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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008 Febbraio-Marzo n째 24, 2010


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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Febbraio-Marzo 2010, n° 24. (Numero 25, 1 Aprile 2010) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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Etica e cura di sé di Elio Matassi

Dalla secolarizzazione della religione alla religione secolarizzata di Claudio Ciancio Politica e corruzione di Mauro Visentin Quelli che abbattono gli alberi di Andrea Tagliapietra

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L’ultima Enciclica e l’economia di Silvano Andriani

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In ricordo di Giovanni Pugliese Carratelli di Arnaldo Marcone

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Etica e cura di sé di Elio Matassi

In prima approssimazione le due espressioni ‘etica’ e ‘cura di sé’ vanno in due direzioni se non contrapposte, indubbiamente, molto diverse. Il primo termine, ‘etica’ allude esplicitamente ad una dimensione interpersonale, intersoggettiva – è, a questo proposito, molto celebre la chiosa dedicatagli da Hegel in una annotazione ai Lineamenti di filosofia del diritto1, per cui ‘etica’ deriva dal greco ethos e, nella lingua tedesca, Sittlichkeit da Sitte, vale a dire ‘costume’, ‘consuetudine’, qualcosa che abbiamo in comune, un senso di appartenenza che comunque ci qualifica -, mentre il secondo termine, ‘cura di sé’, sembra, invece, indicare qualcosa di più specifico, di più interno al mio modo di pensare e di essere. Goethe nel secondo Faust, atto V, Mitternacht introduce insieme a Der Mangel (Mancanza), die Schuld (Insolvenza), die Not (Distretta), come una delle quattro donne “grigie” anche die Sorge (la Cura), mentre le prime tre non osano entrare nel palazzo di Faust, la quarta, appunto La Cura vi penetra, “Sorelle, non potete voi, né dovete, entrare./ La Cura, lei, 1


si insinua dal foro della chiave./”2 La Cura sfida dunque Faust direttamente: “Se neanche un orecchio mi udisse/ pure sarebbe nel cuore il mio rombo./ Sotto parvenza mutevole/ la mia potenza è feroce./ Sui sentieri, sulle onde/ eterna compagna angosciosa,/ mai la cerchi, sempre la trovi,/ e lusingata e maledetta.../ La Cura, l’hai mai conosciuta?/”3. La sua sfida passa all’interno del soggetto, è una sfida ancora più subdola e pericolosa perché investe la dimensione interiore, privata del singolo: “Quando ho qualcuno in mio potere/ il mondo gli diventa inutile./ Su lui cala buio eterno,/ sole non si alza né tramonta./ Ha perfetti i sensi esterni/ ma tenebre intime lo abitano; e di tutti i tesori non sa/ come prendere possesso./ Fortuna e sfortuna divengono/ fantasie per lui, lo rode/ nell’abbondanza l’inedia/ e, sia delizia sia tormento,/ qualunque cosa rimanda a domani,/ sempre è in attesa del futuro/ e mai gli riesce di concludere./”4 Ma Faust è molto fermo nel respingere la sfida della Cura, non ha neppure la minima perplessità: “Basta! Tu così non mi prendi./ Certe sciocchezze non voglio ascoltarle./ Fuori! Questa mediocre litania/ potrebbe incantare anche l’uomo più saggio./5 E poco più avanti: “Sciagurati spettri, con la specie umana/ voi agite così mille volte./ Anche i giorni qualsiasi li mutate/ in un laido groviglio di tormenti intricati./ Dai demoni è arduo liberarsi, lo so,/ non si spezza il legame che lo spirito ha stretto; ma il tuo potere, o Cura, insinuante e grande, io non lo riconoscerò./”6 Faust riesce pertanto a resistere alla Cura senza far uso di formule magiche, riconfermando la propria fiducia nella ragione e nell’azione. Ma la Cura lo acceca, convinta che Faust sia simile a tutti gli altri uomini: “Provalo ora che da te rapida/ maledicendoti mi separo./ Tutta la vita sono ciechi gli uomini:/ e tu diventalo, Faust, alla fine/ Gli soffia sul viso”7. Ma, Faust, nonostante l’accecamento esteriore, si sente accresciuto di luce interiore, motivo già presente nella tradizione greca e che Goethe poté ritrovare nel Paradiso perduto di Milton: “La notte sembra scendere sempre più fonda/ ma brilla entro di me una luce chiara./ Quello che meditai mi affretto ad adempiere. La voce/ di colui che comanda è la sola che conti./ Servi, su dai giacigli! Voi tutti!/ Che in letizia si veda quello che ho osato intraprendere./ Mano agli arnesi, in pugno vanghe e pale!/ Il progetto deve essere realizzato subito./ Ordini esatti, impegno veloce/ avranno il compenso più splendido./ Basta, perché sia compiuta l’impresa più grande,/ per mille braccia una mente unica/”8 E’ interessante che l’episodio goethiano della Cura venga ripreso da Martin Heidegger nel paragrafo 42 di Essere e tempo, Riconferma dell’interpretazione (Interpretation) esistenziale dell’Essreci come cura in 2 3 4 5 6 7 8

J. W. Goethe, Faust, trad. it. a c. di Franco Fortini, Milano, Mondadori, 1970, pp. 1001-03. Op. cit., pp. 1005-06. Ivi, pp. 1007-08. Ivi, p. 1009. Ivi, pp. 1009-10. Ivi, p. III. Ibidem.


base all’autointerpretazione (Selbstauslegung) preontologica dell’Esserci9. Heidegger parte dalla fiaba di Igino e dal saggio di K. Burdach, Faust und die Sorge10 e dalla poesia herderiana, Das Kind der Sorge che definisce documenti preontologici per l’interpretazione ontologico-esistenziale dell’Esserci in quanto Cura. Se si assume come punto di riferimento privilegiato il brillante pamphlet del sociologo francese Pierre Bourdieu, dedicato all’ontologia politica di Martin Heidegger11, il significato più profondo della cura di sé comincia a disvelarsi a partire dal plesso argomentativo che si snoda da Goethe a Heidegger. Entrando nel reticolo delle parole al contempo morfologicamente somiglianti ed etimologicamente apparentate dove è inserita – e tramite quelle, nella sofisticata trama del lessico heideggeriano, il termine ‘cura di sé’ viene ad essere strappato dal suo significato originarioordinario, quello che è leggibile senza ambiguità alcuna nell’espressione Sozialfürsorge, assistenza sociale. Trasformata e trasfigurata, la cura di sé perde la sua identità comune per assumere un senso deviato (che il termine ‘procura’ preso in senso etimologico, riesce più o meno a restituire). ‘Procura’ in accezione giuridica è quel negozio col quale una persona conferisce ad un altra il potere di rappresentarla. Si tratta dunque di un potere di rappresentazione che fuoriesce da sé per essere concesso ad altri. Secondo la penetrante lettera di Bourdieu, Heidegger, che si confronta con Goethe, riesce, sia pur gradualmente, a mostrare il ‘passaggio’, implicito nella cura di sé, da una forma di assistenza in senso lato pubblica ad una, invece, decisamente ‘privatistica’ in cui il soggetto tende autolesionisticamente ad estraniarsi. Credo che questo ‘passaggio teoretico’ – la cura di sé come autotrasferimento ad altri del proprio sé – sia a fondamento del libro del sociologo ungherese Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana12. Negli ultimi decenni quasi ogni aspetto della vita è divenuto oggetto della nuova cultura delle emozioni. La diffusione del linguaggio e delle pratiche terapeutiche nella nostra quotidianità dimostra quanta importanza la cultura contemporanea attribuisca alla dimensione privata. Bambini di nove o dieci anni affermano di essere stressati e viene loro spesso diagnosticato uno stato di depressione o, addirittura, di trauma. E mentre ancora si discute se sussista o meno una “fobia scolastica”, basta che un bambino sia un po’ vivace o turbolento perché venga dichiarato affetto da un disturbo di deficit d’attenzione. Delusioni quotidiane – un rifiuto, un insuccesso, il sentirsi ignorati – vengono considerati come una 9 M. Heidegger, Essere e tempo, nuova versione italiana a cura di Franco Volpi sulla versione di Pietro Chiodi con le glosse a margine dell’autore, Milano, Longanesi, 2005, pp. 239 e sgg. 10 Karl Burdach, Faust und die Sorge, in „Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte“, I, 1923, pp.1-60. 11 Pierre Bourdieu, Führer della filosofia? L’ontologia politica di Martin Heidegger, trad. it. di Girolamo De Michele, Bologna, Il Mulino, 1989. 12 Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, trad. it. a c. di Lucia Cornalba, Milano, Feltrinelli, 2005.


persistente minaccia all’autostima. L’affermarsi di questa cultura terapeutica, di un modo di pensare diffuso che influenza la percezione generale dei fatti della vita, ha poco a che fare con la vera sofferenza psichica e con la terapia clinica. Per Furedi coincide piuttosto con una radicale ridefinizione della personalità. Si incoraggiano sempre più le persone a considerarsi impotenti e insicure, ad interpretare una certa vulnerabilità come una caratteristica che rende più umani, esternando la propria fragilità interiore. Gradualmente, la discussione di questioni importanti per la collettività ha ceduto il posto ad un interesse quasi voyeristico per i problemi privati. Come osserva acutamente il sociologo Zjgmunt Baumann “quelle che vengono comunemente e sempre più spesso percepite come ‘questioni pubbliche’ sono problemi privati di figure pubbliche”, che “‘hanno un dovere pubblico’ di confessarsi ad uso e consumo dell’opinione pubblica, di mettere pubblicamente a nudo le loro vite private”13. Si procede irreversibilmente verso quella che viene definita la ‘istituzionalizzazione della vita terapeutica’, ossia verso l’estensione dell’etica terapeutica a tutte le dimensioni, all’istruzione, al sistema di giustizia, all’erogazione di servizi assistenziali, alla vita politica, alla stessa medicina. Questa pervasività del terapeutico, della cura di sé, non promuove, comunque, secondo Furedi, il narcisismo dell’autorealizzazione, bensì un senso diminuito di sé, una tendenza alla frammentazione e ad una nuova forma di alienazione. Questo nuovo conformismo emotivo è alla base di quella che viene definita ‘etica terapeutica’, ossia la cura di sé di cui abbiamo delineato l’albero genealogico, di quella ‘cura’ che Goethe-Faust paventava, a quella cura di sé di cui comincia a parlarci M. Heidegger. Come chiosa con finezza Bourdieu: “Al termine di questo sviamento, degno del prestigiatore che attira l’attenzione su ciò che può mostrare al fine di dissimulare ciò che vuol nascondere, il fantasma sociale dell’assistenza (sociale), simbolo dello ‘Stato provvidenza’ o dello ‘Stato assicurazione’ che Carl Schmitt o Ernst Jünger denunciano con un linguaggio meno eufemistico può abitare od ossessionare il discorso legittimo (Sorge e Fürsorge sono al centro della teoria della temporalità), ma in una forma tale che sembra non esserci, non c’è”14. Mai come nella contemporaneità sembrano essere così confliggenti ‘etica’ (etica pubblica) e ‘cura di sè’ (etica terapeutica), offrendo un governo delle anime più sottile di quanto tutte le religioni e le ideologie siano mai riuscite a fare. Vi è dunque una correlazione stretta tra la fine della politica, del politico, e l’ascesa della terapeutica, un processo che, anestetizzando i possibili conflitti, tende a ridefinire le questioni pubbliche come problemi privati dell’individuo: “Si può individuare nell’istituzionalizzazione dell’ethos terapeutico, l’avvio di un regime di controllo sociale”15. 13 14 15

Z. Baumann, Modernità liquida, Bari, Laterza, 2001, pp. 92 e 94. Pierre Bourdieu, Führer della filosofia?... cit., p. III. Frank Furedi, Il nuovo conformismo, cit., p. 242.


