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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008


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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Gennaio-Febbraio 2010, n° 23. (Numero 24, 1 Marzo 2010) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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Il Partito Democratico, le prossime regionali, la “politica delle alleanze” di Elio Matassi La minaccia di Zaia di Umberto Curi

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Democrazia paritaria: un principio ancora da attuare di Marilisa D’Amico

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L’ultima occasione di Aldo Masullo

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Far filosofia oggi Intervista a Massimo Barale

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Religione, società e politica nell’Italia odierna di Mauro Visentin

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Di integralismi discriminatori e della comunità di popolo di Giovanni Invitto

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Ulteriorità nella prossimità: una ricerca per una filosofia prima di Marco Ivaldo


Il Partito Democratico, le prossime regionali, la politica delle “alleanze” di Elio Matassi

Dopo l’elezione alla segreteria del Partito Democratico di Pier Luigi Bersani, evento indubbiamente positivo per la costruzione stessa del Partito Democratico e, in modo particolare, per la formazione di una identità politico-culturale ben definita, l’agenda politica prevede l’importante appuntamento elettorale delle Regionali. Basti riflettere che sono passati solo cinque anni dall’ultima tornata elettorale delle Regionali (Aprile 2005), … del trionfo politico del centro-sinistra, per misurare tutta la distanza da quell’evento. La vittoria di misura alle politiche del 2006 del governo Prodi e la successiva implosione dello stesso, insieme alla costituzione del Partito Democratico, sono state il naturale antefatto dell’attuale situazione, ricca di rischi, contraddizioni, di confusione. A fondamento di tali limiti vi è, in modo particolare, la ancora non ben delineata


ricerca dell’identità politica e culturale del Pd, la sua ancora incerta collocazione internazionale, nodi che la Segreteria Bersani sta cercando di sciogliere gradualmente. Il problema prima ancora di essere politico è di natura culturale e filosofica. Quali sono le ‘fonti’ del Pd che non s’iscrivano esclusivamente nella grande tradizione del socialismo europeo? A quali altre tradizioni il Pd può ispirarsi per rinnovare completamente il modello di democrazia? Il Partito, nell’attuale situazione, si muove in maniera ancora confusa come confusa appare la costruzione delle alleanze che non potranno riproporre il paradigma-Prodi. L’UDC e Pierferdinando Casini rappresentano politicamente un’area completamente diversa da quella prodiana; un’alleanza, in un momento successivo, poterà anche essere possibile, ma prima il Pd dovrà approfondire ‘dall’interno’ la propria funzione-prospettiva’. Il Pd, dopo il crollo del socialismo reale e l’apparente trionfo della democrazia (post 1989), di fronte alla irreversibilità della stessa e alle altre banalità dello stesso stampo, deve cominciare a porsi il problema del significato dell’aggettivo scelto per qualificarsi, ‘democratico’, un aggettivo che deve essere approfondito in tutte le sue implicazioni . Quell’aggettivo a quale modello di democrazia dovrà ispirarsi? Esiste forse solo un unico paradigma di democrazia possibile dopo l’apologetica della globalizzazione? L’etimologia non risolve tutti i problemi – si tratterebbe in tal caso di una semplificazione, di una scorciatoia, dietro cui si riesce a intravedere solo un impasse – ma talvolta può aiutare a pensare in maniera più fondata. ‘Democrazia’: demos e kratos, kratos del demos, il potere del popolo, come l’aristocrazia è il potere degli aristoi, i migliori, i nobili, i grandi; come l’autocrazia è il potere di autos, di se stesso, di colui che non deve rendere conto all’altro o degli altri. Dove vediamo oggi il potere del popolo? Prima di procedere con ulteriori considerazioni, è necessario dissipare alcuni equivoci dovuti in larga misura a due grandi autori moderni. Nel primo caso a essere in questione è il retaggio di Rousseau. A tal proposito coglie nel segno l’obiezioneargomentazione di uno dei politologi contemporanei più spregiudicati e avvertiti, Cornelius Castoriadis: “Ne Il contrato sociale, la definizione della democrazia è limpida ma insostenibile, perché deriva da un semplice gioco di nozioni astratte. La democrazia così com’è concepita ne Il contratto sociale è l’identità del Sovrano e del Principe, ossia l’identità del corpo legislativo o, in senso più radicale, istituente, e di ciò che oggi chiamiamo l’‘esecutivo’, in altri termini sia il potere governativo che l’amministrazione. Di tale regime Rousseau dice che sarebbe ottimo per un popolo di dei, ma irrealizzabile dagli esseri umani. Un regime simile non è mai esistito e non potrebbe esistere, neppure in una tribù di una cinquantina di persone. L’identità del Sovrano e del Principe implica che il corpo politico deliberi collettivamente di tutto e metta collettivamente in atto le proprie decisioni, quale che ne sia l’oggetto: per esempio, sostituisce collettivamente una lampadina bruciata nella sala dove si tengono le assemblee. In un simile regime, non può e non deve esserci alcuna delega. E’ chiaro che non è questo di cui parliamo quando parliamo di democrazia e che il regime ateniese, per esempio, non era tale”. Precisazioni devono essere svolte anche riguardo a un secondo pensatore, Tocqueville che viene prospettato come il teorico della democrazia contemporanea, non tenendo nel debito conto che gli Stati Uniti descritti dal politologo francese non esistono più. Lo ‘spaccato’ democratico entro cui si muove Tocqueville è quello di Jefferson o, meglio ancora, la situazione sociale teoricamente corrispondente a quanto Jefferson avrebbe auspicato come fondamento della democrazia (schiavitù a parte): in altri termini, una società in cui l’“uguaglianza delle condizioni” viene realizzata. Lo schema politico immaginato da Jefferson era assolutamente ‘classico’ (greco-romano) e identico a quello formulato da Marx un secolo dopo. Anche in questo secondo caso l’obiezione-argomentazione di Cornelius Castoriadis appare esemplare. L’analisi di Tocqueville è prettamente sociologica e non politica, se per dominio-spazio politico deve intendersi il potere, la sua acquisizione, il suo esercizio. Ha mille ragioni Casto-


riadis per sostenere che su questo, in Tocqueville, non troveremo nulla e che la sua interpretazione della democrazia è inutilizzabile proprio dal punto di vista politico. Pertanto, prima ancora di qualsiasi discussione pregiudiziale sul problema ‘democrazia diretta/ democrazia rappresentativa’, bisogna rendersi conto che la democrazia nelle sua attuali dimensioni potrà essere tutto quello che vogliamo, ma non una vera e propria democrazia, in quanto la sfera pubblica è di fatto ‘privata’, ossia è gestita dall’oligarchia politica e non dal corpo politico. L’essenza dei partiti contemporanei sta nel fatto che essi sono sottoposti allo stesso processo di burocratizzazione che caratterizza le società contemporanee nel loro complesso. Sono questi i grandi problemi connessi all’ideale democratico in gioco nella contemporaneità. Il Pd ha la responsabilità, storica e teorica al contempo, di portarli a soluzione, di razionalizzarli non in un vago e incerto eclettismo ma con una perentorietà , pratica e teorica, radicale. Senza la soluzione di tali problemi, la democrazia cederà, come di fatto sta avvenendo, quote sempre più elevate di se medesima al populismo, versione perversa e degenerata della democrazia. Purtroppo, anche in questo caso, tertium non datur, non vi sono scelte di mediazione possibili, percorribili, o si ritorna a un’idea di democrazia veramente compiuta che superi lo scarto tra rappresentanza e partecipazione, o prevarrà la soluzione populista, interpretazioni parodistica del dominio del popolo. Un compito alto e complesso che presume, in primo luogo, una vera e propria ‘rivoluzione culturale prima ancora di qualche calcolato aggiustamento politico. Senza questa ‘svolta’ radicale, il Pd si invischierà sempre più nel tatticismo contingente di operazioni di breve respiro, privandosi di un orizzonte culturale di riferimento. Dobbiamo essere in grado di cogliere il monito che viene dalle primarie e non ingabbiarci nelle meschine schermaglie delle scelte politiche contingenti per riconquistare quell’egemonia culturale perduta senza la quale non riusciremo a conquistare la maggioranza politica. Un’operazione lunga, difficile, di largo respiro, che la segreteria Bersani sta cominciando a fare e che merita tutto il nostro incoraggiamento.


