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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008


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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Febbraio-Marzo 2009, n° 15. (Numero 16, 31 Marzo 2009) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Enrica Sanna. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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Il PD e la ricerca dell’identità di ELIO MATASSI

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Franceschini e Kuhn di UMBERTO CURI

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La violenza sulle donne. Una riflessione a margine. di LUCINDA SPERA

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Alcune domande a Silvano Petrosino a cura di BACHISIO MELONI

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Ripensando Heidegger di ARMANDO RIGOBELLO

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Il PD tra delusione e responsabilità di ALFREDO REICHLIN

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Due crisi coessenziali di ENZO ROGGIO

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Recensioni

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Il Partito Democratico e la ricerca dell’identità di Elio Matassi

‘Il passaggio’ dinnanzi a cui si trova il Partito Democratico, dopo le traumatiche dimissioni di Walter Veltroni, è veramente drammatico al punto da metterne in discussione l’esistenza stessa. Un primo giudizio, forzatamente sommario, della Presidenza Walter Veltroni non può non essere decisamente negativo. Non sono abituato, per temperamento e per vocazione, ad infierire sugli ‘sconfitti’, il giudizio non è personale ma esclusivamente ‘politico’. Walter Veltroni ha disperso tutto l’investimento propulsivo che alla sua candidatura era stato fornito dalle primarie; le sue dimissioni, completamente errate rispetto al momento politico contingente (la prossimità delle elezioni europee ed importanti appuntamenti amministrativi prima del congresso del Partito, fissato per l’autunno) sono


la estrema -conclusione di una serie di errori tattici e strategici che hanno portato il Partito Democratico dinnanzi all’attuale empasse. Si tratta di un giudizio completamente svincolato dalla dialettica delle correnti, anche se questa dialettica non deve essere pregiudizialmente demonizzata, rappresentando l’anima, il tessuto ideale e, nel contempo, passionale di un partito. Ho già affermato, in varie occasioni e circostanze, di non sentirmi avvinto da nessun neologismo, non mi proclamo nè veltroniano nè dalemiano o, altro ancora, ma sento di riconoscermi compiutamente nell’aggettivo che è stato scelto per caratterizzare il nostro Partito, ‘democratico’. Dinanzi alle scelte cruciali per l’identità del Partito Democratico, lo schierarsi con la tradizione social-democratica o con quella liberal-democratica, in ottica europea ed, ancora, per le più vitali questioni del’esistenza e della sua fine (si veda il caso Englaro), la leadership ha dato la netta impressione di inseguire un paradigma di sintesi esclusivamente tattico-carismatico, frutto di scelte puramente contingenti senza alcuna prospettiva generale e culturale. Un modello grosso modo simile a quello perseguito dal PDL e da Silvio Berlusconi. Questa ricerca, continuamente ondeggiante, ha appannato qualsiasi identità del partito, scontentando tutti, al centro come a sinistra. Il Partito Democratico non acquisisce voti centristi e non riconquista voti ‘a sinistra’. La lettura della realtà italiana è avvenuta sulla falsariga di quella statunitense, nell’ossessiva ricerca di uno schema politico, rigidamente bipolare, che ha soltanto favorito e rischia di favorire il PDL ancora per lunghissimo tempo. Un altro errore fatale è stato quello della tipologia di opposizione da condurre, un’opposizione completamente schiacciata sul governo ombra. Dopo aver sbaragliato la sinistra massimalista, l’opposizione del Partito Democratico ha costantemente ondeggiato tra la ricerca del dialogo con il governo ed, invece, l’opposizione di principio, senza risultare incisiva né sul primo né sul secondo piano; la leadership non è riuscita a coniugare l’opposizione parlamentare-istituzionale e quella dei movimenti reali della società. E’ mancato completamente un qualsiasi respiro progettuale, da un lato, e, dall’altro, non vi è stata alcuna incisività nelle proposte concrete che dovevano presumere un’alternativa a quelle praticate dal governo del centrodestra. Si pensi al caso esemplare della Scuola e dell’Università, dei tagli alle istituzioni di ricerca e delle fondazioni culturali in genere; l’opposizione scatenata dal ministro Gelmini, dal momento che la rivolta contro la sua devastante proposta di riforma non è partita dal Partito Democratico ma da chi è stato toccato direttamente dalla proposta di distruzione della scuola pubblica, ossia, da insegnanti, docenti universitari, ricercatori, genitori e studenti, che ha rappresentato probabilmente il momento più propulsivo degli ultimi anni, un segno straordinario della vitalità della società democratica di base, che non ha bisogno di chiedere alcun permesso per far sentire la propria voce, ma la usa perché tutto questo rientra pienamente nel suo potere sovrano. Proprio questa vitalità ha dimostrato palesemente ed indirettamente tutta la debolezza ed i ritardi del Partito Democratico. Del resto questa politica di devastazione della scuola pubblica, era già cominciata , almeno in parte e come trend culturale, dai primi governi di centrosinistra. Debole ed oscillante sulla politique d’abord, il Partito Democratico è sembrato del tutto silente se non addirittura assente sul piano delle prospettive generali. E’ stato completamente dimenticato quello che per un partito di sinistra dovrebbe rappresentare un’ovvietà: la politique d’abord, la politica del giorno per giorno, dei singoli provvedimenti non può risultare svincolata


da una prospettiva generale e culturale, da quella ricerca dell’egemonia ormai venuta meno nella società e nei processi reali. Si può a tal proposito usare l’espressione ‘ideologia’, che qualche politico più avveduto ha cominciato a rimettere in circolazione (si veda il caso di Bersani). Il ritardo è tanto più grave perché dopo la crisi finanziaria, di proporzioni incalcolabili, ci troviamo dinanzi ad un crinale epocale; come hanno dimostrato le crisi precedenti, quella del ’29, con l’avvento del New Deal di Roosevelt negli Stati Uniti e del Nazifascismo in Europa, quella degli anni ’70 con l’affermarsi incontrastato del liberismo, anche quella presente comporterà una nuova svolta politica ed è necessario, pertanto, attrezzarsi per questo evento. Un’opposizione dovrà risultare efficace su entrambi i piani, quello particolare e quello generale, preparando in tal modo l’affermarsi di una nuova egemonia, premessa necessaria di una nuova, in un passaggio successivo, affermazione politica. Altro errore decisivo compiuto nella gestione Weltroni: la scelta delle candidature, tradendo in molti casi lo spirito delle ‘primarie’, non sono mai apparse veramente ‘meritocratiche’ ed il Partito Democratico è, invece, per definizione, per sua intima costituzione, il Partito del merito. Basti ricordare il caso delle comunali di Roma dove è stata per così dire ‘regalata’ la gestione del comune della capitale, per una scelta errata, avvenuta in maniera puramente verticistica, alla destra. Lo stesso dicasi per le ‘politiche’ e per alcune scelte dettate dalla ricerca di un ‘nuovismo’ fine a se stesso che non ha mai convinto fino in fondo la base degli elettori. Il problema del rinnovamento della classe dirigente del Partito Democratico è un problema reale, sotto gli occhi di tutti, ma non po’ essere risolto in termini puramente anagrafici, il ‘giovanilismo’ deve essere accompagnato dalle idee, altrimenti nessun rinnovamento potrà mai ottenere gli effetti auspicati. Proprio in queste ore l’assemblea costituente del Partito Democratico ha deciso con un’investitura quasi plebiscitaria, di affidare la Presidenza del Partito a Dario Franceschini, almeno fino allo svolgimento del Congresso d’autunno ma anche questa scelta appare contrassegnata da un accordo di vertice, da una sorta di tregua tra le varie componenti della nomenclatura, ancora troppo poco per un rilancio autentico del progetto che a monte della nascita del Partito Democratico. Un progetto che va al di là della querelle degli ultimi tempi, partito liquido/partito forte; un partito vero non può non essere radicato profondamente nel territorio, ovviamente con una stratificazione plurale che rifletta la realtà articolata e composita dei diversi territori. Il Partito Democratico dovrà, dunque, darsi una struttura che sia, nel contempo, federale e ‘nazionale’ senza che questo rappresenti una contraddizione. Un partito con una identità ben definita che respinge quelle tentazioni salottier-mediatiche che ormai da troppo tempo ne hanno governato lo spirito. Riprendo quest’ultima provocazione dal commiato dal presidente uscente, Walter Veltroni, non dimenticando di costatare che, purtroppo un tale addebito è attribuibile proprio alla gestione precedente che si è principalmente caratterizzata su quel piano ed è, in ultima analisi, un monito che va letto in termini sostanzialmente autocritici. Il Partito Democratico dovrà riprendere lo slancio del progetto originario, un partito dalle grandi tradizioni (i riformismi delle diverse provenienze) ma ‘nuovo’ nella struttura, nel modo di porsi, di interpretare e di comunicare. Un partito con un’identità precisa (un’ideologia, espressione di cui non bisogna vergognarsi) e con ambizioni che, nel rispetto delle esigenze territoriali, siano autenticamente ‘nazionali’.


Franceschini e Kuhn di Umberto Curi

Come è ampiamente noto, nella sua opera fondamentale (La struttura delle rivoluzioni scientifiche 1967), il filosofo e storico della scienza Thomas Kuhn introduce una distinzione molto circostanziata fra due fasi chiaramente riconoscibili nello sviluppo storico-scientifico. Da un lato, la fase della cosiddetta “scienza normale”, durante la quale domina incontrastato un paradigma, e la comunità scientifica è esclusivamente intenta a risolvere i problemi che si pongono all’interno del perimetro concettuale delimitato da quel paradigma. A questa fase, di durata ed estensione variabile, subentra poi quella che Kuhn chiama “scienza straordinaria”, caratterizzata dalla crisi del paradigma precedentemente accettato, e da un impegno della comunità scientifica ad elaborare una molteplicità di ipotesi, la cui proliferazione cessa solo nel momento in cui un nuovo paradigma venga universalmente accettato e condiviso dall’intera comunità scientifica. Le categorie kuhniane sono probabilmente le più adatte per descrivere la fase nella quale versa attualmente il Partito democratico, dopo le due successive batoste elettorali riportate in Abruzzo e in Sardegna, e dopo l’abdicazione di Veltroni. Quella che si è aperta è – o, meglio, dovrebbe essere – una fase di “scienza straordinaria”, nella quale si prenda atto definitivamente del tramonto del vecchio paradigma e si proceda senza indugi né remore verso la formulazione di un nuovo assetto, affrontando a viso aperto una fase, non si sa quanto lunga, di escogitazione di ipotesi teorico-politiche