Si tratta di un processo esattamente inverso a quello intrapreso da Martha C. Nussbaum ne L’intelligenza delle emozioni16; l’introduzione di valori ‘scalari’, delle ‘scale dell’amore’ come fattori di promozione di una nuova aggregazione sociale, delle emozioni per reimpostare il nesso contingenza– comunità è una svolta innovativa e non regressiva. La rivalutazione della sfera emozionale diventa fattore di crescita, basti pensare al grande esempioproblema dell’amore, dell’ascesa romantico-ebraico, prospettata a partire da una sottile e convincente decostruzione del quinto movimento della seconda Sinfonia di Mahler17. Basti rammentare come Mahler si situi nei riguardi dell’ode di riferimento di Klopstock. Mahler opera sostanzialmente quattro modifiche. In primo luogo, sopprime la terza, quarta e quinta strofa. Strofe che stanno ad esprimere una interpretazione convenzionale della pietas cristiana e della relativa pace celeste. In luogo di tale statica condizione finale il musicista si concentra sulla bellezza del tendere verso qualcosa; in secondo luogo, vengono eliminati tutti gli “Alleluja” che non aggiungono nulla al contenuto, suggerendo piuttosto una finalità statica piuttosto che il perdurare della tensione. In terzo luogo, “sono stato seminato” viene modificato in “sei stato seminato”. Ed infine “schuf”, ‘creato’ viene sostituito con il termine “rief”, chiamato. Dio in tal modo non figura nel testo come creatore dell’uomo, ma come colui che chiama l’individuo creativo all’espressione di sé. Il resto del testo mahleriano è ancora più interessante: “Credi, mio cuore, credi:/ di tuo nulla è perduto!/ E’ tuo, tuo, tuo, vedi,/ tutto quello che hai bramato!/ Tuo, quel che hai amato, tuo, quel che hai combattuto!/ Oh, non invano, credi, tu sei nato,/ non invano hai sofferto, vissuto!/ Quel ch’è esistito, deve passare,/ quel ch’è passato, deve risorgere!/ Finisci di tremare!/ A vivere preparati!/ O dolore, che penetri dovunque,/ ecco, sono sfuggito alle tue pene!/ O morte, tu che travolgi chiunque,/ eccoti qui in catene!/ Con ali, che ora sono mia conquista,/ in uno slancio vivo e caldo/ d’amore, io volerò in alto/ verso la luce, che nessuna vista/ ha penetrato mai!/ Io morirò per vivere. / Risorgerai, certo risorgerai,/ mio cuore in un istante!/ Tutto ciò che da te vinto sarà,/ a Dio ti condurrà!/”18 Il rifacimento letterario dell’ode di Klopstock con l’aggiunta considerevole di altri versi ed, al contempo, l’analisi musicale dello stesso quinto movimento vanno, per la Nussbaum, entrambi nella stessa direzione, verso la valorizzazione della vita terrena, la risurrezione avviene mediante i nostri atti e la creatività musicale esercita un grande ruolo in questa prospettiva di ricerca: “Il romanticismo di Mahler e il suo ebraismo sono ancora una volta alleati, nell’attrarre l’attenzione alla luce della vita terrena, piuttosto che a qualche telos oltre questo mondo”19 Siamo agli antipodi della cura di sé come gestione sottile dei processi 16 Martha C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, trad. it. a c. di Rosamaria Scognamiglio, Bologna, Il Mulino, 2004. 17 Op. cit., pp. 721-753. 18 Cit. in Martha C. Nussbaum, L’intelligenza..., cit., p. 746. 19 Op. cit., p. 750.


interiori e privati, in questo caso le emozioni diventano un decisivo fattore propulsivo di ascesa e di sviluppo: “Il triplice significato di ‘geschlachen’ – le lotte del cuore, il suo fisico pulsare, ed il ritmo musicale – viene ora espresso dall’orchestra, con le percussioni, gli ottoni, l’organo e gli archi che attaccano tutti, enfaticamente, sulla prima battuta. La temporalità e la felicità del suono... divengono qui il veicolo della redenzione, e dell’esistenza redenta”20.

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Op. cit., p. 751.


Dalla secolarizzazione della religione alla religione secolarizzata di Claudio Ciancio

Che la previsione di un rapido affermarsi della secolarizzazione, almeno nel mondo occidentale, non si sia avverata è un fatto riconosciuto ormai da una ventina d’anni1. E si parla apertamente di ritorno della religione o di rivincita di Dio2. Questo fenomeno rischia però facilmente di essere ingigantito e frainteso diventando generico luogo comune, utilizzabile anche come strumento ideologico. A un’analisi attenta si rivela subito facilmente come il fenomeno debba essere differenziato sia riguardo al concetto di secolarizza1 Si veda ad esempio il volume di J. CASANOVA, Public Religion in the Modern World, The University of Chicago Press, Chicago 1994. 2 Così ad esempio G. KEPEL, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991; S. RODNEY, M. INTROVIGNE, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003.


zione sia riguardo alla religione. In particolare il ritorno è del tutto illusorio se viene inteso come riscoperta del Dio di Gesù Cristo. L’illusione si annida però non soltanto in un fraintendimento del cristianesimo, ma anche in un uso indifferenziato del concetto di secolarizzazione, che, riconducendola a uno solo dei suoi significati, ha facile gioco nel mostrare la sua sconfitta. Senza la pretesa di riprendere e nemmeno di sintetizzare l’amplissima discussione sulla secolarizzazione, che si è svolta nei decenni scorsi, mi importa qui distinguerne i significati fondamentali per interpretare più adeguatamente il fenomeno della rinascita religiosa. Il primo e fondamentale significato di secolarizzazione è quello che la intende come trasferimento dei contenuti religiosi in forme storico-mondane, trasferimento che ha riguardato tanto i beni materiali quanto quelli spirituali. Così è stata secolarizzazione il trasferimento di proprietà ecclesiastiche allo stato o alla società civile, come pure lo è stato il trasferimento di competenze, quali ad esempio la giurisdizione o l’insegnamento. E ancora lo è stato la laicizzazione di molti contenuti della fede religiosa. Si pensi ad esempio alla trasformazione della carità in filantropia, o all’idea dell’originaria bontà dell’uomo (prima del peccato originale) che viene secolarizzata nella forma del mito del buon selvaggio, o ancora alla dimensione escatologica del cristianesimo e quindi al primato del futuro, che si trasformano nell’idea del progresso o nell’attesa della rivoluzione. Una seconda forma di secolarizzazione – che si può anche intendere come sviluppo della prima ma va da essa distinta - consiste nel superamento della religione, nel completo abbandono dei suoi contenuti anche trasformati. Nella sua versione più radicale questa seconda forma è stata teorizzata, com’è noto, da Blumenberg, che l’ha così radicalizzata da rifiutare il termine stesso di secolarizzazione (che in effetti si adatta meglio alla prima forma) per riconoscere al moderno una sua autonoma fondazione, una sua “legittimità”, che lo rende indipendente dai contenuti religiosi3. Intermedia tra la prima e la seconda potrebbe essere considerata l’interpretazione della secolarizzazione di Vattimo, che tiene ferma la radice religiosa – e per questo aspetto accoglie la prima forma – ma, estremizzandone la comprensione chenotica, perviene ad una sorta di autonegazione del cristianesimo, che conduce ad esiti non dissimili da quelli della seconda forma, più radicale, di secolarizzazione4. Ora è proprio questa forma, che sembrava dominante e inevitabile fino a pochi decenni fa, ad apparire sconfitta. Ma ciò di cui molti non si avvedono è che questa sconfitta ha dato luogo a (o è stata provocata da) una terza forma di secolarizzazione, che non è più una secolarizzazione della religione ma una religione secolarizzata. Questa religione assume almeno due forme diverse che hanno una radice comune. La prima è quella identitaria, che comporta anche un ritorno alla tradizione e alla difesa dei simboli e delle pratiche religiose in funzione difensiva contro gli effetti della globalizzazione e che in alcuni casi diventa fondamentalismo. Si tratta in fondo di un aggiornamento della millenaria deriva secolaristica delle Chiese, che in vario modo si sono più volte imposte come potenze mondane. La seconda forma è quella della cura di sé, del benessere psico-fisico, dell’armonia con la natura, religiosità attenta alla spiritualità dell’Oriente e spesso risultato di contaminazione con essa, religiosità consolatoria che tenta di contrastare l’angoscia in cui si è smarrito l’uomo contemporaneo. E’ una religiosità che convive benissimo con l’indifferen3 Vedi H. BLUMENBERG, Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt 1974. 4 Si vedano in particolare G. VATTIMO, Dopo la cristianità, Garzanti, Milano 2002, e R. GIRARD, G. VATTIMO, Verità o fede debole?, Transeuropa, Pisa 2006


tismo e il relativismo largamente diffusi (anche se contrastati dai difensori della religione identitaria), perché è proprio la mancanza di certezze e la sfiducia nella verità ciò che spinge verso soluzioni individuali, verso religioni fai-da-te. Del resto anche la religione identitaria finisce per essere una versione o almeno un effetto del relativismo. Essa nasce infatti dal timore e dall’incapacità di misurarsi con l’universale, di mettere in discussione la propria identità minacciata, che viene invece riproposta semplicemente con un atto di autoaffermazione e di imposizione: noi siamo così, queste sono le nostre tradizioni, che non si discutono. Queste forme di religione sono molto lontane dal cristianesimo, anche quando si proclamano cristiane. L’uso mondano (personale, sociale e politico) che esse ne fanno è completamente dimentico della trascendenza del Dio cristiano come della prospettiva escatologica e conseguentemente del carattere secolarizzante che inerisce al cristianesimo stesso come desacralizzazione del mondo. C’è dunque anche un senso cristiano della secolarizzazione (il cui maggiore teorizzatore è stato Bonhoeffer) e perciò un motivo in più per rendere il quadro più complicato di quanto non appaia ai semplificatori che oppongono religione e secolarizzazione e vedono in una qualunque affermazione della prima una sconfitta della seconda.


Politica e corruzione di Mauro Visentin

I giornali di queste settimane (e in particolare La Repubblica) traboccano di servizi sull’inchiesta avviata dalla procura di Firenze contro la ramificata rete di interessi, appalti e corruzioni al centro della quale si trovano un gruppo di imprenditori e affaristi senza troppi scrupoli (che operano in settori diversi, dall’edilizia ai servizi) e la struttura, facente capo al governo, della Protezione Civile, o, più esattamente, i suoi vertici. L’inchiesta è in corso e le notizie che filtrano dalle procure interessate (oltre a Firenze, Roma) arricchiscono ogni giorno di nuovi particolari un quadro che appare molto grave anche perché riguarda interventi che hanno avuto e hanno per oggetto, fra le altre cose, tragedie nazionali come il terremoto che nell’aprile scorso ha devastato la città dell’Aquila. E’ chiaro che l’impatto emotivo di una simile inchiesta e l’indignazione che può suscitare l’idea che qualcuno abbia cinicamente lucrato sui drammi di intere popolazioni sono molto forti e non possono non essere “cavalcati” dalla stampa e dai partiti di opposizione. A questo affaire, concernente la Protezione Civile, si è aggiunto e sovrapposto, proprio nelle ultime ore, scalzandone la posizione dominante sulla stampa, un secondo scandalo, relativo a due compagnie telefoniche che attraverso un complicato giro di prestazioni fittizie a società estere evadevano l’IVA per


