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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008 Febbraio-Marzo n째 24, 2010


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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Novembre-Dicembre 2010, n° 30. (Numero 31, 31 Gennaio 2011) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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Crisi politica e crisi sistemica di Elio Matassi

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Appunti sulla situazione italiana di Bruno Moroncini

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Elogio dell’Illuminismo di Alfonso M. Iacono Sull’Odio di Massimo Donà

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Le parole dell’etica di Antonio Da Re

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Il disfacimento del berlusconismo di Andrea Margheri

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Crisi politica e crisi sistemica di Elio Matassi

Mai come in questo momento storico e in maniera ancora più radicale nel nostro contesto nazionale la crisi politica di una determinata maggioranza parlamentare manifesta una crisi ancora più profonda e generale: questa crisi politica indica una crisi della politica così come siamo abituati a concepirla. Crisi della politica diventa crisi della rappresentanza politica. La recente vicenda parlamentare che ha coinvolto alla Camera dei Deputati l’approvazione della “presunta” Riforma universitaria ne costituisce una testimonianza evidente. Nonostante le proteste che hanno animato la base studentesca, quella dei giovani ricercatori, delle tipologie di docenza, il mondo della scuola e quello delle opposizioni parlamentari, la maggioranza parlamentare ha proceduto nella maniera più autoreferenziale e quasi nella assoluta indifferenza rispetto alle rivendicazioni provenienti da vasti settori della società civile. Una Riforma che si presume epocale, caduta completamente dall’alto, mai seriamente discussa con le componenti della società civile cointeressate e dagli effetti devastanti per i già fragili equilibri su cui oggi si regge l’Università pubblica.


La maggioranza parlamentare sembra procedere in una maniera sempre più distante da quelli che sono i gravi e reali problemi che coinvolgono l’insieme del paese e della società civile. Sembra quasi che, nonostante i tanto ostentati indici di gradimento, questa maggioranza parlamentare non rappresenti più alcuno se non sé medesima con i suoi problemi di equilibrio interno tra le varie componenti che la compongono. In questo caso, ritengo che non sia una conseguenza affrettata il dedurre che oggi la crisi politica di cui tutti parlano stia diventando sempre di più una crisi di sistema, molto grave, che investe alle radici il rapporto di rappresentanza. Qual è il compito dell’opposizione e, in particolare, del partito democratico in questa situazione? Credo che gli eventi degli ultimi giorni concernenti la protesta contro l’approvazione della Riforma universitaria stiano a dimostrare la necessità per il partito democratico di non perdere quel rapporto, in parte recuperato, con i settori più avanzati e consapevoli della società civile. Per quanto concerne le scelte politiche da prendere anche in rapporto all’ormai prossimo appuntamento parlamentare del 14 dicembre (la fiducia al governo), ritengo che l’unico percorso politico credibile sia quello, su cui si sta già muovendo la segreteria Bersani, di riunire le varie anime della sinistra, da Di Pietro a Vendola, da Diliberto a Ferrero. E’ ovvio che tutto dipenderà anche dalla legge elettorale con cui si tornerà a votare molto probabilmente nella prossima primavera; ma, con la legge attuale, ritengo non praticabile, se non addirittura suicida per il partito democratico, uno spostamento al centro, già inflazionato dalla presenza dei finiani, dell’UDC, dell’MPA e di altre componenti minori. Il partito democratico, che sta recuperando in parte il rapporto con il suo popolo, come dimostrano le manifestazioni contro l’approvazione della Riforma universitaria, deve ulteriormente rafforzare la sua capacità di ascolto e di mediazione politica rispetto alle richieste postulate con tanta passione da quella che è una delle basi di riferimento fondamentali dell’elettorato di sinistra. E’ opinione diffusa che il capitalismo abbia trionfato sul socialismo. Ma si tratta di una interpretazione della contemporaneità sostanzialmente fuorviante, perché, in realtà, il trionfo è dovuto in larga misura alla democrazia piuttosto che alla economia di mercato. Qualora il capitalismo, trascendendo la politica, diventasse un sistema ‘totalitario’, come di fatto sta avvenendo negli ultimi dieci anni con le ricorrenti crisi finanziario-sistemiche, rischierebbe di crollare a sua volta, in quanto in nessun ciclo della nostra storia recente – eccezion fatta per il periodo degli anni Trenta – le disfunzioni dell’economia provocate dal capitalismo globale sono state tanto gravi quanto lo sono oggi: disoccupazione crescente, crescita esponenziale dell’illegalità e povertà nei paesi sviluppati, miseria insostenibile in molti paesi in via di sviluppo, incremento delle diseguaglianze di reddito procapite tra i paesi. Il capitalismo globale sta di fatto provocando un’alterazione profonda degli equilibri internazionali con effetti devastanti sulla sostanza stessa della democrazia. E’ doveroso precisare che ogni sistema economico non può aspirare a rappresentare immediatamente – direttamente il sistema politico; l’economia di mercato no può esprimere, senza mediazione e controlli, un principio di democrazia e che, pertanto, entro quest’ottica peculiare, possono sussistere solo sistemi ‘spurii’. Esistono ‘democrazie di mercato’ ma non ‘economie di mercato’. Si tratta di una differenza rilevante che tiene nel debito conto i due contrapposti poli di riferimento che governano o che dovrebbero governare la totalità sociale.


Da un lato, il mercato esprime una vocazione individualistica, dall’altro, la democrazia, costruita sul principio del suffragio universale, esprime quella opposta. Una contraddizione che era stata percepita fin dalle origini dalla teoria politica della Grecia antica. Soltanto la ricerca di un equilibrio tra queste due vocazioni contrapposte potrà continuare a far vivere degnamente la democrazia. Qualsiasi lacerazione di tale equilibrio non può che risultare devastante per la costruzione di un autentico assetto democratico. Il partito democratico deve saper interpretare questo scarto sempre più marcato che si sta consumando tra sistema politico rappresentativo ed esigenze che nascono dal basso, da varie parti della società civile, per difendere fino in fondo un’idea della democrazia “forte” non minimalistica. Non esiste una democrazia dimidiata, una democrazia che tiene conto solo degli interessi di una presunta maggioranza, ma una democrazia compiuta rispetto a cui maggioranza e minoranza sono da considerarsi sullo stesso piano. Esattamente il rovescio di quello che sta accadendo oggi e che corrisponde la pratica politica dell’attuale maggioranza parlamentare. Il furore legislativo e i comportamenti verbali dei principali esponenti del blocco neopopulista oggi al potere sono rivolti in eguale misura contro tutto ciò che ha direttamente o indirettamente una qualche implicazione “pubblica” e che investono nella stessa misura radicale tutte le forme di minoranza, da quella omosessuale, a quella degli immigrati, a quella dei rom e, non ultima, quella concernente gli intellettuali e tutte le forme della cultura e della docenza: tutti questi settori della società, in quanto non rappresentati dalla maggioranza, per questa finiscono per non esistere. Il partito democratico deve dare rappresentanza a chi oggi non ne ha e, deve anche rammentare, a differenza dell’attuale maggioranza, che ogni forma di rappresentazione deve presupporre la partecipazione. Deve dunque saper capovolgere la prospettiva del blocco neopopulista che mina alle radici l’essenza stessa della democrazia.


Appunti sulla situazione italiana di Bruno Moroncini

Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è voglia di uccidere. Pier Paolo Pasolini Una rivoluzione politica senza rivoluzione poetica del politico non è mai altro che un trasferimento di sovranità e un passaggio di poteri. Jacques Derrida

(Le pagine che seguono sono una scaletta per un saggio sull’Italia berlusconiana di cui rinvio la stesura definitiva un po’ per l’impopolarità delle tesi che vi sostengo e un po’ per il rischio, stante la rapidità con cui cambia la situazione politica, di vedere smentite le mie previsioni prima ancora che esse siano enunciate. Approfitto dell’ospitalità di InSchibboleth per dare una prima versione pubblica delle mie ipotesi sull’Italia sperando che sia un buon viatico perché possano assumere in tempi brevi la forma del saggio compiuto).

Ho un titolo (La morte del poeta) e due eserghi, ma non è detto che ci sarà un testo a seguire. Se ci sarà, sarà purtroppo colorato di pessimismo, pessimismo su tutta la linea. Ammettiamo che Berlusconi sia costretto alla fine a fare, come si dice, un passo indietro, a dimettersi insomma, gli scenari che si aprono mi sembrano due o forse uno solo. Pezzi della maggioranza,


il centro di Casini, l’appoggio esterno della cosiddetta opposizione, tutti sotto la direzione della terza carica dello stato, quindi con una copertura istituzionale, complice anche e soprattuto Napolitano, assumono il governo: il vecchio arco costituzionale della cosiddetta prima repubblica come già nel ’96 cerca di ritornare al potere. Al di là della questione se esistano oggi le condizioni per la effettualità di una simile ipotesi, c’è da domandarsi se sia auspicabile in quanto tale, se abbia senso per noi desiderarla. So che per molti il passato, specialmente quando si invecchia, sembra sempre meglio del presente o del futuro - che rischiamo d’altronde di non vedere -, ma questo passato, quello della vecchia politica, quello del compromesso storico, dell’incontro fra i cattolici e post comunisti, quello contro cui si scagliava Pasolini all’inizio degli anni settanta, non è meglio del presente di Berlusconi. Non solo quindi desiderarla mi sembra un modo per non vedere il presente in cui siamo, ma penso che proprio per questo non reggerebbe, si dissolverebbe molto più rapidamente di quanto non ci sia dato di immaginare. Sarebbe diverso se esistesse un opposizione capace di assumere oggi il governo, ma poiché non c’è - e questo mi sembra il vero, unico problema politico dell’Italia oggi -, l’altra ipotesi, ma forse l’unica, di cui parlavo, sarebbe la vittoria del peggio - cioè la lega, Tremonti, insomma la destra, quella vera, di fronte alla quale Berlusconi è oggi il male minore. Paradossale dirlo, ma non posso fare a a meno di pensarlo: Berlusconi mi sembra l’ultima trincea contro il terribile. Altro che fascismo, qui c’è voglia di uccidere. Se però alla fine mi convincerò a scrivere, partirò di lì, dalla morte del poeta: il declino dell’Italia - non della democrazia che è una forma di governo e basta, ma della comunità storica chiamata Italia -, della sua fine di cui non si vede la fine, la daterei dalla morte di Pasolini. Quando una comunità storica uccide i suoi poeti, cioè ciò che di meglio sia in grado di produrre, perché i poeti fondano l’amicizia che da Aristotele a Derrida è ciò che ben più della giustizia rende possibile l’essere-assieme, e non ne fa il lutto ( il solo fatto di avere trasformato la sua morte in un assassinio politico, di marca fascista, di aver fatto diventare Pasolini il sostenitore del peggior terzomondismo, pauperismo, no globalismo d’accatto, continuando a negare la sua grandezza, l’unica vera, di poeta, sono le spie del lutto mancato; ci aggiungerei anche l’uso della sua omosessualità in chiave di una democratica parità dei diritti e le innumerevoli rese teatrali fatte per far vedere quanto si è impegnati e moderni, della scena dell’omosessualità di gruppo di Petrolio), ciò segna l’inizio della sua decadenza. Si potrebbe a questo proposito seguire una suggestione dello stesso Pasolini e ricostruire una filiazione poetica segnata dallo stesso destino: Petrolio porta come esergo un verso di Mandel’stam - “col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili” -, un poeta condannato da Stalin e morto in Siberia, che a sua volta riconosceva fra i suoi precursori l’Ovidio dei Tristia, il poeta dell’amore e delle metamorfosi esiliato da Augusto nel Ponto e lì lasciato marcire fino alla fine. Ovidio, Mandel’stam, Pasolini - Impero romano in decadenza, Russia stalianiana già cadaverica, Italia democristiana a un passo dal disastro. Ma non parlerò di questo, parlerò invece della preveggenza dei poeti. Pasolini come tutti i poeti ha avuto una visione (la visione è d’altronde uno dei procedimenti narrativi usati in Petrolio): in Italia si stava realizzando una mutazione antropologica - cioè ontologica, cosmico-storica, se no che visione è? -, dal mondo contadino, saltando l’intermezzo capitalistico-