La minaccia di Zaia di Umberto Curi

Sarà Luca Zaia, leghista a 18 carati, incontrastato leader veneto del Carroccio, il candidato del centrodestra per la presidenza della giunta regionale del Veneto. Anzi, poiché sarebbe pericolosamente consolatorio alimentare illusioni circa l’esito del voto, sarà lui il futuro Governatore del Veneto. Di per sé, questa prospettiva non sembra essere particolarmente significativa. Almeno, così pare, se si leggono i commenti finora comparsi sui grandi mezzi di informazione. L’attenzione è concentrata prevalentemente sull’esito della vicenda “sportiva”, che ha contrapposto l’attuale Ministro dell’Agricoltura al Governatore uscente, e sulle decisioni che lo sconfitto Galan intende assumere, dopo quello che egli stesso ha definito l’ “errore”, peggiore del “tradimento”, perpetrato dai vertici del suo partito. Tutto sembra ridursi ad un semplice avvicendamento tra personaggi certamente diversi, ma anche fondamentalmente consanguinei, perché espressioni della stessa coalizione politica. Insomma, a parte alcune note legate al diverso “carattere” dei due personaggi, non ci si attendono novità di rilievo per quanto riguarda la conduzione politica della regione nel prossimo quinquennio. E allora è bene dirlo subito con chiarezza: ritenere che non vi sarà alcun cambiamento sostanziale, e che tutto si ridurrà ad un giro di valzer di poltrone, ininfluente sulle modalità concrete della politica regionale, è uno sbaglio grave e grossolano. Di più: questa opinione è frutto di una prospettiva totalmente


miope, incapace di vedere al di là del naso delle vicende politiche più immediate. E’ vero, invece, esattamente il contrario. L’avvento di Zaia a Palazzo Balbi è un evento destinato a sconvolgere radicalmente lo scenario politico nazionale, e non soltanto l’orizzonte della politica regionale. Cerchiamo di capire perché. Sarà la prima volta, anzitutto, che un esponente leghista siederà sulla poltrona del Governatore di una regione. Finora, il Carroccio aveva conquistato la guida di numerosi comuni e di altrettante amministrazioni provinciali, senza tuttavia mai riuscire ad acquisire il governo di un intero territorio. A ciò si aggiunga, in secondo luogo, che questa “promozione”, già di per sé estremamente significativa, avverrà contestualmente alla realizzazione del federalismo, vale a dire in una fase in cui la competenza su numerose e delicatissime materie sarà trasferita dallo Stato alle regioni. Tanto per fare qualche esempio: in materie come la scuola e la polizia locale, le direttive non dovranno più provenire da Roma, ma da Venezia, nel segno di un percorso già avviato con l’istituzione di un Assessorato regionale “alla cultura e all’identità veneta”. Infine, questa profonda e diffusa ridislocazione di poteri si verificherà in una regione nella quale numerosi capisaldi strategici sono nelle mani della Lega. Tanto per capirsi: nel giro di pochi mesi, o al più di qualche anno, in diverse zone del Veneto (Treviso, anzitutto, ma anche Verona e perfino Venezia), si potrà assistere al sigillo del Carroccio su tutte e tre le cariche più importanti – Sindaco, presidente della Provincia, Governatore regionale. Il quadro sarà inoltre completato, e reso ancor più allarmante, dalla presenza di un ministro leghista sulla poltrona del Ministero dell’interno. Un en plein politico-istituzionale senza precedenti. Una saldatura tra centri di comando, capace di agire come moltiplicatore delle energie di un popolo leghista insofferente delle mediazioni politiche, e desideroso di vedere tangibilmente tradotte in pratica alcune parole d’ordine coltivate da tempo, soprattutto per quanto riguarda i temi legati all’immigrazione. Un cortocircuito, a seguito del quale salterà l’architettura istituzionale, fatta di pesi e contrappesi, del bilanciamento tra centri di potere, a cui subentrerà un inedito regime di monopolio politico, svincolato da ogni possibilità di controllo e da ogni limite. A giudicare dai commenti finora in circolazione, le conseguenze di questa vera e propria rivoluzione, certamente conseguita con mezzi pacifici, ma non per questo meno pericolosa, sono per lo più del tutto ignorate o sottovalutate. Mentre dovrebbe apparire chiaro che, a partire dalla prossima primavera, la vita del Veneto (ma non solo) è destinata a mutare in maniera sostanziale. Fino al punto da trasformare l’immagine tradizionale di una regione “laboriosa e pia” in un laboratorio politico, nel quale fare le prove generali di quella che potrà essere in futuro una Padania indipendente dal resto dell’Italia.


Democrazia paritaria: un principio ancora da attuare di Marilisa D’Amico*

1. Il problema della sottorappresentanza femminile nelle Assemblee elettive e le recenti proposte per porvi rimedio Ancora oggi, nonostante alcune lodevoli proposte di interventi legislativi volti a conseguire l’obiettivo di una effettiva democrazia paritaria, il problema della scarsa presenza di donne nelle Assemblee elettive non ha trovato in Italia soluzioni soddisfacenti. Questa situazione, come noto, pone il nostro Paese in una posizione di emarginazione e di arretratezza evidente, in un momento storico nel quale, a livello mondiale, la presenza delle donne è ritenuta come uno degli indici di ricchezza e di progresso della società, e non più solo come un elemento di giustizia o di rivendicazione di un diritto individuale. Si pensi, in particolare, alla legge organica spagnola (n. 621/000084, “Sulla eguaglianza effettiva di uomini e donne”, del 15 marzo 2007) con la quale si affronta il problema della parità uomo-donna a tutto campo - e cioè dal punto di vista del lavoro, della famiglia, dei diritti civili e anche della rappresentanza politica -, sulla base del presupposto che la realizzazione di una effettiva


eguaglianza tra i sessi non sia soltanto un problema di (dis)eguaglianza, e quindi di rivendicazione paritaria (“un genuino diritto delle donne”), ma sia “un elemento di arricchimento della stessa società spagnola, che contribuirà al decollo economico e all’aumento dell’occupazione” (Preambolo, II). Ma si noti anche che, in un’ottica concentrata su un problema più specifico, in modo lapidario il rapporto UNICEF sulla “Condizione dell’infanzia nel mondo 2007” è dedicato alla vita delle donne nel mondo, dal momento che “l’uguaglianza di genere e il benessere dei bambini vanno mano nella mano” (così Ann Veneman, Direttore generale del fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia). Secondo Kofi A. Annan, ex Segretario generale delle Nazioni Unite “La fine della discriminazione di genere e l’empowerment delle donne costituiscono, oggi, le sfide principali che il mondo si trova ad affrontare. Quando le donne sono sane, istruite e libere di cogliere le opportunità della vita, i bambini crescono sani e i paesi si sviluppano, con un doppio vantaggio per le donne e per i bambini” (Messaggio introduttivo al rapporto UNICEF 2007). Ma non va dimenticato che è stato lo stesso Presidente della Repubblica, in occasione della ricorrenza dell’8 marzo 2008, in vista delle imminenti elezioni politiche, ad affermare che “non possiamo ignorare la gravità dello squilibrio persistente in Italia, a danno delle donne, nella rappresentanza politica”. Come anticipato, diversi sono stati i tentativi di introdurre nell’ordinamento strumenti in grado di avviare, anche in Italia, un circolo virtuoso fra atteggiamento dei partiti, maggiore partecipazione delle donne alla vita politica, ed equilibrata presenza di genere nelle Assemblee elettive. L’UDI nazionale nel 2007 aveva presentato in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare che, in attuazione dell’art. 51 della Costituzione, prescriveva, in tutte le competizioni elettorali (da quelle comunali, fino al quelle europee), candidature al 50% di donne e di uomini (art. 2), distinguendo tecnicamente le ipotesi nelle quali il sistema elettorale prescelto sia maggioritario (art. 3: in questo caso il numero totale di candidate e candidati nei collegi uninominali deve essere pari), da quelle nelle quali il sistema elettorale sia invece proporzionale (art. 4: in questo caso si prevede nelle liste elettorali un’alternanza di candidature “per genere”). Tali norme erano cogenti, dal momento che la loro inosservanza sarebbe stata sanzionata con l’inammissibilità della lista alla competizione elettorale. A mio avviso, la proposta si inseriva a pieno titolo nel difficile percorso italiano verso la realizzazione della democrazia paritaria. Questa iniziativa popolare, tuttavia, non ha avuto ad oggi seguito, non essendo stata calendarizzata nei lavori parlamentari. Su un piano diverso, in quanto estranee al tema della sottorappresentanza di genere nelle Assemblee elettive, ma ugualmente rilevanti rispetto all’obiettivo di realizzare una compiuta democrazia paritaria, sono le recenti proposte di legge volte a introdurre una quota minima di donne all’interno dei Consigli di amministrazione delle società quotate. Si tratta di proposte (cfr. A.S. 1719 e A.C. 2956, XVI legislatura) che, riprendendo modelli fatti propri nei Paesi scandinavi, muovono dal presupposto che collegi composti in modo equilibrato tra donne e uomini siano in grado di conseguire risultati migliori, perché frutto di decisioni assunte sulla base di un confronto tra sensibilità, esperienze, attitudini e punti di vista differenti. 2. Gli interventi normativi sui sistemi elettorali e l’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale In Italia, comunque, il ritardo nell’adozione di strumenti tecnici atti a superare tali proporzioni è dovuto, oltre che a fattori culturali e sociali che non favoriscono rimedi “dal basso”, cioè da parte dei partiti, anche a motivi tecnici.