somme ingenti, servendosi di queste somme per accumulare “fondi neri” e dell’intero giro di affari così avviato per riciclare danaro della criminalità organizzata, con la disponibilità di un compiacente senatore della maggioranza, eletto – secondo modalità che avevano già destato i sospetti della magistratura e quasi certamente attraverso l’intervento interessato della mafia calabrese – dal voto degli italiani all’estero. Entrambe le faccende (comprese le reazioni che soprattutto la prima ha fin qui suscitato) sollecitano una riflessione a latere, che può riguardare anche aspetti più generali, in qualche modo legati al rapporto che in pressoché tutte le tipologie di regime politico a noi note (democrazie non escluse) ha sempre collegato e continua a collegare la corruzione alla politica. Tra le cose che si sono dette a commento di questi fatti della cronaca recente ce n’è stata una tanto prevedibile (per la naturale associazione che episodi come quelli che stanno emergendo non possono non evocare) quanto impropria. E’ stata, cioè, sottolineata un’affinità tra i fenomeni di corruzione che le inchieste di questi giorni stanno portando alla luce e la vicenda che quasi due decenni or sono sconvolse gli equilibri politici, seppellì due dei tre maggiori partiti che facevano parte del sistema che si era andato consolidando a partire dal secondo dopoguerra e quasi tutti i leader di allora. Intendo alludere, come è ovvio, alla grande inchiesta avviata dalla procura di Milano nel ’92, che per due o tre anni tenne in scacco le forze politiche e determinò il tracollo della cosiddetta “prima Repubblica”, ovvero “tangentopoli”, come fu allora, con una brillante trovata del lessico giornalistico, battezzata la rete di complicità e connivenze illecite che tale inchiesta mise progressivamente sotto gli occhi esterrefatti del Paese. La stupefazione e lo sgomento di cui furono preda, allora, molti elettori non nascevano dall’ingenuità o dal fatto che non si sapesse che fenomeni anche diffusi di corruzione erano, nell’Italia dell’epoca, all’ordine del giorno, ma dalla sensazione che quello che stava emergendo era ben altra cosa: era un sistema di concussione a maglie così strette che nessuna impresa che volesse partecipare alla spartizione della ricca torta dei lavori pubblici e dei servizi alla pubblica amministrazione poteva sottrarvsi. E’ ragionevole sostenere che il sistema dei partiti esercitava, in tal modo, nei confronti della società civile una sorta di estorsione sistematica, che aveva assunto sempre di più, nel corso, in particolare, degli anni ’80, la veste, potremmo dire (usando questa espressione in forma metaforica, ma neanche poi tanto), di un vero e proprio “racket”. Visto che allora il danaro estorto era destinato, in prevalenza, alle casse dei partiti e non all’uso privato di questo o quell’esponente politico, possiamo giudicare quella forma di corruzione sistemica (che era, però, come abbiamo già detto, essenzialmente un sistema concussivo), meno grave della presente, dal punto di vista morale, molto più grave dal punto di vista dell’etica che guida o dovrebbe guidare i comportamenti del ceto dirigente. Meno grave, in altre parole, dal punto di vista di una morale privata, molto più grave da quello del costume politico. E soprattutto, occorre anche riconoscere che mentre il fenomeno emerso con tangentopoli era l’espressione di una seria patologia del sistema parlamentare e dello spirito pubblico di allora, la corruzione e la corruttela che possono essere ascritte ai personaggi coinvolti nelle recenti indagini giudiziarie (e anche in quelle meno recenti, che nel corso degli anni trascorsi dalla storica inchiesta milanese non sono mai mancate) appare come un fatto fisiologico per una democrazia (come anche, più in generale, lo abbiamo già detto, per qualsiasi tipo di sistema politico). Che cosa significa un’asserzione di questo genere? E che cosa comporta? Significa, né più, né meno che questo: nessun sistema di regole e controlli può mettere del tutto al riparo una


nazione dal rischio che chi ricopre in essa ruoli politici che prevedano una qualche forma di influenza o di potere decisionale sui meccanismi di spesa approfitti di questa sua posizione per favorire il proprio interesse anziché l’interesse collettivo. In altre parole, non esiste un regime politico perfetto o che permetta, comunque, di consentire solo agli incorruttibili l’accesso alle cariche pubbliche. E, d’altra parte, tutti i tentativi che sono stati messi in atto nel corso della storia per realizzare qualcosa di simile si sono rivelati illusori e, il più delle volte, catastrofici. Tutto questo vuol dire che la corruzione personale (un certo tasso, “fisiologico” appunto di corruzione personale nei ranghi della politica e dell’amministrazione pubblica) debba essere tollerata? Che debba, anzi, addirittura, magari essere apprezzata o auspicata come espressione di un rapporto pragmatico e non ideologico (e proprio per questo meno pericoloso) degli uomini di governo con l’esercizio del loro potere? Naturalmente no: il fatto che la corruzione “fisiologica” debba realisticamente ritenersi inestirpabile dai comportamenti medi di una percentuale variabile ma non azzerabile di politici e amministratori pubblici non significa che questo fenomeno debba essere considerato con indulgenza. Significa solo che nel predisporre i meccanismi di controllo volti a contrastare il malcostume politico-amministrativo si deve mirare non alla rimozione completa del rischio, ma, piuttosto, al “contenimento del danno”. Infatti, il tentativo di annullare ogni rischio in proposito, oltre che destinato al fallimento, si traduce, inevitabilmente, in una ragnatela di leggi e dispositivi così “vischiosa” da paralizzare, in ultima analisi la macchina dello Stato e della pubblica amministrazione, oltre che, con esse, l’erogazione dei servizi resi e dovuti dall’uno e dall’altra ai cittadini Proprio la vicenda di tangentopoli è una prova evidente di questa considerazione. In quella circostanza l’apparato di norme e vincoli che veniva sistematicamente aggirato ed eluso era imponente: lo Stato impersonato dai governi e dal Parlamento della I Repubblica era uno Stato diffidente. Perciò non lasciava nulla al caso quando si trattava della concessione di appalti, licenze, commesse e via dicendo da parte dell’amministrazione pubblica ai privati. Ciò non ostante i fenomeni di corruzione e concussione erano diventati la norma, come appunto rivelò fin dall’inizio l’inchiesta del pool “manipulite”. Ma l’indignazione che investì e travolse i fragili equilibri partitici sui quali si reggeva il sistema politico di allora fu il prodotto non tanto delle rivelazioni emerse dalle indagini, quanto del confronto fra l’entità del danaro di origine erariale distolto dalle sue destinazioni naturali e l’inefficienza dei servizi offerti ai cittadini. In altri termini, a determinare la “rivolta delle coscienze” fu il divario inverosimile fra le appropriazioni indebite di danaro proveniente dalle tasche dei contribuenti e il niente che questi ricevevano in cambio dei loro contributi. Questo divario, il taglieggiamento sistematico della società civile ad opera dei partiti (di tutti i partiti, naturalmente ma anche di ciascuno di essi con responsabilità diverse) senza nessuna forma di compensazione per i cittadini in termini di produttività e di efficienza della macchina dello Stato; l’enorme crescita del debito pubblico senza alcuna corrispondente crescita dei trasferimenti a favore dei singoli e delle famiglie; le dimensioni impressionanti degli sprechi (che andavano, ovviamente, ad avvantaggiare particolari settori della società e specifici gruppi sociali di pressione, ovvero quelli dotati di maggior potere contrattuale, ciascuno dei quali, del resto, era pronto a considerare come inammissibile l’erogazione agli altri di quel medesimo denaro pubblico che, per parte sua, era prontissimo a ricevere senza sentire l’obbligo di fornire una contropartita qualsiasi): tutto questo era il segno di una situazione patologica.


Il carattere del meccanismo corruttivo che sta emergendo dalle inchieste in corso è profondamente diverso. Non solo perché qui si tratta di corruzione in senso stretto e non di concussione, ma anche perché oggi, oltre che personale e non sistemica, la corruzione si realizza nel quadro di una percezione diffusa, da parte dei cittadini e del corpo elettorale, di una grande capacità operativa dell’attuale governo. Questa percezione è, in larga misura, frutto di un’incomparabile sapienza comunicativa dell’esecutivo e soprattutto di chi lo guida, grazie alla quale la maggioranza politica ha riportato dei grandi successi di immagine. Dei successi virtuali, ai quali, tuttavia, fa, però, riscontro una realtà molto meno univoca, come le recenti e significative proteste degli abitanti dell’Aquila, preoccupati per l’abbandono del loro centro storico al suo destino, iniziano a far capire, dopo la sequenza interminabile dei molteplici fuochi pirotecnici post-terremoto ad uso e consumo dei teleutenti (sequenza che ha incluso, in un crescendo di trionfi, alcuni autentici capolavori di comunicazione mediatica: dall’amplificazione e presentazione in forma quasi miracolistica della rapidità ed efficienza dei soccorsi, all’esaltazione, in occasione del G8, di un’organizzazione ineccepibile; dalla presenza vigile e incombente del premier proposta in forma martellante, alla consegna delle prime, costosissime e orribili case agli sfollati, immortalata da servizi giornalistici di taglio agiografico – case, si badi, permanenti, non provvisorie, e destinate, quindi a rendere la città vecchia, con ogni probabilità, almeno nelle intenzioni del governo, una città fantasma). L’attuale campagna di stampa contro la Protezione civile è comprensibile e legittima. Il controllo sull’operato della pubblica amministrazione si esercita anche, e forse addirittura soprattutto, nelle moderne democrazie liberali, così. L’opposizione politica dovrebbe, tuttavia, prestare attenzione al rischio che una situazione come quella presente non l’induca a cadere in un tranello. Quello di credersi “diversa” (antropologicamente diversa) e di pensare di riproporre oggi il vecchio schema di una “diversità” che era stata la risorsa ideologica fondamentale (una specie di riserva aurea o di “rendita di opposizione”) del vecchio PCI nei confronti della Democrazia Cristiana, in primo luogo, e del Partito Socialista (in particolare di quello craxiano) in secondo luogo. Dal momento che in precedenti interventi comparsi su InSchibboleth ho ripetutamente sostenuto l’orientamento antropologicamente di destra della maggioranza dell’elettorato italiano, per evitare che quanto ho appena detto suoni come una sorta di “ritrattazione” di tesi espresse in un passato anche assai recente occorre che, al riguardo, io introduca alcune precisazioni. In generale, la tendenza a privilegiare gli interessi della propria cerchia ristretta di amicizie, parentele, solidarietà, a discapito dell’interesse pubblico può avere origine da svariati fattori. In Italia è certamente favorito dalla diffusa mancanza di senso di appartenenza identitaria alla comunità nazionale e al suo destino collettivo. Questa tendenza al localismo, al familismo, all’orizzonte limitato di idee, interessi, culture è un carattere antropologico di fondo che contraddistingue una parte cospicua della popolazione e che considero “di destra” (in senso pre-ideologico) per il fatto evidente che mira all’esclusione piuttosto che all’inclusione, che appare rivolto all’indietro, ancorato a forme di atavismo regionalistico e di ostilità preconcetta per ogni intervento dello Stato che sia percepito come invasivo e lesivo degli interessi territoriali (in pratica tutti quelli che non si configurano come trasferimenti, elargizioni o dazioni a fondo perduto). Una simile cultura (in senso antropologico) è trasversale per definizione (proprio perché è pre-ideologica e affonda le sue radici nell’assenza, da noi, di contrappesi storici all’egoismo localistico), anche se è più facilmente orientata


ad abbracciare un’ideologia di destra (e la sagacia comunicativa del partito inventato da Berlusconi si rende percepibile soprattutto nell’abilità con la quale ha saputo rapidamente allestirne una – magari un po’ raccogliticcia, ma plausibile – ed offrirgliela). Lo sforzo che un italiano medio, con la secolare storia di divisioni regionalistiche che ha alle spalle, deve fare per assimilare un’identità ideologica di sinistra, capace di anteporre l’interesse pubblico collettivo a quello settoriale, è infinitamente maggiore e richiede l’apporto determinante dell’educazione e della cultura. Tanto più che anche a sinistra, per molto tempo, durante la guerra fredda, al di là delle dichiarazioni di principio, si è guardato alla compagine istituzionale dello Stato con una certa diffidenza (si trattava, pur sempre, dello Stato di una classe antagonista rispetto a quella difesa dal PCI, una classe che in esso avrebbe comunque, in ogni caso, sempre visto o quantomeno cercato di realizzare il proprio “comitato d’affari”). Ne è prova l’impianto costituzionale “debole” al quale gli interessi convergenti dell’antistatualità cattolica e comunista hanno saputo e voluto dare vita con la “carta” del 1948. Ciò significa che, sebbene una “differenza antropologica” fra due diverse Italie (una maggioritaria e l’altra minoritaria) sia stata spesso evocata o proclamata come un dato di fatto (e non solo da sinistra), essa sussiste più sul piano culturale che su quello antropologico in senso stretto (quantunque la si possa senz’altro considerare un riflesso del diverso rapporto che questi due settori della società e del corpo elettorale intrattengono con la propria radice antropologica: di continuità in un caso, di rifiuto nell’altro). Proprio per questo, però, essa può essere più facilmente riscontrata se si paragonano due diversi individui piuttosto che due forze politiche: i partiti sono libere associazioni di cittadini, e non possono farsi garanti per ciascuno dei loro iscritti. Pensare che tra due formazioni o alleanze politiche possa sussistere un divario non solo ideologico-culturale ma addirittura antropologico significa, pertanto, forzare la contrapposizione oltre il limite del consentito e del ragionevole, coltivando l’insana illusione che un partito possa non solo avere idee, programmi, visioni del futuro di un Paese diverse e migliori di un altro, ma che possa essere esso stesso migliore dell’altro, nella sua composizione umana e nel suo elettorato di riferimento. E’ una trappola nella quale, di questi tempi e visti i comportamenti e le dichiarazioni degli esponenti più rappresentativi del centro-destra, è difficile non cadere. Ma è pur sempre una trappola. Che può lasciare scoperti (ideologicamente e culturalmente scoperti) coloro che si riconoscono nel linguaggio dell’opposizione di oggi, in tutti casi (e per una forza politica con la vocazione a governare e che governa numerose regioni italiane questa è una possibilità che va messa in conto) nei quali qualche loro rappresentante mostri una tendenza non dissimile da quella degli uomini della controparte a confondere l’interesse privato con l’interesse pubblico e viceversa. Il modo migliore per arginare questo tipo di corruzione (la corruzione che ho chiamato “fisiologica” e che può esprimersi a diversi livelli di gravità: quella italiana emersa negli ultimi tempi, pur rientrando nella tipologia che ho definito così – “fisiologica”, appunto – è indubbiamente molto grave) è quello di individuare un insieme di norme, abbastanza semplici ma inderogabili; esercitare un controllo severo sul loro rispetto e sul rispetto, in particolare, delle procedure da esse previste nella concessione di appalti ai privati; lasciare alla magistratura e alla stampa la libertà di indagare senza vincoli (ma con l’obbligo di rispondere delle accuse arbitrarie) sugli intrecci tra politica e affari. Evitare, soprattutto, che un’ipertrofia normativa frustri e mortifichi le iniziative di politici e amministratori volte a migliorare i servizi resi ai cittadini e a modernizzare la macchina dello Stato, consentendo gli