industriale, a quello del neocapitalismo fondato interamente sul consumo produttivo. Dai produttori ai consumatori, ossia dai produttori ai produttori che sono produttori a condizione di essere dei consumatori. Vale a dire: non che siano scomparsi i produttori, ma nel neocapitalismo si è produttori di plusvalore diventando consumatori, si produce consumando. Il consumo è il modo della produzione. E fin qui nulla di particolare. Chiarisco: Pasolini vive e legge tutto questo dalla prospettiva cristiano-primitiva, contadina, etc. Ora questa prospettiva, antistorica e probabilmente rezionaria, è esattamente quel che rende possibile la visione poetica; insomma Pasolini non avrebbe potuto vedere quel che che era implicito nel neocapitalismo se non avesse avuto questo retroterra reazionario. Non dico d’altronde nulla di nuovo: è tesi marxista che gli scrittori e i poeti quanto più sono socialmemte reazionari tanto più individuano l’avanzare del nuovo e le nuove possibilità storiche: Balzac, Baudelaire, Proust, Gadda, stanno lì a dimostrarlo. I progressisti si appiattiscono invece sul movimento storico e non vedono niente, anzi diventano complici compiaciuti del peggio e finiscono per remare sempre contro le possibilità rivoluzionarie che quel nuovo aveva innescato. I progressisti, cioè i democratici, i moderni, i tolleranti, gli aperti, gli agnostici, etc quelli odiati sia da Nietzsche che da Baudelaire, sono i veri reazionari, quelli che fanno da freno, da kathekon. Sono contro il messia. Che cosa vede Pasolini allora? Vede che la direzione del neocapitalismo consumista non va verso il consumo improduttivo, verso la dépense rivoluzionaria, ma si indirizza con la complicità delle sinistre democratiche verso un aumento del controllo, forme nuove ma più invadenti del potere, trionfo della sessualità eterosessuale anche quando si fa sfoggio di tolleranza verso i diversi. Quel che caratterizza il neocapitalismo è la coazione al godimento, la legge è Godi! (Lacan) La felicità è un dovere, godere un diritto, per ogni voglia c’è pronto un oggetto e l’ingiunzione a servirsene. Non ci sono più merci, niente più feticcio, ma soltanto beni individuabili e riconoscibili, fabbricati per darci piacere e sui quali abbiamo un diritto naturale. Non c’è più prezzo simbolico da pagare per avere accesso al godimento - quel che per il cattolico Pasolini era il peccato, l’omosessualità come peccato, godimento per il quale si poteva anche sfidare la morte perché il godimento è un diritto. Se non ce l’abbiamo vuol dire che non ce le vogliono dare e allora noi ce lo prenderemo, anche con la forza, con la violenza se occorre, uccidendo e devastando. Alle volte Pasolini è veramente urtante nella sua voglia di produrre scandalo per poi poter essere punito: ed è anche sconcertante il comportamento a specchio dei censori, magistrati etc che corrono a soddisfare la sua ricerca di punizione. Processi su processi, denunce, sequestri: il poeta produce gli schoks per essere sempre più all’altezza della sua vocazione poetica, per poter essere poeta. Deve scandalizzare, deve farsi punire, per vedere, per fare la rivoluzione poetica. Ed è ancora più urtante quando attacca gli studenti e si pronuncia a favore dei poliziotti, quando si mostra timido nei confronti del divorzio, quando si schiera contro l’aborto. I progressisti l’hanno massacrato per questo. Ma se si legge più attentamente e con mente sgombra ci si accorge che le sue risposte ai problemi non sono mai veramente reazionarie: quando ad esempio si dichiara contro l’aborto propone però di trattarlo all’interno del problema dell’eutanasia e pensa ad una legge per la depenalizzazione di quest’ultima. Ma ancora più importante è il fatto che Pasolini coglie nella battaglia per l’aborto come d’altronde in quella per il divorzio la


presenza di un elemento coercitivo: l’uno e l’altro servono all’affermazione di un imperialismo della coppia eterosessuale, del suo diritto alla felicità, contro tutte le forme estreme della sessualità, contro la perversione etc. Da qui discende che i suoi avversari non sono i reazionari dichiarati, i fascisti, i democristiani alla Fanfani, ma i progressisti, i tolleranti, i sostenitori del diritto alla felicità, cioè quelli che per lui sono i veri borghesi e i veri vincitori. Insomma: tutto il gruppo di Repubblica, tutti i non comunisti, le femministe filosofico-universitarie, i professori della scuola media unificata e quelli dei licei, tutti quelli che sono diventati oggi gli esponenti della sinistra italiana. Che infatti o odiano Pasolini o lo riducono ad un noglobal per disfarsene meglio. Per Sciascia alla morte di Pasolini corrispondeva quella di Moro quattro anni più tardi. Le due morti erano da porre sullo stesso piano. Ora, per quanto anche la morte di Moro segni la fine irreversibile della prima repubblica - anche se, per il fatto che la storia presenta accanto a momenti di forte accelerazione anche altri di profonda inerzia, ci sono voluti altri tredici anni e terremoti internazionali perché la fine diventasse effettuale -, le due morti sono incommensurabili. E non tanto perché un poeta è cosa diversa da un uomo di governo, quanto per il fatto che l’uomo di governo in questione era esattamente agli antipodi di quella rivoluzione poetica della politica che era il problema dell’altro. La politica per Moro era pura transazione, trasferimento di sovranità e passaggio di poteri. Una concezione della politica non dissimile da quella dei suoi carcerieri. Oggi che è di moda fare di Moro un martire più che del partito comunista combattente (anche se all’epoca non si definiva ancora tale) della ragion di stato e il partito della fermezza - forse perché democristiano e comunista - viene additato al pubblico ludibrio, oggi che appunto Moro è trasformato in un martire della libertà e della insacrificabilità della vita, sarebbe il caso di ribadire invece la somiglianza spinta fino all’indiscernibilità della posizione etico-politica di Moro e di quella della Brigate rosse: le lettere e soprattutto il cosiddetto memoriale, scritto nello stile delle risoluzioni strategiche delle BR e delle sentenze dei tribunali italiani - una lingua del dominio, burocratica e asfittica - testimoniano della piccineria dell’uomo e del politico: mai uno slancio, mai di fronte al terribile una lettura della propria storia e di quella dell’Italia in cui aveva avuto tanta parte animata da una visione, - poetica - da un destino: solo gestione del potere e inclusione indolore - al posto della conventio ad excludendum quella ad includendum -, senza rivoluzione, senza rottura, senza discontinuità. Solo l’onnipresente famiglia. Non metto in discussione l’aspetto drammatico, disperante, della situazione, e quindi trovo normale i tentativi di Moro per salvarsi anche trattando con le BR e cercando di convincere lo stato a trattare a sua volta. Penso anche che le lettere siano autentiche e semmai che la tragedia stia proprio nel fatto che sono autentiche. Non mi interessano gli eroi e trovo la tesi che avrebbe dovuto morire a testa alta come un martire del risorgimento ridicola. Contesto invede l’idea stessa della politica e dell’azione di governo che esce da tutta la vicenda: quello che è disperante è che uno che aveva diretto la politica italiana in posti di asssoluta responsabilità dalla liberazione fino al 1979 e che si accingeva a diventare presidente della Repubblica, si limiti a un pianto sulla propria famiglia. Sarebbe stato lecito aspettarsi invece qualcosa di diverso e di più: una diversa concezione della storia e del paese che aveva governato. Soprattutto quando era diventato chiaro anche per lui che la partita era perduta e che le BR si erano incartate definitivamente.