Nel 1993, infatti, per rimediare al problema delle basse percentuali di donne nelle Assemblee elettive, il legislatore aveva previsto misure di ‘favore’ nei confronti della rappresentanza politica femminile, introducendo norme di diverso tipo, sia nelle elezioni nazionali che in quelle locali. Questi interventi legislativi sono stati censurati da una sentenza della Corte costituzionale, la n. 422 del 1995, con la quale il Giudice costituzionale affermava che, in via generale e senza alcuna eccezione, in materia elettorale dovesse trovare applicazione soltanto il principio di eguaglianza formale (artt. 3, 1 comma, e 51, comma 1, Cost.) e che qualsiasi disposizione tendente ad introdurre riferimenti “al sesso” dei rappresentanti, anche se formulata in modo neutro, fosse in contrasto con tale principio. La pronuncia in esame era, a mio avviso, discutibile soprattutto perché basata su una falsa rappresentazione “storica”: diceva la Corte che i costituenti avrebbero escluso l’eguaglianza sostanziale dal campo dei diritti politici, mirando a garantire soltanto quella formale. Facile osservare che se i Costituenti davvero non si posero esplicitamente il problema di garantire una equilibrata presenza fra i sessi nelle Assemblee elettive, è anche perché, in materia elettorale, le donne non avevano avuto occasione d’ingresso, avendo votato per la prima volta nel 1946. Non è possibile assegnare un carattere assoluto a istituti o concetti nati in un universo soltanto maschile, nel quale, per forza di cosa, il problema della discriminazione sessuale non era stato ancora affrontato, dal momento che le donne non erano ancora presenti nel mondo politico. L’interpretazione della Corte, quindi, ha determinato in Italia l’illegittimità di tutte le disposizioni in materia, e ha reso impossibile, a Costituzione invariata, per il legislatore ordinario introdurre norme di qualsiasi tipo miranti a favorire l’accesso delle donne alle competizioni elettorali. Tale situazione ha dato l’avvio a un lungo e faticoso percorso di revisione dell’art. 51 della Costituzione, conclusosi soltanto nel 2003 con la legge costituzionale n.1. Nel frattempo, però, fortunatamente, sono avvenute altre modifiche del quadro costituzionale e internazionale di riferimento: vengono infatti alla luce l’art. 2 della legge cost. 31-1-2002, n. 1, il quale prevede espressamente che “al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi”, la legge regionale “promuove condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali”; l’art. 117, comma 7, che introduce una disposizione analoga e l’art. 23 della Carta di Nizza, approvata il 7 dicembre 2000, il quale sancisce, al comma 2, che “il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”. La portata di quest’ultima disposizione va, inoltre, oggi rivalutata: se, infatti, per molto tempo si è affermato che la Carta di Nizza, in quanto priva di efficacia giuridica, potrebbe assumere solo valenza interpretativa, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, essa acquisisce oggi il medesimo rango dei Trattati dell’Unione europea. Nella sent. n. 49 del 2003, la Corte torna ad occuparsi del problema con una decisione “overruling”, che ribalta il giudizio espresso nel 1995 e afferma la legittimità delle norme antidiscriminatorie. Il Giudice costituzionale affronta il cuore del problema, sostenendo che la disposizione impugnata, introducendo un riferimento neutro (“ambo i sessi”) ed incidendo soltanto sulla formazione delle liste, non violerebbe gli artt. 3 e 51 Cost. Essa, infatti, inciderebbe soltanto sull’accesso alla competizione elettorale, non toccando né l’eleggibilità, né la candidabilità dei singoli candidati. Neppure sarebbe in grado, proprio perché attinente soltanto alla formazione della lista, di stabilire un vincolo fra elettori ed eletti, vincolo che sarebbe escluso dal principio della rappresentanza unitaria, classicamente inteso.


La Corte quindi, contrariamente a quanto aveva fatto nel 1995, introduce una differente valutazione fra misure costituzionalmente legittime, in quanto incidenti soltanto sulla formazione delle liste e in quanto formulate in modo neutro (che potremmo definire “riserve di lista”), che espressamente qualifica come strumenti diversi dalle azioni positive, e misure più forti, che garantiscano non solo una parità o un riequilibrio nei punti di partenza, bensì, propriamente, il risultato medesimo (azioni positive o quote in senso vero e proprio), che invece sarebbero lesive dei principi costituzionali. Si tratta come è evidente di una vera decisione overruling: le norme che la Corte salva erano state dichiarate incostituzionali nel 1995, con argomentazioni opposte. In ogni caso, all’indomani della pronuncia della Corte, si concluse anche il laborioso processo di revisione dell’art. 51 della Costituzione, con l’approvazione della l. cost. n. 1 del 2003, che aggiunge un secondo periodo al comma 1 dell’art. 51 Cost.: “A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. La riforma costituzionale ha comunque un primo esito positivo, con l’approvazione della legge 8 aprile 2004, n. 90, avente ad oggetto “Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell’anno 2004”, la quale introduce all’art. 3 una norma in materia di “pari opportunità”, che risulta molto significativa non solo e non tanto per il suo contenuto, quanto perché, soprattutto, risultato di un faticoso percorso del legislatore, costituzionale e ordinario, e dello stesso giudice costituzionale. Nel primo comma viene introdotta una riserva “di lista”, in base alla quale “nell’insieme delle liste circoscrizionali aventi un medesimo contrassegno, nelle prime due elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, successive alla data di entrata in vigore della presente legge, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati; in caso di quoziente frazionario si procede all’arrotondamento all’unità prossima”. Il legislatore sceglie dunque di riprodurre le norme del 1993 in materia di elezioni comunali, bocciate dalla Corte costituzionale nella sent. n. 422 del 1995: viene garantita almeno la quota di un terzo delle candidature sul piano nazionale, con una formula neutra riguardo al sesso (“nessuno dei due sessi”). Il secondo e terzo comma della medesima norma introducono alcune sanzioni al fine di incentivarne l’applicazione: da un lato, sono ritenute “inammissibili” quelle liste “circoscrizionali composte da più di un candidato che non prevedono la presenza di candidati di entrambi i sessi”, dall’altro, viene introdotta una sanzione di tipo economico per i partiti che non rispettino la proporzione indicata dalla legge, i quali vedranno ridurre “l’importo del rimborso per le spese elettorali di cui alla legge 3 giugno 1999, n. 157 fino ad un massimo della metà, in misura direttamente proporzionale al numero dei candidati in più rispetto a quello massimo consentito”; viene previsto, per converso, un “premio” per i partiti o gruppi politici organizzati che “abbiano avuto proclamata eletta (…) una quota superiore ad un terzo di candidati di entrambi i sessi”, ai quali verrà erogata, in modo proporzionale ai voti ottenuti, “la somma eventualmente derivante dalla riduzione di cui al comma 2”. La scelta del legislatore persegue due finalità: penalizzare economicamente, salvo il limite estremo dell’inammissibilità, i partiti che non rispettino la proporzione minima indicata dalla legge e premiare i partiti che non si limitino a presentare donne in lista, ma che riescano anche a farle eleggere, rispondendo così ad uno dei dubbi più forti che la scelta legislativa solleva, e cioè che si instauri un meccanismo pericoloso nel caso in cui le donne siano presentate, ma non riescano ad essere elette, magari perché gli stessi partiti non intendono impegnarsi. I risultati delle elezioni europee del 2004, nelle quali la legge ha trovato la sua prima applicazione, dimostrano che essa ha avuto una certa efficacia, anche se i timori sul


tipo di meccanismo prescelto non si sono rivelati del tutto infondati. A fronte di 534 candidature femminili, pari al 33,5% del totale (1592) furono eletti membri del Parlamento europeo 15 donne, su un numero totale di 78 parlamentari italiani, pari dunque al 19,23%. La medesima legge ha trovato applicazione anche nella recente consultazione elettorale del 2009. Le donne risultate elette al Parlamento europeo sono state in questo caso 16 su un totale di 72, pari dunque a circa il 22%. Si può osservare, in conclusione, che una norma come l’art. 3 cit. sia coerente con i principi individuati dalla Corte costituzionale e, probabilmente, sarebbe stata legittima anche senza la revisione dell’art. 51 Cost.; tuttavia occorre rilevare come tale provvedimento legislativo si fondi proprio sull’avvenuta riforma costituzionale e come tale riforma abbia messo in moto il meccanismo legislativo. I fatti hanno tuttavia mostrato come la fragilità del tenore letterale della riforma costituzionale dell’art. 51 Cost., unita all’ostilità da parte di tutte le forze politiche ad affrontare e risolvere il problema della bassissima presenza femminile nei luoghi della politica, possa dare adito ad esiti differenti. Il nuovo art. 51 Cost., infatti, è rimasto lettera morta in occasione della modifica del sistema elettorale nazionale (e anche nel dibattito politico e scientifico che è tuttora in corso sulle riforme elettorali, nel quale il problema femminile è pressoché assente). Non può essere nascosto l’enorme disagio dinanzi al mancato inserimento di norme antidiscriminatorie nonostante l’intervenuta modifica dell’art. 51 Cost. (che, a detta della maggioranza, veniva modificato con questa finalità); l’omissione risulta ancor più grave se si pensa che il sistema proporzionale, scelto dal legislatore, è proprio quello ritenuto più favorevole alle donne in caso di previsione di misure di questo tipo. Il voto negativo, avvenuto a scrutinio segreto, i contenuti e i toni del dibattito parlamentare, cui faremo ora cenno, testimoniano quanto il mondo politico italiano sia ancora refrattario rispetto al tema Ripercorriamo comunque sinteticamente le vicende di tale occasione perduta: la maggioranza presenta un emendamento (1.620) al disegno di legge (precisamente al comma 6, capoverso art. 18-bis, comma 2, primo periodo) che introduce il principio in base al quale nelle liste elettorali “ogni genere non può essere rappresentato in una successione superiore a tre ed in misura superiore ai due terzi dei candidati”. Tale principio, in questo emendamento, è presidiato soltanto da una sanzione di tipo economico, che può arrivare fino alla decurtazione del 50% dei rimborsi per le spese elettorali. Si prevede altresì che dopo due elezioni, la sanzione possa comportare l’inammissibilità della lista; in caso di comportamento virtuoso dei partiti, si sancisce un limite temporale nell’applicazione della norma antidiscriminatoria ( che varrebbe quindi fino a che lo scarto di eletti fra i due sessi superi il 15 %). Il risultato della votazione, nella quale, a voto segreto (richiesto da un gruppo di deputati che il Presidente della Camera si rifiuta di rendere “pubblico” fino al momento della votazione); il triste spettacolo della gioia “bipartisan” dei deputati (uomini) e delle lacrime del Ministro per le pari opportunità (donna) all’esito della votazione; la scarsa reazione delle forze politiche all’esito del voto, che si limita a qualche blanda promessa (scarsamente mantenuta) di garantire spontaneamente una percentuale nelle liste elettorali, dimostrano come in Italia il sistema politico permanga ottusamente prevenuto rispetto a questo problema. A seguito della bocciatura dell’emendamento in occasione invece dell’approvazione della nuova legge elettorale, il Ministro Prestigiacomo ottiene di presentare un disegno di legge separato, che subisce l’ostruzionismo bipartisan per qualche mese e che ottiene un’approvazione simbolica al Senato l’8 febbraio, a camere quasi sciolte, non avendo dunque la possibilità di divenire legge: il testo licenziato dal Senato