interventi d’emergenza nei tempi che essi richiedono senza ricorrere a sospensioni nell’applicazione delle regole e senza invocare stati di eccezionalità. La cosa che preoccupa di più nell’atteggiamento dell’attuale maggioranza in rapporto agli episodi emersi di corruzione, non è tanto che ad essere coinvolti siano quasi esclusivamente dei suoi esponenti (questo è abbastanza normale, visto che è più soggetto al rischio di cadere in tentazione chi, in virtù del potere di cui è investito e del ruolo che occupa, ha più occasioni di farlo): è la tenacia e anche l’arroganza con la quale essa difende i corrotti e perfino, in qualche modo, la corruzione, attaccando la magistratura e cercando di privarla di quello che, in rapporto a questa tipologia di reati, è sicuramente (perché si è, di fatto, dimostrato tale) lo strumento di indagine più efficace ed incisivo, ossia le intercettazioni telefoniche. La ragione della gravità del caso italiano sta in questo: che una corruzione di tipo fisiologico sembra trovare, nella maggioranza di governo complicità ideologiche che si sostanziano e si esemplificano in atteggiamenti e orientamenti stando ai quali la disponibilità di politici e amministratori a lasciarsi corrompere è il male minore, un peccato veniale (essendo, la corruzione stessa, un reato di modesta gravità), mentre la violazione della vita privata dei rappresentanti del popolo (a qualsiasi livello) e gli attacchi della magistratura al loro presunto diritto all’immunità (in quando investiti di un mandato popolare) rappresentano il male di gran lunga più grande. E’ in questa inversione dei principi e dei valori che regolano ogni forma di sistema liberale (che è, non bisogna mai dimenticarlo, un sistema fondato sulla certezza del diritto e sulla sovranità della legge, ossia sull’uguale sottomissione ad essa di tutti i cittadini, siano essi governanti o governati, amministratori o amministrati) e che, quando ne è garantita l’osservanza, rendono possibile l’obiettivo del buongoverno nell’unica forma in cui esso può essere realizzato in un sistema di questo tipo (ossia nel rispetto della libertà di ciascuno e nel rispetto, da parte di ciascuno, della libertà di tutti), è in questa inversione che emerge e si può valutare fino in fondo l’anomalia rappresentata, in Europa, dalla destra italiana. Peccato che il solo che nella maggioranza dia segno di esserne consapevole e, in una certa misura, di preoccuparsene, sia, almeno al momento, il Presidente della Camera. Almeno per adesso, ma anche, prevedibilmente, per l’intera durata del periodo in cui Berlusconi rimarrà ancora alla guida del centrodestra, se, come tutto lascia supporre, in questo lasso di tempo non interverranno mutamenti e il personale destinato ad incarichi pubblici e di governo continuerà ad essere scelto, da quest’area politica, con i criteri con i quali un tempo le famiglie patrizie sceglievano i domestici.


Quelli che abbattono gli alberi. Una riflessione a partire dalla visione di “Avatar” di Andrea Tagliapietra

È senza dubbio la più tremenda scena del colossal Avatar (2009), che si avvia ad essere, forse per lungo tempo, forse per una breve stagione – dipenderà dalle strategie dell’industria culturale -, il film e, quindi, il prodotto di finzione più visto e globalmente conosciuto dei nostri giorni. Si tratta dell’abbattimento del gigantesco albero-villaggio della tribù dei Na’vi, quando gli umani, colonizzatori e sfruttatori senza scrupoli del pianeta Pandora, scatenano contro la maestosa pianta, alta e vasta come una montagna, tutta la potenza delle loro armi distruttive. Razzi, cariche esplosive


e bombe incendiarie attaccano l’enorme vegetale in una progressione di proiettili, deflagrazioni e fiamme, mentre gli spettatori fanno proprio il crescendo di angoscia e di disperazione dei giganteschi nativi azzurri alla vista della distruzione repentina della loro verde dimora. È una scena che la fantascienza – per altro sempre meno utopica e sempre più simile al presente - proietta nel futuro, ma che ritroviamo nelle antiche parole all’origine della cultura occidentale, là dove la voce di Omero e poi quella di Virgilio raccontano lo sconcerto dei troiani davanti al fuoco e alla caduta della loro città. E infinite volte, negli assedi e nei saccheggi della storia, la scena si è ripetuta, mentre una certa sensibilità ha cominciato ad agire nella mente degli spettatori e dei lettori, sì che quelli che solo una generazione fa parteggiavano ancora per il generale Custer e per le gloriose giubbe blu, ora si immedesimano nei nativi americani e in tutti gli altri oppressi di cui si cerca di conservare memoria attraverso i documenti oppure proprio mediante i racconti di finzione. Ma, con condivisibile estensione del criterio di prossimità e di immedesimazione, anche gli animali, o almeno gli animali superiori, come i mammiferi e gli uccelli, vengono adottati dal sentimento collettivo, e la tigre non è più la belva da uccidere, nei meandri della giungla salgariana, ma colei per cui facciamo il tifo, visto che ne sono rimaste meno di 4 mila in libertà, mentre gli umani sono più di 6 miliardi. Tuttavia parteggiamo anche per il toro contro il torero, nelle sordide arene di Spagna, e da tempo i lupi non ci fanno più paura e, all’apertura della stagione della caccia, ci auguriamo che le doppiette, alla fine, si sparino tra loro (come, del resto, sempre più spesso avviene). Ma se l’espansione emotiva dell’immedesimazione morale e dei confini del nostro stesso senso di ingiustizia ha sviluppato, in buona parte dell’Occidente, una sensibilità collettiva in grado di assumere e far proprie le ragioni e il punto di vista delle vittime della storia e persino dei nostri fratelli animali, la pianta rimane ancora al limite dell’indifferenza. Per questo quando l’albero-villaggio di Pandora, alla fine, cade rovinosamente in una nuvola di foglie, di schegge e di cenere, come capita ai molti alberi terrestri che, ad ogni istante, vengono abbattuti, nell’incuria e nel cinismo con cui, a cominciare dal nostro paese di palazzinari corruttori, cementificatori selvaggi e immobiliaristi furbetti, noi trattiamo la vita delle piante, mi sono augurato che almeno parte del pubblico sterminato della pellicola avesse colto, al di là di un generico e spesso ininfluente ambientalismo hollywoodiano, il significato particolare che il film attribuisce alla natura vegetale della vita. È facile appassionarsi e prendere partito per la vita animale. Sebbene quel Cartesio che riteneva gli animali automi incapaci di provare piacere e dolore non sia poi così lontano da noi e, anzi, talvolta faccia ancora capolino negli asettici laboratori della vivisezione scientifica, l’uomo riconosce la propria comune animalità negli esseri viventi che saltano, corrono, si muovono, nuotano, strisciano, volano, ma soprattutto manifestano intenzioni e bisogni che assomigliano ai nostri, anche se tenuti a bada, si crede, dallo specchio dell’istinto e non dalla presunta funzione d’indirizzo della ragione chiara e distinta. All’animale è facile attribuire sentimenti ed emozioni, per cui possiamo dolerci della sua sofferenza. La pianta, invece, resta muta, silenziosa, segreta. Eppure, facendo nostro l’interrogativo che Gustav Theodor Fechner pronunciava in Nanna o L’anima delle piante (1848), è lecito domandarsi «perché non ci dovrebbero essere, oltre le anime che camminano, gridano, mangiano, anche anime che silenziosamente fioriscono e spandono odori?» Anzi, seguendo il filo del discorso di Fechner, si potrebbe persino ribaltare quell’abituale gerarchia linneiana dei regni naturali, per


cui il vegetale sarebbe secondo al regno animale, che a sua volta si vedrebbe subordinato soltanto rispetto a quel regnum hominis in cui splende la luce dell’intelletto e della ragione. Infatti, cosa c’è di più spirituale e raccolto del maestoso silenzio con cui l’ampia quercia o il saettante cipresso accolgono quegli esseri che incontrano la loro ombra? Quando lo splendore esterno della vita, quel frenetico agitarsi che muove l’intenzione sensoriale ma anche il progetto fabbrile della ragione, si placa, non c’è solamente il sonno o l’oblio. Anzi, con la conquista della maturità l’uomo, ma anche l’animale adulto, diventa più riflessivo, silenzioso, misurato. Al chiasso della gioventù subentra la tranquillità dell’età matura. Ciò che sfuma e svanisce dall’esteriorità vivente si dovrebbe ritrovare nell’acquisto di volume dell’interiorità, ossia nello sviluppo di quello che una volta si chiamava spirito. Allora, suggerisce coraggiosamente Fechner, «un simile mutamento possiamo riconoscere che avvenga anche nelle piante». È una diversa immagine dell’anima che la vita delle piante ci propone e che induce a rivedere alcune antiche e cristallizzate abitudini culturali. Perché il fare sarebbe meglio del non fare? Perché l’agire è da preferirsi allo stare? L’albero, la pianta ci mostrano una stilizzazione della vita orientata all’impiego dello stretto indispensabile. La vita vegetale procede silenziosa nei secoli e nei millenni: nodosi pini, abeti nordici e arcigni ulivi sono forse gli esseri più vecchi che vivano sulla terra e, di volta in volta, i giornali ne annunciano stupiti il primato, paragonando l’età di questi magnifici esseri viventi agli eventi della storia umana trascorsi, che all’improvviso ci appaiono così piccoli, relativi e insignificanti. Di recente, in Svezia, è stato individuato l’albero più carico d’anni, un abete rosso, vecchio di otto millenni, sopravvissuto, a differenza di altri senatori del regno vegetale, semplicemente perché arroccato su un dirupo e, quindi, sottratto alle orde dei deforestatori pronti a trasformarlo in pannelli per i mobili Ikea. Eppure si può ben immaginare che sotto le fronde di quest’enigmatico gigante verde si sia svolta tutta la storia dell’uomo. Così i suoi rami si sono agitati al vento del nord quando gli egizi ancora non avevano eretto le piramidi, né i sumeri inventato la scrittura. La sue pigne e i suoi aghi sono caduti assieme all’impero romano, alle mura di Bisanzio, alla testa ghigliottinata del sedicesimo Luigi di Francia. La vita dell’albero, senza l’intervento pernicioso della razza umana e della sua furia distruttiva, è un supremo esempio di equilibrio e di pazienza, di semplice e magnifica durata. È difficile che qualcosa induca maggiormente alla riflessione sull’enigma del tempo della vista di un grande albero, come una quercia o un noce frondoso. Quando vedo un grande albero, anche un pino o un pioppo di trenta o quarant’anni, mi è ormai inevitabile formulare il pensiero che se fosse tagliato e poi ne venisse piantato un altro di identico, la durata della mia vita non mi consentirebbe di rivederne la chioma svettare così alta e ampia nel cielo. Nella statale 10 che da Alessandria conduce a Marengo sorge il platano detto di Napoleone, alto più di 35 metri e largo 30, che la tradizione vuole piantato dall’imperatore in memoria della sanguinosa battaglia, ma che forse è molto più antico e va annoverato assieme ai numerosi alberi alla cui ombra i grandi della storia hanno riposato e poi sono passati, mentre essi, silenziosi compagni di un meriggio assolato, continuano a restare. Viene in mente il platano altissimo di cui parla Platone nel Fedro (229a-b), alla cui ombra Socrate invita a sedersi o persino a stare distesi, per godersi la frescura e discutere di filosofia.