Come tutte le visioni poetiche, anche quella di Pasolini si è avverata: quasi vent’anni dopo il consumo produttivo e con esso tutte le trasformazioni sociali che esso implica, le modifiche del capitalismo e delle forme del lavoro, delle forme di vita e del godimento, è andato al governo nella persona di Silvio Berlusconi. Vale a dire nella persona che nella storia italiana aveva incarnato e rappresentato la via attraverso la quale il consumo produttivo aveva potuto affermarsi: il medium televisivo. Per quanto la televisione insieme a tutti i media elettrici costituisca per tutto l’occidente un elemento essenziale della sua modernizzazione, è del tutto vero che solo in Italia esso sembra aver assunto un ruolo straripante e assolutizzante. Ciò ha un ragione: se è stato intorno alla televisione che il consumo produttivo si è imposto in Italia, ciò è stato dovuto alla presenza della Rai, di questo carrozzone fascista e statalista sopravvissuto come quasi tutti gli apparati di stato alla fine del fascismo. Non solo quindi difeso dal regime democristiano, ma anche dall’opposizione comunista il cui unico obiettivo è sempre stato quello di entrarvi, non quello di abolirlo. Fedele all’impostazione togliattiana della centralità dello stato, la strategia dei comunisti prima e dei ‘democratici’ dopo è stata quella di garantirsi l’accesso in condominio e in spartizione dellla televisione di stato. Se la Rai fosse stata smantellata, ridotta, se si fosse compresa in tempo la trasformazione inevitabile del capitalismo, Berlusconi non avrebbe potuto nemmeno, non avrebbe cioè avuto alcun interessse imprenditoriale in tale direzione, costruire un impero di portata pari a quello di stato e non avrebbe di conseguenza prodotto uno stato nello stato che alla fine e inevitabilmente ha sostituito quello ufficiale e ha preso il potere. Le culture maggioritarie in Italia, quella cattolica e quella comunistastaliniana, stranamente alleate nella difesa dello stato, hanno eretto barricate di fronte al mercato neocapitalista, di fronte al consumo, in nome di una cultura libresca, anticonsumistica, umanistica e spiritualistica, dimentica del desiderio e contraria anche alle forme possibili del godimento. Il risultato è stato aberrante: da un lato il neocapitalismo consumista, postfordista, si è imposto in Italia nella sua veste peggiore; dall’altro le vecchie postazioni comuniste si sono viste soppiantate da quelle ‘democratiche’ la cui unica prestazione politico-culturale consiste nel promuovere il discorso del godimento coatto, del diritto alla felicità etc di cui parlava Pasolini e proprio del consumismo neocapitalistico presentandosi contemporaneamente come i più acerrimi nemici degli effetti devastanti della cultura televisiva. Da un lato quindi impedendone la comprensione effettiva e di conseguenza anche la possibilità di una rivoluzione politica che mentre li cambia si fa però attraverso essi e a causa di essi, dall’altro però, sottomentendoli ad una gerarchia culturale passata e morta, utilizzandoli per l’affermazione del proprio potere. Berlusconi è il consumo. Ma anche l’insieme delle pratiche per evitare gli esiti rivoluzionari di quest’ultimo. Per questa ragione avrebbe qualche senso usare nei suoi confronti le categorie gramsciane di ‘rivoluzione passiva’ e di ‘cesarismo progressivo’: detto in modo più brutale i tentativi di modernizzazione in Italia sono sempre stati appannaggio di cialtroni Mussolini, Craxi, Berlusconi. Cialtroni nel senso di non aver avuto la capacità, culturale innazitutto, di portare i processi di modernizzazione fino in fondo in modo da spingere le contraddizioni ai più alti livelli. Si sono fermati sempre abbondantemente prima e se nel caso di Mussolini non ci fosse stato l’errore tragico della guerra, il fascismo sarebbe sopravissuto ancora a lungo. A questo proposito ha qualche ragione da vendere l’ipotesi


che l’avvento di Berlusconi con lo sdoganamento del MSI e la fine dei democristiani, dei socialisti e dei comunisti - sono finiti anche loro anche se sembrano sopravvivere -, cioè con la fine del dominio dell’arco costituzionale, rappresenti la rivincita dei congiurati del 25 luglio il cui tentativo di salvare il fascismo buttando a mare Mussolini fallì solo perché le truppe tedesche occupavano già gran parte dell’Italia e rendevano impossibile il tradizionale giro di valzer della alleanze. Da qui la lotta partigiana, la guerra civile e finalmente per l’Italia la catastrofe che spinge all’effettivo mutamento. Altrimenti le situazioni italiuane sono tutte e sempre, come diceva Flaiano, drammatiche ma non serie. Ovviamente se le modernizzazione italiane sono state sempre tentate dai cialtroni ciò dipende dal fatto che i progressisti di questo paese quando si è trattato di essere seri e di prendere una posizione di rottura e di discontinuità si sono sempre schierati sui fronti conservatori costruendo poi i miti fondatori del paese in modo che legittimassero il loro potere: risorgimento, resistenza, costituzione, stato democratico. I veri responsabili del disastro italiano sono loro, i borghesi democratico-progressisti rivoluzionari a parole e pronti al compromesso nei fatti, difensori sempre delle vecchie culture di classe, oggi del libro contro la rete, della scuola contro l’immagine- lo slogan ‘la cultura non è merce’ impedisce di riconoscere i produttori della cultura di massa come parte della classe - senza accorgersi che nella rete si scrive come non mai, è tutto una scrittura. La contraddizione insanabile del capitalismo giunto alla fase della produzione attraverso il consumo sta nel fatto da un lato di comandare il godimento attraverso il servizio dei beni e dall’altro di non poterlo soddisfare perché dal momento che l’oggetto del desiderio è un oggetto impossibile il godimento è necessariamente sbarrato. Questa contraddizione è della stessa natura logico-antropologico-storica di quella insita nella forma merce: poiché la merce è benjaminianamente immagine di desiderio essa che dovrebbe assicurare il profitto capitalistico attraverso la produzione di plusvalore va incontro ad un punto in cui non è più scambiabile col godimento e cessa di produrre profitto. Come fa il capitalismo ad evitare la contraddizione la cui forza lo condurrebbe al tramonto implicando il passaggio allo spreco, al dispendio, cioè al consuno improduttivo, in pura perdita? Questo passaggio infatti richiederebbe un tipo diverso di società in cui la dépense dovrebbe diventare istituzione al posto dello stato che mira sempre all’efficacia dell’intero, al funzionamento e all’armonia anche se coatta. In altri termini una società non più capitalistica sarebbe quella che governerebbe l’impossibilità dell’oggetto del desiderio con forme e istituzioni di natura poetica, tali cioè da rendere possibile l’amicizia a partire dall’impossibile. La conseguenza di questo discorso è che la società neocapitalistica nel momento in cui proclama la legge del godimento ed afferma la presenza dell’oggetto che produrrà il godimento deve parare il fatto che quest’oggetto però è impossibile: ora impossibile non vuol dire inesistente, ma esistente secondo la modalità dell’impossiìbile. Freud ha chiamato l’oggetto con un tale statuto il perturbante, l’oggetto ad esempio vivo e morto ad un tempo, animato e meccanico, maschile e femminile, sensibile e sovrasensibile (la merce), che quando appare destabilizza il soggetto individuale e/o collettivo. Se non si offre appuunto un’istituzione capace di farsene carico, i suoi effetti sono devastanti, nevrotici nei casi migliori, psicotici in quelli peggiori, perversi in tutti i casi intermedi.


Cosa fare allora? Bisogna da un lato impedire la sua comparsa che dall’altro è però costantemente evocata, anzi imposta. Poiché per Freud l’angoscia è il segnale di pericolo che annuncia l’emergenza nel reale dell’oggetto del desiderio, ossia la sua comparsa come perturbante, è necessario da un lato produrre angoscia generalizzata e dall’altro canalizzarla affinché non debordi dai limiti del neocapitalismo. È questa la prestazione delle nuove figure della sovranità politica postmoderna: canalizzare angoscia, essere dei collettori di angoscia. Berlusconi è questo: un immagazzinatore di angoscia. Per esserlo deve essere da un lato angosciato lui stesso per permettere l’identificazione per immedesimazione e per paura, dall’altro deve essere in grado di suscitare il desiderio, o più precisamente di offrirsi come la cornice in cui può apparire l’oggetto del desiderio. Dal momento che il corpo femminile è l’involucro in cui può manifestarsi l’oggetto del desiderio, cioè il fallo - come diceva Lacan la girl è il fallo -, checché ne pensino le femministe, Berlusconi è donna, il suo corpo è un corpo femminile. Tutti i suoi tratti lo collocano su questo lato della differenza sessuale e impediscono la sua identificazione con elementi maschili che tanto più sono machisti quanto più sono castrati. Berluscono non è castrato, è al di là del fallo, che vuol dire per un uomo al di là della prostata. D’altronde come avrebbe potuto essere maschile il padre della televisione, cioè dello scatenamento del desiderio, della ricerca del godimento e non semplicemente del godimento fallico, cioè maschile, ma del godimento in più che caratterizza le donne? Il suo narcisismo spinto fino alla patologia, la sua necessità di essere amato fino all’adorazione, la sua preoccupazione del corpo, della sua durata e della sua bellezza, il suo amore sadiano per la bellezza perfetta e immutabile, il suo desiderio di immortalità, il suo rifiuto della morte per cui non ne vuole neppure sentir parlare, il bisogno di conquista continuata, sono tutte caratteristiche che fanno di Berlusconi una “bella figa”, una “puttana”, una donna perfetta, ultradesiderabile. Se il suo corpo è in primo luogo merce è perché la merce è l’immagine del desiderio. Se è vero il suo inteesse per le escort ciò vuol dire che s’identifica con loro: qualche anno fa si venne a sapere, lo raccontò lui stesso, che aveva telefonato ad un pornostar televisiva per sapere se votava per lui! Quando dice che le donne sono più brave, che sono il più bel dono di dio, lo pensa davvero, dal momento che lo pensa di se stesso. Più Berlusconi evoca l’oggetto del desiderio più è chiamato a produrre angoscia per sé e i suoi cittadini. Perciò insiste tanto sul ‘fare’ e si presenta come l’uomo del fare contrapposto al politico: è ancora Lacan che ci può aiutare quando nota che l’azione è solamente una scarica d’angoscia. Berlusconi deve agire, essere pratico: agire appunto nel senso della praxis, non dell’atto che rinvia all’attualizzazione di una potenza. No! Berlusconi trasferisce fuori di sé attraverso l’azione grumi d’angoscia e così facendo avverte la gente del pericolo e la gente corre ai ripari ciascuno a suo modo: il leghista identificando il perturbante nel migrante clandestino, l’anti berlusconiano alla Di Pietro in Berlusconi stesso. La prestazione più alta di Berlusconi è di offrirsi come l’oggetto perturbante comprensibile e contro cui si può combattere, atto quindi a saturare l’angoscia senza effetti eccessivamente sconvolgenti. Ecco perché sono pessimista: tra poco Berlusconi non ce la farà più a produrre angoscia e a parare così la contraddizione del desiderio nel neocapitalismo.