impone, per ciascuna lista, almeno il 50 % di candidati di entrambi i sessi, con un apparato sanzionatorio mutevole: nelle prime elezioni sono sancite sanzioni di tipo economico; nelle seconde, l’inammissibilità della lista. I risultati delle elezioni nazionali del 2006, nelle quali, nonostante le futili promesse di tutti i partiti, le donne presentate sono state poche e quelle sicure o in grado di essere elette ancora meno e dalle quali si è raggiunto un misero 16% di presenza femminile in Parlamento, dimostrano come il mancato inserimento di norme antidiscriminatorie sia stato una delle tante occasioni perdute. Quanto alle ultime elezioni nazionali, svoltesi nel 2008, occorre premettere che in vista della consultazione forte era l’aspettativa di veder elette un numero di donne maggiore rispetto al passato. Lo dimostrano le parole del Presidente della Repubblica Napolitano, che nel citato discorso dell’8 marzo 2008 auspicava che le forze politiche riducessero “l’ingiustificata disparità esistente tra donne e uomini in Parlamento”. Ed effettivamente, i due principali partiti in competizione si impegnarono formalmente a inserire nelle liste elettorali un congruo numero di donne: il Partito democratico, in particolare, manifestava l’intenzione di predisporre liste capaci di garantire “rappresentanza femminile pari almeno a un terzo delle candidature e dei potenzialmente eletti”. Vale inoltre la pena di segnalare che anche al proprio interno il Partito democratico si è fatto carico del problema della scarsa presenza di donne. Lo Statuto ha infatti recepito il principio di democrazia paritaria, stabilendo che il partito deve assicurare “la presenza paritaria di donne e di uomini” nei suoi organismi dirigenti ed esecutivi e nelle candidature per le assemblee elettive. In vista delle elezioni del 2009, il Popolo delle Libertà si impegnava invece a riservare il 30% delle liste alle donne. Tuttavia, in molti casi la percentuale di donne inserite in lista è risultata più bassa di quanto annunciato (il PDL, ad esempio, ha candidato in media tra il 10 e il 15 di donne). Ma il dato più significativo (e sconfortante) - e che accomuna entrambe le forze politiche - è che le candidate, anche quando presenti in numero rilevante, sono state relegate nelle ultime posizioni delle liste. In un sistema elettorale a c.d. liste bloccate quale quello vigente nel nostro ordinamento, questa scelta comporta l’inevitabile conseguenza di vedere enormemente diminuite le probabilità per le donne di essere elette. L’attuale composizione di Camera e Senato ne è l’evidente dimostrazione: la presenza delle deputate è ferma al 21%, quella delle senatrici al 18%. Si può dire, invece, che significativi passi avanti provengono dai legislatori regionali. Lo Statuto lombardo ha fatto ad esempio propria la nozione di ‘democrazia paritaria’, affermando all’art. 11 che “La Regione riconosce, valorizza e garantisce le pari opportunità tra uomini e donne in ogni campo, adottando programmi, leggi, azioni positive e iniziative atte a garantire e promuovere la democrazia paritaria nelle vita sociale, culturale, economica e politica”. Ma ancor più interessante, proprio nell’ottica di un superamento della vecchia concezione di pari opportunità, è la previsione contenuta nella legge elettorale della Regione Campania recentemente approvata (legge 27 marzo 2009, n. 4), con la quale si è stabilito che l’elettore può scegliere se esprimere una o due voti di preferenza, e che “Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza”. La legge, impugnata dal Governo per presunto contrasto con gli artt. 3 (principio di uguaglianza), 51 (parità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive) e 48 (libertà di voto) Cost., ha passato indenne il vaglio della Corte costituzionale. Con la recente sent. n. 4 del 2010, infatti, il Giudice delle leggi ha affermato che il mec-


canismo della doppia preferenza introdotto dal legislatore regionale non eccede i limiti che, secondo la stessa giurisprudenza costituzionale, incontrano gli strumenti normativi volti a realizzare un riequilibrio tra i sessi nella rappresentanza politica. Quello oggetto del sindacato di legittimità è, infatti, un meccanismo che non è in grado di prefigurare un risultato elettorale, restando il cittadino libero di non avvalersi della seconda preferenza. Inoltre, la regola della differenza di genere per la seconda preferenza non offre maggiori possibilità ai candidati dell’uno o dell’altro sesso, “posto il reciproco e paritario condizionamento tra i due generi nell’ipotesi di espressione di preferenza duplice”. Quella introdotta dal legislatore campano è, di conseguenza, solo una “misura promozionale”, “nello spirito delle disposizioni costituzionali e statutarie”. 3. La portata del principio di democrazia paritaria A mio avviso, proposte come quella dell’UDI, o misure come quella introdotta dal legislatore della Regione Campania, vanno valutate anche per la loro portata di principio. In particolare, chiedere l’introduzione di una regola tecnica, quella del 50% nelle competizioni elettorali, come mezzo per la realizzazione di una democrazia paritaria, non è solo operazione tecnica, legata a profili operativi, ma è qualcosa di diverso, e di più. La democrazia paritaria, come è già avvenuto in Francia nelle teorizzazioni del Mouvement pour la Parité, non è regola, ma è principio: un principio che costringe i modelli tradizionali ad essere rivisti. Si tratta di quei modelli che tutti conosciamo e che, però, da tempo subiamo e nei quali ci riconosciamo con sempre maggiore difficoltà. La quota (secondo l’impostazione statunitense) è uno strumento discriminatorio, in astratto ingiusto, che tutela una parte debole, avvantaggiandola, per ristabilire condizioni di partenza uguali in situazioni dove la libertà “liberale” non garantisce affatto la possibilità di modificare la situazione di fatto. Affidandosi alle “quote”, le donne chiedono aiuto e sono aiutate paternalisticamente. Per questo in Italia gli uomini si fanno beffe delle quote, le donne le hanno osteggiate – e le accettano, ora, con rassegnazione-. La quota è basata, dunque, sul principio dell’eguaglianza sostanziale, in base al quale lo Stato ha il compito di “rimuovere gli ostacoli” per realizzare una eguaglianza effettiva, e non soltanto astratta (art. 3, comma 2, Cost.). La democrazia paritaria, invece, supera la logica, tutta interna all’eguaglianza sostanziale, del bisogno del più debole; essa esprime, al contrario, la pretesa a realizzare un diritto (un diritto del singolo, la cui implementazione concorre al benessere della società, come si evince chiaramente dalla legge organica spagnola). Non chiedendo aiuto, ma stabilendo condizioni di eguaglianza, con la democrazia paritaria non ci troviamo più nella visione sostanziale dell’eguaglianza, ma in quella formale. Si tratta, però, di una “nuova” eguaglianza formale, emancipata e distante rispetto al modello liberale, nel quale le donne erano escluse dalla sfera pubblica, e quindi dalla politica, ma fondata su un modello paritario, il quale richiede che la parità sia attuata, per entrambi i generi, sia nella sfera pubblica che in quella privata. L’evoluzione del modello di Stato, quindi, può essere valutata anche attraverso l’evoluzione della distinzione fra i generi e fra gli ambiti di loro spettanza. Lo stato liberale, che si fonda su un concetto soltanto formale di eguaglianza, costruisce la propria struttura sociale a partire da una rigida divisione fra la sfera pubblica, riservata agli uomini, comprendente anche il modo del lavoro, oltre che quello politico, e la sfera privata, praticamente delegata alle donne. Con lo Stato democratico-sociale si fa strada un concetto diverso di eguaglianza,