Una delle pagine più eloquenti della grande letteratura, che viene in soccorso a ciò che cerco di dire in queste righe, la troviamo ne I dolori del giovane Werther (1774), là dove il protagonista del celeberrimo romanzo di Goethe racconta l’abbattimento di un piccolo boschetto di noci sotto cui era solito andare a conversare con Carlotta. L’episodio fa quasi da cesura fra la prima parte dell’opera, giocata sul registro estetico della serenità classica e del bello, rispetto alla seconda, in cui emerge prepotentemente l’elemento dell’inquietudine romantica e dell’estetica del sublime: «Quei magnifici noci! Che, Dio lo sa, mi colmavano sempre di grandissimo piacere l’anima. Quale intimità davano al presbiterio! Quale frescura! E com’erano stupendi i rami!». Ma a Werther giunge la tremenda notizia che sono stati abbattuti: «Abbattuti! Verrebbe da impazzire, da ammazzare quel cane che ha dato il primo colpo». Gli alberi, infatti, sono stati tagliati per volontà della moglie del pastore del villaggio, di cui Goethe, per bocca di Werther, ci fa il seguente ritratto: «è stata lei, la moglie del nuovo pastore (il nostro buon vecchio era morto anche lui): un essere squallido, malaticcio, che ha mille ragioni di non interessarsi a niente, perché nessuno s’interessa a lei. Una stravagante che vuol passare per dotta, s’impiccia della questione dei testi canonici, anzi addirittura lavora con assiduità alla riforma critico-morale del Cristianesimo […] Ci voleva proprio un essere di questo genere per far segare i miei noci. Tu vedi che non me ne so dar pace. Figurati che le foglie morte le facevano sudicio e umidità nel cortile, che gli alberi le toglievano luce, e che, quando le noci erano mature, i ragazzi le pigliavano a sassate. Ciò le dava sui nervi, la disturbava nelle sue profonde meditazioni». Ma Werther vuole sapere anche perché nessuno si è opposto: «vedendo che i borghigiani, specie i vecchi, erano così malcontenti, provai a dire: “Perché l’avete tollerato?” “Quando vuole il borgomastro, qui in provincia”, mi risposero, “che si può fare?”». Infatti, il borgomastro con il pastore, che voleva trarre profitto dai capricci della moglie, contavano di spartirsi la legna. La scena del Werther è, per certi versi, emblematica. Anche la sottolineatura del fervore cristiano appare sintomatica, dal momento che, spesso, è l’eredità culturale del cristianesimo, fatta salva, forse, solo la sua serena versione francescana, ad alimentare l’arroganza e la prepotenza umana nei confronti della natura. L’insensibilità della moglie del pastore verso i maestosi noci si accompagna ai futili motivi per cui essi vengono tagliati. Quante volte, nei condomini cittadini, si abbattono alberi per ragioni del tutto simili? Le foglie, le infiorescenze o i semi danno fastidio quando cadono e intasano gli scarichi delle acque reflue, le radici sollevano le pavimentazioni dei marciapiedi, le chiome, sotto cui, d’estate, ci si rifugia all’ombra irriconoscenti, ci tolgono il sole o la vista. Poi, si sa, esistono le ragioni dell’idolo del nostro tempo, come lo chiamava Schiller, ovvero quelle dell’utile: il legname, la carta, soprattutto lo spazio. Anche se da noi si abbattono gli alberi per la legna da ardere ormai solo nelle località montane, dove sopravvivono ridicoli diritti consuetudinari e cataste di legna circondano case riscaldate a gas o cherosene, si tagliano gli alberi per un parcheggio, per far meglio la manovra per entrare nel garage, perché altrimenti il camion urta contro i rami, perché i bambini o gli anziani inciampano nelle radici, perché ospitano troppi uccelli che sporcano e fanno chiasso all’alba, perché la resina ci rovina la carrozzeria della macchina. Le amministrazioni comunali, che si dicono vicine al territorio e alla sua custodia, sono le prime ad autorizzare abbattimenti del verde pubblico per ragioni assurde. Ecco un viale alberato di ippocastani, dal profilo quasi signorile dalla primavera all’autunno, diventare, dall’oggi al domani,


una striscia d’asfalto con, ai lati, anonimi casermoni costruiti senza alcuna considerazione estetica. Ecco un lungomare di pini marittimi piegati dal vento in forme sublimi, l’una diversa dall’altra, sparire per lasciar posto ai posteggi e ai parchimetri, che tesaurizzano le soste dei gitanti della domenica e della bella stagione. Le cosiddette stragi del sabato sera, con frotte di ubriachi e impasticcati che corrono a folle velocità, hanno indotto molti cittadini e politici ad accusare i platani piuttosto che la stupidità di coloro che vi si schiantano contro. Anche l’ecologismo presunto, quello di mercato, consente di abbattere gli alberi, come accade in quelle amministrazioni verdi che tagliano forse più delle altre, con la scusa delle piste ciclabili o della messa a dimora di piante più adatte – quasi sembre costose essenze “alla moda” che avvizziscono o crescono stentatamente, mentre dei rustici pini che c’erano svanisce il ricordo. Ma il vivaista di fiducia del comune ci ha pur fatto il suo guadagno! Per non parlare degli abbattimenti del verde privato, quando i comuni, in forza di vecchi piani regolatori stilati con il concorso degli stessi palazzinari di allora, autorizzano demolizioni di case singole e villette per costruire i condomini di oggi. Ecco, neanche a dirlo, che le prime vittime dell’aumento delle volumetrie sono gli alberi che rendevano un quartiere residenziale e grazioso (anche per il costruttore che intraprende la speculazione) e che spariscono sotto alle ruspe per far spazio a garage e ad appartamenti, con stanze anguste che sembrano abitabili solo se vuote (e per la qual ragione rimangono disabitate a lungo). E così la cittadina nel verde o il paesino in cui ci si era rifugiati per sottrarsi allo smog della città diventano, nel giro di pochi anni, una periferia urbana semideserta e senza servizi. Un’ampia parentesi si potrebbe aprire, poi, per quegli interventi che precedono l’abbattimento e che vengono scambiati per cura del verde pubblico. Da tempo le amministrazioni appaltano la tutela del verde pubblico a società esterne e nulla è più facile che improvvisarsi giardiniere. Non ci vuole certo la laurea, infatti, per tagliare a casaccio i rami di un albero o per dire, con finta competenza, che quell’albero è malato, soprattutto se un abbattimento ci viene pagato più di una potatura. D’altra parte, anche le maldestre potature, che indeboliscono gli alberi e li espongono a malattie, gettano i presupposti per gli abbattimenti di domani e sono, quindi, un altro lucroso affare. Mi sono spesso chiesto come sia possibile che le stesse amministrazioni che ci obbligano a circolare a targhe alterne o fermano il traffico la domenica consentano poi il continuo saccheggio del verde e la desertificazione del nostro panorama urbano, nonché la rapida cannibalizzazione della campagna, costellata da capannoni sempre più spesso vuoti e da nuove lottizzazioni residenziali bloccate al grezzo dalla crisi. Lo stesso soggetto, pubblico o privato, che viene giustamente responsabilizzato sull’uso dell’auto o del riscaldamento a causa delle emissioni inquinanti viene poi trattato con indulgenza se abbatte quel verde che riduce l’inquinamento e lo assorbe. È come se punissimo chi versa il latte fuori dai bicchieri e non anche chi i bicchieri li rompe, facendo uscire il latte versato. Sempre più spesso, quando avviene il maltrattamento di un animale, chi assiste interviene e si mobilita. Anche in Cina o in Giappone, dove, come si suol dire, si mangia tutto ciò che si muove, l’occidentalizzazione ha sviluppato, soprattutto nelle città, una nuova sensibilità nei confronti degli animali domestici, così che, a quanto pare, persino la Repubblica Popolare Cinese si accinge a promulgare una legge che proibisce la macellazione dei cani e dei gatti, nonché il consumo delle loro carni. Il sentire collettivo contemporaneo, che pur tollera, perché, come sostiene Peter Singer,


non ne è a diretta conoscenza e quindi le rimuove, le terribili crudeltà dell’allevamento industriale di polli, mucche e maiali, non sopporta più che si facciano soffrire per futili motivi gli esseri senzienti. Quando ciò accade, come purtroppo avviene, in Italia, soprattutto al sud, questo viene ritenuto un indice del degrado sociale e culturale di quelle zone, un sintomo del tasso di inciviltà raggiunto. Del resto, non è necessario rinviare alla saggistica colta, come quella di Robert Darnton sul grande massacro dei gatti che precedette la rivoluzione francese, per sapere che fra le violenze sugli animali e le violenze sugli umani (soprattutto sugli umani appartenenti ai gruppi vittimari per eccellenza, come bambini, donne, ma anche folli, diversi, stranieri, ecc., ossia coloro che, dapprima solo negli usi linguistici, vengono accostati o paragonati agli animali) c’è un’assoluta continuità. Purtroppo non possiamo dire lo stesso per quanto concerne la violenza verso gli esseri vegetali che, anzi, quasi sempre non viene avvertita come tale. Infatti, uno dei criteri sensibili con cui noi interpretiamo un atto violento nei confronti di qualche cosa è la reazione del dolore. Come scriveva Wittgenstein, « prova un po’ a mettere in dubbio - in un caso reale - l’angoscia, il dolore di un’altra persona!»(Ricerche filosofiche I, § 303). Il dolore dei bambini, che non hanno ancora imparato a simulare, e quello degli animali, che secondo il pregiudizio specista wittgensteiniano non sanno mai simulare, è spinale, diretto, implicitamente sincero. Ma anche di un essere umano adulto è difficile mettere in dubbio il dolore se a questo si accompagnano quei segnali inequivocabili della sofferenza che la nostra empatia non può ignorare. Invece, quando si abbatte un albero o si sradica una pianta sembra non esserci alcuna reazione. Quindi, concludiamo che non ci sia violenza, dal momento che non ci giunge alcun segnale riconoscibile da parte dei nostri filtri culturali e sensibili. Se pure ce ne addoloriamo, come accade comunque a molte persone e come sto testimoniando con queste righe, ciò avviene per l’idea proiettiva di una sofferenza che ci limitiamo a immaginare, oppure perché ci dispiace delle conseguenze estetiche o anche ambientali e paesistiche che l’abbattimento di un albero provoca. È, per fare un esempio, un sentimento simile a quello che si è provato quando i talebani afghani hanno distrutto i famosi Buddha di Bamiyan. Ciò che ci affliggeva era infatti un dispiacere per l’immagine e la storia che si proiettavano sulla pietra, per la loro unicità e irripetibilità, non certo per la pietra ritenuta inerte che si sgretolava sotto le cariche esplosive. Eppure, quando un albero viene abbattuto è un essere vivente che viene soppresso. La silente vita vegetativa, che è quella vita in quanto tale, quella nuda vita che accomuna animali e vegetali, sembra non darci molta cura. Anzi, il dibattito bioetico sui malati terminali sembra condividere a maggioranza l’idea che là dove il paziente si limita a vegetare, come Eluana Englaro, sia lecito “staccare la spina”, ovvero “togliere le radici” con cui quella vita vegetale si nutre, perché la morte di quella vita può essere trattata con indifferenza, perché quella vita vegetativa è, in qualche modo, già morte. È implicita, nel giudizio collettivo che si cristallizza nei codici e nelle leggi, una concezione gerarchica della vita, già presente sin dal De anima di Aristotele, che dispone per gradi prima la vita sedicente razionale, poi quella animale, e infine quella vegetale. La gerarchia scandisce progressivamente i gradi di tutela di cui possono farsi carico lo Stato e la comunità. Chi non parla né si muove, come il vegetale, sta in fondo alla gerarchia e solo l’utilità relativa a noi lo distingue dal regno minerale. Ma questo nostro atteggiamento dipende, come sempre, dalla griglia preventiva e pregiudiziale – i filosofi direbbero ermeneutica - con cui noi interpretiamo un certo tipo di silenzio.