Ci sarà bisogno per placare l’angoscia di qualche oggetto da distruggere sul serio e non solamente in effigie o per finta. Noi ci siamo vicinissimi: già vedo costruire i campi e innalzarsi il fumo.


Elogio dell’Illuminismo di Alfonso M. Iacono

Per ricominciare una ricostruzione culturale di una sinistra che non esiste più, occorrerebbe riaprire quella che una volta si chiamava battaglia per le idee e che ora è diventato un mercatino. Forse sarà il caso di ripensare, tra le altre cose, l’illuminismo, che Kant identificava con il pensare da sé e con l’autonomia, cercvando di guardarlo, distogliendo gli occhi per qualche momento dalla TV, dai festival, dalle feste, dal trionfo dell’immediatezza, di cui il gratta e vinci rappresenta l’espressione filosofica più appropriata. Elio Franzini ha scritto un bel libro che ha titolato Elogio dell’Illuminismo. Perché elogiare l’epoca di Voltaire, Rousseau, Hume, Kant? Perché proprio oggi? A guardar bene l’illuminismo non soltanto ha perso il valore e l’attenzione che gli è sempre stato riservato - per esempio nelle università sempre meno sono i corsi e le tesi sull’argomento -, ma è diventato un oggetto polemico privilegiato per religiosi e laici. Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in veritate riprende il tema della Dialettica dell’illuminismo che Adorno e Horkheimer scrissero all’indomani della seconda guerra mondiale e di Auschwitz per denunciare il trionfo della ragione feticizzata e calcolante, per attaccare il relativismo, vera piaga, a dire del Papa, del nostro tempo. Non


voglio entrare nel merito sulla questione del relativismo. Qui la domanda è un’altra: perché il relativismo? Cosa vi si contrappone? Il ritorno di un universalismo? Di esso lo storico Immanuel Wallerstein scrisse: “L’universalismo è stato offerto al mondo come un dono del potente al debole. Timeo Danaos et dona ferentes! Il razzismo; perché il dono dava al ricevente due possibili scelte: accettarlo, e con ciò riconoscersi più in basso nella gerarchia della saggezza acquisita; rifiutarlo, e con ciò privarsi delle armi che potevano rovesciare la situazione di un potere reale diseguale” Questa situazione da doppio legame in cui viene a trovarsi il debole è in un certo senso ciò da cui ha cercato di liberarsi (e di liberare) l’illuminismo, un’epoca in cui l’universale non riduceva il mondo a sé ma supponeva sempre un altrove. “L’Illuminismo, scrive Franzini, non è culto del particolare astratto, ma occasione di una battaglia per la ragione, che afferra il senso e il progetto intrinseci nelle differenze e nella possibilità di connetterle costituendo intesri, nuovi punti di vista per interpretare il mondo”. Prendere, come giustamente osserva Franzini, l’illuminismo di Adorno e Horkheimer come una categoria non solo ideologica ma anche storica è un errore, perché quello che, a mio avviso, resta un libro importante, in effetti costruisce per sé un illuminismo senza dubbio piegato al tema dominante della critica dei due grandi francofortesi e troppo riduttivo per il giudizio anche ideologico su quest’epoca così complessa e così ricca anche per la sua stessa contraddittorietà. I reazionari Herder e Burke sono, dal punto di vista estetico, assai meno tradizionalisti di Rousseau e Voltaire. Lo spettacolo (a quel tempo soprattutto quello teatrale) implica una distanza che Diderot determina modo esemplare nel suo famoso Paradosso sull’attore. In questo sensoElogio dell’Illuminismo è un libro che possiede una notevole valenza eticopolitica. “In un’epoca e in una cultura dove sembra di vivere solo tra situazione perturbanti, che sono tutte quelle occasioni in cui gli uomini si ‘reificano’, trasformandosi in fantocci, in marionette, in macchine, in automi, in criceti in una ruota, in cui l’altro appare come uno strumento, in cui la vita si immobilizza in un’inquietante ambiguità, si pone un orizzonte in cui la vita può trionfare, in cui la società e i soggetti in essa, vadano in una direzione ‘vitale’, in cui la percezione sia viaggio e cambiamento”. L’illuminismo di Franzini non è di maniera, ma offre al lettore chiavi importanti per una rilettura del XVIII secolo con gli occhi di oggi. Un universalismo che non esaurisce il mondo per dominarlo, ma sposta continuamente l’attenzione verso un altrove, è reso possibile non soltanto dal noto principio della tolleranza, oggi forse persino insufficiente, ma anche e soprattutto da quello dell’ironia. La messa in dubbio di ogni verità forte, della quale toglie l’assolutezza: ecco l’ironia di cui l’illuminsimo è meravigliosamente pieno. “A questo serve oggi, dunque, elogiare l’illuminismo: perché accanto alla volontà di sapere, alla forza simbolica di una rappresentazione ‘teatrale’, capace di porre a distanza le cose, guardandone in profondità il nucleo sia cognitivo sia espressivo, venga messa in campo la forza di un’ironia che fa comprendere il significato razionale, biologico e metafisico dell’immaginazione e del pensiero, di tutti quegli ambiti che permettono di percepire il cambiamento, di avere esperienza della vita: un’esperienza sensibile, concreta, estetica, capace di seguire il variare e il mutare del mondo della vita”. E. Franzini, Elogio dell’Illuminismo, Bruno Mondadori, 2009. I. Wallerstein, Il capitalismo storico, Einaudi, Torino 1983, p. 69. Elogio dell’Illuminismo, p. 9. Elogio dell’Illuminismo, p. 137. Elogio dell’Illuminismo, p. 137.


Sull’Odio di Massimo Donà

1. Sorprendente! Lo rilevava già il giansenista Manzoni – nel quarto capitolo del suo capolavoro letterario: “I promessi sposi” – che: “è uno de’ vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi”. In che senso dovrà però essere intesa un’affermazione di tale portata? E soprattutto: quali sarebbero le sue ‘ragioni’ più profonde? Ovvero, in che senso il poter odiare senza conoscere l’oggetto di tale sentimento sarebbe per Manzoni un vero e proprio “vantaggio”? D’altro canto, che il poter odiare (e conseguentemente il poter essere-odiati) potesse costituire un vantaggio, lo pensava anche Lord Byron – che giunse a riconoscere che l’odio è il piacere più duraturo. Insomma, si tratterebbe di un liquore prezioso perché fatto con il sangue umano… ma anche con l’amore. Sì, quello che lega e spesso travolge le nostre vite; come sapeva bene Baudelaire, insuperato cantore di una crepuscolare ma non ancora tramontata modernità. Si tratterebbe cioè di un liquore capace di tonificare; una sostanza che rinsalderebbe la vita e le sue pulsioni originarie. Se ne sarebbe convinto anche Honoré de Balzac. Insomma, ad esser così prezioso, secondo tutti questi grandi protagonisti della cultura moderna, sarebbe un sentimento bello e fortificante, in quanto rigorosamente ingiustificato e inguaribilmente ingiustificabile.


Per parafrasare un proverbio noto a tutti, potremmo anche dire che esso è così forte proprio “perché è cieco” – insomma, esso è cieco come l’amore. Come dire che, per esso, non ci si rivolge mai a un determinato oggetto in virtù di quanto quest’ultimo sarebbe in grado di mostrare di se medesimo. Ovvero, per una ragione in qualche modo fondata sulla sua natura intrinseca (sulla natura dell’oggetto che ci fossimo eventualmente ritrovati a odiare). Se poi volessimo ritornare con la mente ad alcune figure topiche disegnate dai testi fondativi della nostra civiltà, incontreremmo sicuramente, prima o poi, l’eroe omerico, maestro negli inganni e nella scaltrezza: Ulisse. Sì, perchè anche Odisseo era maestro d’odio. Certo, egli veniva chiamato polytropos – ma era anche seminatore d’odio. Non a caso odyssesthai significa “adirarsi”. Ulisse, insomma, semina odio e viene fatto oggetto d’odio. Come nel caso del Sole Iperone, al quale i compagni del nostro eroe avevano sottratto i buoi per potersene cibare. Ma si potrebbe chiamare in causa anche l’odio di Poseidone; il cui figlio, ovvero il ciclope Polifemo, sarebbe stato brutalmente accecato dall’eroe omerico. Che non a caso si era annunciato al mostro monoculare come ‘Nessuno’. Outis… ‘nessuno’, che è dunque sinonimo di metis – che dice sì ‘astuzia’, ma nel senso di arte dell’inganno. Quell’inganno che avrebbe provocato l’ira funesta di Poseidone; che peraltro odiava già quel ‘Nessuno’,… avendo imparato a odiarlo sin dai tempi del suo decisivo contributo alla conquista di Troia. Per rimanere all’interno di una dimensione in qualche modo aurorale, potremmo poi riferirci ad Empedocle. Il quale vedeva nell’odio una forza capace di generare la vita; producendosi, quest’ultima, per una radicale rottura dell’astratta unità originariamente garantita da un amore ancora totalmente privo di pathos e determinazioni, di movimento e dinamica. Certo, egli aveva distinto questo odio produttivo da un odio, al contrario, altamente distruttivo e sostanzialmente mortifero – quello destinalmente sopraggiunto a far naufragare il precario equilibrio costituitosi tra amore e odio, in seguito alla dinamizzazione (operata dall’odio “buono”) dello sfero immobile antecedente la vita. Un odio generatore di quel chaos che solo una rinnovata e gratuita irruzione dell’amore avrebbe potuto ricondurre a nuova vita. In questa polarità tematizzata da Empedocle, Aristotele avrebbe riconosciuto l’azione complementare di due forze il cui vero nome sarebbe stato da un lato ‘bene’ e dall’altro ‘male’. Amore come Bene e odio come Male, insomma – questo, l’esito della lettura aristotelica del testo empedocleo. Di quel testo a partire dal quale ci si sarebbe progressivamente convinti che l’universo s’era potuto ricostituire solo per il prevalere dell’amore sull’odio; ossia, per la vittoria di philìa nei confronti di quella forza astrattamente distruttiva che non avrebbe di certo consentito il formarsi dei pianeti che tutti conosciamo… e che possiamo ri-conoscere solo in quanto ci troviamo inscritti in una sorta di fase intermedia – caratterizzata appunto dalla contemporanea presenza di odio e amore, reciprocamente equilibrantisi, e dunque non ancora travolti dal rinnovato prevalere dell’odio… quello stesso da cui l’universo sarà costretto a incontrare un’ennesima e tragica fine. 
Per ricominciare comunque a vivere, in seguito, in virtù di una eternamente rinnovantesi spinta erotica. La stessa che sembra destinata a riattivare all’infinito quel ciclo di nascite e morti da cui sarebbe essenzialmente costituita un’idea di temporalità come quella tanto cara allo spirito greco.


