprattutto la signora Gelmini, non lasciano nulla all’immaginazione. Ma le idee di riforma che stanno dietro la cortina fumogena delle battute polemiche e delle rivendicazioni di maniera non sembrano molto limpide. Prendiamo il caso dei concorsi recentemente banditi dopo un blocco durato oltre due anni. Il ministro è intervenuto con decreto, lasciando immutati i bandi (come non si poteva evitare di fare senza ledere i diritti acquisiti delle università che li avevano emessi e dei concorrenti che avevano presentato domanda di partecipazione) ma sospendendo le procedure elettorali per la nomina delle commissioni, in attesa di sostituirle con procedure nuove, di cui sono state rese note le linee guida. In sostanza, si tratta di tornare ad un meccanismo simile a quello vigente per i concorsi a cattedra quando ancora le commissioni erano nazionali e le procedure delle prove gestite centralmente dal ministero, vale a dire: l’elezione di una rosa di commissari potenziali (pari a tre volte il numero di quelli necessari per comporre le commissioni) e l’estrazione da questa rosa dei commissari effettivi per sorteggio casuale. Quando il meccanismo appena descritto veniva utilizzato per costituire un’unica commissione nazionale per ogni settore scientifico, l’ostacolo, rappresentato dal sorteggio, che veniva opposto in questo modo agli accordi tra i docenti dotati di maggior peso politico all’interno di un raggruppamento


disciplinare era facilmente aggirabile per via dei numeri, complessivamente esigui, necessari alla composizione della rosa, oltre che grazie al ferreo controllo che il potere accademico dei suddetti professori era in grado di esercitare sull’elettorato attivo e passivo. Ora che l’espletamento delle procedure concorsuali è stato trasferito, in nome dell’autonomia, dal centro alle periferie e le commissioni sono, per ogni settore scientifico-disciplinare, molteplici (una per ogni bando, ossia per ogni posto disponibile) si tratterebbe di eleggere decine di commissari potenziali per comporre una rosa (anche se, al riguardo, il testo del decreto non è chiaro) che in molti casi (a seconda del numero di docenti presenti nel raggruppamento e del numero di concorsi banditi) potrebbe coincidere con quello di tutti gli ordinari della disciplina o addirittura eccederlo, trasformando il meccanismo di selezione dei commissari in un puro sorteggio. E’ una panacea, il sorteggio? Difficile ammetterlo, anche se i consensi che sembra raccogliere al di fuori dell’università potrebbero far pensare che opporsi ad esso sia solo un modo per cercare di conservare un potere di controllo corporativo. Tuttavia, anche a prescindere dal fatto che, per quello che so (ma potrei sbagliarmi), il sistema del puro e semplice sorteggio non viene utilizzato in nessun paese del mondo per nominare i membri delle commissioni esaminatrici dei concorsi universitari, resta che come metodo esso può rappresentare una soluzione solo se diamo per scontato che i docenti con più peso politico-accademico siano anche quelli scientificamente meno attivi o magari quelli meno rispettosi dell’oggettività che deve contraddistinguere ogni scelta in questo campo. Due condizioni, peraltro (in particolare la prima), che è difficile ammettere come indiscutibili visto che, quantunque il controllo di un vasto apparato di potere accademico richieda tempo ed energie che sembrerebbe naturale supporre sottratte all’impegno scientifico, è un fatto incontestabile che ci sono docenti in grado di ottimizzare a tal punto le loro prestazioni (dote che invidio loro sinceramente, io che non so fare più di una cosa alla volta) da riuscire ugualmente bene in entrambi i campi. D’altra parte, se a monte di questa decisione stesse invece il convincimento (che i quotidiani e gli altri mezzi di informazione sembrano al momento molto impegnati a diffondere) secondo cui tanto, comunque, il corpo accademico nel suo insieme è composto solo da individui screditati e di infimo livello morale, non si vede come un sistema fondato sul sorteggio potrebbe cambiare le cose, essendo evidente, se la premessa è questa, che in ogni caso la scelta avverrebbe secondo criteri eccepibili. A questo punto vorrei avanzare, tenendo fede all’impegno cui allude il sottotitolo di questo intervento, una (modesta) proposta. Non senza, tuttavia, avere, prima, chiarito alcuni presupposti che mi sembra non si possano, responsabilmente, ignorare (anche perché, piaccia o no, ignorarli non serve a nulla, solo a non tener conto della realtà). Punto primo: dovunque, in entrambi gli