quella sostanziale, per la cui realizzazione non è sufficiente che lo stato riconosca in astratto i diritti, ma occorre che lo stesso si faccia carico di superare con appositi strumenti le discriminazioni sostanziali, assumendo un ruolo attivo, positivo, certamente contrapposto e diverso rispetto a quello negativo dello Stato liberale. In questa forma di stato le donne entrano nel mondo del lavoro come “gruppo debole” e lo Stato si preoccupa innanzitutto di tutelarle con strumenti di tipo “assistenziale (cioè con legislazioni di “tutela”, che sottolineano la diversità femminile; successivamente con azioni “positive”, strumenti di tipo “discriminatorio, in funzione del raggiungimento sostanziale dell’eguaglianza). Nella sfera politica, il cammino è ancora più lungo: assistiamo ad una contaminazione fra le sfere (al tempo stesso il modello familiare cambia e anche gli uomini fanno il loro “ingresso” nella sfera privata), ma nell’esperienza delle democrazie occidentali del secondo dopoguerra l’entrata femminile nella sfera pubblica, nel mondo del lavoro prima e nella politica poi, avviene con gli schemi tipici del gruppo debole e quindi discriminato, da difendere con strumenti forti e discriminatori. Il principio della democrazia paritaria supera questo schema e mira a costruire un modello nel quale agli uomini e alle donne appartengano a pieno titolo sia la sfera pubblica che quella privata. Se si costruisce la democrazia paritaria come nuovo modello costituzionale, possono aversi trasformazioni profonde non solo sulla struttura dei diritti, ma anche sul loro contenuto. Del resto, l’esperienza delle democrazie nordeuropee dimostra inequivocabilmente che laddove si faccia strada il principio della partecipazione femminile alla politica non come richiesta di un gruppo minoritario, ma come naturale esigenza della società, tale presenza si riflette anche, e soprattutto, nella realizzazione dei diritti, e comporta una trasformazione profonda dell’assetto giuridico della sfera privata. La presenza pubblica paritaria rende possibili interventi di grande riforma nell’ambito familiare e lavorativo che, perseguendo la conciliazione per entrambi i generi, fanno da volano a una strutturazione sociale paritaria, nel quale la principale causa di discriminazione sociale viene superata dal diritto.

*Fa parte della direzione nazionale del PD Ordinario di Diritto costituzionale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università statale di Milano


L’Ultima occasione di Aldo Masullo

1. La più potente espressione della libertà è la tecnica. La tecnica a sua volta sembra la più promettente occasione della libertà. Quanto alle sue determinazioni, la tecnica è senza dubbio un effetto della società e della sua cultura. Tecnica è produzione di regolate procedure e prescrizioni operative, in sostituzione di disordinati tentativi e prove nel superamento di una difficoltà e nella soluzione di un problema. Essa elabora le pratiche manipolatrici, empiricamente efficaci nel trasformare la realtà e razionalmente analizzabili. Ne vengono elaborati non solo i trattamenti della materia, come la coltivazione e la costruzione ma anche i sistemi intellettuali, come i linguaggi, i calcoli, i metodi conoscitivi, le norme di convivenza e di governo. La tecnica insomma si estrinseca nell’abilità del regolarmente manipolare non solo le cose sensibili, ma anche le funzioni soggettive, non solo gli elementi materiali ma anche la vita mentale. Se impossibile sarebbe immaginare un’abilità di tal genere in un uomo separatamente preso, al di fuori di ogni relazione attuale o almeno originaria con altri, al di fuori di uno stato in qualche modo sociale, e dunque non riconoscere che la tecnica è un effetto di società, altrettanto impossibile sarebbe immaginare una società che non fosse effetto di tecnica.


«La tecnica effetto di società» e insieme «la società effetto di tecnica»! Si è dinanzi a uno dei soliti circoli viziosi in cui s’impantanano le questioni astratte e, in un certo senso, «metafisiche»? O non piuttosto la «società» è un termine generico, che include almeno due specifici e ben diversi significati, e il cui uso perciò è ambiguo? In altre parole, la «società» che si dice «effetto della tecnica» è la medesima al cui proposito si dice che «la tecnica è un effetto della società», o è tutt’altra cosa? La «società effetto della tecnica» è il sistema delle relazioni in forza di cui un insieme di umani costituisce un «gruppo» più o meno ampio, organizzato per funzioni specializzate sulla base di rapporti di forza e in vista di comuni obiettivi di espansione o almeno di conservazione. L’ordinato complesso di rapporti definisce ruoli, competenze, cognizioni, desideri, variamente formalizzati ma insieme costituenti il comune medium in cui si trova immersa l’esistenza di ogni individuo del gruppo. Questa «società» è condizionata dal suo ambiente interno, oltre che da quello esterno, dallo habitat con le sue disponibilità e le sue forze favorevoli o ostili. Essa in conclusione è una macchina che senza soste perfeziona gli strumenti adeguati ai suoi intrinseci obiettivi e funzionali alle strategie di adattamento alle modificazioni ambientali. Gl’individui che vi si raggruppano sono «soci» (latinamente «alleati»), per lo più l’un l’altro affettivamente indifferenti, legati per il comune interesse da un patto di convivenza. Ben diversamente, la «società» come «ciò di cui è la tecnica un effetto», è l’originario prendere forma dell’umanità dell’uomo, il che avviene nel fervore della relazione di ogni nato con chi lo nutre e lo alleva e, sorridendogli e parlandogli, lo stimola a sorridere e a parlare, a entrare nello spazio della comunicatività emotivamente calda, dove – come Vico intuì – l’irriflesso del senso e dell’emozione attraverso la potenza fantasticante del sentimento si schiude infine alla riflessione logica. Nessuno direbbe che tra bambino e madre v’è una «società». Si direbbe piuttosto che bambino e madre sono una «comunità». La loro relazione è «naturale»: è una «nascita», lo spontaneo sviluppo, l’avvio non deciso ma vissuto di un occasionale incontro, non chiuso nel suo essere avvenuto, ma avventurosamente aperto nella sua libera creatività. In conclusione, non sarebbe inutile, per evitare confusioni concettuali, designare come «società» quel sistema chiuso di relazioni, che s’ipotizza interamente ridotto nel nostro tempo a «effetto di tecnica», e invece con il termine «comunità» intendere ogni processo aperto di relazioni originarie tra individui umani coinvolti nell’affettività della reciproca cura. Il circolo vizioso si scioglie. «Società» e «comunità» reciprocamente si condizionano, ma a titolo diverso: la «comunità» condiziona la «società» originariamente, è la sua radice e la sua permanente energia; la «società» condiziona la «comunità» storicamente, è il processo in cui se ne plasmano e incessantemente se ne riplasmano le forme. 2. Molte e varie sono le complesse elaborazioni e le sottili distinzioni nell’analisi del rapporto tra la tecnica e la società. Il tentativo più organico di renderne conto si deve a Jacques Ellul, il quale nella sua opera, assai importante pur se non priva di ambiguità, con molta enfasi pone una ragionata distinzione tra la «società tecnica» e il «sistema tecnico»: finora questo risulta instaurarsi in quella senza identificarvisi, sicché «tra i due esiste tensione» (1). Nel discorso sulla tecnica e sul suo rapporto con la società non va mai dimenticato che non si parla indeterminatamente della tecnica come non si parla indeterminatamente della società. «Società» in questo contesto non vuol dire una qualsiasi «libera» relazione tra persone, ma l’ordine di relazioni complesse e così strettamente regolate da legare tra loro anche persone reciprocamente sconosciute o comunque indifferenti. Si tratta del modello con cui Marx identifica la moderna società bor-