fortemente innovative. Quanto è accaduto a Roma, in occasione della recente riunione dell’Assemblea nazionale, procede invece nella direzione opposta. Il tentativo, fin troppo palese, è quello di considerare indiscutibile il paradigma entrato in crisi (e.g.: la forma organizzativa, il modo di essere, la strategia, la dirigenza politica, del Partito democratico), e di procedere semplicemente a qualche ritocco cosmetico, esorcizzando dunque lo spettro della scienza straordinaria. Un suicidio collettivo annunciato. Una scelta destinata a seppellire qualunque prospettiva di alternativa al centrodestra di qui all’eternità. Accompagnata, per giunta, dalle dichiarazioni di esplicita esultanza dei membri dell’Assemblea nazionale, concordi nell’esprimere “sincero entusiasmo” per la nomina di Franceschini, e nell’ammonire severamente a “non lasciarsi prendere dalla delusione”. Scusateci tanto. Ci eravamo sbagliati. Avevamo pensato che l’esito catastrofico delle elezioni in Abruzzo e in Sardegna, l’andamento disastroso delle iscrizioni al partito, la perdita di oltre 12 punti stimati, rispetto al risultato conseguito nelle Politiche dello scorso anno, fossero ben più che sufficienti a far capire in quale abisso stia precipitando quella che avrebbe dovuto essere (e per qualche mese è stata) la grande speranza degli Italiani che non vorrebbero morire berlusconiani. Più ancora, avevamo creduto che i segnali degli ultimi mesi, provenienti soprattutto dalle elezioni primarie svoltesi non solo a Firenze, ma anche in molti centri in giro per l’Italia, nelle quali regolarmente tutti i candidati “ufficiali” del partito erano stati letteralmente travolti, in favore di personaggi semisconosciuti, bastassero a rendere chiara non solo la portata di una crisi assolutamente senza precedenti, ma più specificamente servissero a far emergere un distacco degli elettori democratici dal loro partito di riferimento che ha assunto ormai i caratteri di uno scontro aperto. Ci eravamo illusi che, toccato il fondo ( ed è lì che si è giunti, lo si riconosca o meno), gli “spiriti animali” di questa organizzazione si sarebbero risvegliati dal torpore conseguente alla batosta subìta alle elezioni politiche, e avrebbero preso qualche iniziativa all’altezza del disastro incombente. Avevamo ingenuamente creduto che anche ai membri dell’Assemblea nazionale fosse chiaro ciò che qualunque persona appena sana di mente è in grado di capire, e cioè che l’avvicendamento alla segreteria (con un personaggio totalmente coinvolto nella linea scelta da colui che lo aveva preceduto, per giunta) fosse una risposta del tutto insignificante ed ininfluente, rispetto alla gravità della crisi. Avevamo immaginato che un partito che dovrebbe essere erede di due grandi culture politiche, quella cattolico-democratica, e quella del comunismo italiano, e che pretende addirittura di andare oltre, trovasse al suo interno le risorse, l’onestà intellettuale, il coraggio politico, di puntare davvero ad un nuovo inizio, sbarazzandosi del peso di un’oligarchia diventata ormai asfissiante, gettando a mare i tatticismi sterili di questi ultimi dieci mesi, liquidando una volta per tutte la partita infinita fra le due squadrette che da anni si fronteggiano, incapaci di comprendere che non stanno disputando la Coppa dei Campioni, ma il campionato dilettanti di serie Z. Qualcuno degli “esultanti” dovrebbe spiegare sulla base di quale fine analisi politica la semplice nomina del vice di Veltroni alla segreteria, restando inalterato tutto il resto, dovrebbe magicamente guarire il partito, scongiurando un tracollo ormai alle porte. Perché mai il semplice cambio di un leader, rispettabile e simpatico quanto si vuole, dovrebbe essere il rimedio giusto per un male che, per estensione e gravità, va ben al di là delle responsabilità di Veltroni? Se non ora, quando? Se non si affrontava ora, in questo momento di massima difficoltà, una navigazione in mare aperto, impegnandosi davvero


a costruire un partito nuovo, con facce nuove, idee e ideali rinnovati, forme organizzative e metodologie politiche innovative – se non si tentava ora, cosa si sarebbe dovuto aspettare? Per quanto tempo ancora si priverà il paese di una credibile alternativa di governo a Berlusconi? Quanto dovrà durare il purgatorio delle tante brave persone che si vergognano di essere rappresentate da un ceto politico quale è quello che è attualmente investito della direzione politica? Si sa: sono domande che resteranno senza risposta. Meglio “non lasciarsi prendere dalla delusione”. Meglio inebriarsi di questa “esultanza”. Meglio, soprattutto, reimmergersi nella routine della “scienza normale”, facendo finta di niente, precipitandosi a comporre le liste per le elezioni amministrative e le Europee col solito bilancino di equilibrio fra le “anime” interne. Meglio lasciar credere che il fallimento di un intero gruppo dirigente – nazionale e locale – di un’intera politica, di una strategia complessiva, possa essere scaricato unicamente sulle spalle dell’unico “capro espiatorio” di turno – non migliore, ma certamente non peggiore degli altri. Lasciamo allora che la comunità politica continui testardamente a lavorare all’interno di un paradigma ormai usurato e infine inservibile. Evidentemente, non sono ancora maturi i tempi di una “scienza straordinaria”.


La violenza sulle donne. Una riflessione a margine di Lucinda Spera

L’inizio del 2009 è stato segnato da alcuni feroci episodi di violenza sessuale, oggetto di particolare attenzione da parte della stampa. Anche solo il ricordarli, per chi non ha familiarità con la rendicontazione giornalistica di fatti di cronaca nera, appare difficile, quasi alle parole corrispondesse una sorta di accanimento sul dolore di queste e delle innumerevoli altre vittime di simili nefandezze. Mi ci proverò per quel tanto che si renderà indispensabile allo sviluppo del mio discorso, con cautela e col rispetto dovuto a queste donne. In estrema sintesi, dunque, una giovane barista residente in una cittadina dei Castelli romani è stata stuprata alla nuova Fiera di Roma, dove era in corso una mega festa per l’ultimo dell’anno; una casalinga appena scesa dall’autobus, intorno alle 21.30, è stata seguita e violentata in un quartiere alla periferia, ancora una volta, romana; a Guidonia una giovane operaia che si era appartata in auto col suo ragazzo è


stata aggredita e stuprata da cinque uomini; a queste vanno ad aggiungersi altre due - più recenti - violenze, a Bologna e a Roma, entrambe ai danni di due ragazze giovanissime, poco più che bambine. E il tragico elenco sembra allungarsi di ora in ora, sotto i riflettori – in questi giorni più attenti che in passato – della cronaca. Storie atroci, carichi di dolore che si abbattono con una violenza inaudita, inimmaginabile, su altrettante donne e sulle loro famiglie. Vicende all’attenzione del sistema-informazione, punta d’iceberg di una realtà, di una quotidianità, quasi sempre sommersa, destinata al silenzio tanto più quanto i crimini sono – come purtroppo spesso sono, anche se non in questo caso – perpetrati tra le mura domestiche. Perché lo stupro - ha scritto Elena Stancanelli su «la Repubblica» del 30 gennaio - «è un reato complicato. Non si vede, o quasi. E viene compiuto in uno spazio dell’essere delicatissimo. È una spada che taglia la rete sottile che dovrebbe unire uomini e donne». Anche quando – come in almeno uno dei fatti in questione – quasi a mitigarne la ferocia qualcuno tira in ballo un approccio inizialmente condiviso, o l’assunzione di droga e alcool o peggio, come nel caso dei violentatori di Guidonia, la voglia di «divertirsi», come a dire: «che c’è di male?». Mettiamo da parte, ora, gli esiti delle indagini delle forze dell’ordine, il rimpallo di responsabilità a proposito della sicurezza, la necessità della certezza della pena, le ronde, i raid contro gli stranieri, lo scontro politico e tutto ciò che sta animando il dibattito sui mass media. Problematiche concrete, reali, non rinviabili tanto sul piano della riflessione quanto su quello politico e legislativo, che non rientrano però nell’economia di questa nota, che vorrebbe invece, più modestamente, contribuire a sgomberare il campo, a sfrondare il concetto da alcune ambiguità. Per chiarire la prima mi sia permesso recuperare, tra gli altri, un breve commento di Maria Serena Palieri apparso su «l’Unità» del 27 gennaio, dal titolo Lo stupro è un omicidio. La violenza sessuale non è lo scellerato atto di uomini, scrive la giornalista, «incapaci di resistere al fascino femminile», non è una questione né di bellezza, né di gioventù: gli stupratori mietono vittime tra donne di ogni età, e a prescindere dal loro aspetto. Siamo così al secondo punto: lo stupro è un dramma umano e personale di devastante portata, non è, continua la giornalista, una «storia brutta, ma vecchia come il mondo e “naturale”, non è un’esperienza che attiene alla sfera erotica né…a quella biologico-riproduttiva. Lo stupro attiene alla stessa sfera cui attiene l’omicidio. È un’uccisione traslata.» Per dirla con le parole di Michele Serra, lo stupro «è un delitto vile e una violenza profonda» («la Repubblica», 16 febbraio 2009), irrimediabile e definitiva, aggiungerei. È questo quello che ci vanno ripetendo quelle poche, sinora inascoltate voci di donne che trovano il tragico coraggio di denunciare la «vigliaccheria» dei loro carnefici. «Uomini indegni», li definisce con sapienza lessicale Elena Stancanelli, per poi condivisibilmente concludere: «A me sembra che non servano soldati per impedire gli stupri, ma pensieri limpidi, cristallini».


Esistere, vivere, abitare. Alcune domande a

Silvano Petrosino a cura di Bachisio Meloni

Alla consueta domanda del “chi?”, nell’ambito dell’interrogazione sulla nozione di soggettività, dovremmo forse e più propriamente sostituire quella del “che ne è” del soggetto. Il ricorso allo snervante interrogarsi su quale sia per la soggettività l’entità della sua struttura e i modi tipici del suo consistere, porta invece a riporre l’attenzione su quali tipi di esito e rispetto a quali continue sollecitazioni o sfibranti sommovimenti è possibile configurare la sua posizione o inclinazione primaria nel mondo (“dove sei?”), dal punto di vista del suo “esserper-altri”, e per le cose, non meno che per il suo “esser-per-sé” e il proprio costituirsi come tale. “Si tratta della posizione (della verità) del soggetto – dichiara Silvano Petrosino –, cioè del suo stare come


soggetto, posizione che diviene problematica ed interrogante proprio di fronte all’evidenza del suo continuo capovolgersi, del suo insistente venire meno, del suo non riuscire a ‘mantenere le posizioni’ ”. È di fronte a tale genere di questioni che ci pone l’autore di Capovolgimenti, e ciò avviene fin da Babele. Architettura, filosofia e linguaggio di un delirio (il melangolo, Genova 2003) – testo che costituisce nel suo pensiero come “il primo capitolo di un più ampio lavoro sull’abitare”, percepito ora dalla prospettiva della casa e dell’“implacabile legge dell’ospitalità” o dell’accoglienza di cui parla Derrida, ossia nel senso dell’“economia” (oîkos nomos), dell’abitare il profilo del mondo come apertura “non assoluta” ad altri. Con la nostra intervista all’autore ci apprestiamo a percorrere o a ricostruire il cammino di questa elaborata riflessione riguardante la più vasta area di indagine sul luogo come uno dei più incalzanti e problematici orizzonti nella fenomenologia dell’umano. Professor Petrosino, vorrei partire proprio dal titolo: “Capovolgimenti”. Con questa scelta a me sembra che lei si soffermi su una questione assai cruciale: con l’idea del capovolgimento, insieme a Platone, e secondo l’esempio del dialogo socratico, siamo portati a identificare la dialettica con la riflessione filosofica stessa, ossia come un pensiero determinato a partire da due movimenti logici, reciprocamente inversi. Insomma, ci troviamo ad aver a che fare con realtà in grado di suscitare l’ambivalenza, l’equivoco, l’equi-vocazione: come per l’appunto recita il sottotitolo del suo testo, la casa può sempre ridursi a tana, l’economia può sempre scadere in business. Che cosa l’ha spinta a scegliere un simile titolo? Le confesso che quando ho pensato al titolo non avevo in mente la categoria di dialettica, quanto piuttosto quella di topologia, soprattutto in riferimento all’elaborazione che di essa ne fornisce il pensiero lacaniano. In altre parole, l’idea di “capovolgimento” mi si è imposta in relazione al tema del soggetto, alla posizione ch’egli assume, o meglio: alla posizione ch’egli si sforza di assumere, ma soprattutto a quella ch’egli, al di là di ogni sua ingenua convinzione e volontà, finisce in verità per assumere. Da questo punto di vista a me sembra che la questione per eccellenza che investe il soggetto (e che in qualche modo lo istituisce in quanto tale), prima ancora di essere quella della sua natura o identità (“Chi sei?”), sia quella della sua posizione (“Dove sei?), della sua concreta presa di posizione, come se per il soggetto l’essenziale non fosse tanto laddove egli sia (concezione fisicospaziale del luogo umano), e neppure in un certo senso che cosa egli abbia compiuto, quanto piuttosto come egli si ponga rispetto a ciò che ha compiuto, come risponda e quale posizione gli assuma nei confronti di tutto ciò che lo riguarda (concezione etico-ontologica del luogo umano). All’interno di questa prospettiva l’idea di “capovolgimento” si chiarisce in riferimento a certe preoccupazioni proprie del pensiero di Marx, Nietzsche, Freud e Lacan: si tratta della posizione (della verità) del soggetto, cioè del suo stare come soggetto, posizione che diviene problematica ed interrogante proprio di fronte all’evidenza del suo continuo capovolgersi, del suo insistente venire meno, del suo non riuscire a “mantenere le posizioni”, come se la questione che