emisferi e sotto tutte le latitudini, il sistema di reclutamento universitario è fondato su base cooptativa. Il che vuol dire una cosa semplicissima, ossia che i futuri professori universitari non possono essere scelti che dagli attuali professori universitari. Punto secondo: i professori universitari di uno stesso ambito disciplinare sono legati tra loro dai vincoli più diversi (amicizia, discepolato, favori accademici fatti o ricevuti – nulla di scandaloso; penso a cose come: un trasferimento, la chiamata in una sede più comoda o prestigiosa, il sostegno nel concorso che li ha fatti diventare quello che sono o il sostegno offerto ad un loro candidato e così via). Punto terzo: il fatto che un docente abbia un allievo non significa,


necessariamente che quest’ultimo sia un portaborse o un maggiordomo, può significare anche che il primo lo stima e ha visto ed apprezzato in lui doti e qualità che non ha riscontrato in altri; se lo appoggerà in un concorso, pertanto, non farà nulla di illecito, ma cercherà di fare il suo mestiere, che è (o dovrebbe essere) promuovere il merito là dove egli lo individua e riconosce con onestà e in buona fede (abbia poi torto o ragione rispetto al giudizio di altri docenti che la pensano diversamente da lui: la divergenza delle valutazioni, per alcune materie in particolare, dove l’oggettività dei valori scientifici è assai meno parametrabile che in altre, è un fenomeno fisiologico). Se le cose stanno così (e chiunque conosca un poco l’università, non solo italiana, sa che stanno proprio così, ovunque), è evidente che un sistema di reclutamento perfetto non potrà mai essere trovato, come pure che la situazione descritta, anche se non comporta necessariamente scelte arbitrarie e partigiane è esposta a questa possibilità in modo strutturale. Di conseguenza, il miglior sistema di reclutamento è quello che, senza proporsi l’obiettivo irrealizzabile di annullare questo margine di arbitrarietà e partigianeria, miri a contenerlo entro limiti che siano il più possibile ristretti e vincolanti. Credo che la prima cosa da fare per mettere a punto un meccanismo del genere sia abolire le idoneità. Un sistema che si è rivelato pessimo, perché nella sua prima applicazione, quando le idoneità disponibili per ogni concorso erano tre (ma anche in seguito, quando sono state ridotte a due), ha favorito il loro impiego come moneta di scambio negli accordi tra i commissari. Tuttavia anche nella sua ultima versione (una sola idoneità) il sistema è sbagliato, in quanto, comunque, sancisce il diritto dell’ateneo che ha bandito il concorso a chiamare oppure no l’idoneo a seconda della sua convenienza (in questi casi si chiama l’idoneo solo se è un docente strutturato nella sede banditrice, ossia un “interno”, altrimenti non lo si chiama e si mantiene la disponibilità del budget per ribandire quanto prima, nella speranza che l’“interno” venga questa volta idoneizzato, o per “chiamarlo”, nel caso ottenesse una idoneità esterna). Tutto questo, con la delocalizzazione dei concorsi e con l’autonomia degli atenei, che ha assegnato alle singole sedi la competenza finanziaria relativa alla retribuzione del corpo docente, ha favorito un processo degenerativo abnorme, per cui si è iniziato a parlare, neppure tanto velatamente, di qualcosa di cui non si dovrebbe affatto poter parlare in modo legittimo, all’interno dell’università, ossia degli “avanzamenti di carriera” dei docenti non ancora giunti all’ordinariato. Non si dovrebbe poter parlare legittimamente di una cosa del genere perché in Italia non esiste alcun “carriera” universitaria: i concorsi sono liberi, nel senso che non è necessario, per esempio, essere un professore associato per poter concorrere ad un posto di ordinario (o un ricercatore per poter concorrere ad un posto di associato): l’unico requisito richiesto è quello rappresentato da una produzione scientifica adeguata e congruente con il livello accademico del posto per il quale si concorre. La logica dei concorsi “riservati” è sempre stata deleteria per il sistema universitario, dal momento che ha sempre finito col favorire la stabilizzazione e i cosiddetti diritti acquisiti di coloro che, ad un qualsiasi titolo (spesso senza alcuna vera verifica del proprio livello scientifico, basti pensare ai professori incaricati di un tempo, in particolare quelli che insegnavano nelle sedi periferiche, per non parlare di quelli che prestavano la loro opera nelle “libere università”, poi statalizzate) si trovavano a impartire un insegnamento pubblico senza possedere il ruolo richiesto a tal fine, ruolo cui dà infatti accesso e diritto solo il superamento di una prova concorsuale. I