Forse aveva proprio ragione Gunther Anders, dunque, a ritenere che l’uomo è antiquato; perché le sue emozioni, di fatto, sarebbero rimaste le stesse che lo caratterizzavano quando la tecnica non aveva ancora così potentemente rideterminato il mondo. L’intellettuale ebreo-polacco ci ha fatto comprendere molto bene almeno uno dei paradossi caratterizzanti la modernità: mostrandoci come proprio l’odio, inteso quale originario impulso alla violenza, avesse fatto da alimento e spinta essenziale alla definizione di tecnologie belliche sempre più potenti, di cui oggi quasi tutti dispongono, ma che ormai possiamo tranquillamente utilizzare e mettere in funzione senza alcun bisogno di provare odio, e dunque senza doverci necessariamente sentire responsabili di una violenza che da ultimo finisce per essere percepita come semplice effetto mediatico (da vedere in tv come se fosse il prodotto delle azioni di qualcun altro). L’odio, quindi, parla di un sentimento dagli esiti assolutamente paradossali; un odio che Nietzsche, peraltro, aveva visto crescere e diffondersi anche in virtù di una progressiva trasmutazione del senso originario del messaggio cristiano. Il filosofo dell’eterno ritorno, comunque, aveva individuato il momento decisivo di tale trasformazione nella traduzione che, delle parole di Gesù, sarebbe stata operata da Paolo. Ossia, da un vero e proprio genio dell’odio che, nella visione dell’odio e nella spietata logica dell’odio ereditato dall’istinto sacerdotale ebraico – sempre secondo il Nietzsche del paragrafo 42 dell’Anticristo –, avrebbe trasformato la “buona novella” nella peggiore fra tutte. Per questo aveva falsificato la storia di Israele affinché apparisse come vera e propria preistoria della propria azione. Ricordandoci peraltro che tutti i profeti avevano parlato del suo “redentore”. Così, sempre secondo Nietzsche, la chiesa aveva falsificato la storia dell’umanità, istituendo un ‘prima’ valevole come semplice preistoria del Cristianesimo. D’altro canto, come ogni sacerdote, Paolo aspirava alla potenza e, per ottenerla, si sarebbe servito finanche della menzogna. Non a caso, quel che lui stesso non credeva, gli idioti, tra cui egli seminò la sua dottrina, lo credettero. Insomma, sempre secondo il filosofo dell’oltre-uomo, Paolo sarebbe riuscito a realizzare la tirannia dei sacerdoti; e, per formare delle mandrie, avrebbe inventato la fede nell’immortalità – vale a dire la dottrina del “giudizio”. Così, secondo il Nietzsche del paragrafo 42 dell’Anticristo. Ma forse val la pena ricordare anche questo: ossia, che, forse, amore e odio non si sono mai rapportati da veri e propri opposti. Opposta all’amore sembrando, piuttosto, la semplice “indifferenza”. Questo, ciò che ci viene suggerito, ad esempio, dal pedagogista Alexander S. Neill, nel suo Il fanciullo difficile. Stando alla prospettiva elaborata da Neill, infatti, l’odio non sarebbe altro che amore… o meglio, amore rovesciato; rovesciato, forse, proprio perché contrariato. Non a caso l’odio sembra comportare sempre anche un certo timore. Come nel caso del fanciullo di S. Neill, per l’appunto; che odia il fratellino più piccolo, sentendosi angosciato vuoi per la possibilità di perdere l’amore della madre, vuoi per un insostenibile senso di colpa riconducibile ai pensieri cattivi e invidiosi maturati nei confronti del fratello più piccolo.


2. Dunque, l’odio, come l’amore, è cieco; almeno, così si dice. Ovvero, l’antica saggezza popolare riposta nei proverbi, ci dice appunto che l’odio non ha occhi. Chi odia, insomma, è come se non vedesse l’oggetto del proprio odio. Ma, di cosa ci parla, da ultimo, tale verità ? Che si tratti di una verità, è noto a chiunque. Tutti sappiamo infatti che l’odio non ha affatto bisogno di una ‘causa’ scatenante, per attivarsi. Da ciò la sua costitutiva “cecità”. Anzi, a dire il vero, le cose non stanno neppure in questi termini… un po’ troppo vaghi e per ciò stesso impropri. Non si tratta, cioè, solo di riconoscere il fatto che sarebbe possibile odiare senza sapere bene cosa potesse aver pro-vocato tale sentimento in noi. Più precisamente, e in primis, si tratta di riconoscere che, quando si odia, si riesce a odiare davvero, solo là dove, davanti ai nostri occhi, non si disegni nulla di ragionevolmente odiabile; ossia, di odiabile per quel che di esso si darebbe appunto a vedere. Questa, la verità dell’odio. Una verità che conosceva bene anche il nostro ‘non sempre amato’ Manzoni; che proprio perciò poteva ritenere – come abbiamo già visto – che “uno de’ vantaggi di questo mondo sia proprio quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi”. Strana situazione, dunque, quella dell’odio. Un sentimento che non sorge in modo reattivo – fermo restando che, riferirsi ad un modo del ‘sentire,’ dovrebbe comunque valere come evocazione di una forma del ‘patire’. E dunque come chiamata in causa di un “essere-mossi” – di un esser mossi da qualcosa che, per l’appunto, sentiremmo e che, proprio in quanto “sentito”, o meglio “patito” – con maggior o minor forza (in relazione alla potenza di tale ‘urto’ su di noi) –, provocherebbe un sentimento più o meno intenso e destabilizzante. Sì, perché il sentire è sempre un essere in qualche modo destabilizzati. Perché l’urto di ciò che viene a noi, facendoci pazienti, ovvero senzienti, mette in ogni caso a soqquadro l’equilibrio che avevamo in qualche modo raggiunto – in modo più o meno devastante, evidentemente. Ma se l’odio non vede (essendo cieco), esso non può neppure consentirci (per ciò stesso) di ri-conoscere qualcosa come un oggetto nei cui confronti si possa o si debba reagire – bene o male (non ha alcuna importanza). Nei cui confronti, cioè, si possa o si debba reagire. Ecco, dunque… Manzoni ci dice che né l’odio né l’amore vedono davvero chi sarà da odiare o da amare. O meglio, possono anche far riferimento a un oggetto (quel che diciamo di odiare o di amare), ma – e qui la cosa si fa più sottile, e dunque più complessa – non vedono mai, in quell’eventuale oggetto, quel che avrebbe davvero scatenato l’odio o l’amore (ossia, quella certa reazione, positiva – nel caso dell’amore – o negativa – nel caso dell’odio). Non vedono mai in esso la vera causa del sentimento in questione. Nulla di quell’oggetto, infatti, sembra potersi costituire come elemento scatenante il nostro sentire. Dunque, concentrandoci su quell’oggetto, mai riusciremo a riconoscervi la vera e propria causa del nostro sentimento – nulla, cioè, può fungere in esso da ragione del nostro odio. Ecco perché l’odio è un sentimento assolutamente ‘infondato’. Che accade e ci afferra (come l’amore, d’altra parte) estrinsecandosi in relazione a


questo o quell’oggetto, a questa o quella persona, senza che ci sia in alcun modo consentito trovare in tali oggetti (o persone) la ragione, e dunque il fondamento del suo accadere. Il suo vero e proprio elemento scatenante. Perciò, potremmo anche dire che colui il quale viene odiato, viene odiato nonostante lui stesso – nonostante che, quel che di lui appare, non renda in alcun modo ragione del suo esser fatto oggetto di odio. E dunque non c’entri nulla con la mia reazione. Colui il quale viene fatto oggetto d’odio (così come di amore) è dunque per definizione vittima innocente ! Un po’ come il capro espiatorio tematizzato da René Girard. Quella determinata persona è cioè chiamata in causa in virtù di un urto che mi ha senz’altro destabilizzato, ma che non proviene da essa; o meglio dalla sua determinatezza. Perciò l’aggressione violenta mossa da odio appare come la più pericolosa; perché non si cura di colpire ciò che dell’oggetto sarebbe in qualche modo colpevole della mia smisurata e cieca aggressività. E dunque non si cura di calcolare l’entità dell’aggressione reattiva, si da poter prender bene la mira, e colpire nella forma più opportuna (e quindi sensata). No, l’odio ci fa colpire indiscriminatamente; perché il suo è un colpire da non-vedenti. Che aggrediscono a casaccio, in modo scoordinato (non ordinato). Potendo per ciò stesso ferire anche in modo mortale. Ma il fatto è che chi odia – ecco un altro aspetto importante – non può voler condurre a morte l’odiato; ossia, toglierlo di mezzo. Questo, va anche rilevato. Chi odia, cioè, non può voler annientare la pretestuosa fonte del proprio odio. Perché, là dove finisse per ucciderla, si ritroverebbe indissolubilmente legato ad essa. Uccidendo l’odiato, insomma, si finirebbe per fare, di quell’oggetto, una sorta di “idolo”; lo si identificherebbe cioè alla vera origine dell’odio – che non risiedeva però in quella persona… pur finendo per identificarvisi. D’altro canto, se si conducesse a morte l’odiato, ci si troverebbe in una condizione davvero insopportabile; impossibile, anzi… ché, in tal caso, l’odio si paleserebbe per quel che è: ovvero, nella sua assoluta infondatezza. Di fronte all’annullamento di quella persona, il nostro gesto rivelerebbe tutta la propria assurdità o infondatezza – e non procurerebbe alcuna soddisfazione. Stante il suo inconfutabile non poter essere stato causato da quella persona. Così finiremmo per mantenere vivo ed operante l’odio che aveva motivato la nostra supposta ‘reazione’, come se nulla fosse realmente accaduto. Perciò l’eliminazione dell’oggetto supposto ‘odiato’ non potrà mai soddisfarci. Finendo piuttosto per portare alla luce l’irragionevolezza del nostro agire aggressivo – ossia, l’irragionevolezza caratterizzante tutti i modi in cui l’odio può illudersi di trovare soddisfazione. Eppure, piuttosto che guardare in faccia tale infondatezza (che rende ragione del proverbio…. secondo cui chi odia, agisce appunto come un cieco), non di rado finiamo per legarci definitivamente alla nostra vittima… ritenendola ‘evidente’ causa del nostro odio, e dunque del nostro gesto inutilmente omicida. E la sua persona finisce per diventare sempre più importante… la sua rilevanza tendendo a farsi “assoluta” (anche se non lo era affatto, importante… per noi, essendo stata prescelto quale vittima sacrificale in modo del tutto accidentale o, meglio ancora, sostanzialmente pretestuoso). Ma perché, possiamo ancora chiederci, pur non provenendo da essa, l’odio si sarebbe rivolto tutto contro di essa? Cosa avrebbe fatto sì che, pur non vedendo nulla, in essa, che potesse valere come effettiva ragione del nostro odio, avremmo finito per accanirci con