ghese: «La mutua e generale dipendenza degl’individui reciprocamente indifferenti costituisce il loro nesso sociale» (2). Quando si parla in sede teorica di società, come appunto intende fare Ellul, se ne parla inevitabilmente immersi nel vivo dei problemi dell’attualità sociale, e non può perciò non intendersi lo storicamente determinato «sistema sociale» borghese modemo. Non diversamente, quando si parla seriamente della tecnica, e del suo rapporto con la società, ossia con un sistema sociale, non si può lasciare il nome di «tecnica» nella sua vaghezza: abilità manuale o intellettuale, protocollo procedurale del fare o pur dell’agire, strumento materiale o pur ideale, macchina fisica o intellettuale, come già s’è detto. Ciò che seriamente interessa è comprendere quale rapporto con una determinata società, con un «sistema sociale», abbia il contemporaneo complesso delle tecniche nella loro sempre più stretta interdipendenza e coesione funzionale, insomma il «sistema tecnico». Ellul accuratamente precisa: «Utilizzando il termine sistema non voglio dire che la tecnica sia estranea all’ambiente politico, economico, ecc. Non è un sistema chiuso, ma è sistema dal momento che ogni fattore tecnico (una data macchina, per esempio), è prima di tutto collegato, relativo a, dipendente dall’insieme degli altri fattori tecnici, prima di essere in rapporto con elementi non tecnici». D’altra parte esso «non può manifestarsi, svilupparsi, esistere se non inserendosi in un corpo sociale esistente» (3). Si può per semplicità parlare di rapporto tra «tecnica» e «società», ben sapendo però che s’intende il rapporto tra il «sistema tecnico» e il «sistema sociale». Ora, nell’attuale situazione culturale si tende più o meno esplicitamente a ritenere che alla fine, divenuta tutta tecnica la società, la tecnica si presenti come il sistema inclusivo della società nella sua interezza. Al limite la tecnica inghiottirebbe la società, diventerebbe essa medesima la società. Se ciò fosse vero (e non è detto che non lo sia o non possa diventarlo: è solamente un’ipotesi, ma molto seria), vale a dire se nell’umano tra la vita (la vita, essenzialmente sociale) e la tecnica non restasse una sia pur minima eccedenza della prima sulla seconda, ii problema del nesso tra la libertà e le sue occasioni svanirebbe, non avrebbe più senso. Non vi sarebbero più occasioni, ma solo cause e casi. Né più vi sarebbe libertà, ma solo, a voler dire la cosa nel «fisicissimo» linguaggio della meccanica, il maggiore o minore «grado d’indipendenza da vincoli» di un corpo in movimento; ovvero, nel linguaggio della psicologia economica, la possibilità di semplici «scelte». A proposito di queste va detto che, come Ellul nota, «non c’è una categoria teorica della “scelta” che esprima la libertà» (4). Ma prima, e indipendentemente dalla forse impossibile prova se si stia consumando la totale riduzione della società alla tecnica, non possiamo non tentar di comprendere il senso della libertà, e ciò in non altro modo che analizzando i contenuti emergenti della nostra espenenza in corso, e in essi cogliendo il prospettarsi di prossime occasioni. Tanto per cominciare, trascrivo il passaggio più audace della lettera inviatami qualche giorno fa da un amico, intelligente e irrequieto psichiatra. «Personalmente credo che la morte non sia un “destino”, ma una necessità strategica della specie. Solo attraverso il ciclo vita-procreazione-morte-vita infatti sono state rese possibili la trasmissione e l’evoluzione darwiniana del codice genetico e la sopravvivenza della specie. Ma in questo momento della sua storia forse l’umanità non ha più bisogno della morte per sopravvivere. Abbiamo davanti la mappatura quasi completa del genoma umano. Su alcune malattie genetiche già oggi possiamo intervenire correggendo il codice. Domani possiamo immaginare di intervenire perfino sull’invecchiamento e sulla morte. Un panorama nuovo ci si pone davanti con implicazioni etiche, politiche, economiche, che non possiamo eludere, ma di


cui non dobbiamo avere paura...». L’amico a questo punto chiede quale sia la mia opinione in proposito. Non mi sembra importante, qui e ora, dire un’opinione sull’ipotesi biotecnologica che gioca ai limiti del sapere attuale. Mi sembra piuttosto conveniente prendere atto della straordinaria novità, che la nota osservazione di Karl Jaspers riassume: «Mai nella storia la scienza ha determinato in modo così decisivo, come oggi e nei due ultimi secoli, gli avvenimenti del mondo e il comportamento delle singole persone [...] La sua perfezione, la sua portata e la sua influenza, mai prima d’ora raggiunte, hanno fatto di essa il punto d’orientamento dell’uomo, il suo Umgreifende [orizzonte mentale]» (5). Straordinaria è la novità per la prospettiva d’inedite occasioni che con essa si apre e per la smisurata misura della libertà chiamata in causa. Come possono criticamente connettersi questa libertà e quelle occasioni? A parte l’incessante tensione ateistica che avverto urgere nelle domande del mio amico psichiatra, la sua fede nel potere liberatorio della scienza mi suggerisce, per fronteggiarne la veemenza polemica, di porre a mia volta una questione, preliminare alla sua. Ricordo il finale della prefazione di Jean-Luc Porquet alla riedizione del libro di Ellul. Vi si legge: «La Tecnica non cessa di accrescere il proprio impero, ma fino a quando? Questa espansione rallenterà o si stabilizzerà?». Ellul si era chiesto: «A qual fine verrà utilizzata questa attesa stasi? Per mettere ordine nella società perturbata, per permettere un’organizzazione efficiente, per assimilare l’immensità di progressi realizzati, per permettere all’uomo di radicarvisi e adattarvisi?». Commenta Porquet: «È una questione scottante, con le emergenti nozioni dello “sviluppo sostenibile” e del “principio di precauzione”: il sistema si autocorreggerà? O invece starà all’uomo autocorreggersi per meglio sottomettervisi? Se Ellul sembra propendere per la seconda soluzione, non è per il pallino sadico del pessimista felice di precludere ogni soluzione. Piuttosto è per meglio provocare, incitare alla speranza, stimolare nel lettore una presa di coscienza. Come Marx, Ellul ha sempre affermato che il primo passo verso la libertà consiste nel prendere coscienza delle proprie catene, delle proprie alienazioni». La prefazione di Porquet si chiude con le parole di un «illuminante manuale d’insubordinazione» quale, secondo lui, può esser considerato il libro À temps et à contretemps di Madeleine Garrigou-Lagrange (6). «L’importante è restituire all’uomo il massimo delle sue capacità di indipendenza, d’invenzione, d’immaginazione. Provo con la mia opera a fornirgli le carte perché egli possa poi fare il suo gioco. Non il mio. Soltanto la riscoperta dell’iniziativa individuale è fondamentale di questi tempi». Ancor qui si presenta l’incessante contrasto in cui dibattendosi vive la cultura, tra la forza autoconservatrice del sistema, l’ordine e, ogni volta, l’impulso di adattarsi alle nuove situazioni, in gran parte prodotte dal sistema stesso, insomma di rispondere alle occasioni. Se l’ordine è, in quanto tale, autoconservativo, fermo, destinato a resistere fino a crollare, ogni novità si spreca, è un’occasione mancata. Perché la libertà non sia negata nel momento stesso in cui la si pensa, non si possono non pensare le sue occasioni. Il nesso tra il ruolo provocatorio delle occasioni e la decisione di risposta è, per così dire, la «misura» della libertà. Il paradosso della cultura tecnologica matura sta nel fatto che essa è al tempo stesso il sistema (l’ordine), le novità (le occasioni) e le decisioni (la libertà). Il dilemma di Ellul («il sistema si autocorreggerà? o starà all’uomo autocorreggersi per meglio sottomettervisi?») non avrebbe senso se non si supponesse che «la dittatura tecnica astratta e beneficente sarà molto più totalitaria delle precedenti». Il dilemma è apparente. Al verificarsi di una delle sue alternative non necessariamente corrisponde il mancato verificarsi dell’altra. È impossibile che si verifichino


nello stesso tempo ambedue. Ma può ben accadere che nessuna delle due si verifichi: cioè che né il sistema si autocorregga né si autocorregga l’uomo. Qui il terzo non è escluso: è la finale catastrofe dell’umano. Giulio Giorello ammonisce: «Tecnica e scienza sembrano essere andate ben oltre le pure esigenze di sopravvivenza e di adattamento... Ribattendo a osservazioni del genere, l’evoluzionista Geoffrey Miller ammette che è proprio vero: scienza e tecnica “sembrano lussi evoluzionistici”, magari utili in dosi modeste: solo che gli esseri umani “non sono modesti, sono eccessivi”. Questo eccesso non è che un altro nome per la volontà di conoscere e di cambiare: “quasi un dovere, se riteniamo che il vero peccato capitale sia l’ignoranza. Quel che si può sapere va saputo. L’ignoranza e la paura sono i più duri ostacoli al progresso scientifico e all’assunzione di responsabilità”» (7). Si pone però una domanda decisiva. È pensabile un sapere «puro», non integrato in una cultura, dunque nel sistema di una società e di esso funzione? Avrebbe ragione Husserl contro Dilthey: l’assolutezza della «scienza rigorosa [strenge Wissenschaf ]» contro la relatività della «visione del mondo [Weltanschauung]»? Per quel che per il momento qui interessa, alla domanda non ha alcun senso pretendere di dare risposta in termini puramente teoretici. Si sta parlando non di scienza e di società in astratto, ma della scienza e della società oggi, nell’attuale stato del mondo, in sostanza del senso del nostro presente esistere nella sua vivente prospetticità. Dato l’attuale sviluppo della scienza come tecnologia e della tecnologia come sistema che tende a coincidere con il sistema sociale, si vuole conoscere quali stiano per darsi, se si daranno, le occasioni della libertà. Tra le occasioni da conoscere ci sono innanzitutto le occasioni della libertà del conoscere stesso. Qui sta il primo intoppo nell’interrogazione sulle attuali occasioni della libertà. Se il nostro tempo è riduzione completa della società al sistema tecnico, può mai con il pensiero comprendersi ciò che dal pensiero si è estraniato? Il pensiero che, fin quando noi siamo noi, non finisce di assillarci e interrogarsi, lo si chiami poi «filosofia» o come altrimenti si voglia, non si riduce a calcolo. Il calcolo, logico o matematico, è macchina, macchina calcolatrice che non crea il nuovo, ma esplicita ciò che nel già dato è implicito, giocando in infinite combinazioni sempre le medesime carte. Così il calcolo, per quanto praticamente utile, è estraniazione dalla vita, la quale invece riflettendo su di sé pensa e vive, «incalcolabile» creatività. Il calcolo, assolutizzandosi, si disimpegna dalla vita: non è né pago né fantasia: non soffre né immagina. Perciò non offre spazio alla «grazia», sola rottura possibile della comunque mascherata ripetizione (8). Dinanzi alla radicale difficoltà non si può fare altro che procedere nell’interrogazione. Se qualche risposta si riuscirà a dare a noi stessi – risposta problematica, ossia viva e mai chiusa, come vivo e mai chiuso è il pensiero –, proprio ciò e solo ciò potrà voler dire che, nonostante tutto, il sistema tecnico non è ancora divenuto assoluto. Ellul, mostrando di non condividere affatto le tesi, secondo cui «attraverso il Video si accede alla libertà, alla scelta, all’autonomia», pessimisticamente conclude che esse però già «attestano come l’uomo sia interamente “da questa parte” del sistema e non ci sia più alcun “al di là” del sistema, a partire dal quale esso possa esser “guardato” e criticato [...]. Il processo di crescita tecnica comporta la distruzione dell’universo estraneo o la sua assimilazione» (9). Alla domanda «cosa l’uomo divenga nel sistema tecnico, e se si possa conservare la speranza tanto spesso idealisticamente formulata che l’uomo “prenda in mano”, diriga, organizzi, scelga e orienti la Tecnica», la risposta tronca dubbio e «speranza»: «l’uomo al quale si attribuisce il potere di scelta, di decisione, di iniziativa, di orientamento» è «un uomo ormai totalmente immerso nella sfera tecnica» (10).