“diritti acquisiti” sono certo degni di riconoscimento in un Paese giuridicamente evoluto dove non regni l’arbitrio, ma nell’università, dove l’unico criterio deve essere il merito scientifico, essi dovrebbero essere ininfluenti. Considero una ricchezza del nostro sistema di istruzione universitaria il fatto che, almeno in linea di principio, a qualsiasi grado di docenza, l’insegnamento sia accessibile a tutti coloro che, anche stando al di fuori dell’accademia, si siano distinti per operosità e risultati ottenuti nella ricerca. Per ottenere che i concorsi universitari tornino ad essere anche di fatto ciò che giuridicamente non hanno mai cessato di essere, ossia concorsi liberi e aperti a tutti, non riservati a chi già ne ha vinti di livello inferiore, non basta, però, eliminare il sistema perverso delle idoneità: occorre anche togliere alle singole sedi l’alibi rappresentato dal risparmio che l’“avanzamento di carriera” di un “interno” consente ad esse di realizzare. Giacché un “interno” che, per esempio, da associato diventi ordinario ha, da questo punto di vista, rispetto ad un “esterno”, il vantaggio di costare di meno (ovvero di costare, alla sede banditrice nel cui organico egli è già incardinato, il solo differenziale retributivo intercorrente tra i due livelli di docenza – visto che lo stipendio di associato gli viene già corrisposto – e non l’intera retribuzione). La soluzione è una sola, semplice ed efficace (ed infatti già efficacemente sperimentata da altri sistemi universitari europei come, ad esempio, il tedesco): quella di impedire che un docente “interno” possa prendere parte – sia, in primo luogo, come candidato, sia anche, secondariamente come commissario esterno – al concorso bandito, per il suo raggruppamento disciplinare, dalla sede universitaria alla quale appartiene. So che questa ipotesi è molto osteggiata nell’ambiente accademico. Proprio questo prova, a mio avviso, che la sua attuazione inciderebbe realmente e in modo virtuoso sugli assetti di questo ambiente: occorre rendersi conto del fatto che chi vuole davvero migliorare le cose non deve affidarsi alla speranza che i comportamenti individuali si adeguino spontaneamente alle esigenze dell’interesse collettivo, ma deve introdurre regole che inducano, con il tempo, i comportamenti individuali a non tentare di eludere queste esigenze, obiettivo che si può realizzare solo facendo in modo che simili tentativi risultino, il più delle volte, inutili: sono le buone regole che educano i singoli e li spingono ad assumere comportamenti socialmente virtuosi, e le buone regole sono quelle che meglio provvedono all’interesse generale e che, allo stesso tempo sono meno facilmente aggirabili. Quella che suggerisco di introdurre nel nostro sistema concorsuale universitario presenta entrambi questi vantaggi. E’ infatti difficile da eludere (anche se eluderla non è, naturalmente, del tutto impossibile), perché l’unico modo di farlo sarebbe quello di allestire uno “scambio” fra due atenei, che dovrebbero trovarsi in condizioni simili, avendo entrambi i requisiti oggi richiesti per bandire un posto nella stessa disciplina e nella stessa fascia di docenza, e che – per dare vita alle due commissioni, dal cui giudizio dovrebbe risultare l’affermazione dei rispettivi candidati “interni”, ciascuno nel concorso bandito dalla sede non sua – dovrebbero anche poter gestire l’elezione di almeno otto docenti di quel settore, disponendo di un unico posto assegnabile, e per di più obbligatoriamente destinato al vincitore, chiunque egli fosse (cosa che potrebbe, volendo, essere ulteriormente complicata da un metodo di selezione dei commissari che preveda anche un sorteggio). Inoltre, non si potrebbe procedere allo scambio se non dopo un periodo di tre anni almeno (durante lo straordinariato i professori non sono trasferibili), senza contare che le norme sui trasferimenti potrebbero essere modificate