tanta violenza nei suoi confronti? Da dove, cioè, la necessità di un obiettivo, per quanto puramente pretestuoso… e dunque assolutamente infondato? Da dove, insomma, l’essersi ri-volto proprio verso quella persona, da parte del nostro odio ? Perché proprio essa io avrei finito per odiare, fino ad ucciderla ? Impedendomi per ciò stesso di prendere atto, magari anche in ritardo, che ella non c’entrava proprio con l’insorgenza, in me, di un sentimento tanto profondo – sì da fare, proprio di quella persona, la sacra ragione del mio gesto assoluto e solo apparentemente dirimente. Sì perché solo apparentemente, uccidendolo, avremmo finalmente “separato” da noi quella persona; solo apparentemente, cioè, saremmo riusciti a espellerla dalla nostra vita. Ce ne saremmo separati, infatti, in forma del tutto illusoria – perché in verità, come già abbiamo rilevato, avremmo finito per legarla definitivamente a noi. Ecco perché l’odio, in un certo senso, ossia da un punto di vista puramente razionale, non dovrebbe mai risolversi nell’assassinio dell’odiato. Eppure… non così raramente, esso finisce per trasformarci in assassini – o meglio, per spingerci ad uccidere. Sì da condurci ad un gesto in radicale contraddizione con l’utilità stessa del soggetto che ognuno di noi è. Ognuno di noi, infatti, vuole soddisfare la propria aggressività, che proprio nell’odio si esprime e si manifesta concretamente, al fine di liberarsi dell’oggetto che sembra essersi fatto ragionevolmente odiabile; ma, proprio soddisfando tale bisogno, non otteniamo affatto quel che avremmo voluto ottenere (ossia, l’allontamento più radicale di tale fastidiosissima presenza), ma proprio l’opposto di tutto ciò. Ossia, finiamo per legarci a quella presenza così come, solo in quanto spinti dall’amore, saremmo riusciti a fare – ossia, per sempre ! Per quanto diretti a un obiettivo – potremmo anche dire –, l’odio ci spinge ad agire in modo tale da non poter ottenere altro che la negazione più radicale di quel che si sarebbe voluto ottenere. Cioè, il suo contrario. Perciò, qui (nell’odio), il ‘fare’ è un vero e proprio un dis-fare… quel che si va facendo !!! 3. Anche Dio, in ogni caso, ‘odia’. Non a caso, nell’Antico Testamento, nel libro di Malachia, ad un certo punto, ci si chiede: “Non era forse Esaù fratello di Giacobbe?” Ed è Dio stesso ad affermare: «ho amato Giacobbe [3]e ho odiato Esaù» (Ml 1, 2-3). Dunque, dei due, il Signore avrebbe scelto Giacobbe. Per quale motivo, però, non è detto. Eccola, dunque, la vera e propria “gratuità” della scelta divina. D’altro canto, se così non fosse, non potremmo davvero credere di trovarci nel Regno della grazia. Questi due fratelli sono tanto simili, che più di così non si potrebbe; ma nello stesso tempo sono in netto contrasto l’uno con l’altro; si corrispondono, perché sono gemelli, ma litigano già nel grembo della madre. E mentre escono dal suo seno, “Giacobbe tiene per il piede Esaù”; in qualche modo c’è una gara nell’uscire, una vera e propria lotta nel disperato tentativo di uscire per primi. Ecco, tutti questi elementi ci aiutano a cogliere e a riconoscere la ragione


delle enormi difficoltà che tanto spesso minano il rapporto familiare tra simili. I fratelli sono simili, ma il fatto di essere simili, non elimina affatto il problema. Anzi… proprio per la loro somiglianza, finiscono per farsi animare da infinite tensioni; che possono addirittura sfociare in un vero e proprio conflitto. Anzi, in una dura e mortale opposizione. Anche Dio odia, insomma; e odia senza ragioni. Odia uno dei due gemelli (che era fratello “gemello”, addirittura): odia, cioè, Esaù. Ma non v’è alcuna ragione per tutto ciò. Anzi, per quanto Giacobbe abbia derubato con l’inganno la primogenitura ad Esaù, è proprio lui il prediletto ! Prova, questa, del fatto che, colui il quale viene odiato, non custodisce mai in sé stesso la ragione di tale odio; stante che, anche là dove l’amato e l’odiato siano particolarmente simili (come possono esserlo i gemelli) – ed anzi, proprio in virtù di tale specifica somiglianza –, sono “l’uno odiato” e “l’altro amato”. Amore ed odio senza ragione è dunque quello che li lega indissolubilmente. Anzi, forse è proprio la loro estrema somiglianza a non poter che generare passioni antitetiche! Come a indicare un distinguersi radicale, la cui radicalità sarebbe appunto perfettamente commisurata proprio alla radicalità della loro reciproca somiglianza. Insomma, i due… quanto meno si distinguono, tanto più sono mossi da passioni opposte. E, ad esprimersi, in tali passioni, sarà dunque proprio la loro affinità; anzi, la loro perfetta identità. Giacobbe ed Esaù, infatti, sono entrambi figli di Isacco e di Rebecca; anzi, sono addirittura gemelli! La radicalità dell’opposizione sentimentale riflette, quindi, proprio la radicalità della loro vicinanza. Insomma, sembra che “lo stesso” non possa esprimersi se non con i tratti di una originaria opposizione – ossia, come opposizione tra sentimenti tanto contrastanti quanto allo stesso modo infondati. E per ciò stesso assoluti. O, che è lo stesso, originari. D’altro canto, anche per Empedocle il cosmo in cui ci troveremmo a vivere sarebbe stato reso possibile da due passioni contrapposte. Contenendole entrambe, sino a quando il prevalere dell’odio non fosse sopraggiunto a separare i suoi elementi costitutivi, ponendo termine ad ogni forma di unità – da cui una catastrofica deflagrazione destinata comunque a risolversi in una nuova ri-nascita cosmica, determinata dal riemergere della potenza unificante, mossa a dar vita a un nuovo ordine, e dunque a riavvicinare i distinti. Ma, se tali forze sono “originarie” (esprimendo le potenze che consentono addirittura il costituirsi di qualcosa come un cosmo – il quale “non sarebbe neppure” per la sola identità, cioè in virtù del solo amore… se è vero che c’è kosmos solo là dove perlomeno due forze vengano ad inter-agire), nulla potrebbe esservi solo per l’una o solo per l’altra; neppure le due forze, nel loro semplice esser-distinte, sarebbero in alcun modo individuabili. Infatti, l’una è se stessa solo nel suo originario distinguersi dall’altra. Solo in quanto distinto dall’odio, insomma, l’amore è amore. Perciò non si dovrebbe neppure dire che le fasi sono quattro (come avrebbe voluto Empedocle); ma una sola. L’unica; quella nel cui orizzonte qualcosa riesce ad esistere solo perché le cose tutte vi si distinguono, e proprio nel farsi ognuna presenza sempre dello stesso uni-verso. Infatti, l’odio è tale solo in quanto, come odio, dice già ciò che verrà detto dall’amore: ossia, quel che c’è. Quello che, in quanto essente, mai potrà unirsi davvero, se non con qualcosa che sia realmente contra-posto a esso. Così come mai tenderà a distinguersi se non da ciò che può generare un tale bisogno, solo in quanto sempre troppo identico a esso.


Ogni volta, insomma, noi tendiamo a separarci da quel che ci soffoca; e dunque non consentirebbe la nostra distinta esistenza, proprio in quanto intrinsecamente vocato a negarla. E allo stesso modo, tendiamo ad unirci a ciò da cui ci sentiamo troppo distanti e diversi; tanto distanti da farci sentire, proprio per questo, imperfetti e finanche abbandonati. Perciò, a essere odiato, è sempre e solamente colui dal quale troppo siamo amati (che ci è troppo simile e vicino), e ad essere amato è colui il quale troppo intensamente ci odia (da cui troppo, cioè, ci sentiamo respinti e allontanati). Ecco in che senso amore e odio inter-agiscono in ogni rapporto tra essenti; tra essenti che inter-agiscono ab origine, dunque, l’uno nell’altro e l’altro nell’uno. Che agiscono l’uno sull’altro perché amati-e-odiati in uno, perché amanti-odianti, in uno. 4. Il principio del cosmo (l’arché) è dunque “amore-odio”, in uno! È il suo distinguersi come amore, da una parte, e odio, dall’altra; è il distinguersi della medesima arché (come il Dio biblico che ama e odia, ab origine, e dunque senza ragione, Giacobbe ed Esaù). Perciò, come rileva giustamente Gunther Anders, l’uomo, nonostante le enormi trasformazioni attraversate lungo il corso della propria vicenda storica, continua a “sentire” come gli antichi. Perciò i suoi sentimenti sono davvero antiquati rispetto alle possibilità ormai dischiuse dalla tecnica – possibilità di uccidere e sterminare “anche senza odio”. D’altro canto, ancora oggi il puro odio e il puro amore si contrappongono e riescono a muovere i popoli della terra – di là dall’omologazione e dalla spersonalizzazione violentemente operate dalla potenza della tecnica. E’ un fatto. Certo, un filosofo come Emanuele Severino direbbe che si tratta di forze residuali, rispetto al vero motore di tutto. Ma non sono certo che le cose stiano proprio così. Cosa significa, in ogni caso, esperire l’odio come un sentimento originario? Insomma, cosa comporta una tale esperienza? Cosa comporta, cioè, il costituirsi, da parte dell’odio, come vera e propria parola dell’arché ? Innanzitutto questo: che, “chi ama, odia” e “chi odia, ama”. E poi comporta che non vi sia un terzo, tra amore e odio: al modo di ciò che normalmente intendiamo, quando parliamo di indifferenza. L’indifferenza, infatti, non è affatto “un terzo” tra amore e odio; quasi una sorta di condizione mediana in grado di neutralizzare le due passioni originarie – da cui e l’una e l’altra verrebbero in qualche modo ‘escluse’ (proprio in quanto in essa perfettamente identificantisi). Non lo è, innanzitutto in quanto la loro identità non si dà mai come reciproca esclusione. Infatti, rispetto a tale supposta identità, in quanto esclusi dalla medesima, essi finirebbero per riconoscersi come semplicemente ‘altri’ da essa – rimanendo, così, fermi alla loro incontaminata “differenza” reciproca (l’unica, peraltro, in grado di dirli come tali). Insomma, solo se, nell’identità, dovessero riuscire a vivere entrambi, nella loro specifica differenza, i medesimi non potrebbero dirsi affatto “esclusi”.