travaglia il soggetto fosse essenzialmente e prima di tutto, non tanto quella dell’Altro o dell’altro, quanto piuttosto quella del suo stesso stare in piedi e del suo proprio consistere in quanto soggetto, cioè del suo non perdersi come soggettività unica ed irriducibile, in poche parole: del suo non perdersi come singolo uomo. È al livello di questa unicità del soggetto che bisogna intendere l’interrogativo biblico: “Adamo dove sei?”, al quale forse bisogna sapere ricondurre le grandi riflessioni marxiana e freudiana sull’alienazione. Alla sua domanda, dunque, risponderei in estrema sintesi così: dire “capovolgimenti” significa dire “soggetto”, e tali “capovolgimenti” non possono mai essere interpretati come momenti all’interno di una dialettica, cioè come delle “antitesi”, perché a questo livello non c’è alcuna garanzia che il soggetto si riprenda, ritorni con i “piedi per terra” e non finisca per perdersi definitivamente. Mi permetta di insistere sulla figura del “capovolgimento”. Mi sembra che questa idea suggerisca non solo movimenti imprudenti o percorsi esistenziali dagli esiti negativi; mi riferisco in particolare alla sua precisazione relativa ai termini “A/altro” e “alterità”, pensabili non solo a partire dalla verticalità di Dio come “Assolutamente altro” o in senso orizzontale come “altro da me”; oltre a queste concezioni, si tratterebbe di pensare – e in altre occasioni lei ha insistito su questa “necessità topologica” – la trascendenza e l’alterità anche “all’interno” della propria esperienza di sé, secondo un “capovolgimento” del tutto simile ad un movimento ellittico determinato dalla propria “de-nucleazione”, la quale non coincide affatto con una mera spersonalizzazione o con una pura invasione del dionisiaco o con una semplice alienazione: è piuttosto rinuncia a sé nei termini della responsabilità etica. Potrebbe chiarire questo punto che mi sembra decisivo per comprende l’architettonica del suo testo? Lei tocca un tema la cui importanza è difficile da sottovalutare. Sono qui in gioco, se così posso esprimermi, le categorie di “altro” e “alterità”. Mi permetta al riguardo di partire da un’ossevazione di Derrida: “(...) «l’altro», come si dice oggi, «il rispetto dell’altro», il «rapporto con l’altro»... la parola «altro» diventerà presto, ve lo annuncio, del tutto impronunciabile per via dell’abuso o dell’inflazione di cui è vittima, anche per colpa della televisione» (J. Derrida, «...soprattutto niente giornalisti!», Castelvecchi, Roma 2006, p. 25). Poco oltre il filosofo francese precisa: “(...) la parola «altro» scomparirà (...) per via dell’usura e dell’inflazione verbale, per abuso di retorica, talvolta di demagogia, non ne potremo più di questa povera bella parola, e ci verrà voglia di rimpiazzarla con un termine più nuovo” (Ibi, p. 51). Non c’è dubbio sul fatto che oggi ci troviamo all’interno di una “retorica dell’altro”; i “luoghi comuni” che definiscono sempre una retorica hanno il vantaggio (e la sventura) di sospendere l’urgenza dell’interrogazione: e in effetti, qui tutti si trovano d’accordo e non si sente più l’urgenza di continuare a porre domande. Contro una simile retorica e l’omologazione ch’essa genera mi sembra sia necessario “capovolgere” certe consuetudini cercando di evitare, come si è soliti dire, di buttare via con l’acqua sporca anche il bambino, che in questo caso coincide, per l’appunto, con la “povera bella parola” di


alterità. Per salvaguardare una tale parola credo si debba procedere con cautela dimostrando di sapere distinguere e differenziare; è a questo punto che si impone la necessità di distinguere “tre” forme di alterità. Mi permetta a tale riguardo di riproporre in questa sede un passaggio del libro: “ (...) conviene precisare l’impiego dei termini «altro» e «alterità». Quest’ultimo, forse, permette di cogliere con maggiore determinazione il tratto essenziale che fin qui si è tentato di far emergere. Bisogna infatti affermare come sia sempre la totalità dell’esperienza a strutturarsi (ma così anche a trovarsi de-strutturata) secondo l’ordine dell’alterità, sia che essa riguardi «verticalmente» Dio e l’«al di là», od «orizzontalmente» l’altro esistente, vivente o uomo, o «interiormente» il proprio in-sé. A tale riguardo, sebbene sia senz’altro più facile riconoscere il rinvio all’alterità all’interno dell’esperienza dell’A/altro nel suo senso più immediato – sia esso, per l’appunto, Dio, o l’altro esistente, vivente o uomo – non si può tuttavia negare come questo stesso rinvio travagli dall’interno anche quella particolare esperienza (particolare perché supposta essere il luogo di una piena coincidenza) che è l’esperienza di sé. In effetti, come negare che il singolo uomo, nel momento stesso in cui fa esperienza di sé come soggetto, si trovi sempre investito dall’evidenza di un’irriducibile non coincidenza con il proprio sapere su di sé? Per altro già lo si sottolineava: l’esperienza è sempre «propria», anche se la «propria» esperienza non è mai qualcosa che il soggetto possa considerare ultimamente come una sua «proprietà». In termini più semplici, ma forse anche più stringenti, si deve così confermare l’antica e gloriosa tradizione secondo la quale «l’uomo è ignoto a se stesso». La sfasatura che raggiunge il soggetto dall’«esterno» – il soggetto è soggetto proprio perché è soggetto a questa sfasatura – è pertanto della stessa natura di quella che lo intacca dall’«interno»: questo «interno» è già da sempre per lui un «esterno». «Esperienza» ed «alterità» sono dunque realtà che si co-appartengono, e non c’è esperienza – fosse anche, e forse a maggior ragione, la propria – che non sia fin dal principio dell’altro, che non sia un’esperienza d’alterità” (pp. 28-29). I due filosofi più presenti nel suo lavoro sono Heidegger e Levinas. Al primo lei rinvia per chiarire la fondamentale distinzione tra “spazio” e “luogo, e per chiarire la nozione del “Geviert”, della quadratura; al secondo lei rinvia per approfondire la nozione di “casa” e per illustrare la centralità che all’interno dell’esperienza del soggetto viene a svolgere la dimensione della “ospitalità”. Il legame tra i due filosofi è fin troppo evidente; in effetti, fin da uno dei suoi primi saggi, “De l’évasion” [da poco ritradotto: Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008], Levinas invita a riflettere, ben al di là della concezione heideggeriana del linguaggio, e del linguaggio poetico in particolare, come “dimora dell’essere”, sulla questione dell’essere come luogo di per sé inabitabile [Lei ne parla in “L’esperienza della parola: testo, moralità e scrittura”, Vita e Pensiero, Milano 1999]. La dimensione della casa come luogo della dimora, del godimento, ma altresì della maternità/paternità, dell’“implacabile legge dell’ospitalità” e dell’accoglienza di cui parla Derrida, è di fatto un preludio alla dimensione etica e quindi ad una più persuasiva idea di trascendenza. È corretto interpretare


in questi termini il ruolo svolto dai due filosofi all’interno della sua riflessione? Preciso che all’origine di “Capovolgimenti” vi è il tentativo di sviluppare una riflessione filosofica sul “luogo” in quanto spazio abitato dal soggetto umano; è solo perché interessato al “luogo” che il testo si concentra successivamente sui temi della “casa” e della “economia”. Ora, è proprio in relazione alla questione generale del “luogo” che il pensiero di Heidegger e quello di Levinas mi sono apparsi di un’assoluta importanza. Innanzitutto, l’interpretazione heideggeriana relativa al primato esistenziale del “luogo” rispetto allo “spazio” merita di essere continuamente ricordata, riproposta ed approfondita. Molta riflessione sociologica sulla “città”, sulla “metropoli” e sui “centri urbani” si e ci risparmierebbe alcune banalizzazioni se sapesse alimentarsi di questa analisi heideggeriana. Al tempo stesso la riflessione di Levinas sulla “casa” mi sembra cogliere un punto essenziale del modo d’essere del soggetto, un modo all’interno del quale il raccogliersi in sé deve essere sempre coniugato con l’essere accolto dall’altro da sé; in altre parole è come se il soggetto per potersi veramente raccogliere in sé (se si vuole è il tema dell’auto-coscienza) necessitasse di un “luogo franco” in cui poterlo fare, in cui poter essere secondo il proprio esclusivo modo d’essere, luogo in cui essere accolto per quello che è senza senza condizioni e senza censure. In tal senso, soprattutto in rapporto all’auto-inganno e all’auto-censura in cui il soggetto rischia sempre di cadere all’interno della sua stessa auto-coscienza, il raccogliersi in sé non può che rinviare ad un essere accolto da altro da sé, accoglienza di cui la “casa” sarebbe, per l’appunto, il luogo per eccellenza. Tuttavia lei ha ragione nel sottolineare un’opposizione irriducibile tra Heidegger e Levinas, opposizione che ultimamente rinvia al tema dell’alterità a cui ho accennato nella precedente risposta; in fondo, ad avviso di Levinas ciò che dimora, ciò che abita per utilizzare un termine che preferisco, non è mai l’essere, ma sempre e solo il singolo, un singolo uomo, e questi abita come singolo, come sé, solo all’interno di un luogo in cui si trova accolto dall’altro da sé. Ho cercato di esplicitare questa struttura o logica fondamentale dell’esperienza del soggetto soffermandomi su quella che forse è l’essenza stessa dell’ “abitare”: se, come vuole Heidegger, l’uomo esiste come uomo in quanto abita, allora egli abita, e non semplicemente esiste o sussiste, proprio perché è egli stesso abitato; si potrebbe anche dire: l’esperienza del soggetto, esperienza dell’abitare, ma anche esperienza che è essa stessa un abitare, non può mai prescindere dal fatto che il soggetto stesso, l’abitante, è a sua volta abitato da un’alterità (ecco, direbbe Levinas, il tema non-heideggeriano per eccellenza) che in alcun modo è in grado di trascurare e misurare. In estrema sintesi: l’uomo, nel suo vivere da uomo, abita, e non solo esiste, perché è a sua volta abitato, perché la sua esperienza di uomo è al tempo stesso sempre quella di un essere abitante/abitato. Non mi ha tuttavia risposto sul “Geviert” heideggeriano; potrebbe soffermasi su questo “quadrivio” tra mortali e divini, tra terre e cieli (termine peraltro tradotto in vari modi, come Quaternità, Quadratura, Quadrato)? Sembra si tratti di un “arci-luogo” in cui


l’uomo può trovare il suo posto, la sua dimora e la sua patria, al di là di ogni angoscia o di ogni inquietudine. Tuttavia, sappiamo quanto sia incredibilmente problematica tale nozione tracciata dall’ultimo Heidegger, un Heidegger che sembra aver completamente rinunciato al linguaggio tradizionale della filosofia. Come giustamente lei ricorda, questa nozione heideggeriana è “incredibilmente problematica”; mi limito pertanto ad accennare brevemente alle ragioni che mi hanno spinto a soffermarmi su di essa. Su questo tema il merito di Heidegger a me sembra consistere essenzialmente nel superamento di una concezione “puntuale”, e quindi ingenua, della topologia propria del soggetto: il luogo dell’uomo non è mai rappresentabile con un punto, poiché il suo stare “qui” non è mai separabile dal suo essere “là”, poiché la “terra” sulla quale egli soggiorna non è mai separabile dal “cielo” sotto cui essa sta e al quale sempre rinvia. In tal senso nel pensiero heideggeriano si assiste ad una sorprendente, e a mio avviso salutare, complicazione dei rapporti tra l’ “esterno” e l’ “interno”, tra il “sopra” ed il “sotto”, tra il “qui” ed il “là”, complicazione che aiuta a non cadere nella trappola di una certa concezione lineare, archimedico-puntuale della coscienza in quanto cogito. A tale riguardo può essere utile ricordare un passaggio di Merleau-Ponty che non riporto in Capovolgimenti, ma che ho citato in una precedente pubblicazione; queste righe mi sembrano qui non del tutto fuori luogo dato che in esse si tratta pur sempre di una forma dell’abitare, quella del “visibile”: “Come tutto sarebbe più limpido nella nostra filosofia se potessimo esorcizzare questi spettri, farne delle illusioni o delle percezioni senza oggetto, porli ai margini di un mondo senza equivoci. La Diottrica di Cartesio è un tentativo in questo senso. È il breviario di un pensiero che non vuole più abitare il visibile e decide di ricostruirlo secondo un modello creato dal pensiero stesso (...) [Al suo interno] non ragioneremo tanto sulla luce che vediamo, ma piuttosto su quella che dal di fuori entra nei nostri occhi e pone in atto la visione (...) Da questo punto di vista, la cosa migliore è pensare la luce come un’azione per contatto, simile a quella delle cose sul bastone del cieco. I ciechi, dice Cartesio, «vedono con le mani». Il modello cartesiano della visione è il tatto” (M. Merleau-Ponty, “L’occhio e lo spirito”, in Il corpo vissuto, Il Saggiatore, Milano 1979, p. 215). D’altra parte, come è ovvio, i meriti della relazione del Geviert non devono offuscare i rischi che pure la travagliano; questa relazione, infatti, rischia sempre di non essere propriamente tale, e in essa il “cielo” tende sempre a rivelarsi una mera proiezione della “terra”: nel Geviert, direbbe Levinas, non si ritroverebbe alcuna autentica “alterità”, non vi produrrebbe nessuna vera “esposizione”, qui tutto starebbe troppo “in pace”, regno di un’immanenza all’interno della quale non abiterebbe più alcuna autentica alterità/trascendenza. Vorrei riprendere a questo punto il tema della “retorica dell’altro” più sopra citata. Mi sembra che lei abbia deciso di distinguere “l’ospitalità assoluta” da “l’ospitalità piena” proprio per evitare una simile retorica. Tale distinzione, inoltre, può aiutare a comprendere quell’inquietante accostamento tra i termini “giustizia” e “perversione” che caratterizzerebbe ciò che lei