in senso restrittivo, impedendo che il “ritorno” nella sede di provenienza possa essere ottenuto prima di un congruo numero di anni. E’, dunque, un meccanismo che ostacola in modo significativo i giochi di potere e di interesse, rendendo i loro risultati incerti e difficilmente programmabili per l’imponderabilità delle molte variabili interessate. Ma è anche un meccanismo virtuoso, perché reintroduce la mobilità in un settore nel quale essa, che un tempo era la regola, è andata progressivamente sparendo. E la mobilità è una risorsa e una ricchezza per l’università, perché favorisce la comunicazione, lo scambio e quindi la circolazione di esperienze e di idee, mette in contatto con realtà diverse, consente agli studenti di avvalersi dell’apporto di professori di provenienze, scuole, indirizzi e tendenze molteplici. Le obiezioni che si possono opporre (e che di regola si oppongono) ad un simile metodo di reclutamento sono solo due, una inconsistente e puramente demagogica, smentita in numerosissimi casi, facilmente verificabili, l’altra alla quale è possibile (e anche giusto) replicare, proponendo alcuni rimedi agli inconvenienti che correttamente essa segnala. Secondo la prima, i professori non residenti sono professori assenteisti. Ora, è chiaro che se si incentiva la mobilità si può incentivare anche il pendolarismo dei docenti (non è infatti detto che un professore debba, cambiando sede, trapiantare se stesso con tutta la famiglia e le masserizie, e non è, forse, neppure giusto che questo accada, almeno per alcuni degli interessati coinvolti loro malgrado – come ad esempio i famigliari del “trasferito” –, visto che, almeno per quei ricercatori che non hanno bisogno di laboratori, la ricerca si può, e talvolta si deve fare anche fuori dell’università). Che, dunque, con un simile sistema ci possano essere più professori pendolari appare molto verosimile. Ma è poi un così gran male? Per la mia esperienza (che è appunto quella di un pendolare) devo dire di no, perché questi professori sono spesso quelli più puntualmente reperibili per gli studenti: nei giorni in cui è prevista la loro presenza di norma ci sono davvero, e non riservano sorprese a chi li aspetta, perché programmano la loro attività con anticipo e tenendo sempre conto degli spostamenti cui il pendolarismo li obbliga. L’altra obiezione è la più seria: riguarda l’onere economico della mobilità, che, quando come ora accade resta a carico del singolo docente fa di un professore pendolare un professore molto più povero di quanto non sia un suo collega che insegna nell’università sotto casa. E questo a parità di servizio prestato, oltre che in una condizione generale, dal punto di vista retributivo, che vede i docenti universitari italiani peggio pagati di quasi tutti quelli degli altri grandi Paesi europei. Ma ovviare a questo inconveniente è difficile solo se sull’università si vuole intervenire – come sembra voler fare l’attuale maggioranza – esclusivamente allo scopo di tagliare e non di spendere meglio (e per il resto, a parole). Basterebbe, per troncare sul nascere ogni legittima riserva al riguardo, considerare le spese per la mobilità spese per la produzione del reddito e consentire la loro deduzione o detrazione ai fini fiscali (dall’imponibile o direttamente dalle imposte pagate). Molti altri sono i mali della nostra università, anche se quello del reclutamento è uno di più gravi e incancreniti. Il discorso, perciò, non può fermarsi qui (anche se, per ora, deve farlo), e occorrerà riprenderlo in una prossima occasione, per ampliarlo e concluderlo. Sono lieto di assumere questo impegno con i lettori di InSchibboleth.


Lo Stato senza identità e la Chiesa cattolica di Sebastiano Ghisu

Ha luogo nelle nostre società, nelle società che usiamo definire occidentali, una grande estensione di ciò che, per dirla con gli antichi stoici, potremmo chiamare gli adiaphora, oggetti d’indifferenza. Vale a dire: sempre più numerosi aspetti dell’esistenza che un tempo erano sottoposti ad una regolamentazione morale più o meno rigida si collocano oggi al di qua e al di là del bene e del male. Che ci si sposi o semplicemente si conviva; che si ami un individuo dell’altro sesso, del proprio sesso o d’entrambi; che si sia atei o credenti e, in quanto credenti, si creda in una qualche divinità del passato o nel Dio di una delle diverse religioni monoteiste nelle sue molteplici varianti; che ci si vesta in un certo modo piuttosto che in un altro; che si decida di por fine alla propria vita o di continuare a vivere… insomma, tutto ciò diviene moralmente indifferente. Ed è bene che sia così. Certo, a ciò si accompagna, per una serie di motivi che sarebbe troppo lungo ripercorrere, un fenomeno opposto o complementare: l’estensione del moralmente differenziato. Sono infatti divenuti oggetto di differenziazione morale (e quindi soggetti morali oltre che soggetti di diritti) gli animali non umani e, nelle sue più variate dimensioni, l’ambiente naturale. Non è tuttavia su quest’ultima tendenza che intendiamo concentrarci, quanto piuttosto sulla prima.