Ma potrebbero mostrarsi, proprio nel loro originario distinguersi, anche come identici. Come due che ‘sono uno’. Che sono cioè la loro stessa – dei due “in quanto due” – identità. Sì da dire in primis proprio il loro non-distinguersi. Il non-distinguersi di due distinti, evidentemente.


Le parole dell’etica di Antonio Da Re

L’esercizio della riflessività personale e la cura che essa richiede costituiscono un antidoto al conformismo morale, da non intendersi semplicisticamente come la mera adesione all’ēthos esistente. Innanzitutto va osservato come sia improprio, specie nella società post-moderna, parlare di un ēthos al singolare; a ben vedere le nostre vite sono ‘attraversate’ e influenzate da diversi ēthe, tra loro non necessariamente collimanti, che si intersecano e si sovrappongono, rendendo estremamente frammentaria e incerta l’esperienza etica del soggetto. Va poi fatta una precisazione riguardo al valore morale dell’ēthos esistente (o degli ēthe esistenti). L’ēthos, per il fatto che si dà concretamente, non è detto che sia di per sé ‘giustificato’; è lecito in tal senso nutrire più di qualche dubbio rispetto all’ottimismo di Hegel, che vede nelle forme dell’ēthos la manifestazione della ‘verità etica’. E tuttavia, non si può nemmeno affermare che l’ēthos (o quel particolare ēthos) vigente debba sempre essere superato in una forma più adeguata. L’ēthos certamente va sempre messo in discussione, saggiato nella sua consistenza etica, ma non è detto che il delinearsi di un nuovo ēthos sia già di per sé qualcosa di positivo per il semplice fatto che è nuovo.


Proviamo a esemplificare il significato di questa dialettica tra forme antiche e nuove dell’ēthos, riprendendo una discussione che in tempi recenti ha coinvolto vasti settori dell’opinione pubblica italiana, in particolare il mondo medico e sanitario. Nel 2009 è stata emanata la legge n. 94 contenente «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica»; tale legge, denominata anche giornalisticamente «Pacchetto sicurezza», regola tra le altre materie il reato di immigrazione clandestina. A tale proposito essa prevede l’obbligo, a carico dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio, di denunciare all’autorità giudiziaria i soggetti clandestini incontrati nell’esercizio delle proprie funzioni. In una prima formulazione della legge, tale obbligo valeva anche per il personale medico e sanitario. Era facile prevedere che una norma simile avrebbe di fatto impedito l’accesso ai servizi sanitari fondamentali da parte degli immigrati clandestini, danneggiando in particolare le persone più vulnerabili, tra le quali le donne in gravidanza e i minori; era inoltre ugualmente prevedibile che tale norma avrebbe contribuito a incoraggiare il ricorso a sistemi alternativi di cura e a creare una rete clandestina di assistenza sanitaria, facilmente controllabile da gruppi criminali. Da non sottovalutare infine l’aumento del rischio per l’intera popolazione di una maggiore esposizione alla malattia, per esempio la possibilità di contrarre malattie infettive, a causa del mancato accesso all’assistenza sanitaria di base da parte di gruppi considerevoli di persone in quanto prive del permesso di soggiorno. Queste e altre considerazioni sono state addotte da parte di personalità singole, di gruppi, di istituzioni, tra le quali merita di essere menzionata la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCEO). Gli Ordini dei Medici, tra l’altro, nella loro opposizione all’obbligo di denuncia del clandestino, si appellavano alla propria deontologia professionale, in particolare al dovere di curare il paziente «senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali [il medico] opera» (art. 3 del Codice di Deontologia Medica). Alla fine il legislatore non è rimasto insensibile a tali argomenti e alle varie critiche mosse alle prime stesure del cosiddetto «Pacchetto sicurezza»; il testo definitivo della legge approvato dal Parlamento italiano ha introdotto infatti alcune deroghe all’obbligo di denuncia dell’immigrato privo di permesso di soggiorno, e tra queste una riguarda il personale medico e sanitario; sono invece escluse altre professioni, per esempio quella degli assistenti sociali, per i quali continuano a valere gli artt. 361-362 del Codice Penale che puniscono l’omissione o la ritardata denuncia, da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio, di un reato di cui egli sia venuto a conoscenza nell’esercizio delle sue funzioni. La vicenda può essere letta come un confronto, che a tratti si è trasformato in un vero e proprio scontro, tra due diversi tipi di ēthos, quello riconducibile grosso modo alla tradizione ippocratica e umanistica della medicina e quello che subordina il fine primario e universalistico della prassi medica a esigenze di ordine sociale, riducibili fondamentalmente a esigenze di sicurezza e di ordine pubblico. Nell’occasione, con la riconosciuta possibilità di accedere alle prestazioni sanitarie senza l’obbligo di esibire il permesso di soggiorno, l’ēthos tradizionale è risultato per così dire vincente; ma si è trattata di una vittoria parziale e comunque provvisoria, perché la prospettiva contraria ha comunque prodotto degli effetti considerevoli, sia negli immigrati irregolari, che ora si rivolgeranno alle strutture sanitarie con maggior circospezione, sia più in generale nell’opinione pubblica, che ha dovuto


prendere coscienza della possibilità concreta dell’instaurarsi di un diverso ēthos, di una diversa modalità, più escludente e meno inclusiva, d’intendere l’attività medica. Ovvio che un’eventuale legalizzazione nei modi previsti originariamente dal «Pacchetto sicurezza» avrebbe contribuito al rafforzamento di un ēthos di autotutela del gruppo, rispetto a chi è considerato estraneo al gruppo stesso; ma anche senza il riconoscimento giuridico, un ēthos simile mostra di essere già radicato e, anzi, proprio il tentativo di legalizzarlo costituisce un’indiretta conferma di tale radicamento. Compito dell’etica è interrogarsi sulle diverse forme dell’ēthos e sulla maggiore o minore pertinenza morale dell’uno o dell’altro, e non sulla loro maggiore o minore «attualità» in termini temporali, come se quello più recente fosse comunque da abbracciare rispetto a quello più antico; tale opera di analisi critica da parte dell’etica è complessa anche perché le forme sociali e culturali dell’ēthos, per loro stessa caratteristica, non si presentano in modo puro; esse sono accompagnate da significati, precomprensioni, realizzazioni in pratiche determinate la cui considerazione può contribuire a modificare almeno in parte il giudizio sull’ēthos complessivo. Pur facendo propria l’intenzionalità universalistica e inclusiva dell’ēthos qui definito per semplicità di tipo ippocratico, si potrebbe per esempio eccepire su una sua possibile declinazione in termini paternalistici, cosa che senz’altro è avvenuta e ancora continua ad avvenire in molti contesti; oppure si potrebbe agevolmente convenire sull’importanza di garantire la sicurezza sociale e il principio di legalità, senza per questo però costringere il medico a trasformarsi in poliziotto. Ma anche considerando queste ulteriori specificazioni, rimane fermo che la riflessività dell’etica come sapere può confrontare i diversi tipi di ēthos, e giudicarli, stabilendo che l’uno, quello inclusivo e universalistico, corrisponde meglio a delle istanze etiche che tra l’altro hanno trovato una fruttuosa ricezione anche nella nostra Costituzione repubblicana. È presumibile immaginare che il confronto-scontro tra le forme di ēthos qui menzionate proseguirà, il che nuovamente ci riporta al tema della centralità della prospettiva personale. Esemplificando: l’ēthos ippocratico non può continuare a sussistere solo confidando in un riconoscimento giuridico, che pure è rilevante; esso necessita di essere continuamente sostenuto e alimentato da significati e motivazioni personali. La possibilità del collasso morale, evocata più volte da Hannah Arendt in riferimento alla Germania nazista, va sempre messa in conto. Per questo è fondamentale il ruolo dei soggetti singoli, della loro riflessività, della loro capacità valutativa e quindi anche della corrispondente cura di sé. Questo esercizio di autoriflessività potrà indurre il soggetto morale, che magari si trovi in situazioni morali estreme, a dichiarare a se stesso: «io non posso». Di tale autoriflessività ha comunque bisogno l’esercizio della riflessività dell’etica come teoria. (tratto, con alcune revisioni, da Antonio Da Re, Le parole dell’etica, Bruno Mondadori, Milano 2010, pp. 68-71).