Si tratta di un uomo strettamente «conformato»: la cultura, lo svago, il desiderio, le scelte, tutto è «tecnicizzato» (11). Ora l’aperto spaziare della mente, il suo «oltrepassarsi» verso un punto di vista da cui guardare a se stessa (la «riflessione» e la «critica»), il suo confrontare le cose tra di esse e con se stessa (il «giudizio» e la «valutazione»), l’innalzarsi il più possibile sulla vita per saltarvi dentro con la massima forza di penetrazione e scendere sempre più a fondo, insomma la «trascendenza», essi soli garantiscono il pensiero vivente contro il suo ridursi all’«indifferenza» della macchina calcolatrice per quanto efficientissima. Centrale nella cultura del secolo scorso è il riconoscimento della «trascendenza» come il più proprio segno dell’umanità della mente. L’uomo sta nel mondo non come un contenuto in un contenitore. Non sta inerte in un luogo, tanto meno in una propria oggettiva identità; bensì, pur restandovi, ne fuoriesce: la rompe, si sporge fuori, si apre a ciò in mezzo a cui si trova, e in relazione a sé gli dà significato. Egli non solo, come tutti gli altri esseri animati, re-agisce «patendo» agli stimoli esterni e a quelli del suo stesso corpo ma «immagina», inventa risposte inedite, in senso forte «agisce», diviene cultura, trama di istituzioni: insomma si fa storia, tessitura di passioni e di azioni. Nel secolo scorso l’esistenzialismo fenomenologico mise criticamente a fuoco la nuova consapevolezza di ciò. «L’esserci dell’uomo – si legge in un testo di Martin Heidegger – può rapportarsi a “se” stesso, in quanto tale, solamente se oltrepassa sé nell’in-vista-di» (12). Ciò vuol dire che «qualsiasi comportamento è radicato nella trascendenza». In ciò sta la libertà originaria. La «trascendenza» così non contraddice anzi esprime la rigorosa fedeltà all’empiria e insieme alla ragione che la riconosce e l’interpreta. Il «fenomeno», l’umano manifestarsi stesso, è «trascendenza», libertà. Peraltro, nel riconoscersi trascendente, aperto all’oltre, l’uomo non può più chiamarsi fuori dalla sua relatione con gli altri, non può più eccepirsi come «non coinvolto». La sua libertà non può dirsi esente dal «ri‑spondere», non può dichiararsi irresponsabile. Dalla «trascendenza» discende il principio eticamente, e politicamente, decisivo. Ciò che rende possibile la relazione con gli altri, dove ognuno assume la sua responsabilità, è la fiducia. L’onestà del religioso si fonda nella sua fede in Dio. L’onestà del non credente si regge sulla sua fiducia nell’altro uomo. Con la tecnicizzazione la «trascendenza» risulta soppressa. Ellul amaramente conclude che «l’uomo della nostra società non possiede alcun punto di riferimento intellettuale, morale, spirituale, a partire dal quale possa giudicare e criticare la tecnica» (13). La tecnicizzazione, sopprimendo la «trascendenza», bandisce la fiducia e la sostituisce con il controllo. Come rileva un acuto osservatore, «la “sicurezza” dell’Occidente non è più garantita dal diritto internazionale, dalle Nazioni Unite, dal pacifismo, dai diritti dell’uomo», cioè dalla fiduciosa possibilità della libertà contrattuale, ma «dall’“impossibile, eppure reale” del controllo capillare e totale del pianeta, assicurato dalle nuove tecnologie informatiche» (14). La totalizzazione tecnica fa della società il sistema dello «stretto» controllo. Si realizza compiutamente il modello della società «stretta». 3. L’idealtypus della società «stretta», opposto a quello della società «larga», fu delineato poco meno di due secoli fa da Giacomo Leopardi. La società umana nella sua origine naturale – egli scriveva in un appunto del 1821 – non può essere se non simile a quella delle altre specie, «una società accidentale, e nata e formata dalla passeggera identità d’interessi, e sciolta col mancare di questa; ovvero durevole, ma lassa, o vogliamo dire larga e poco ristretta, cioè di tal natura che giovando agl’in-


teressi di ciascuno individuo in quello che hanno tutti di comune, non pregiudichi agl’interessi o inclinazioni particolari in quel che si oppongono ai generali». Dunque, una volta «ridotto l’uomo dallo stato solitario a quello di società, le prime società furono larghissime. Poco ristrette fra gl’individui di ciascuna società, e scarse nella rispettiva estensione e numero; niente o pochissimo ristrette fra le diverse società». Ma «di mano in mano che veniamo giù discendendo dai tempi naturali», «le società si sono ristrette, e ristrette per due capi: 1. tra gl’individui di una stessa società; 2. tra le diverse società. Oggi questa ristrettezza è al colmo in tutti e due questi capi». Le società si sono «sempre più ristrette e legate in proporzione dell’incivilimento». Basta osservare «i nostri tempi. Non solo non c’è più amor patrio, ma neanche patria. Anzi neppur famiglia. L’uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla solitudine primitiva. L’individuo solo, forma tutta la sua società. Perché, trovandosi in gravissimo conflitto gl’interessi e le passioni, a causa della strettezza e vicinanza, svanisce l’utile della società in massima parte, resta il danno, cioè il detto conflitto, nel quale l’uno individuo, e gl’interessi suoi, nocciono a quelli dell’altro». Insomma, «si è perduto in gran parte e si va sempre perdendo lo scopo della società, ch’è il bene comune». A questo punto, in un rilievo del 1821, Leopardi sembra polemizzare con la tesi, sostenuta poco prima, nel 1819, da Beniamin Constant. Questi aveva esaltato «la libertà dei moderni», ch’è la libertà di ogni individuo, contro «la libertà degli antichi» che invece è la libertà del corpo sociale, vissuta come propria da ciascun cittadino. La libertà degli antichi «consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, varie parti della sovranità tutta intera, nel deliberare, sulla piazza pubblica, della pace e della guerra, nel concludere trattati di alleanza con gli stranieri, nel votare le leggi […]», ma trionfava «con tale libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme» (15). Leopardi, a prima vista paradossalmente, considera funzione di società «stretta» la libertà non degli antichi ma dei moderni. Nel «dilatare» le sue considerazioni e nell’«applicarle ai fatti, ed alla storia dell’uomo», egli «paragona principalmente gli antichi coi moderni, cioè la società poco stretta e legata, e poco grande, cioè di pochi, con la società strettissima, e grandissima, cioè di moltissimi» (16). Nell’antropologia leopardiana, al contrario dell’idea di Rousseau, la natura dell’uomo è antagonistica: «L’amor proprio dell’uomo, e di qualunque individuo di qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioè l’individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l’individuo odia l’altro individuo» (17). Ma nelle società antiche «l’amor proprio fu ridotto ad amor di quella società dove l’individuo si trovava, ch’è quanto dire amor di corpo o di patria», mentre «l’odio verso gli altri individui non già spariva ma si trasformava in odio verso le altre società o nazioni». Perciò «dovunque si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello straniero» (18). A questo primo transfert, dall’odio per il prossimo all’odio per lo straniero, più tardi, «sparito affatto l’amor di patria, e sottentrato il sogno dell’amore universale (ch’è la teoria del non far bene a nessuno)», subentra per così dire un controtransfert, dall’odio per lo straniero all’odio per ogni altro individuo e all’esclusivo amore di sé. Allora «l’uomo non amò veruno fuorché se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più i vicini e compagni, in confronto dei quali lo straniero gli doveva naturalmente essere (com’è oggi) meno odioso, perché si oppone meno a’ suoi interessi e perch’egli non ha interesse di soverchiare, invidiare ec. i lontani, quanto i vicini» (19). Non molto tempo dopo, in un appunto del 1823, Leopardi esplicitamente ammette che «l’uomo è per natura il più antisociale di tutti i viventi che per natura hanno qualche società tra loro». Qualora «per società perfetta» non s’intendesse altro che «una forma di società, in cui gl’individui che la compongono, per cagione della