Essa, innanzitutto, rende evidente l’insufficienza del tradizionale principio di tolleranza e fa di contro emergere, con tutta la sua forza dirompente, ciò che potremmo chiamare il principio d’indifferenza. Per descriverlo possiamo senz’altro partire dal celebre motto con cui il grande Voltaire concludeva il suo Candide: “bisogna coltivare il proprio orto”. Se lo ampliassimo e adattassimo alla situazione attuale, arriveremmo alla seguente, semplice formulazione: non invadere la sfera del singolo se non quando il singolo invade la sfera altrui. Ciascuno è proprietario di se stesso e può far di se stesso ciò che vuole, ma non può fare ciò che vuole dell’altro. Seguendo tale massima, il singolo dovrebbe essere indifferente a ciò che fa l’altro fino a quando l’altro è indifferente a ciò che fa il singolo. Dovrebbe essere indifferente alla morale dell’altro sino a quando tale morale non sacrifica l’altro alla propria morale. Potremmo anche dire: non sono indifferente a quelle morali di vita che invadono la sfera dell’altro… laddove per altro non va inteso solo l’altra singolarità, ma colui che è differente, diverso, colui che non partecipa a quella morale di vita. Perché costringere l’uno a fare ciò che fa l’altro se egli non invade l’orto di nessuno? Perché impedire uno stile di vita se questo stile di vita non impedisce nessun altro stile di vita? Perché vietare un’opinione se questa opinione non vieta nessun’altra opinione? Guardiamoci da coloro che allargano il proprio orto sino a comprendere l’umanità intera, il cielo e la terra. Guardiamoci dalle morali e dagli stili di vita che non sono indifferenti a quelle morali o a quegli altri stili di vita che non intaccano alcun’altra morale o stile di vita. Si tratterebbe di costruire una società fondata su questo principio, una società pienamente liberale (limito qui il significato di tale termine alla dimensione etica e giuridica). Una società è tuttavia pienamente liberale se amministrata e governata da un sistema statuale altrettanto liberale. Questo, allora, non soltanto non deve vietare determinati comportamenti, ma deve dare ad essi, ove necessario, pieno riconoscimento giuridico. Lo Stato dev’essere indifferente a tutto ciò che non viola la sfera individuale del cittadino, l’integrità fisica e morale della persona. In questo è bene essere radicali. Perché anche laddove lo Stato non punisce più un certo comportamento – per esempio l’omosessualità – non riconoscendone pienamente l’esistenza – al pari dell’eterosessualità – di fatto lo impedisce, lo discrimina. Lo tollera, certo, ma non ne è indifferente, come dovrebbe. Ora, uno Stato indifferente è uno Stato senza identità. Voglio dire: uno Stato che non difende alcuna identità (tanto meno una sua presunta identità o l’identità presunta della maggioranza dei suoi cittadini). È uno Stato che, di fronte alle tante o poche identità che comunque esistono, difende sempre gli interessi dell’altro, mentre rappresenta gli interessi del singolo solo in quanto altro possibile (“altro” anche rispetto allo Stato, che del resto non dovrebbe avere interessi, ma solo rappresentarne: chi rappresenta lo Stato rappresenta sempre ciò che lo Stato rappresenta: l’altro). Di fronte al credente lo Stato rappresenta il non-credente, di fronte al non-credente il credente. Di fronte al cristiano il musulmano; di fronte al musulmano il cristiano. Di fronte alla donna l’uomo; di fronte all’uomo la donna. Di fronte all’eterosessuale l’omosessuale; di fronte all’omosessuale l’eterosessuale. Di fronte al bianco il nero; di fronte al nero il bianco… Lo