La scienza, oggi, ci dice, con discrezione, che anche le piante emettono segnali, onde, recepiscono cura, provano qualcosa di simile al dolore. In un inquietante romanzo di fantascienza della metà del secolo scorso – Cristalli sognanti (1950) -, Theodore Sturgeon immaginava singolari minerali che, dalle profondità della terra, dove vivevano dalla notte immemoriale dei tempi, producevano «sogni fatti di carne e linfa, di legno, di ossa e di sangue». Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, diceva Shakespeare, e Sturgeon lega questa eterea ontologia, che il mio maestro Emanuele Severino definirebbe nichilistica e che pur anima tutto ciò che si muove o vegeta, affannandosi senza tregua sulla superficie del pianeta, alla paziente profondità e costanza di immobili pietre. Una rete di relazioni che preesiste ad ogni fare e disfare intenzionato è anche l’ontologia pandoriana dei Na’vi, che non è poi così diversa dalle ontologie che appartenevano alle grandi madri mediterranee, custodi della magnifica tessitura del cosmo, come la Dea che parla nel poema parmenideo e che ritornerà, con la formula dell’en kaì pân, in tutte le filosofie sconfitte dal soggettivismo moderno e dal personalismo cristiano, ossia in Bruno come in Spinoza e oltre. Una rete che nel film di Cameron si rendeva visibile con candide radici che avvolgevano i corpi e pendevano, come esili filamenti nervosi, dall’albero delle anime, manifestando l’intreccio della simpatia universale e consentendo di comunicare con Eywa, la divinità del tutto. Il fatto che nel film questa dovesse essere resa visibile in modo così ingenuo ci dà una misura di quanto sia lontana, per noi e quindi per il pianeta, una possibile salvezza.


L’ultima Enciclica e l’economia di Silvano Andriani

Nell’Enciclica vi sono alcuni punti di riferimento che penso siano molto importanti per un credente, per me che non lo sono resta la condivisione dell’idea che anche la lettura di quanto accade nel nostro tempo debba avvenire a partire da un sistema di valori che culminano nella convinzione che obiettivo principale della crescita economica sia lo sviluppo umano integrale delle persone. Perciò devo notare una notevole convergenza di quanto io penso con le tesi dell’Enciclica. V ciclica. Vorrei limitarmi a qualche osservazione su temi che considero particolarmente significativi. Non sono convinto che il difetto principale della visione che ha guidato lo sviluppo economico negli ultimi trenta anni sia un’eccessiva fiducia nella tecnica. Certamente esiste il problema dell’uso della tecnica e della scienza, ma ciò che ha caratterizzato il «pensiero unico» dominante negli ultimi trenta anni è, a mio avviso, un’eccessiva fiducia nel mercato non nella tecnica. Si tratta di un pensiero non nuovo che affonda le sue radici nell’Ottocento, si chiamava «utilitarismo», è partito da Bentham


ed è arrivato alla signora Thatcher Thatcher, che, come è noto, più volte ha affermato di ritenere che la società non esista e che esistano soltanto gli individui. Del resto la teoria economica «neoclassica» è stata dominante in buona parte del Novecento. Per essa il mercato perfetto è costituito solo da individui uguali, cioè dotati delle stesse informazioni e dello stesso potere d’acquisto, che agiscono razionalmente con motivazioni esclusivamente economiche. È chiaro che un mercato siffatto sarebbe un perfetto allocatore delle risorse, sempre migliore dello Stato, in grado di recuperare l’equilibrio in qualsiasi situazione e di autoregolarsi. Attraverso i suoi meccanismi, il perseguimento da parte degli individui del proprio tornaconto si tradurrebbe automaticamente nel bene comune. Tale visione non è un’approssimazione alla realtà, ne è invece un travisamento, ed è evidentemente ideologica: come l’Enciclica ci ricorda, i mercati sono entità storicamente determinate, che risentono della struttura sociale, della cultura e delle leggi esistenti; la loro conformazione e il loro funzionamento sono influenzati dalla distribuzione del reddito e dal modo concreto nel quale l’economia è strutturata dal sistema delle imprese. E le motivazioni all’agire delle persone non sono solo economiche e non sono sempre razionali. Quell’approccio è stato già clamorosamente e tragicamente smentito nel Novecento, la cui storia è segnata da grandi crisi finanziarie ed economiche e da guerre influenzate anche dall’andamento dell’economia. Esso fu gradualmente superato mentre si affermava un nuovo pensiero, quello che fu alla base della creazione dello «Stato sociale»; ma l’approccio liberista è disgraziatamente tornato in auge negli ultimi trenta anni a dimostrazione del fatto che non sempre siamo disposti ad apprendere le lezioni della storia. Il risultato di questo ritorno è stato un generale aumento delle disuguaglianze e il conseguente aumento della le concentrazione della ricchezza, il che, tra l’altro, ci allontana ancora di più dall’idea di un mercato perfetto dove tutti dovrebbero essere uguali. Poiché, tuttavia, nei Paesi ricchi l’aumento delle disuguaglianze impatta su società fortemente segnate da ideologie consumiste, il risultato è stato che la maggioranza della popolazione è stata indotta a indebitarsi fortemente. Questo è avvenuto particolarmente in un gruppo di Paesi ricchi a modello anglosassone che sono vissuti per molti anni al di sopra dei propri mezzi indebitandosi pesantemente sull’estero da ultimo, ed è la prima volta che accade nella storia economica, indebitandosi verso Paesi relativamente poveri, Cina in testa. Paesi poveri che prestano denaro a quelli veri, ricchi: questa realtà evidenzia un meccanismo distributivo immorale e, alla lunga, insostenibile e questo enorme processo di indebitamento è stato la condizione oggettiva che ha favorito gli eccessi della finanza che hanno innescato la crisi economica in atto. Ci si potrebbe porre tre domande: • perché gran parte delle famiglie nei Paesi ricchi, e soprattutto nei Paesi anglosassoni, si è così fortemente indebitata? tutto • perché un Paese relativamente povero come la Cina ha un tasso di risparmio mostruoso giacché risparmia oltre il 50% del prodotto lordo secondo i dati ufficiali? • perché esso destina una parte consistente dei propri risparmi non al miglioramento del benessere dei propri cittadini, ma al finanziamento della insensata crescita consumi di Paesi ricchi? Non è qui il caso di analizzare i meccanismi che portano a questi risultati paradossali, ma essi tutti hanno origine da una iniqua distribuzione del


reddito e della ricchezza. Sicché i fatti dimostrano ancora una volta che una cattiva distribuzione ti pone non solo problemi etici, ma anche problemi di funzionalità dei sistemi economici giacché la crescita delle disuguaglianze pone ostacoli a una sana crescita della domanda e la concentrazione del reddito e della ricchezza in una ristretta fascia della popolazione impedisce a una crescente parte della popolazione di realizzare le proprie capacità e, di conseguenza, rende più inefficienti le società e i mercati. La teoria economica «neoclassica», poiché parte dall’assunto di un mercato composto solo da individui, ha sempre avuto difficoltà a spiegare l’esistenza delle imprese, che sono forme organizzative della società. Nella sua nuova, recente versione ha tentato di superare tale ostacolo negando che l’impresa sia una forma di organizzazione della società e sostenendo che essa sia un semplice nesso di contratti individuali, che possono essere sciolti in qualsiasi momento e che tutti, però, fanno capo a un soggetto coordinatore: il capitale finanziario. Spetterebbe dunque a quest’ultimo il governo dell’impresa il cui unico scopo sarebbe allora quello di «produrre valore per gli azionisti», cioè profitti, secondo la formula che si può ancora leggere nel codice di autodisciplina delle imprese italiane. Per dirla con la frase icastica del premio Nobel Milton Friedman, leader della scuola di Chicago, mio «The business of business is business ». Secondo questo modo di vedere qualsiasi idea di responsabilità sociale dell’impresa è da considerare eversiva, giacché l’impresa esaurirebbe la sua funzione sociale generando profitti. Questa visione dell’impresa, detta « shar shareholder value eholder », è diventata dominante negli ultimi due decenni e ha determinato il modo in cui le imprese sono state governate. I grandi scandali societari scoppiati all’inizio del decennio in corso e la crisi finanziaria hanno messo in evidenza generalizzati comportamenti sostanzialmente immorali, quando non criminali, da parte delle imprese, che sono causa non ultima della crisi che stiamo attraversando. Ora quella teoria, « shar shareholder value eholder », è stata rinnegata da tutti, ma nei fatti continua a operare. Non che manchino imprese che hanno scelto un approccio a responsabilità sociale, anzi esiste un’organizzazione mondiale di tali imprese, ma la gran maggioranza di esse è condotta dal capitale finanziario nel proprio interesse. L’enciclica nel paragrafo 36 affronta esplicitamente il tema del rapporto fra etica ed economia e si pone l’interrogativo se si debba considerare lo Stato il luogo della redistribuzione e dell’eticità mentre l’economia sarebbe il luogo dell’egoismo e del tornaconto personale. La risposta è chiara: … va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l’agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da gire quello politico, a cui spetterebbe perseguire la giustizia mediante la redistribuzione … la dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità anche all’interno dell’attività economica e non solo fuori di essa… . … anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. L’enciclica sembra escludere anche che l’eticità dei comportamenti nell’economia possa affermarsi semplicemente attraverso il volontariato, con la costituzione di un «terzo settore», per quanto esso sia molto valorizzato. Que-


sto, infatti, resignificherebbe dividere la società e l’economia compartimenti stagni in uno dei quali, quello nel quale i rapporti di scambio non sono finalizzati al profitto o addirittura i rapporti economici non sono rapporti di scambio, varrebbero rapporti umani di solidarietà, mentre nell’altro, che poi sarebbe comunque di gran lunga il più grande, varrebbe la legge del proprio tornaconto. Perciò suscita qualche dubbio l’affermazione, contenuta nello stesso paragrafo 36 che Io ritengo che il problema sia capire come indurre a comportamenti etici in un sistema economico nel quale i rapporti di scambio sono orientati anche al profitto. E questo non può essere solo il risultato di comportamenti individuali. La stessa Enciclica aveva in precedenza affermato che voler volere il e bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità carità. Considerando i rapporti di scambio, bisognerebbe innanzitutto chiedersi come si realizza in essi la giustizia. Per esempio: quale è la giusta distribuzione fra capitale e lavoro? A questa domanda il riformismo di orientamento socialdemocratico aveva dato una risposta chiara: la politica dei redditi. Il maggior prodotto derivante dal miglioramen- miglioramento dell’attività produttiva doveva essere ripartito fra capitale e lavoro attraverso un collegamento sistematico delle le retribuzioni alla dinamica della produttività del lavoro. Dopo l’affermarsi del pensiero e delle politiche liberiste si è tornati a considerare il lavoro come una merce – il che, secondo l’Enciclica, è immorale – il cui prezzo è determinato dal apporto fra domanda e offerta, mentre, a causa dei processi di porto liberalizzazione, l’offerta di lavoro gradualmente raddoppiava per l’ingresso nel mercato mondiale di centinaia di milioni di nuovi lavoratori. Il risultato è stato, nei Paesi avanzati, la stagnazione delle retribuzioni, l’aumento delle disuguaglianze e della concentrazione della ricchezza con le conseguenze in precedenza richiamate. Credo che l’incorporazione di comportamenti etici nell’economia non possa prescindere dall’affermarsi di una diversa visione dell’impresa, una visione per la quale l’impresa sia considerata come una struttura sociale il cui scopo non sia semplicemente di valorizzare il capitale finanziario, ma quello di valorizzare tutti gli asset in essa presenti, naturalmente, il lavoro e debba con le sue strategie di sviluppo trovare un equilibrio fra gli interessi di tutti soggetti che a essa fanno riferimento: capitale finanziario, lavoratori, consumatori, fornitori, creditori, comunità locali nel cui territorio le aziende insistono. Sono d’accordo con l’Enciclica che sia di fondamentale mportanza valorizzare il lavoro, giacché la collocazione delle persone nella divisione sociale del lavoro è un tratto determinante della loro identità. Ed è anche il terreno sul quale soprattutto le persone possono realizzare le proprie capacità, ineludibile di uno sviluppo umano integrale. La rivoluzione tecnologica basata sull’informatica crea le condizioni oggettive per un processo di liberazione del lavoro, ma il fatto che, come mostrano recenti ricerche, nel Paese tecnologicamente più avanzato, gli Usa, neanche le figure più tipiche dell’economia della conoscenza hanno beneficiato, con apprezzabili aumenti di reddito, del rilevante aumento della produttività verificatosi negli anni precedenti la crisi, mostra che le potenzialità contenute nell’economia della conoscenza sono compresse dalla scelta di modi di produrre orientati al breve termine in quanto orientate esclusivamente a produrre profitti. La sinistra storica ha ritenuto che la liberazione del lavoro potesse avvenire istantaneamente attraverso una misura giuridica: la socializzazione dei mezzi di produzione. Il risultato inevitabile è stato la concentrazione del potere nelle mani di una burocrazia. Ciò che andrebbe socializzata invece