Il disfacimento del berlusconismo di Andrea Margheri

I fatti confermano ogni giorno che un ciclo politico si è chiuso con il fallimento ‘rovinoso’ della stessa idea-forza che gli ha dato vita. Quell’idea-forza non lascia di sé neppure un nome, un vocabolo che semanticamente richiami una prospettiva storica. Si può chiamare solo «berlusconismo» perché il personaggio, nelle sue molteplici incarnazioni, nella sua variegata – talvolta grottesca, ma sempre efficacissima – propaganda, si è sovrapposto come solo deus ex machina al suo reale messaggio politico. Ma ha ragione Reichlin quando, analizzando le macerie dell’amalgama sociale e politico berlusconiano, ribadisce che le diverse radici e componenti di quello schieramento sono state ampiamente sottovalutate e spesso non comprese dall’analisi culturale e politica. Alcune di esse derivano da fenomeni epocali che superano di gran lunga i nostri confini. Altre sono più legate alla nostra storia e alle nostre tradizioni peggiori; esse hanno fatto riemergere caratteristiche costanti dell’Italia che risalgono alla crisi della società postrinascimentale e ai secoli travagliati del Seicento e del Settecento. È merito di Berlusconi aver compreso prima di tutti la complessità dell’ondata di antipolitica che attraversò il Paese all’indomani di Tangentopoli. In quello tsunami distruttivo c’era innanzi tutto la paura dell’Occidente e, quindi, dell’Italia, di fronte ai movimentimigratori che cominciavano a cambiare le


società industrializzate. Questa paura era l’humus in cui fioriva il localismo della Lega di Bossi e della Liga Veneta, destinate rapidamente a confluire. È ovvio che essa si collegava, come sempre, al disprezzo contro lo Stato imbelle perché paralizzato dai partiti e dalla corruzione, incapace di reagire e di proteggere adeguatamente le ‘piccole patrie’ storiche come nel Veneto o inventate di sana pianta come la Padania celtica. E questo disprezzo rinfocolava sia la protesta antifiscale sia la visione populista che opponeva ai meccanismi complessi della democrazia la visione aziendalistica di un uomo solo al comando che sa decidere e operare senza ‘lacci e laccioli’. Egoismo sociale strettamente connesso all’antipolitica del potere personale. Da qui la critica via via più aspra alla Costituzione sia nei principi sia nelle procedure istituzionali. Da qui l’intolleranza sempre più accentuata per il compromesso capitalismo-democrazia, che è l’eredità essenziale del XX secolo. Erano i rigurgiti possenti degli egoismi e dei particolarismi che hanno attraversato la storia italiana e che solo in momenti di alta mobilitazione ideale e politica sono stati sconfitti. Ma non c’è stata una vera mobilitazione alternativa perché quei rigurgiti (ecco il capolavoro di Berlusconi!) erano raccolti in un involucro ideologico di liberalismo riformatore ed efficientistico che riecheggiava il «pensiero unico» di origine anglosassone e che la mitologia della «terza via» aveva trasmesso in qualche misura anche alle forze progressiste. D’altra parte, ben sappiamo quanto la società italiana ingessata e corporativa ha richiesto e richiede davvero alcune battaglie di ‘liberazione’ per garantire un’adeguata mobilità sociale, per far avanzare la creatività delle migliori risorse delle nuove generazioni, per non costringere i giovani a emigrare. Questo spiega perché ci sono stati molti che si son lasciati abbacinare dall’uso del termine «liberismo» che si è rivelato, nei fatti, una pura mistificazione ideologica, utilizzata abilmente dal «grande imbonitore» per garantire un cemento culturale allo schieramento di centrodestra. Ovviamente, utilizzando al massimo l’immenso potenziale finanziario e mediatico accumulato come imprenditore che il vuoto legislativo sul conflitto di interessi e una insufficiente normativa antimonopolistica gliha messo a disposizione sin dalla sua discesa in campo con Forza Italia. Elementi questi che hanno costituito negli ultimi due decenni un vulnus per la democrazia e per la stessa convivenza civile. Con alle spalle questa miscela di localismo e populismo antistatalista è riuscito nell’azione di saldatura con la destra di ispirazione fascista e nazionalista. È riuscito il tentativo di rottamare lo stesso concetto di «arco costituzionale» attraverso lo scambio tra la prospettiva di superamento della pregiudiziale antifascista e di partecipazione al governo offerta da Berlusconi, e la rapida evoluzione dei neofascisti verso il pieno inserimento nel cosiddetto ‘quadro democratico’, garantito da Fini con la fondazione di An. Un altro colpo da maestro. Quando si sono manifestati i diversi e ovvi motivi di conflitto culturale tra An e Lega, e anche dopo la rottura del ’94 e la riappacificazione prima del 2001, la propaganda si incarica di minimizzarli e renderli innocui, riducendo le manifestazioni di insofferenza leghista a puro folklore e nascondendo sotto il tappeto i sussulti nazionalisti. In definitiva, con il Popolo della libertà e il consolidamento dei rapporti di fiducia con Bossi, Berlusconi stravince le elezioni del 2008 per il vuoto di alternativa aperto con il fallimento dell’Unione di Prodi, ma soprattutto con la corrosione delle culture politiche progressiste tradizionali di fronte alla crisi democratica e la fine del compromesso novecentesco tra democrazia e capitalismo. Ma nei due anni trascorsi la costruzione del Grande Imbonitore è stata


fatta a pezzi e il fallimento si riflette pesantemente sulla crisi già in atto nel sistema politico italiano, sui conflitti tra le istituzioni repubblicane, sull’unità del Paese, rendendo più incerto il cammino dell’Italia attraverso le devastazioni provocate dalla crisi globale del capitalismo finanziario. La causa dell’implosione dello schieramento di centrodestra non è solo l’eterogeneo e contraddittorio assemblaggio culturale che è stato il contenitore iniziale. È più propriamente la prova dei fatti, l’insieme disastroso dei risultati. L’apparato propagandistico è mobilitato per mistificare la realtà, ma non ci riesce più: anch’esso diventa parte del problema, la confusione nel sistema mediatico diventa un segnale di fallimento. Se si scorre l’elenco dei fronti aperti si ha il risultato esatto del disfacimento disastroso della maggioranza di governo. Sul piano istituzionale: conflitto aperto con la magistratura accusata, spesso e volentieri, di complotto comunista; atti che hanno costretto il presidente della Repubblica a interventi correttivi sostanziali; duri colpi al prestigio e alle funzioni di controllo del Parlamento. Sul piano sociale ed economico: il rigore necessario nella finanza pubblica si è trasformato in un acefalo taglio lineare che colpisce indiscriminatamente ogni settore dell’amministrazione e del Paese; ogni criterio selettivo, ogni scelta di merito è rinviata sine die e ciò colpisce i punti vitali del sistema come la formazione, la ricerca, l’innovazione delle imprese e dei prodotti, le infrastrutture essenziali per lo sviluppo. Disoccupazione altissima, solo mascherata o dalla cassa integrazione straordinaria e in deroga o dalla ‘resa’ di molti disoccupati che non cercano più lavoro. La condizione dei giovani è la peggiore; schiacciati come sono dalla disoccupazione e dalla precarietà del lavoro, dal vuoto di prospettive. Intanto si sviluppa in varie forme un attacco regressivo ai diritti conquistati dai lavoratori: più deboli di fronte alla crescita delle disuguaglianze di reddito e delle opportunità di mobilità sociale. Le piccole imprese scontano una fase di difficoltà di fronte alle esigenze di internazionalizzazione. Un elenco, questo, che ormai appartiene al senso comune del popolo italiano, come dimostrano sia il dibattito tra gli imprenditori, sia la protesta sindacale. E non vale citare i punti di forza e di eccellenza internazionale del nostro sistema produttivo, frutto della creatività e dell’ingegno di cui pure il Paese è ancora ricco. Se il sistema si scompone e pezzi decisivi restano indietro, ne risentono la struttura unitaria del Paese, la coesione sociale, le prospettive dei giovani. E, d’altra parte, la scomposizione del Paese non può certo essere scongiurata agitando il feticcio di un ancora per gran parte ignoto federalismo fiscale di cui anche l’ispirazione fondamentale resta incertissima. I tanti annunci propagandistici sono travolti da una realtà così pesante e visibile, così misurabile nell’esperienza concreta. Proprio lacosa più efficace inventata dal Grande Imbonitore, «il governo del fare», la prova di un pragmatismo spregiudicato ma efficace, gli si rivolta contro per la mole dei risultati negativi. Nel contempo si trascina e si accentua la questione morale irrisolta: la commistione politica e affari che coinvolge ancor più direttamente lo stesso presidente del Consiglio e che sembra più capillare e pervasiva di Tangentopoli; i comportamenti cosiddetti privati del Premier. Elementi questi che una grandissima parte degli italiani finisce per sottovalutare pericolosamente o assimilare a uno stereotipo di personaggio pubblico espressione di viscerali e inconfessabili aspirazioni di molti ‘italioti’. Tutto questo conferma che c’è in Italia una condizione particolare e gravissima, pur nella crisi dell’Occidente provocata dai saccheggi della finanza e dalle abissali disuguaglianze sociali. È un crinale che molte forze, anche del centrodestra, avvertono come il margine ultimo di fronte a un regresso irrimediabile nella società italiana. Ecco il punto da cui deve partire


ogni ipotesi di alternativa, di alleanza e di mobilitazione delle forze del cambiamento. E non è, come molti credono, una questione metodologica. Non sono decisive solo le ‘forme’ della politica (fare appello ai valori sin qui trascurati; puntare sulle policies settoriali e non sulla politica come prospettiva di sintesi). C’è prima, e più importante, la scelta nel conflitto reale che si svolge. Sappiamo benissimo che esso non è più il conflitto tra capitale e lavoro che attraversa l’impresa. Ma è nel conflitto tra quanti sono colpiti nei loro diritti, nella loro fondamentale libertà e dignità sociale perché privati del lavoro e delle opportunità di realizzare le capacità creative di cui sono dotati o delle prospettive imprenditoriali che hanno individuato. È la grande massa di lavoratori dipendenti e autonomi, di piccoli e medi imprenditori, di giovani professionisti che viene limitata nella sua libertà fondamentale da un modello di sviluppo che ha già mostrato nella crisi finanziaria del 2008 le sue insanabili contraddizioni, la sua iniquità, la sua inefficienza. Questa unità delle forze produttive è la questione vera dell’alternativa e il compito di un grande partito nazionale come il Pd. Ed è questa unità l’unica alternativa valida per il Paese. Per questo trovo molto dispersivo e pericoloso il rincorrersi di veti e controveti sulle ‘alleanze’: di fronte alla vastità e alla difficoltà della missione storica del Pd l’afflato unitario, l’ispirazione federativa, la ‘forza di coalizione’ devono essere a 360° e affidate soprattutto a una scelta netta, risoluta, senza «se» e senza «ma» sulla questione sociale, sul nuovo conflitto che si è aperto con la crisi profonda dell’attuale modello di sviluppo. Ecco perché mi sarebbe piaciuto vedere Bersani nella manifestazione della Fiom, che non riguardava né punto né poco il diverbio con la Cisl e i riprovevoli episodi di intolleranza contro quel sindacato. Era un fremito di rivolta contro l’iniquità e l’ingiustizia sociale che sovrasta il pettegolezzo di palazzo e il teatrino mediatico come un elefante sovrasta delle formiche impazzite. !



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