presenta come il capovolgimento per eccellenza: il valore supremo della giustizia vissuto in termini generici, nei termini di un puro medio, può determinare una situazione di perversione. È corretta una tale lettura? Direi di sì. Se vi è un tratto specifico dell’uomo questo deve essere individuato in quello che Derrida felicemente definisce “un invincibile desiderio di giustizia” (J. Derrida, “Fede e sapere”, in AA.VV., La religione, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 20). D’altra parte non si può negare l’evidenza che mostra come questo desiderio “invincibile” sia in realtà continuamente “vinto” all’interno di un agire che trasforma la giustizia nei migliori dei casi in una astratta ricerca di equilibrio, e il più delle volte, come per altro Nietzsche aveva ben compreso, in una mera volontà di rivincita, cioè in pura e semplice vendetta. Qualcosa di simile accade, così penso, per l’ospitalità, per l’agire ospitale. C’è un modo di ospitare che ha qualcosa di perverso. Si tratta di quella che definisco “ospitalità assoluta”: si ospita per il gusto e la gratificazione di ospitare; all’interno di un simile ospitare l’ospitante è più affezionato (quasi ne gode) al valore astratto dell’ospitalità che attento alla concreta determinazione, all’unicità, dell’ospite. L’“ospitalità assoluta” si prende così cura più dell’ospitalità che dell’ospite; da questo punto di vista essa ama alla follia il gruppo, ha una vera passione per lo spirito di gruppo, mentre non ha alcuna autentica preoccupazione per l’unicità dei soggetti che ospita poiché è del tutto paga del semplice fatto di ospitarli: più ospiti ospita più è soddisfatta, e neppure immagina che per un soggetto “finito e mortale” un’autentica attenzione verso uno debba talvolta escludere l’attenzione per l’altro. Così facendo l’“ospitalità assoluta” rischia sempre di ospitare tutti, di voler ospitare tutti, ma mai pienamente nessuno. L’“ospitalità piena”, invece, è quella che un soggetto finito e mortale, riconoscendosi tale, esercita nei confronti di un soggetto a sua volta finito e mortale; appartiene all’esercizio di questa ospitalità l’attenzione per l’unicità di ciò che si ospita, ed essa è definita non solo dal saper riconoscere il limite, ma anche dal sapersi imporre un limite (vero antidoto ad ogni perversione): questa pratica dell’ospitalità, infatti, sa che per essere piena deve rinunciare a voler essere assoluta. Ciò che emerge con chiarezza dal suo testo è la volontà di non intraprendere inutili contrapposizioni: chiusura/apertura, pessimismo/ottimismo o perdizione/salvezza; si tratta semmai di far luce, insistendo più che su nozioni fondamentali positive, su ciò che si determina sulla base di una cattiva interpretazione delle stesse. Occorre dunque considerare e quanto più anticipare – ultimamente mi sembra questo il messaggio che scaturisce dalla sua riflessione – gli esiti più concreti, senza però avere la pretesa di imporre alcuna risoluzione dialettica, bensì con la precisa consapevolezza di ragionare su questioni in grado di aprirsi alle più diverse prospettive. Rimane l’atteggiamento vigile, “non ingenuo”, di salvaguardia, di separazione e denuncia, così proprio dell’attività critica del pensiero filosofico; mi chiedo tuttavia se questo possa bastare, anche in relazione a quanto osserva ad esempio Bauman riguardo alla costruzione di una identità e di una realtà sempre più


all’insegna della mercificazione, sulla scia peraltro di quanto già affermava Marx: “La ‘soggettività’ dei consumatori è costituita da scelte di acquisto (...) Quella che si ritiene sia la materializzazione della verità interiore dell’io è in effetti una idealizzazione delle tracce materiali – reificate – delle scelte del consumatore” [Consuming Life, Polity Press, Cambridge 2007; tr. it. a cura di M. Cupellaro, Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 20]. No, certamente non basta. D’altra parte non è compito della filosofia cambiare il mondo e tantomeno salvare l’uomo; rispetto a simili formidabili compiti la riflessione filosofica appare come del tutto inerme. Eppure essa può dare un contributo essenziale in questa impresa proprio sollecitando l’atteggiamento da lei descritto: imparare ad essere vigili, interrogare e denunciare l’ovvio, sviluppare una capacità critica, non rinunciare mai a riconsiderare ogni volta di nuovo il già saputo imparando a separare e distinguere. Nel caso di Capovolgimenti la questione che si propone di continuare ad interrogare è la seguente: che cosa significa abitare? Ecco qualcosa che rischia sempre di apparire come un’azione del tutto ovvia e in sé a-problematica. A questo interrogativo il testo risponde rinviando ad Heidegger, il quale a sua volta non fa altro che ripetere, così almeno a me sembra, un versetto del Genesi (2, 15): abitare significa, o dovrebbe significare, coltivare e custodire. Ma, ancora, che cosa significa “coltivare” e “custodire”, e soprattutto perché bisognerebbe sempre compiere una cosa “e” al tempo stesso anche l’altra? Ora, è proprio di fronte a simili interrogativi che bisogna concedersi il lusso di qualche esitazione riconoscendo che è qui impossibile “intraprendere inutili contrapposizioni” o “imporre alcuna risoluzione dialettica”, per utilizzare le sue parole. Imporre tali nette contrapposizioni e risoluzioni dialettiche significherebbe non cogliere la drammaticità dell’esperienza umana, significherebbe in ultima istanza non comprendere nulla del modo d’essere proprio del soggetto. Quest’ultimo, in effetti, nel suo essere in azione rischia sempre di coltivare ma non di custodire, di custodire ma non di coltivare, di credere e pensare di coltivare senza tuttavia in realtà farlo, di credere e pensare di custodire senza tuttavia in realtà farlo. In tal senso bisogna evitare in ogni modo una concezione ingenua e caricaturale del soggetto umano, e a mio avviso evitare l’ingenuità significa soprattutto riconoscere che non c’è esperienza umana che, nel suo rispondere all’alterità che la abita, possa definitivamente allontanare da sé fantasmi, illusioni, sensi di colpa, paure, desideri di rivalsa, volontà di vendetta, ecc. Per ricordare solo i tre capovolgimenti esaminati nel libro (ma evidentemente ve ne sono molti altri), è proprio all’interno di una simile scena, in questo luogo originario che è la sua stessa esperienza, che la casa rischia sempre, anche se non inevitabilmente, di pervertirsi in tana, la ricerca della ricchezza di pervertisi in miseria, l’ospitalità offerta di pervertirsi in affermazione narcisistica. Heidegger ha dunque ragione, il soggetto umano esiste in quanto abita, ma come non riconoscere (e la filosofia può aiutare a sviluppare una simile lucidità) che nel suo abitare, nella sua formidabile opera di trasformazione della natura, egli rischia in ogni istante, non tanto di perdere qualcosa, quanto piuttosto di perdere se stesso, di perdersi proprio in quanto singolo soggetto?


Ripensando Heidegger: un “passo indietro”. Verso dove? di Armando Rigobello

L’espressione “un passo indietro” (Schrittzurück) può essere emblematica di un atteggiamento fondamentale del pensiero di Martin Heidegger. La trattazione più ampia e specifica si trova nello scritto del 1957 Identità e differenza (Identität und Differenz). Pensiamo tuttavia opportuno situare questo atteggiamento speculativo nel più ampio contesto dell’evoluzione del pensiero heideggeriano, a cominciare da Essere e tempo (Sein und Zeit, 1926) e successivamente il saggio L’epoca dell’immagine del mondo ( 1938), ove “immagine del mondo” è indicata dall’espressione Weltbild.


L’essenziale nucleo speculativo di Essere e tempo può riassumersi brevemente nei seguenti termini. Heidegger invita ad uscire da ogni sistema, rimuovendo il fondamento per attingere l’autenticità, cioè ciò che è più proprio (Eigentlichkeit). In tale opera, l’”impulso incessante” (unablässige Anlass) passa attraverso il riconoscimento degli “esistentivi” (curiosità, chiacchera, malafede) per attingere l’essenziale: l’“essere per la morte” (zum Tode Sein), limite insuperabile dinanzi al quale ogni cosa o avvenimento rivela il proprio valore. Lo scorrere del tempo è salutare maieutica per l’autenticità dell’“esserci”, ossia dell’esistenza umana, puntuale ed irripetibile in ciascuno di noi. La temporalità è l’insuperabile fonte di autenticità: di fronte alla morte tutto assume il suo reale valore. Di fronte ad essa si dissolve l’architettura di sistemi che avrebbero costretto l’Essere in una costruzione logica con cui si pensava di vincere il tempo. In Sein und Zeit vi è la premessa di Identità e Differenza, che invita l’uomo a compiere un “passo indietro”, a svincolarsi dal “sistema ontoteologico” per adire alla disponibilità totale di fronte all’evento (Ereignis). Anticipando il discorso possiamo indicare i due possibili esiti dell’esposizione dell’”esserci” umano all’evento: o dall’autenticità dell’abisso (Abgrund) giungere alla “mezzanotte nella notte del mondo” (Mittelnacht in der Weltnacht), o disporsi ad accogliere la rivelazione di un Dio venturo. L’impulso incessante è il riproporsi continuo del domandare, l’impegno ad un continuo chiarimento, il riproporre la questione. Si ricordi la suggestiva espressione heideggeriana per cui il domandare è la pietas del pensiero. A volte si ha l’impressione che Heidegger elabori una spiritualità cristiana secolarizzata: rimane l’atmosfera religiosa ma la preghiera si trasforma in domanda, rimane l’attesa ma la risposta presagita non ha un volto definito, un’attesa che resta in bilico tra la risposta in cui l’urgere dell’interrogativo riposi e l’avvertimento virile, sebbene drammatico, che la risposta non vi sia. D’altra parte, la pietas non si spegne e continuamente ripropone l’inquieto cercare. Heidegger ha fatto sua la consapevolezza di Husserl, il maestro cui non rimase fedele, che il lavoro filosofico sia sempre un lavoro preparatorio, una propedeutica a ciò che appare all’orizzonte ma mai si possiede in forma definitiva. Potremmo, per un’ulteriore comprensione, aprire una parentesi delineando un confronto con due posizioni speculative che presentano qualche analogia tematica, una di Sartre, la seconda di Kierkegaard, un confronto tra esiti nichilistici ed esiti religiosi. Sein und Zeit precede di parecchi anni L’essere e il nulla (L’être et le néant, 1943) di Sartre. Viene spontaneo pensare che Sartre, nello scrivere la propria opera, abbia accolto qualche suggestione dal ben noto volume di Heidegger. In entrambi gli Autori il tema dell’essere è centrale, come è pure comune l’intento di contrapporre ad una dottrina “forte”, articolata, sistematica dell’essere un elemento che ne contesti la sistematicità: il tempo in Heidegger ne contesta la natura ontologico-metafisica, in Sartre la dissoluzione dell’essere nel nulla radicalizza il rapporto. Qualche parziale analogia si ritrova anche a livello propositivo. In entrambi i casi vi è un distacco dal rapporto realistico tra il pensare ed il suo oggetto, l’esigenza di pervenire ad un rapporto nuovo, che in Sartre approda all’amara conclusione che l’esistenza del singolo uomo si rivela come “inutile passione”, e in Heidegger invece si arresta al riconoscimento dell’”esserci” come apertura, interpretazione, attesa. Il situarsi del soggetto, dell’”esserci” dell’uomo, nell’ambivalenza dell’evento si configura