è la conoscenza. Si tratterà di un processo di lunga durata, ma per il quale la rivoluzione informatica sta creando i presupposti. Importante è adottare modi di produrre che favoriscano la crescita della capacità di iniziativa dei lavoratori, la loro creatività e responsabilità. Andrebbero così socializzate anche le funzioni imprenditoriali non solo nel senso di favorire forme di organizzazione della società e dell’economia – a partire e dall’organizzazione della finanza – che allarghino di molto la base sociale per la formazione di nuovi imprenditori, ma anche di favorire l’adozione nelle imprese di forme di organizzazione della produzione che aumentino gli spazi di autonomia e incentivino l’iniziativa delle persone. Assisteremo anche in futuro, come sostiene l’Enciclica, alla coesistenza di diversi tipi di impresa e di diverse forme di governance, ma è importante che, nella concretezza delle diverse situazioni, le forme di governance adottate riflettano un equilibrio dei diversi interessi e inducano, nella misura possibile, all’adozione di modi di produrre che favoriscano la crescita culturale dei lavoratori. Allo stesso scopo deve essere organizzato il mercato del lavoro, i processi formativi e riformativi e il controllo dei processi di mobilità. Il coinvolgimento dei lavoratori nella governance dell’impresa e nella distribuzione dei benefici derivanti dalle sue performance può assumere forme diverse a seconda dei diversi tipi di attività e dell’importanza che in esse ha il fattore conoscenza; nelle situazioni più avanzate si può pensare concretamente ormai di dare vita a imprese di capitale e lavoro del tipo di quelle preconizzate da James Meade in Agathopia Agathopia. Anch’io credo che definire il rapporto fra Stati nazionali e organizzazioni multilaterali sia, in questa fase della globalizzazione, di particolare importanza. Credo, tuttavia, che debba partire dalla convinzione che tale rapporto non è un gioco a somma zero. Assisteremo, anzi stiamo già assistendo, a un formidabile rafforzamento del ruolo degli Stati nazionali e questo è, in una certa misura, inevitabile, giacché di fronte ai colpi della crisi ci si rivolge, in prima battuta, allo Stato nazionale per essere protetti e, più in prospettiva, in quanto il processo di ricollocazione di ciascun Paese in un contesto mondiale in rapido mutamento dovrà tenere conto delle specificità di ciascun Paese. Il rafforzamento simultaneo degli Stati nazionali e delle istituzioni internazionali è, tuttavia, possibile in un contesto nel quale, come auspica l’Enciclica, cresca complessivamente il ruolo della politica nel governo del processo di globalizzazione. Oggi il problema principale è, a mio avviso, quello di accompagnare il nuovo interventismo statale con nuovi interventi delle istituzioni multilaterali. In mancanza di ciò mi pare forte il rischio che la nuova forza degli Stati nazionali possa debordare in un ritorno del nazionalismo e del protezionismo, come accadde durante la crisi degli anni Trenta che fece fare al processo di globalizzazione un salto all’indietro di circa un secolo e preparò il terreno per la Seconda guerra mondiale. Purtroppo in questa direzione non si intravede molto all’orizzonte. Il rafforzamento del ruolo del G20 è un fatto positivo, ma la sua effettività si capirà solo nei prossimi mesi. Particolarmente deludente mi sembra il comportamentodell’Unione europea che non è stata in grado di mettere in campo un piano comune per il risanamento dei sistemi finanziari e per il rilancio dell’economia europea, ma nemmeno di fissare regole comuni per gli interventi di salvataggio che tutti portano finora una spiccata impronta nazionalista in quanto rivolti, in barba a tutte le regole precedenti, lista a rafforzare la competitività del Paese interessato nei confronti degli altri.


fronti Anche il rapporto fra Stato e mercato non è un gioco a somma zero. Negli anni Ottanta, quando lo slogan dominante ma era «meno Stato», alcuni di noi lanciarono uno slogan alternativo, apparentemente paradossale, «più Stato e più mercato». I fatti hanno largamente convalidato tale approccio. I Paesi scandinavi sono certamente quelli che hanno sempre conservato la maggiore presenza dello Stato, la più alta pressione fiscale, il più alto livello di spesa pubblica e di spesa sociale. E sono quelli, che, negli ultimi trenta anni, hanno realizzato non solo la più alta crescita economica e i più alti livelli di occupazione, ma, secondo recenti ricerche, sono i Paesi che hanno la più alta mobilità sociale. Ora, tutte le teorie economiche riconoscono al mercato innanzitutto il merito di liberare le potenzialità degli individui, perciò la mobilità sociale mi sembra il migliore indicatore del buon funzionamento dei mercati. Che più Stato e più mercato stiano bene insieme è intuitivo in quanto solo un’adeguata offerta di beni pubblici e un’equa distribuzione del reddito posso- possono consentire alla generalità delle persone di realizzare le proprie capacità. Il mercato è un’istituzione insostituibile proprio in quanto è il sistema decisionale più decentrato, quello che più di ogni altro dà alle persone la possibilità di esprimere la propria creatività, la propria capacità di iniziativa, la propria propensione al rischio. E perciò è il meccanismo più adatto a produrre innovazione. Dove è stato abolito, soprattutto le capacità di innovazione sono risultate drasticamente menomate. Ma i mercati non sono razionali. Lasciati a se stessi risultanosistematicamente irrazionali e quindi instabili, come dimostra la successione di bolle speculative e crisi finanziarie e immobiliari degli ultimi trenta anni. Inoltre tendono ad aumentare le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza e quindi ad aumentare la propria imperfezione. Ci sono tre cose, a mio parere, che i mercati non sono in grado di fare. In primo luogo non sono in grado di autoregolarsi, come la storia ormai largamente ci insegna. In secondo luogo non sono in grado di generare un modello distributivo che sia nello stesso tempo equo e funzionale rispetto all’obiettivo di una crescita stabile e non trainata dal crescente indebitamento pubblico e privato. Infine, non sono in grado di definire il complesso dei valori che devono guidare lo sviluppo a livello nazionale e mondiale e quindi di definire la qualità dello sviluppo e di realizzare anche una responsabile distribuzione delle risorse ambientali e finanziarie fra le generazioni presenti e quelle future. Per sopperire a questi limiti del mercato la politica deve ridefinire il proprio ruolo. La ridefinizione del ruolo della politica è tanto più importante in una fase nella quale ogni Paese dovrà riposizionarsi tante in un contesto mondiale in rapido e profondo cambiamento. L’aspetto più positivo dell’ultimo incontro dei G20 penso sia l’aspetto la convergenza, non so quanto reale o apparente, e, comunque frutto soprattutto delle pressioni del presidente Obama, sull’idea che sia necessario superare i profondi, diversi squilibri accumulatisi nell’economia mondiale nella fase precedente. Gli Usa dovranno allora consumare di meno, impor- dente. importare di meno e risparmiare di più. La Cina dovrà abbandonare le strategie mercantiliste che hanno usato la sottovalutazione della moneta nazionale come leva per favorire le esportazioni a danno dei concorrenti. L’Europa dovrà contare di più sulla crescita della propria domanda interna per il proprio sviluppo. Cose che il Fondo monetario internazionale predica inutilmente da anni. Per l’Italia, ma anche per la maggioranza dei Paesi europei, la domanda principale mi sembra sia ora la seguente: la nuova fase di sviluppo che dovrà


dischiudersi dopo la crisi dovrà essere trainata, come quella precedente, da un’ulteriore crescita dei consumi privati? I Paesi come l’Italia sono quelli con un alto livello di consumi privati, per quanto essi vadano un po’ redistribuiti poiché vi sono ancora molti che non ne hanno a sufficienza. L’alternativa sarebbe uno sviluppo trainato dall’impegno a fare compiere al sistema produttivo un salto di l’impegno qualità che solo può consentirgli un adeguato riposizionamento nell’economia mondiale e avvicinarci alla possibilità di utilizzare pienamente le potenzialità umane di cui disponiamo e, soprattutto, trainato dal potenziamento dei beni pubblici. Si tratterebbe di beni quali la messa in sicurezza e la valorizzazione del territorio, l’ammodernamento delle infrastrutture, l’istruzione in tutti i suoi aspetti, la sanità, la giustizia, l’organizzazione del mercato del lavoro, il rispetto delle leggi. Previsioni del Fondo monetario ci dicono che il livello medio dell’indebitamento pubblico nei Paesi avanzati, che nel 2007 era del 79% diventerà di circa il 120% nel 2014. Per l’Italia sarebbe di circa il 130 per cento. Questo balzo in alto del livello di indebitamento pubblico non è certo conseguenza di un fallimento degli Stati, ma di un fallimento dei mercati che si sta rovesciando nei bilanci pubblici. Se, come io auspico in consonanza con l’Enciclica, la scelta fosse la seconda, bisognerebbe vedere come sia possibile potenziare i beni pubblici in presenza di una situazione così pesante del bilancio pubblico. Questo, a mio avviso, potrebbe essere il principale problema della politica economica per i prossimi decenni che richiederà, per essere risolto, molta fantasia nell’inventare nuove forme di collaborazione fra pubblico e privato. Superare gli squilibri dell’economia mondiale significa anche redistribuire le potenzialità e le risorse dello sviluppo tra le diverse parti del pianeta. L’Enciclica parla di una «Autorità politica mondiale»: questa espressione ha per me una particolare risonanza poiché mi ricorda il «Governo mondiale» proposto da Enrico Berlinguer all’inizio degli anni Ottanta inun testo denominato Carta per la pace e per lo sviluppo che trattava il rapporto fra il Nord e il Sud del mondo e che ho avuto l’onore di contribuire a formulare collaborando con lui insieme ad altri. So bene che un tale obiettivo può sembrare utopistico ed è comunque di molto lungo periodo. Ma i grandi progetti sono difficili da realizzare quando si annunciano, diventano impossibili se non se ne parla. A quell’obiettivo ci si può comunque avvicinare per tappe e la tappa attuale è la riforma delle esistenti organizzazioni internazionali per dare a esse una rappresentatività che tenga conto dei profondi mutamenti in corso nei rapporti politici ed economici mondiali e una reale efficacia nell’assicurare stabilità ed equità allo sviluppo mondiale.


In ricordo di Giovanni Pugliese Carratelli (Napoli 1911 -Roma 2010) di Arnaldo Marcone Giovanni Pugliese Carratelli si è spento nella sua casa-biblioteca romana di via Denza, ai Parioli, il 12 febbraio del 2010 a poche settimane dal suo novantanovesimo compleanno (era nato a Napoli il 16 aprile 1911). Storico antico di professione, Pugliese Carratelli è stato un umanista nel senso più alto e pieno del termine per l’impegno da lui costantemente profuso nella diffusione e nella promozione della cultura a tutti i livelli. Profondamente legato al mondo classico fu sempre straordinariamente ricettivo, se non addirittura precorritore, dei fondamentali orientamenti scientifici del secolo scorso. Con lui la cultura italiana perde uno dei suoi più originali e significativi protagonisti.