Stato non ha identità. È questa la sua principale caratteristica. Arriviamo così alla domanda cruciale: sono disposti i cattolici ad accettare pienamente il principio di indifferenza e uno Stato senza identità (così come lo abbiamo descritto)? Dei cattolici, nel loro variegato insieme, è difficile dire. Certamente la Chiesa sta contrastando con tutta la sua forza (ed è legittimo che lo faccia, sia ben chiaro) la tendenza alla indifferenziazione morale, contrapponendosi in tal modo alla costituzione di uno Stato senza identità. Vi sarebbero molteplici esempi da riportare, non è certo il caso di elencarli. Uno di essi – lo ricordiamo perché teoricamente interessante – ci è dato dalla reazione dell’Osservatore romano alla recente sentenza di un giudice di Valladolid in Spagna che ha ordinato la rimozione del crocefisso da una scuola pubblica. Si tratta di un articolo dello scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada dal titolo Una semplice croce (Osservatore romano del 25 novembre 2008). Scrive de Prada: “A nessuna persona in pieno possesso delle proprie facoltà sfugge che il segno della croce non viola nessun diritto fondamentale…”. Ora, è davvero così? Mi pare piuttosto di poter dire (in pieno possesso delle mie facoltà) che la presenza del crocefisso viola un diritto fondamentale. Quale? Lo Stato è lo Stato di tutti i cittadini. Non ha identità. Accettando dei simboli religiosi nelle proprie strutture (e a maggior ragione in quelle strutture particolarmente sensibili come le scuole, spazi di formazione e crescita) discrimina coloro che credono diversamente e coloro che non credono affatto. Assume un’identità e la impone. Non rappresenta l’altro, ma l’identico: una identità a scapito di tutte le altre possibili. De Prada arriva addirittura a sostenere che “l’autorità avrebbe l’obbligo di perseguire, invece di concedergli una copertura giuridica”, quel “sentimento di odio antireligioso” che a suo avviso si nasconde dietro la sentenza di rimozione. Non solo va dunque affermata l’identità dello Stato (con tutto ciò che consegue), ma va anche perseguito colui che, al contrario, ritiene che esso, d’identità, non debba averne alcuna. Ed anzi, la costruzione di uno Stato “indifferente” viene subito etichettato come “sentimento di odio antireligioso”. È dunque l’assenza di identità che de Prada condanna. E infatti “il laicismo che oggi trionfa in Spagna ci vuole sempre più orfani d’identità”. Ma l’identità di cui si è orfani è l’identità cristiana (sarebbe più preciso dire cattolica). E si è orfani d’identità, evidentemente, nel momento in cui emerge uno Stato che non assumendo alcuna identità non ne discrimina nessuna. Veramente i cattolici possono salvaguardare la propria identità soltanto facendo assumere la loro allo Stato di cui sono cittadini? Non è questo in fondo un segno di debolezza? L’estensore dell’articolo sull’Osservatore romano dimostra inoltre una grande difficoltà a concepire uno Stato senza identità: “il crocifisso, in definitiva, può offendere solo quanti vogliono - e in questo consiste in realtà il laicismo, per quanto si nasconda dietro alibi giuridici - che lo Stato diventi un nuovo dio, con potere assoluto sulle anime”. Ora, che lo Stato abbia talvolta esercitato nella storia un tale “potere assoluto” non c’è dubbio. Ma lo ha fatto nel momento in cui ha assunto un’identità negando radicalmente tutte le altre. Non lo fa certo nel momento in cui afferma la propria “indifferenza”. Ed è questa la posta in gioco. Del resto il “potere assoluto sulle anime” più che dagli Stati è esercitato nelle società attuali dal mercato e dai mezzi di comunicazione di massa.


Ed è soprattutto con questi ultimi che la Chiesa non esita ad allearsi, soprattutto in Italia, per conservare o espandere la sua influenza. È sufficiente ricordare alcune operazioni mediatiche con cui si rappresentano figure religiose verso cui la devozione popolare raggiunge livelli di idolatria “pagana” – un’idolatria che dovrebbe preoccupare chi crede nel messaggio evangelico. Mi chiedo se queste forme di diffusione della fede non impediscano un accesso critico ad essa, ovvero la scoperta di essa come scandalo, eccezione, novità. Lo stesso insegnamento della religione nelle Scuole pubbliche non mira soltanto a fornire allo Stato un’identità. Esso tende soprattutto a rendere la fede qualcosa di scontato, un’identità per l’appunto data, trasmessaci in un certo senso automaticamente. Dovremmo ancora chiederci, per concludere: davvero la fede ha bisogno dello Stato? È davvero lo Stato che può garantirne la presenza nella società? Ricordiamoci il detto evangelico, mille volte pronunciato, mille volte ripetuto: “date a Cesare che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Ebbene: che fede è quella che ha bisogno di Cesare?


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