come una apertura in due direzioni opposte, ossia la “mezzanotte nella notte del mondo” o, come si è detto, il sopraggiungere della rivelazione di un Dio venturo. L’essere e il nulla di Sartre radicalizza le ombre, fa cadere le residue speranze di salvezza che Heidegger aveva delineato. Il nichilismo ateo di Sartre non è propedeutico ad alcun orizzonte di speranza, per lo meno in L’essere e il nulla. Nell’ulteriore sviluppo del pensiero di Sartre, in particolare nella Critica della ragione dialettica (1960), si delinea nella condizione umana la possibilità di dare un senso all’esistenza, un esaltante senso di compiuta realizzazione. Ciò avviene nell’esperienza del “gruppo in fusione”, ossia nell’intima comunione che si realizza in un gruppo di persone che combattono per la giustizia, tuttavia ciò svanisce quando il gruppo sia vittorioso: nella nuova realtà creata dalla vittoria si ripresentano le stesse alienazioni di prima. Nel momento della lotta si realizza una “dialettica costituente”, quando la lotta finisce si rivela la insuperabile condizione dell’agire umano definito invece da una “dialettica costituita”, ossia da un processo storico già segnato secondo le regole di uno storicismo assoluto. L’esperienza del “gruppo in fusione”, continuando il confronto con Heidegger, corrisponde all’esposizione all’evento, ma è una corrispondenza che allo stesso tempo rivela sostanziali diversità. L’evento, l’Ereignis heideggeriano, non è il frutto di una dinamica collettiva, dialettica, ma un aprirsi all’ascolto, un disporsi a cogliere l’Ereignis dell’Essere, ritrovato dopo la rischiosa decisione per il “passo indietro”. La salvezza non viene dalla lotta, ma dalla decostruzione sia dell’ontoteologia che della centralità del soggetto, sullo sfondo non vi è la dialettica hegeliana ma rilevanti suggestioni della mistica tedesca dei tempi di Meister Eckart. Dal confronto con una prospettiva successiva a Essere e tempo passiamo ad un confronto con una visione esistenziale religiosa della vita e della realtà, quella kierkegaardiana, che invece precede di un secolo quella di Heidegger. In quell’itinerario che connette Essere e tempo con Identità e differenza cui si è accennato - lo svincolarsi dell’uomo dalle architetture dell’ontoteologia – è doveroso notare che l’esistenza di Dio e l’annuncio di una nuova rivelazione sono degli esiti possibili dello svincolarsi dell’”esserci” dalla trama del sistema. Sotto questo aspetto è interessante notare che qualcosa di analogo si riscontra anche in Kierkegaard, sebbene i due autori si muovano su due piani diversi: Heidegger sul piano rigorosamente filosofico, Kierkegaard su quello della fede cristiana. L’affinità tra gli atteggiamenti dei due pensatori sta nel fatto che in entrambi i casi l’autenticità di una fede (che tale è anche, se si avverasse la sua possibilità, quell’accoglimento di una rivelazione nuova) e la possibile salvezza passano attraverso la propedeutica del superamento del sistema: quello classico-mediovale in Heidegger, quello hegeliano in Kierkegaard. Si tratta di considerazioni di ordine spirituale che probabilmente hanno la loro premessa nella mistica e, successivamente, nella spiritualità della Riforma. Per Kierkegaard la prova della vera fede è simile a quella di chi, non sapendo nuotare, si getti in mare aperto, contando solo nell’intervento divino. Il connubio fede e ragione si dissolve, come nell’episodio biblico dell’ordine di Dio ad Abramo di sacrificargli il figlio Isacco. L’”impulso incessante” che percorre tutto l’itinerario speculativo di


Heidegger è rivolto, in ultima istanza, a restituire all’Essere quella originarietà di cui, secondo l’Autore di Essere e tempo, la riflessione filosofica, e quindi la metafisica, l’avrebbe privato. Nell’ultima pagina di Lettera sull’umanismo (1947) Heidegger contesta il carattere di sapere assoluto attribuito da Hegel alla filosofia. Heidegger in Identità e differenza pone efficacemente in luce la contrapposizione tra la Aufhebung di Hegel ed il proprio Schrittzurück, e ciò è molto significativo per intendere la reale posizione di Heidegger. L’Aufhebung hegeliana è un portare a compimento in vista di un sapere assoluto, un conservare il diverso superandolo in vista di una finale omnicomprensiva Identità-Totalità. Il “passo indietro” di Heidegger è invece volto a smantellare ogni collegamento unificante, ad acquisire un punto di vista iniziale, radicalmente problematico, ove ogni identità si incrina e le differenze si articolano in modi che non possono essere dominati né dalla ragione analitica né da procedimenti dialettici. Questo regredire verso l’originario è pensare in senso forte, oltre ogni tecnica logica, cogliere la differenza come vicinanza, prossimità, attesa. Il permanere di questo stato, che è un porsi di fronte all’Ereignis, all’evento, dovrebbe rappresentare il capovolgimento simmetrico della fondazione assoluta, della “scienza”, un capovolgimento così compiuto che la stessa autocoscienza viene trascesa e dispersa assieme ad ogni anticipazione di identità. Le considerazioni di Heidegger sulla ex-sistentia, sul più proprio di una esistenza umana non consolidata nel concetto di animale razionale, ma tutta aperta, anzi apertura totale, sono di alta suggestione e ricche di contenuti culturali che qui si possono soltanto ricordare, tuttavia non possiamo non chiederci se il superamento della coscienza sia realmente possibile. La soggettività si spoglia della sua consistenza metafisica, si apre all’ascolto dell’Essere, è tutta apertura, ma rimane pur sempre consapevolezza di tutto questo, consapevolezza e permanenza di questa consapevolezza. Pensare, per Heidegger, non è iniziativa del soggetto, ma un permanere nel linguaggio, un camminare “attraverso il linguaggio”, ma di tutto ciò bisogna pure avere coscienza, occorre un avvertimento interiore e una qualche consistenza soggettiva in cui tale avvertimento abbia una sua espressione. E’ questo il limite in cui incorre il “passo indietro” di Heidegger, limite che, a nostro avviso, interrompe un processo salutare nel suo inizio e nella direzione in cui procede, ma che, proseguendo oltre, dissolve ogni proposta positiva a meno di un approdo mistico i cui connotati sfumano nell’allusione e nella suggestione. Gilles Deleuze nel suo Différence et répetition (1968), portando alle estreme conseguenze il rovesciamento della Aufhebung hegeliana, ha posto in evidenza il dissolversi di ogni soggettività come entità definita. Nel pensare la differenza nell’identità Deleuze va oltre Heidegger, radicalizzando la pur radicale posizione di Heidegger e rendendo evidente l’imposibilità di arrestare il processo di fronte al mistero del linguaggio e dell’evento che in esso si annuncia. Heidegger, per Deleuze, non avrebbe superato realmente l’orizzonte della metafisica dell’essere perché l’essere rimane il suo costante ambito di riferimento; la differenza, per Deleuze, è ri-petizione (da re-petere) e quindi continuo differire. Pensare la differenza nell’identità porterebbe ad una mobile trama di rinvio ad altro. L’identità sarebbe il frutto di un


gioco prospettico, un’illusione ottica, una simulazione oltre la quale non rimane che differenza e ripetizione. Il confronto con la posizione heideggeriana, il suo richiamo polemico ad Hegel e l’accenno agli sviluppi che la posizione riceve in Deleuze ci permettono di focalizzare maggiormente una nostra proposta. La soggettività persiste come insuperabile riferimento di ogni consapevolezza di significato al di qua di una autocoscienza assoluta, al di là di un rinvio senza fine da termine a termine. Il volto di questa soggettività non è tuttavia univoco. Tale soggettività può configurarsi nella purezza della sua apertura sul senso, o può coaugularsi in stratificazioni, o esprimersi in comportamenti che la presentano ripiegata in se stessa nell’esercizio di una “cattiva identità”. La soggettività, in altri termini, può essere autentica o in autentica. Il “passo indietro” produce una scossa maieutica, riduce la coscienza all’essenzialità, facendo cadere le incrostazioni in cui la prassi quotidiana la costringe. La non univocità del volto della soggettività, il suo diverso atteggiarsi nei confronti dell’autentico e dell’inautentico, rafforzano la nostra convinzione che l’autenticità possa essere considerata l’interpretazione dell’identità. L’interpretazione non una interpretazione. Dell’identità infatti potrebbero darsi più interpretazioni; lo stesso considerare l’identità non si risolve in tautologia ma, visto sotto il profilo relazionale, può dare spazio a diverse interpretazioni di tale identità. Nell’ambito di tali possibili interpretazioni, quella che propone di vedere nell’identità il più proprio di una identità vissuta e pensata nella differenza, è l’interpretazione più pertinente al discorso fin qui condotto, quella in cui la soggettività autentica si trova più efficacemente espressa. Invitando al “passo indietro”, Heidegger si congeda dalla filosofia e con essa da una teoria della soggettività nel suo consistere autonomo. L’autenticità (Eigentlichkeit) non porta l’uomo all’iniziativa, ma all’abbandono, alla Gelassenheit. In questo abbandono tuttavia si delinea una tensione di pacata serenità. Nell’ultima pagina della Lettera sull’umanismo (Briefe über den “Humanismus”), Heidegger riesce ad esprimere la serena intensità e il pensoso abbandono del proprio esserci nel mondo: “Il pensiero scende nella povertà della sua essenza provvisoria. Il pensiero raccoglie il linguaggio nel dire semplice. Il linguaggio è il linguaggio dell’Essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Il pensiero, con il suo dire, traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino a passi lenti traccia attraverso la campagna”. Allo stesso anno 1947, anche se pubblicata più tardi, risale la breve raccolta poetica Aus der Erfahrung des Denkens. Anche in questa raccolta poetica si può cogliere la situazione interiore di chi ha compiuto il “passo indietro”. Qui lo scenario si fa ancora più descrittivo della natura, quasi una quiete dopo la tempesta: “I campi sono in attesa/ sgorgano le sorgenti/ dimorano i venti,/ la benedizione si sofferma pensosa”. La presenza umana scompare, la natura si anima, si avverte un rinnovato senso del sacro. L’incalzante, serrata ricerca di Essere e tempo si estenua e si trasfigura in linguaggio poetico, in pensiero poetante, ultima spiaggia di un pensatore in dürftiger Zeit, nel tempo dell’indigenza, della privazione e forse della nostalgia.