Nato a Napoli il 16 aprile 1911, da una famiglia di origini calabresi, Pugliese Carratelli, anche in virtù di una precocità fuori del comune (si laureò a vent’anni e già prima della laurea aveva pubblicato alcuni lavori), ha svolto un ruolo di primo piano nella vita scientifica italiana della seconda metà del ‘900. Il suo curriculum accademico, per quanto di primissimo piano, risulta inadeguato a dare un’idea della rilevanza della sua opera. Pugliese Carratelli ha insegnato Storia Greca e Romana nell’Università Statale di Pisa dal 1950 al 1954; Storia dell’Asia Anteriore antica e poi Storia Greca e Romana presso l’Università di Firenze, dal 1954 al 1964; Storia Greca all’Università di Roma “La Sapienza” fino al 1974, per concludere la sua attività di docente come professore di Storia della storiografia greca alla Scuola Normale Superiore di Pisa, della quale è stato anche Direttore. Membro di prestigiose Accademie (dei Lincei, di Atene, della Pontaniana, della Colombaria), è stato presidente onorario dell’Istituto italiano per gli studi filosofici. I suoi campi di indagine hanno toccato ambiti molto diversi tra loro, quali le civiltà e le lingue orientali, il buddismo antico, la religione, la tradizione platonica e pitagorica in età rinascimentale oltre alla storia greca e romana. Ancora nel 2003 da Adelphi Pugliese pubblicò un libro sugli editti di Asoka, un re indiano dell’impero Maurya conosciuto per la tolleranza verso qualsiasi forma di pensiero e che regnò nel corso del III secolo a.C. su ampia parte del subcontinente indiano. Decisivo per Pugliese fu sempre il legame con Napoli nel cui ambiente culturale si era formato, nel secondo quarto del ‘900, oltre che con Benedetto Croce, con intellettuali del calibro di Adolfo Omodeo, Vincenzo Arangio Ruiz, Emanuele Ciaceri, Raffaele Mattioli, Vittorio Macchioro. A Napoli poi è stata di decisiva importanza il legame con Gaetano Macchiaroli, un editore a sua volta promotore della cultura umanistica, con il quale fondò nel 1946 la rivista bimestrale di studi antichi «La Parola del Passato», destinata a diventare una delle più importanti del settore a livello internazionale. Pugliese fu anche un coerente e convinto divulgatore di cultura, convinto com’era dell’importanza che questa dovesse raggiungere un ampio pubblico di fruitori. Diresse, tra l’altro, collane di rilievo scientifico come “Antica Madre. Studi sull’Italia antica”, “Civitas Europea”, “Magna Graecia”, cui contribuì con numerosi e rilevanti contributi personali. Tra le sue iniziative merita di ricordare una delle ultime, la grande mostra veneziana del 1996 di Palazzo Grassi, “I Greci in Occidente” il cui titolo può valere come sintesi di una delle idee-guida della ricerca di Pugliese. Partecipe degli interessi per le civiltà egee, nati in Italia con Domenico Comparetti, Paolo Orsi e Federico Halbherr, Pugliese ha dato un contributo fondamentale alla loro conoscenza con la pubblicazione e l’esegesi di testi in “Lineare A” - i documenti scritti più antichi di Creta e del continente greco - e, in particolare, con l’interpretazione dei testi micenei decifrati nel 1952 da Michael Ventris. Una selezione dei suoi scritti più significativi sull’argomento si può trovare nel volume, pubblicato da Il Mulino a Bologna nel 1990 (a cura di Gianfranco Maddoli), Tra Cadmo e Orfeo. Contributi alla storia civile e religiosa dei Greci di Occidente, da cui emerge la sensibilità dello studioso per gli incontri culturali e i rapporti tra istituzioni e movimenti di idee (una raccolta precedente, Scritti sul mondo antico: Europa e Asia, espansione coloniale ideologie e istituzioni politiche e religiose, pubblicata a Napoli nel 1976, è putroppo accessibile solo nelle biblioteche specialistiche). Pugliese fu uno straordinario generoso Maestro di più di due generazioni di discepoli. Suoi allievi occupano da tempo cattedre prestigiose di Storia Gre-


ca e di Storia del Vicino Oriente Antico. Ma sarebbe riduttivo pensarlo solo come Maestro, nel senso che questo termine ha nel gergo accademico, vale a dire di docente che ha contribuito a formare altri docenti e a far fare loro carriera. Gli allievi, diretti o indiretti, di Pugliese sono stati e sono presenti in molte istituzioni pubbliche a vari livelli, come il C.N.R. e le sovraintendenze archeologiche. Pugliese era un insegnante rigoroso ed esigente ma tutt’altro che arcigno e distante, come solevano essere molti professori universitari della sua generazione. La sua cordialità, il suo garbo ironico, mettevano a proprio agio anche gli studenti più timidi. Chi scrive ebbe il privilegio di essere allievo di Pugliese alla Scuola Normale di Pisa prima come frequentatore dei suoi corsi di Storia della storiografia greca e di averlo poi come direttore della sua tesi di perfezionamento. Le sue lezioni si svolgevano di solito nel suo studio che, pur essendo abbastanza ampio, risultava alla fine gremito sino all’inverosimile (non di rado a sentire le sue lezioni venivano anche docenti dell’Università di Pisa). Non ricordo di avergli mai sentito fare lezione con qualche foglio davanti. Parlava sempre a braccio, con un tono di voce piuttosto basso. Solo qualche volta mandava qualcuno di noi a cercargli una fonte antica o un testo epigrafico. Di regola non chiedeva se qualcuno avesse domande da fargli perché, malgrado il timore riverenziale, le domande si ponevano senza troppi problemi. Noi studenti ci chiedevamo sino a che punto fosse a conoscenza delle regole, scritte e no, in uso alla Scuola. Di tanto in tanto sembrava stupito quando qualcuno di noi vi faceva riferimento e ci chiedeva dei ragguagli, in cui si coglieva una punta di ironia. Gli scolari più anziani ricordano il loro professore che trovava sollievo, nel corso delle lunghe sessioni di esame alla Sapienza di Roma, nel caffé che qualcuno preparava tempestivamente con una macchinetta. A Napoli, nella pausa tra una lezione e l’altra del pomeriggio, soleva uscire con gli allievi dell’Istituto Croce per andare a prendere un dolce alla pasticceria Scaturchio. L’argomento propostomi per la tesi di perfezionamento (l’equivalente di una tesi di dottorato) a Pisa è indicativo dell’originalità delle prospettive di indagine di Pugliese. Essendomi io occupato del regno dell’ultimo imperatore pagano, il nipote di Costantino Giuliano, Pugliese mi suggerì di studiare i fondamenti ideologici della monarchia sasanide. I Sasanidi regnavano sulla Persia nel IV secolo e Giuliano aveva intrapreso contro di loro una campagna militare nel corso della quale aveva perso la vita. E’ un piccolo esempio di come Pugliese fosse costantemente interessato, dal mondo greco arcaico sino a quello tardoantico, all’incontro e al confronto tra mondi culturali diversi e come cercasse di indirizzare i propri allievi in questa medesima direzione. Pugliese non fu solo precoce come studioso. I suoi ideali di liberalesimo democratico che lo accompagnarono tutta la vita si manifestarono in un deciso rifiuto del fascismo che gli valsero, a diciassett’anni, una prima condanna e, a diciotto, il confino a Gaeta. Un episodio, da lui stesso raccontato per esteso in uno scritto recente («Bollettino d’Arte» 133-134 del 2005), è utile per capire il suo forte senso dell’amicizia e della solidarietà umana. Legato da viva amicizia all’allora giovane Mario Segre, che era impegnato a Rodi dal 1937 nella pubblicazione delle epigrafi greche dell’isola, ne patì la scomparsa nel 1944 ad Auschwitz. Segre era stato catturato a Roma con la moglie e il figlioletto di pochi anni e consegnato ai tedeschi che li avviarono ai campi di sterminio, senza che neppure il sollecito intervento della Pontificia Segreteria di Stato, avvisata da alcuni amici, potesse salvarli. Pugliese, nel suo commosso ricordo, sottolinea la formazione di storico e filologo dell’amico, autodidatta


dell’epigrafia greca, nella quale riuscì ad acquisire una competenza particolare, soprattutto per i documenti di età ellenistica, come risulta dalle opere di Segre uscite postume, gran parte delle quali a cura dello stesso Pugliese Carratelli. Una circostanza che colpisce nella biografia di Pugliese è la sua fedeltà alle proprie radici intellettuali e alla propria visione del mondo. Pugliese ricordava con gratitudine come, rientrato da poco dal confino, avesse conosciuto Croce grazie a Omodeo. Ricevuto subito a casa sua spesso lo accompagnava nelle passeggiate dopo pranzo e dopo cena che il filosofo amava fare per le strade napoletane, cosa che, data la profonda conoscenza che egli aveva della città, significava imparare la storia di Napoli. Dopo poco tempo Croce regalò a Pugliese un suo libro con una dedica affettuosa: “Al mio carissimo amico e collaboratore”...». Pugliese riconosceva sempre il merito decisivo di Croce nella creazione di un’istituzione napoletana cui era particolarmente legato, l’Istituto Italiano per gli studi storici che era stata creata al fine di formare, partendo dalla storia, una classe politica e intellettuale nella Italia uscita malconcia dal ventennio fascista e dalla seconda guerra mondiale. Piace ricordare come nel 2002, in un seminario in preparazione al cinquantenario della morte di Croce, Pugliese parlasse del­la «concezione della libertà» in Croce. Alla domanda sul perché commemorare Croce Pugliese rispondeva che non si trattava soltanto di celebrare in astratto l’idea che il filosofo aveva avuto della libertà. La ragione vera risiedeva nel fatto che, in un momento cruciale del Nove­cento, Croce aveva difeso pro­prio quella libertà che sta­va a cuore. Perché per Croce la libertà era l’essenza della storia. Mentre la natura - non essendo una sua creazione - in parte sfugge all’uomo, Croce sulle orme di Vico- non a caso un altro pensatore molto caro anche a Pugliese- considerava la storia l’unica cosa che l’uomo possa conoscere, proprio perché ne è l’autore. Ed è su questa base che Croce identificava la storia e la filosofia, essendo quest’ultima, per eccellenza, attività intellettuale ed umana. Parlare della li­bertà significa perciò, per Pugliese, parlare del pensiero di Croce nel suo complesso. Pugliese fu sempre sensibile alla grande questione della vita oltre alla morte e uno dei suoi temi di studio da lui privilegiati riguardò la risposta che ad essa dettero i Greci e, in particolare, quella rappresentata dall’orfismo, “dottrina religiosa, ma di filosofi e per filosofi e cultori delle Muse”, misteriosa e avvincente. Ad essa dedicò uno dei suoi ultimi, raffinati scritti: Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni per il viaggio oltremondano degli iniziati greci, Adelphi, Milano 2001. In una recente intervista Pugliese spiegava come Plotino, Porfirio, il cardinale Bessarione accompagnassero da ultimo le sue giornate e come rileggere gli editti del III secolo a.C. sulla tolleranza e contro la guerra emanati dal re indiano Asoka, le laminette orfiche scoperte nella Magna Grecia che invitavano il defunto ad abbandonare le ricchezze per quelle spirituali, le pagine straordinarie di Ippocrate o di Platone gli dessero un piacere senza fine. Intelletualmente attivo sino alla fine Pugliese Carratelli si è spento mentre preparava ancora un’ edizione di un testo inedito di Proclo. Pugliese ebbe modo di manifestare, ancora poco tempo fa in una sorta di postfazione a un volume da lui stesso curato, la propria fede nel libro, come segno e fonte di cultura, “quale specchio privilegiato dello spirito creatore di civiltà”, destinato, a suo parere, a resistere alle nuove tecnologie multimediali e a continuare nel tempo a far da testimone alle vicende e alle speculazioni intellettuali dell’uomo, soprattutto nell’ambito delle riviste scientifiche (Il libro non verrà mai meno in “La città e la parola scritta”, Milano, Schei-


willer, 1997, pp. 465-466). Non è un caso, forse, se alcuni ex-allievi hanno voluto dedicare al loro Maestro una raccolta di scritti raccolti sotto il titolo “In partibus Clius” (a cura di G. Fiaccadori, Napoli 2006). Clio, la musa «che dà la fama», è certamente quella che più ha ispirato le ricerche di Pugliese. E’ connotata da una tromba e, appunto, da un libro nel noto quadro di Jan Vermeer conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna, quadro che è riprodotto nella copertina del volume. Pugliese non era estraneo al disagio di molti a fronte del crescente svilimento della nostra cultura a tutti i livelli. Sembrano purtroppo di grande attualità queste sue considerazioni svolte in una conversazione poco tempo prima della sua morte: «Oggi assistiamo a un degrado delle università e delle istituzioni di ricerca. Mancano banchieri illuminati come Mattioli. E la bassa politica ha finito per decretare anche il declino della prestigiosa Scuola di Atene: le nomine non vengono più effettuate secondo i vecchi principi che privilegiavano le competenze e, soprattutto, che vedevano tra i candidati solo i migliori allievi di quella scuola». Viene allora spontaneamente alla mente quel passo del Così parlò Zarathustra di Nietzsche di cui Pugliese utilizzò le prime parole come titolo della sua rivista di studi antichi: «La parola del passato è sempre simile ad una sentenza d’oracolo e voi non la intenderete se non in quanto sarete gli intenditori del presente e i costruttori dell’avvenire».



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