Il PD tra delusione e responsabilità di Alfredo Reichlin*

Tralascio tutte le cose che una persona come me può pensare sulla questione morale. Severe punizioni e un radicale rinnovamento sono necessari. Provo solo a dire a quali le condizioni ciò può realizzarsi. Il primo bisogno è una comune assunzione di responsabilità. È una condizione vitale. Ma responsabilità verso chi? Non voglio apparire enfatico, ma una classe dirigente non parla solo di sé. Il assillo è impedire che il Paese vada allo sbando; il suo compito è offrirgli una guida politica e morale; la sua credibilità si misura a fronte di cose nuove, enormi, che si chiamano: un inizio di impoverimento del popolo italiano, la democrazia sempre più a rischio e condizionata da poteri occulti o separati, il crollo dell’economia mondiale. Ciò che è devastante non è che la gente pensi che siamo tutti ladri (non credo che lo pensi), ma che il Pd – come tutti gli altri partiti – si occupi solo delle sue beghe interne e della gestione del potere. Perché io credo che il banco di prova del rinnovamento sta nella necessità di una nuova etica e di un nuovo costume. Ma non solo. Sta nella capacità di fare un salto di cultura politica perchè, senza un nuovo orgoglio di sé e del proprio ruolo e senza un orizzonte più ampio, la base del Pd – così segnata da storie diverse – non tiene. Vedo quindi il bi-


sogno di una grande discussione. La condizione però è che essa parta dalla novità assoluta del problema che investe le ragioni stesse del riformismo moderno. Questa è la sfida. È chiaro che siamo di fronte a un autentico passaggio di fase. Ormai lo dicono tutti. Ma il punto è che questo passaggio è di natura tale che cambia il ruolo stesso della politica moderna. Tale ruolo non sarà più quello di prima prima. Quali partiti e soprattutto quale democrazia ne usciranno? Esattamente la domanda che si pose dopo la crisi del ’29. La forza della sinistra dipende, in definitiva, dal modo in cui essa valuta politicamente questo passaggio. La risposta non è affatto ovvia. Insieme a nuove certezze morali è anche un nuovo orizzonte che noi dobbiamo dare al Paese. Quale? È Stiglitz (consigliere di Clinton, premio Nobel il quale ci dice una cosa enorme su cui conviene riflettere anche per capire perché siamo sotto tiro. Ci dice che non regge più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto finora, basato per quattro quinti sui consumi, cioè, di fatto, sugli attuali assetti sociali. La sola alternativa a un protezionismo disastroso sarà – dice – probabilmente un capitalismo basato sugli investimenti e su una redistribuzione della ricchezza mondiale e, all’interno dei vari Paesi, della ricchezza tra i vari ceti sociali. Sarà la redistribuzione a mettere in moto la produzione e i pistoni del motore economico. Se è vero, questo significa che stiamo parlando della natura stessa del sistema politico e della reale alternativa a un sistema così degradato. Perché che cosa dovrà essere un partito, se vorrà rappresentare una base sociale così diversa: cioè i bisogni umani e non il consumo superfluo indotto dalla pubblicità, e quindi la domanda di nuovi beni e la redistribuzione della ricchezza? Altro che partito dei sindaci. Altro che riformismo dall’alto, senza popolo e subalterno al pensiero dominante teorizzato in questi anni anche da noi. Veniamo al sodo. Rinnovamento? Certo. Ma questo significa scendere sul terreno di una nuova democrazia più sociale e ugualitaria, come ha affermato Scoppola, e con un diverso rapporto tra masse, potere e ambiente naturale. Ed è solo su questo nuovo terreno che si può immaginare un futuro per un Partito democratico a vocazione maggioritaria. Altrimenti può benissimo ripetersi il dramma che milioni di nuovi disoccupati diventino massa di manovra della destra. Esagero? Non credo. Dico una cosa perfino ovvia. Ricordo che dopo il crollo del ’29 non cambiò solo il paradigma economico, ma la politica (in America l’avvento del New Deal, in Italia il fascismo). Così, dopo la svolta reaganiana degli anni Settanta. Litighiamo ancora sul perché fallì il centrosinistra. Ma è ovvio. Perché venivano meno le basi di quella grandiosa struttura politica che era stata l’avvento della democrazia di massa. Fu il compromesso imposto al capitalismo: le masse che si politicizzavano e attraverso i partiti entravano nella vita statale, conquistavano nuovi diritti di cittadinanza, partecipavano. Cambiò insomma il chi comanda e si affermò il sistema nel quale siamo vissuti nell’ultimo trentennio. In tale si è parlato molto di riformismo, ma è la destra che ha preso l’egemonia. Questo noi oggi paghiamo. Il fatto che la politica chiusa (com’è stata chiusa) nei confini delle vecchie statualità, si declassava a sottosistema dell’economia finanziaria che invece si globalizzava, fatto per cui era nei suoi santuari che si prendevano le grandi decisioni. Con tutte le conseguenze che vediamo: il ridursi della politica a gestione del quotidiano (con quelle degenerazioni clientelari) la


sua rinuncia a guidare la società e l’incapacità di rispondere al bisogno di valori, di senso, di futuro. Il cittadino trasformato in consumatore e, di conseguenza, l’avvento del populismo. La questione morale, dopotutto, è questa. Perciò la politica si è così impoverita. Perché il pensiero riformista era troppo debole. La sostanza del rinnovamento è quindi riarmare il Partito democratico, e per riarmarlo bisogna indicargli la necessità di una svolta intransigente nella scelta degli uomini, ma anche lo spazio nuovo che si è creato nel rapporto tra politica ed economia. Stiamo attenti perché questa svolta in ogni caso ci sarà: democratica o autoritaria? A me sembra questo il dilemma che ci incalza. Non nascondiamoci che si è aperto anche un vuoto molto pericoloso. Chi comanda? A questo interrogativo gli Stati Uniti hanno risposto (per fortuna) con la vittoria di Obama. Ma in Italia? Il Paese è allo sbando. I segnali sono allarmanti: la guerra delle procure, il potere della criminalità che si estende anche in città del Nord, il fossato che si allarga tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia, il Parlamento che non fa più le leggi, ma convalida i decreti del governo. Metà della popolazione che in Abruzzo non va a votare. Stiamo attenti perché non siamo di fronte a normali attacchi politici. Tutto lo sforzo della destra e del potere soverchiante che essa ha sui ‘media’ è impedire che questo vuoto venga occupato dalla opposizione democratica. È colpire il Partito democratico, dividerlo, toglierlo di mezzo. Regge la democrazia italiana e regge l’unità dello Stato repubblicano se noi buttiamo a mare tutte le storie che hanno rappresentato finora il collante etico-politico della nazione? Tanto più se viene meno un forte ancoraggio all’Europa (l’errore grave che stiamo facendo). Si tratta di domande molto pesanti, mi rendo conto. Ma un gruppo dirigente parte da qui se vuole esercitare una egemonia.

*In collaborazione con Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri


Due crisi coessenziali di Enzo Roggio*

Domande dalla nostra epoca. Spoliticizzazione della società e/o desocializzazione della politica? Società e politica distanti oppure in rapporto critico ma non debole? Hanno modi d’essere divergenti o sono legate da sindromi simili? Può esistere una mediazione virtuosa tra l’una e l’altra entro una categoria come la democrazia integrale? L’opinione pubblica che si condensa nel momento elettorale è nutrita di consapevolezza progettuale o non è piuttosto mossa, in quale misura, da impulsi meschinamente utilitaristici e feticismi indotti dalla comunicazione? C’è, non solo sociologicamente, una borghesia capace di farsi segno della comunità oppure s’è arresa a una minoranza che assorbe violentemente il valore prodotto e indotto? E ciò che è tornato a muoversi oggi nell’agone conflittuale può essere inteso come sintomo di una politicizzazione della società civile? Mentre la cultura indagativa s’interroga ecco lo scoraggiante paesaggio fotografato dall’Istat: un Paese «un po’ allo sbando, impaurito, che si organizza a livello privato tra famiglie e comunità» e sostanzialmente privo di «regia ed elaborazione politica e culturale». E Ilvo Diamanti sintetizza: «siamo una società familistica … , corporativa e localistica, immobile e chiusa» di cui la politica «riproduce ed enfatizza i limiti». Dunque, la grande crisi – prodotta dal trentennio liberista e mass-mediatico – del rapporto


tra il sociale e il politico è tutta lì, intatta e sotterraneamente pronta a produrre, a breve o lungo termine, effetti ancor più devastanti. Ma l’indagine demoscopica così come l’elaborazione degli antropologi sembrano fermarsi al confine con la sintomatologia e indugiano ad affrontare una compiuta teoria del sistema e delle sue dinamiche. Sembra si debba ripartire dal momento in cui il discorso fu avviato, ventiquattro secoli or sono, da Aristotele col suo «anthropos zoon politikon» ripreso e reinterpretato millecinquecento anni dopo da Tommaso d’Aquino col suo «homo est naturaliter politicus, id est socialis». L’impegno dell’analista sistemico potrebbe iniziare proprio dal mettere a confronto queste due classiche proposizioni. La prima ci dice che, contrariamente agli altri viventi, l’uomo tende a superare i limiti della sopravvivenza biologica organizzando una qualche forma di ordine associativo assegnandogli (di fatto o formalmente) regole di gestione producendo così l’artificio storico del «regno del discorso», delle relazioni consapevoli e ordinate chiamandolo «politica». Nel concreto storico-ambientale dell’antichità ellenica questa visione è alla base della «polis» in contrasto esplicito con la «naturalità dell’animale uomo», cioè con la comunità parentale, regno di arbitrio autoritario impastato di sacralità e di privatezza economica. Dunque, opposizione tra la dimensione del «dialogo» capace di elaborare fondamenti vincolanti per tutti («zoon logon echon», il vivente capace di discorso) e la dimensione della separatezza di sopravvivenza fondata sulla diseguaglianza. La politica, insomma, non è un derivato meccanico del familismo economico ma il correttore del suo limite: è la sfera della libertà che si ordina contro la violenza autarchica della domesticità. Nella visione Tommaso questo conflitto genetico e finalistico scompare per dare luogo non solo a una insopprimibile coesistenza tra politica e società ma a una vera e propria identificazione tra i due enti (si potrebbe parlare di un accostamento alla visione marxiana della politica come «sovrastruttura» del sociale ma ben sapendo che all’Aquinate mancava il dato del conflitto lavoro salariato-capitale). Che cosa resta oggi, nella realtà della società contemporanea, degli assunti del pensiero classico e medievale? Cos’è oggi la «famiglia», cioè l’economia sociale? E che cos’è il «regno del discorso», cioè la politica? Tra i due momenti è ancora cogente la distinzione «tirannia/libertà», cioè una distanza oppositoria senza mediazione? Cominciamo col dire che non esiste la «famiglia», esistono le famiglie socialmente categorizzate nella differenza. Non esiste la società monotipica, esistono le società polarizzate immerse in una comunità conflittuale. Per dirla con Hannah Arendt, non c’è una meccanica identificazione che faccia della società una sorta di «comunità domestica allargata, collettiva», così come non c’è una politica che sia ontologicamente regno di libertà e di «discorso». C’è nella modernità il confluire necessario dell’un fattore nell’altro, c’è insomma il regno della dialettica società-politica. Dunque, non ci possono soccorrere gli esegeti della polis antica come non dà risposta utilizzabile chi oggì pensa a una perfetta identificazione tra i due momenti: nella modernità «la società ha divorato l’unità familiare fino a costituirne un surrogato» così come la «politica» esercita una funzione ambigua, ora dominante sulla società, ora succube di essa. Dove per «società» deve intendersi non l’universo demografico unitipico ma la risultante del conflitto – oggettivo e culturale – di cui la società è pervasa. Non c’è identificazione ma coesistenza critica, e si chiama «sistema».


La moderna democrazia – diritto codificato più volontà civica – ha in comune con la polis ellenica l’ambizione di porre nelle mani della politica la sovranità, ma essendo essa stessa il risultato della dialettica col sociale non può sperare di essere immune da crisi, come ben dimostra la realtà attuale che ci consegna un pur caotico rispecchiamento in essa della crisi sociale, una sorta di «anarchica vendetta» (Max W Weber). La dialettica virtuosa tra i due ordini si tramuta in reciproca alimentazione della crisi che è dunque crisi della democrazia politica e sociale. Il trentennio liberista-globalista con la sua falsificazione del rapporto produzione-finanza fino alla creazione di un universo artificiale di valori cartacei, con l’esasperazione delle distanze di reddito e di opportunità, con il saccheggio della natura, con la riduzione dell’intervento pubblico ad ancella delle dinamiche predatorie del ‘libero mercato’, con l’esasperante incitamento a consumi inessenziali che si tira dietro la massificazione dell’indebitamento privato e pubblico, con l’istaurazione vanagloriosa del successo senza riguardo a mezzi e conseguenze: questo trentennio giunto a ‘fase suprema’ ha alterato dialettica società-politica gettando nel caos il primo fattore e nella crisi funzionale il secondo. Non è più un rischio ma una certezza l’incrociarsi di due debolezze. E come l’indebolimento della sfera pubblica minaccia la sfera privata, così l’impazzimento della sfera privata richiama quella pubblica al soccorso, cioè all’indifferenziato sacrificio delle risorse statali. Vanno messi in conto di tale duplice minaccia i fenomeni tipici di questa fase: l’atomizzazione antropologica con una sorta di ritorno indietro millenario al «familismo», il moltiplicarsi delle fortezze catastali con vero e proprio ritorno feudalistico, l’assunzione della dimensione localistica che si oppone alla condivisione del sistema, la rivolta crescente contro le regole di una sovranità giuridica che moltiplica caoticamente i suoi editti, l’impulso a individuare il nemico ovunque qualcosa si muova, specie se si tratta di pubblici servizi, l’uso lievitante del discrimine etnico e religioso. Quel che rende ‘rivoluzionaria’ la vittoria di Obama – al di là dei risultati che potrà e saprà conseguire – è il fatto che uno dei fattori decisivi della crisi, la politica, mettendo in discussione sé stessa ha saputo sollecitare e ottenere l’incontro tra uno spirito pubblico ridestato e il progetto politico attorno al nodo gordiano della crisi: quale proprietà privata? Quale funzione pubblica? La risposta, la speranza è in due obiettvi: emancipare la ricchezza (cioè la totalità del prodotto sociale) dalle attuali forme di proprietà; riportare la sovranità democratica nel sistema politico in nome dell’universo sociale non più discriminabile. Insomma, tutto l’opposto dello stato di cose osservabile in Italia e non solo. Si potrebbe dire un ritorno alla virtù civica di Machiavelli contro il «particulare» di Guicciardini. Se una simile prospettiva non è utopia ma obiettivo concretamente perseguibile, occorre intrecciare virtuosamente i due campi di riforma. Ma deve cominciare anzitutto la politica, dunque riforma delle istituzioni e, in essa, del suo attore organizzato, il partito politico. In quanto alle istituzioni la situazione è a dir poco drammatica, sembra di vedere qualcosa che ricorda la Grecia alla vigilia del golpe militare: un Parlamento pletorico e impotente quando non esplicitamente umiliato, poteri locali soffocati dal debito e sempre più frequentamente penetrati dall’affarismo e perfino dalla mafia, organi di garanzia tanto lamentosi quanto disarmati. E tutto questo mentre agiscono, premono, decidono poteri di fatto a costituzione separata. Per questo non si può sfuggire all’urgenza drammatica di un cambiamento


profondo tra Stato e mercato con recupero della sovranità nella regolazione dei rapporti, dei comportamenti ora quasi totalmente arbitrari degli attori del mercato, con la capacità di promuovere un più equo meccanismo di distruzione del reddito anche come fattore di crescita economica, con la volontà e gli strumenti atti ad imporre energicamente la compatibilità esistenziale tra economia e ambiente. In quanto alla forma-partito parlare di crisi è puro eufemismo: un campo questo in cui teorie ed esperienze storiche non soccorrono più, mentre i conati di novità producono mostri o labili esperimenti. Il nostro ben strano bipolarismo sta camminando a tentoni, avvolto non da una dialettica produttiva, ma da una sorta di paranoia dell’ incompatibilità. Siamo nella fase in cui a destra la risposta è ciò che lo stesso Fini chiama «cesarismo», cioè estrema falsificazione della democrazia, e nel campo demo-riformista si cerca piuttosto caoticamente la risposta epocale al dover essere rischiando l’indeterminatezza per un deficit dilettura delle trasformazioni della fase. L’antico presupposto identitario – la visione della storia, il progetto del necessario umano – sembra revocato in dubbio sotto la categoria impressionistica dell’anti-ideologia senza che un nuovo apparato concettuale riesca a prendere forma e consegnarsi alla prassi. Il rischio è un lungo e confuso viaggio nel deserto. E non è vero che l’umanità è sempre riuscita a forzare lo stallo critico per affermare qualcosa di migliore: la polis democratica greca morì schiacciata dal globalistico impero macedone. *In collaborazione con Argomenti umani, diretta da Andrea Margheri


Recensioni Ispirazione profetica e disposizione universale nella filosofia di Emmanuel Levinas di Bachisio Meloni

Sono state diverse le iniziative di studio dedicate al filosofo lituano Emmanuel Levinas (Kaunas 1906 - Parigi 1994) in occasione del centenario della sua nascita, le quali trovano ora più degna configurazione scritta nelle pubblicazioni dei relativi atti1. Noi ci soffermeremo su quella relativa al convegno tenutosi a Roma dal 24 al 27 maggio 2006 (Visage et infini. Analisi fenomenologiche e fonti ebraiche in Emmanuel Levinas), Atti dal titolo Emmanuel Lévinas: Prophetic Inspiration and Philosophy, non senza però aver fatto prima richiamo – quale premessa ideale per ognuna di queste raccolte – a quanto Jacques Derrida ebbe a scrivere nel suo Adieu à Emmanuel Lévinas: “Qui non posso e neppure vorrei tentare di misurare qualche parola sull’opera di Em-


manuel Lévinas. Non se ne vedono nemmeno più i confini tanto è ampia (...) Si può prevedere con certezza che secoli di letture vi si dedicheranno. Già ora, ben oltre la Francia e l’Europa, ne abbiamo mille segni tutti i giorni, attraverso le tante opere nelle più diverse lingue, le molte traduzioni, i tanti corsi universitari, le conferenze, ecc.; si potrà certo dire che il risuonare di questo pensiero ha cambiato il corso della riflessione filosofica del nostro tempo, e della riflessione sulla filosofia (...)”2.

Dovremmo anzitutto chiederci – e proprio di ciò abbiamo inteso discutere con una delle curatrici degli Atti, Irene Kajon3 – dove risiedano le ragioni più profonde della grandezza di questo pensiero, e in che cosa consista il carattere straordinario dell’opera levinasiana. Si potrebbe in primo luogo mettere in evidenza – ma è solo un modo per approssimarci ad una delle estremità del suo pensiero –, come Levinas nei suoi scritti mostrasse a più riprese di muoversi ben al di là dell’attenzione rivolta alla generalità dell’Essere quale sfondo primigenio di ogni riflessione filosofica (da Parmenide ad Heidegger) in direzione di un “senso più profondo”, “unico” a suo dire, remoto nella sua “an-archia”, al quale la sua così come ogni altra forma di riflessione dovesse per forza di cose risalire. Senso da ricercare dunque ben altrimenti che dallo sfondo indeterminato, anonimo e “brutale” dell’essere in quanto tale, rispetto al quale sarebbe di gran lunga preferibile il distacco e il più netto rifiuto. A tale scopo per Levinas occorre di certo un preciso orientamento, suggerito da un sapere critico-filosofico quanto più premuroso e accurato fin nei minimi dettagli linguistici e semantici di riferimento; sapere che, parafrasando il motto socratico, dovesse ancor prima muovere dall’idea di un “sapere di non sapere”, o meglio, dagli sviluppi di una “saggezza” in grado di strutturarsi in qualità di movimento puro della sensibilità e dell’amore (philêin) in direzione dell’esistente, della sua più profonda umanità (humanisme de l’autre homme, precisava il filosofo); a patto quindi di non legarsi o di non ridursi alle forme tradizionali del sapere fine a se stesso (della sophia; “Autrement que savoir” era il titolo di un dialogo recente teso a riassumere tale forma di pensiero radicale), ma capace di cogliere, oltre alla precisa consapevolezza di tale superamento dell’esistenza anonima, oltre dunque l’“indifferenza”, l’alterità di ogni esistente quale presupposto di ogni possibile trascendenza. Che sia questa “riduzione” fondamentale, questa risalita inesauribile ad un’ispirazione remota verso un tutt’altri, un tutt’altrimenti in grado di mettere in scacco l’essere quale supposto principio costitutivo di ognuno, mai sazia e mai circoscritta alla definizione di un sapere teoretico, la ragione dell’inattualità e di una così larga prossimità al pensiero levinasiano? Che sia questo il segreto e la forza della meditazione in grado di dare una scossa al ripetitivo, circolare e sfibrante corso della riflessione filosofica (e nella fattispecie della tradizione onto-teologica), cui fa cenno Derrida? Accanto ad ogni singola meditazione o risvolto teoretico, ad ogni singola intenzionalità di pensiero (e di fronte alla concessione del primato del pensiero più che a quello dell’intersoggettività, cui rimaneva sostanzialmente invischiata la stessa fenomenologia di Husserl) vi è sempre un prolungamento per così dire pratico, essenzialmente etico4, modalità in tal senso ogni volta ellittica, trascendente in quanto apertura o disposizione all’alterità come uscita in direzione dichiaratamente opposta alla fissità dello schematismo concettuale; contraria ad ogni chiusura entro le categorie della soggettività come ad ogni modello di totalità che fondi la sua determinazione a partire dalla scelta dell’essere quale unico presupposto. Vi è dunque come una fondamentale disposizione alla spinta e una ricerca tutt’altro che generica di fuga, di “evasione”, verso l’altro da sé della sog-


gettività e della temporalità unica (verso Autrui, l’“Assolutamente altro”) nell’irrequietezza della meditazione levinasiana; pensiero per sua definizione nomade, autenticamente errante, perché vissuto nella sua fondamentale apertura alla dimensione, in sé e per sé desertica, dell’eterno. Disposizione che è, lo sarà tuttora, il riferimento ad un obbligo essenziale o ad un imperativo categorico dello spirito di ciascuno in grado di tradursi in vero e proprio procedimento di “fissione” o “de-nucleazione” del sé quale ancoraggio all’esperienza propria di vita e al proprio presente. Su questa cruciale propensione Levinas incentrerà l’intera sua riflessione, condensando nella corporeità dell’espressione del “me-voici” il sintomo o la traccia di rottura e la conseguente uscita dalle maglie della scansione temporale quotidiana dell’essere come sé di ognuno; espressione che, precisa il filosofo, «è formula da seguire alla lettera»; risposta che fornisco ancor prima che mi sia giunta domanda, o richiesta. Approssimandomi ad Altri – leggiamo in Autrement qu’être – sono sempre in ritardo sull’ora dell’appuntamento”. Ma questa singolare obbedienza all’ordine di arrendersi, senza comprensione dell’ordine, questa obbedienza anteriore alla rappresentazione, questa fedeltà prima di ogni giuramento, questa responsabilità preliminare all’impegno, è precisamente l’altro-nel-medesimo, ispirazione e profetismo, l’accadere dell’infinito5.

È la responsabilità del soggetto, intesa come fondamentale ed ineludibile “abilità al rispondere”, il dire di questa ispirazione tesa al di fuori della possibilità degli accadimenti, dell’articolazione concettuale così come di ogni ordinata scansione temporale: riferimento all’unicità di un soggetto, ma in quanto disposizione di un’identità vissuta come convocazione per la risposta, pur in assenza d’Altri. Secondo Levinas sta in questo bipolarismo tra finitudine della soggettività autonoma e disposizione ad altri da me in quanto legge assolutamente eteronoma il vero accadimento dell’infinito in me. Tempo dell’infinito vissuto non nello spasimo di un’attesa infinita, attesa messianica affinché qualcosa avvenga o si compia, che un dio magari abbia la compiacenza di giungere in nostro soccorso (come nell’ultimo Heidegger). È l’infinito che accade in me a partire da questa mia fondamentale apertura al tempo dell’eterno; infinito che giunge o è colto – mi si presenta – non in quanto legato al destino o alla possibilità dell’accadere, ma nei termini della mia responsabilità per altri. Proprio in quanto, con pura spontaneità, sono io a volerlo. Da qui, come sottolinea nel suo intervento Silvano Petrosino (“La topologia di Levinas”), l’origine, il fondamento, il “luogo” stesso entro cui il soggetto, non solo si apre alla trascendenza, ma diventa egli stesso il presupposto essenziale ed universale di ogni salvezza messianica, di ogni possibile trascendenza. “L’alterità”, leggiamo fin da Totalité et infini, “è possibile solo a partire da me”6. Stando ai continui riferimenti all’opera artistico-letteraria e poetica, ossia a quanti tra scrittori e poeti hanno saputo influenzare la sua ricerca, è come se nella riflessione filosofica di Levinas vi fosse un continuo riferimento ad una fonte precisa di “ispirazione”, vera e propria “experience poétique”, come ebbe modo di sottolineare in sporadiche, ma non per questo ininfluenti, occasioni. Come se ogni filosofare, sia esso antico o moderno, dovesse (e debba ancora) portare a proprio compimento ciò che costituisce la stessa intelligibilità di ogni scrittura così come di ogni forma di pensiero, in termini levinasiani, e al di là della singolarità e della personalità umana: l’evocazione o l’espressione sempre viva di un Visage, la vocazione incondizionata di un Nom propre.


Ogni qual volta si pensa al principio di ispirazione, viene alla mente l’idea dell’esser toccati, presi, coinvolti da “altri” – una musa sembra parlare per noi (così il filosofo, fin dalle sue prime conferenze e dai suoi primi contributi della seconda metà degli anni ‘40, i quali hanno poi trovato più elaborata espressione nel suo primo capolavoro Totalité et infini). Ed è proprio a partire da questa disposizione all’attesa ispirata – che nell’accezione levinasiana si associa più propriamente alla modalità della “separazione” atea, separazione dal Dio (avvertibile solo a partire dal suo prenderne le distanze, farne a meno) della tradizione monoteista, così come dal dio della tradizione pagana (o neo-pagana, è il caso del quadrivio, della corrispondenza partecipativa fra cieli e terre, fra mortali e divini nel Geviert heideggeriano) – che prende le mosse lo sviluppo di questa riflessione. Riferimento all’infinito è dunque modalità dell’ispirazione che si eleva ad evento della separazione o “de-nucleazione” dal proprio sé e dal proprio tempo, dal cogito in cui tutto si afferma e si chiude a partire dall’intenzionalità del pensiero, di un io in cui tutto si immiserisce e svilisce – era ciò che paventava Rosenzweig – in “totalità”. In tal senso ci sembra sia possibile riscontrare due accezioni del termine “ispirazione”: ispirazione come tensione verso il messaggio implicito nelle Sacre Scritture (le fonti ebraiche, la lettura della Torah, il riferimento alla letteratura talmudica come risposta all’annuncio per il sacrificio, alla prossimità fino alla sostituzione per altri …) e ispirazione a tale fondamentale messaggio, ma non come sembra piuttosto emergere nel senso della tradizione teologica o della partecipazione mistica, bensì – come dall’esempio di H. Cohen – a partire da un punto di vista strettamente ed esclusivamente etico-filosofico (per cui la visione di Dio non è altro che atto morale): un pensiero dunque, è il caso di sottolinearlo, filosoficamente ispirato7. Sarebbe impresa assai ardua, se non folle, nella brevità di queste righe poter fornire un sunto delle più importanti considerazioni emerse dalle relazioni e dal relativo dibattito teso ad illustrare la modalità di un pensiero in grado di contenere al suo interno, in stretto parallelismo così come in forte tensione dialogica, l’eredità del pensiero ebraico, l’ispirazione alla pratica seduttiva del commento talmudico (molto vi sarebbe da indagare riguardo all’influsso dovuto all’eccentrico e geniale maestro M. Chouchani), accanto alla più illustre tradizione del pensiero greco e occidentale. Più modestamente, ci preme sottolineare ciò che è emerso invece riguardo alla centralità dell’“ispirazione profetica” nell’opera filosofica di Levinas. Opera, lo ribadiamo, di scrittura filosofica, ma la cui ambizione è niente meno quella di voler intraprendere la risalita in direzione dell’evento, del miracolo, se non addirittura verso una qualche forma di vera e propria “resurrezione”, in grado di condurre il “detto” della significazione (sia essa poetica o filosofica) al di là della sua morte. A tal proposito vorremmo qui citare un passo tratto da Au delà du verset: Contrazione dell’Infinito nella Scrittura a meno che – e non vi sarebbe in ciò nessun impoverimento dell’idea cartesiana, né della gloria di Dio, né della sua prossimità religiosa –, a meno che non si tratti della dignità profetica del linguaggio, capace di significare sempre oltre il detto, meraviglia dell’ispirazione nella quale l’uomo ascolta, sbalordito, quel che egli stesso enuncia, nella quale legge già l’enunciato e l’interpreta, e nella quale la parola umana è scrittura8.

Non diversamente da questa modalità, diventa allora possibile accostarci al pensiero levinasiano se non come alla ricerca della significazione a parti-


re da questo darsi della soggettività in funzione di un’apertura fondamentale, quella che si delinea entro i solchi della “bontà”, della “giustizia” e del “sacrificio” per altri: unico modo per un pensiero che voglia dirsi ispirato, ossia in grado di dire o di suggerire più di quanto si sta pensando, interpretazione o parafrasi dell’accoglimento della cartesiana “idea di infinito” che è in me. Solo in questa riconosciuta “passività”/“colpevolezza” della soggettività che è in preda ad una follia per altri, ma consapevole e perfettamente in grado di riconoscersi in quanto seriamente e spontaneamente responsabile, risiede il significato filosofico e profetico nel suo farsi discorso, nel suo dar segno; solo in questa forma di espressione risiede il suo “farsi” segno, la sua significazione messianica. Senza per questo dimenticare, lo si è detto, come il rapporto del pensiero levinasiano con le scritture sia fondamentalmente e dichiaratamente filosofico. Questa, nell’introduzione a Quatre lectures talmudiques, la dichiarazione del nuovo e particolare approccio al testo seguito da Levinas: Noi assumiamo il testo talmudico, e l’ebraismo che ne traluce, come tali che contengono un insegnamento, e non come un tessuto mitogeno di sopravvivenze. Per prima cosa dunque ci sforzeremo di leggerlo nel rispetto dei suoi dati [...]. Solo in un secondo tempo cercheremo di tradurre il significato suggerito dai dati del testo in linguaggio moderno, vale a dire in problemi capaci di inquietare un uomo istruito nelle fonti spirituali che sono estranee all’ebraismo e che, nel loro confluire, costituiscono la nostra civiltà. Le concezioni universali che sono da porre in luce nell’apparente particolarismo in cui ci rinserrano i dati di ciò che, impropriamente, si chiama la storia nazionale d’Israele: ecco l’intento dominante della nostra esegesi9.

“Ispirazione” e “profetismo”, è questa glorificazione dell’infinito nell’espressione poetica dell’uno-per-l’altro, «nel sopportare l’altro, nell’espiare per esso». Ispirazione profetica come apertura e adesione al “tempo dell’altro”, vera e propria contrazione dell’infinito nel tempo finito della storia10, modalità dell’ispirazione come «accoglimento dell’altro nel medesimo», come sostituzione, dire in «terza persona», il «me voici», ammissione di colpevolezza e senso di pena «rispondente di tutto e di tutti» quale unico procedimento di “de-ontologizzazione” del pensiero, o di “de-sacralizzazione” del linguaggio poetico (cui l’ermeneutica heideggeriana, in antitesi alle ristrettezze del linguaggio apofantico della razionalità, aveva mostrato di far esplicito se non addirittura esclusivo riferimento). Ispirazione profetica che proprio in quanto riguarda me, vaglia, “elegge” ciò che di più universalmente accettabile nella mia bontà si costituisce. Non dunque elezione nei modi chiusi della distinzione e dell’esclusivismo orgoglioso: “le peuple élu” per il pensatore ebreo non è perciò stesso quello di più stretta appartenenza, propria, come riconosciuta identità che si rivolge a sé, o “entre nous” (sarebbe contraddizione fin troppo imperdonabile per chi sente di testimoniare il proprio essere scevro da ogni tipo di riconoscimento ideologico o, men che meno, di legame ad una qualche forma di radicalismo religioso). Sulla base di quanto è riportato nella più profonda intimità del messaggio biblico, élu – come Levinas ebbe modo di insistere in molteplici occasioni – è semmai l’“orfano”, la “vedova”, il “povero”, l’“affamato”. Nel qual caso, si tratta dunque del “quanto più si è vittime, tanto più si è eletti”11; su tutti allora, il popolo ebreo, verso cui aderire; ma non tanto sulle basi di una prospettiva fideistica e religiosa (l’apparente scelta particolarista, il dato specifico del riferimento alla terra d’Israele, peraltro destinato a perdersi), bensì solo in quanto più propriamente e


storicamente vittima emblematica – e perciò stesso immortale, ossia ineludibile – di oltraggio e di persecuzione. Universalismo dunque in quanto chiamata e movimento verso un principio costitutivo suscettibile di, anzi, “irremissibilmente” obbligato a connaturarsi storicamente (nel qual caso assai prossimo ai principi dell’umanismo della tradizione ebraica, cui ispirarsi – lo ribadiamo – ben al di là della sua datità specifica)12; presupposto dunque in quanto affermazione non di una “coscienza di diritti eccezionali, ma di eccezionali doveri”13, le cui radici risalgono ad un passato storico eppure immemorabile, ma in grado di inquietarmi e di portarmi a rispondere nel qui ed ora in una “scelta” che si traduce in piena autonomia per tutti al di là di ogni appartenenza culturale, etnico-geografica e di ogni identità politico-religiosa. Su tali presupposti si salda il pensiero levinasiano, nel segno del ripristino del pensare, ma a partire da un gesto o da una pratica di “servizio” in cui si ravvisa l’attimo o l’istante che salva nell’ispirazione colta nella mia stessa messa in questione ed esposizione estrema di fronte all’altro da me. Salvezza che non è più, o non è soltanto, egoismo di preghiera rivolto a sé e ai propri simili, ma vulnerabilità, ossessione per altri in quanto tale, «l’uno-ostaggio-dell’altro». Solo in questi termini ci sembra di poter concludere quanto il linguaggio o la scrittura “de-sostantivata”, anacronisticamente “de-ontologizzata” del discorso levinasiano sia profetica in quanto poeticamente ispirata e poetica in quanto profeticamente ispirata. (Footnotes)

Mi riferisco in particolare a Levinas in Italia, Teoria (XXVI, 2006/2), Ed. ETS, Pisa 2006. Poco più dello scorso anno è il volume a cura di D. Cohen-Levinas e B. Clement, Emmanuel Levinas et les territoires de la pensée, PUF, Paris 2007. Un’altra conferenza, organizzata nel quadro degli eventi che celebra-

1

rono “Un secolo con Levinas”, è stata “Levinas-Blanchot, pensare la differenza” (13-16 novembre 2006). 2

J. Derrida, Adieu à Emmanuel Lévinas, Galilee, Paris 1997; Addio a Emmanuel Lévinas, tr. it. di S.

Petrosino, Jaca Book, Milano 1998; p. 59. 3

Cfr. la nostra intervista in Schibboleth, n. 15, 28 Febb. 2008, pp. 29-34.

4

Come sottolinea a tale proposito la Kajon, “la filosofia levinasiana radicalizza l’idea della ragione

pratica e il primato della ragione pratica affermati dalla filosofia kantiana” (cit., p. 29).

Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye, 1974, 19782, Livre de poche, LGF, Paris 1990, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tr. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, p. 189. 5

Totalité et infini, Nijhoff, La Haye 1961; tr. it. di A. Dell’Asta, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1980, p. 38. 7 È quanto tiene a ribadire G. Ferretti nel suo intervento dal titolo “Dal Sacro al Santo. La trascendenza teologica non violenta in E. Levinas”. Ma per queste tematiche, sui particolari aspetti di questa innovativa, eppure dichiaratamente non inedita, forma del pensare su cui si sono incentrati gli studi ora racchiusi in questa notevole raccolta, si veda ancora la nostra intervista alla Kajon (cit.). 6

Au-delà du verset. Lectures et discours talmudiques, Éditions de Minuit, Paris 1982; tr. it. L’al di là del versetto, Guida, Napoli 1986, pp. 59-60. 8

9

E. Levinas, Quatre lectures talmudiques, Les Éditions de Minuits, Paris 1968, 19762; Quattro letture

talmudiche, tr. it. di A. Moscato, Il melangolo, Genova 1982, p. 29. 10

Non si tratta dell’eternità di un istante, quanto, in termini assai prossimi alla concezione profetica

di W. Benjamin (Tesi di filosofia della storia, in Id. Angelus Novus. Saggi e Frammenti, Einaudi, Torino 1962), dell’apertura di “ogni secondo” come “la piccola porta da cui poteva entrare il Messia”


(p. 86).

Su questo particolare esito cui giunge la riflessione levinasiana di Autrement qu’être… si è soffermato M. M. Olivetti, Analogia del soggetto, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 88. 11

12

Sulla dimensione dell’ebraicità in Levinas, “di cui l’antisemitismo nazista ha potuto brutalmente

svelare il carattere effettivamente irremissibile”, pari solo, ma non per questo identificabile, a quella dell’essere incatenati all’esistenza stessa, si è soffermato J. Rolland (in Annotations a E. Levinas, Dé l’évasion, in Recherches Philosophiques, V (1935/36), pp. 373-92, riedito in volume da J. Rolland, Fata Morgana, Saint-Clement-la-Riviere 1982; tr. it. Dell’evasione, Ed. Elitropia 1984; Cronopio, Napoli 2008): “L’hitlerismo – scrive Levinas – è la più grande prova, la prova incomparabile che l’ebraismo ha dovuto affrontare […] Il patetico destino di essere ebrei diventa una fatalità. Non lo si può fuggire. L’ebreo è ineluttabilmente incatenato al suo ebraismo” (Ivi, p. 49).

Difficile Liberté, Éditions Albin Michel, 1963, Livre de Poche; tr. it. Difficile libertà, Jaca Book, Milano 2004; p. 221. 13



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