stessa società non nocciano gli uni agli altri» se non per caso, questo si riscontra solo «fra le formiche, fra i castori, fra le gru e simili», le cui società sono puramente naturali. Insomma «una società, dico, perfetta fra gli uomini, anzi pure una società vera», in cui tutti cospirino al bene di tutti, «è impossibile». In effetti, una società reale tanto più è lontana dall’idea di società, e perciò in contraddizione con la sua stessa idea, quanto più è «stretta». Dal momento che «leggi, premi, costumi, opinioni, religioni, dogmi, insegnamenti, coltura, esortazioni, minacce, promesse, speranze e timori di un’altra vita, niente ha potuto far mai [...] che l’individuo di qualsivoglia società umana, conformata come si voglia, non dico giovi altrui, ma si astenga dall’abusarsi, o vogliamo dire di servirsi di qualunque vantaggio egli abbia sugli altri, per far bene a sé col male altrui [...]» (20). È evidente che quanto più le istituzioni e i disciplinamenti si moltiplicano, e una società se ne riempie, e più stretto diventa lo spazio d’ognuno e più compressa la sua libertà, tanto maggiormente sui più deboli cresce il potere dei più forti, i quali sempre riescono dei suddetti mezzi a impossessarsi e servirsi. Se «è cosa certissima che tutto il mondo è patrimonio della forza (sia fisica, cioè vigore, sia morale, cioè ingegno, arte, ec. ch’è tutt’uno), e ch’egli è fatto per li più forti, ne segue che in una società stretta, inevitabilmente [...], i più deboli individui denno essere, furono, sono e saranno la preda, la vittima, il retaggio de’ più forti» (21). La società moderna è sempre più stretta: dunque, contro gl’ideali professati, è illiberale. L’incivilimento è andato oltre il segno. Esso, «spegnendo le commozioni e le turbolenze civili, in luogo di frenarle com’era scopo degli antichi, [...] non ha assicurato l’ordine» («che risulta dall’armonia, e non dalla quiete e immobilità delle parti»), «ma la perpetua tranquillità e immutabilità del disordine, e la nullità della vita umana» (22). In breve, l’individuo è stato stretto, ingabbiato. La società è divenuta una «gabbia», o più precisamente un «sistema» di sempre più numerose e stringenti gabbie: il suo dispositivo non è un ordine di forme, ma un labirintico montaggio di recinti. 4. Secondo i demografi, nel 2012 la nostra piccola Terra sarà abitata da sette miliardi di esseri umani. È l’opposto delle prime società, definite «larghissime» da Leopardi: «poco ristrette fra gl’individui di ciascuna società, e scarse nella rispettiva estensione e numero; niente o pochissimo ristrette fra le diverse società». Evidentemente la prima condizione oggettiva, a cui gli uomini nel loro determinarsi sociale devono rispondere è la densità demografica, il rapporto tra il numero d’individui e di gruppi coesistenti e l’estensione del territorio che occupano, o di cui potrebbero disporre. Il parametro metrico dell’estensione territoriale è significativo, soltanto se è integrato dalla quantità di risorse attuali o potenziali in essa contenute, cioè dall’ampiezza non solo metrica del Lebensraum, dello «spazio vitale». La più elementare qualificazione di una società sta nel suo essere, letteralmente, «larga» o «stretta», e costituisce la condizione decisiva delle occasioni, da cui è provocata la risposta della libertà nel dare forma ai rapporti tra le persone e tra le persone e le istituzioni. I percorsi stessi del dare forma risultano condizionati dalla «larghezza» o dalla «strettezza». Nelle situazioni di «larghezza» le sfide consistono nelle condizioni «naturali», com’è il caso delle «strutture della parentela» nel formarsi delle società «primitive». Nelle situazioni di «strettezza» s’impongono invece le sfide «artificiali», storiche, com’è il caso della scienza sperimentale nello sviluppo della forma industriale della società borghese. A questo punto emerge il nesso tra le occasioni naturali e le artificiali. Che altro è una qualsiasi occasione artificiale se non una tecnica? L’essenza della tecnica è la strumentalità, la capacità di mediare tra un bisogno e la sua soddisfazione. Non è possibile pensare una tecnica senza pensarne il fine, l’obiettivo da conseguire, il bisogno da soddisfare. Chi immaginerebbe un paio di scarpe ortopediche se non


per equilibrare il passo di un piede difettoso? Una tecnica peraltro non necessariamente è uno strumento materiale. Può ben essere immateriale, puro strumento mentale. Prima dell’invenzione della scrittura la memoria veniva intensamente esercitata, per tenere ad ogni occorrenza presenti eventi passati della vita privata e soprattutto pubblica, come le vicende di un regno, che oggi verrebbero registrate negli archivi, o per segnalare in tempo a noi stessi le programmate azioni, il che oggi faremmo con le agende cartacee o informatiche. Non meno per un preciso fine pratico, per poter ricostruire con precisione misure e posizioni delle proprietà terriere dopo le periodiche inondazioni del Nilo, si coltivò nell’antico Egitto la geometria. La cosa tecnica per eccellenza è la macchina, materiale o mentale. Nella sua struttura essa realizza con due proprietà l’essenza della tecnica. 1) La macchina è un procedimento regolarizzato, illimitatamente ripetibile. Se, per esempio, tecnica per l’efficienza del corpo vivente è la ginnastica, macchina è ogni prescritto esercizio; se tecnica della mente per il calcolo elementare è la tavola pitagorica o per il discorso persuasivo la retorica, macchine sono la disposizione dei fattori sul quadrato nel primo caso e, nel secondo, la metonimia o la sineddoche. 2) La macchina, programmata per un fine, è sì costitutivamente «strumento»; tuttavia nel suo esistere attuale è indipendente dal fine originario, al punto di poter venire usata per altri fini o, fuori da ogni uso pratico, assunta a oggetto di pura conoscenza. La tecnica è lo strumento. Di essa non manca di costituirsi una scienza. La tecnologia è appunto il discorso sullo strumento (23). Pratica è la tecnica, teorica la tecnologia. È la tecnica, con il suo crescente organizzarsi, la potenza che sembra destinata ad assimilare e assorbire la società. (In una società ridotta a tecnica la scienza non solo ma l’intera cultura non possono consistere che nella tecnologia. Né il suo ordine politico può essere altro che la tecnocrazia). Il pericolo più temuto, quando s’immagina il ridursi della società alla tecnica, non è in genere l’idolatria umana degli strumenti, il loro invertirsi da strumenti in fini, l’egemonia tecnologica e il totalitarismo tecnocratico. In questi casi si tratterebbe sempre di modi sia pure regressivi dell’umana soggettività. L’incubo fantascientifico, favoleggiato nel motivo dell’«apprendista stregone», è che a un certo punto le macchine materiali non restino soltanto nel loro esistere indipendenti ma lo divengano nel loro operare e, riempite come sempre più saranno di «intelligenza» artificiale, sempre più brave così nella «memoria rievocativa» o nel «calcolo matematico», sfuggano al controllo prestabilito: metaforicamente si «ribellino» o «impazziscano», o addirittura letteralmente «decidano da sé». Per qualche esperto di robotica si tratta ormai più che di un incubo fantascientifico. «La scelta del Pentagono di riorganizzare l’esercito in modo che entro il 2015 abbia un’ampia quota di combattenti non umani comporta rischi etici enormi. Dare la licenza di uccidere ai robot, che possono “impazzire” davanti a situazioni impreviste oppure essere hackerati dal nemico, è folle» (24). A questo punto, il kantiano «regno dei fini» sarebbe soverchiato dal «regno dei mezzi», l’etica delle persone dall’efficienza delle macchine. La realtà non sarebbe più il mondo della soggettività, che è il nostro mondo, quello dal cui interno noi parliamo, né perciò sarebbe mediabile dalle nostre categorie mentali: in breve non vi sarebbe più «mondo». La realtà non si conterrebbe più nella forma della patica ragionevolezza, della potenza del «trascendere», ma in altro modo d’essere, non pensabile, ma semplicemente calcolabile. In esso, se «scelte» potessero ancora concepirsi, lo sarebbero sempre in un quadro di determinismo, sia pure probabilistico. Nel «regno dei mezzi» l’idea di «dovere» non avrebbe alcun senso. In ogni caso, allo stato attuale, mentre la società si avvia ad essere il sistema tecnico, ma ancora non lo è, e i due si mantengono in tensione, la società è sempre più «stretta». Nel momento, in cui la tecnica si annettesse totalmente la società, veramente


nessun sistema di rapporti tra le parti e il tutto e delle parti tra di esse potrebbe più darsi in forma di società. Una volta annullata ogni distanza, ogni sia pur minima «larghezza» in cui tra fatto e idea trovasse spazio la tensione, cioè la polarità di «oggetto» e «intenzione», la «strettezza» diverrebbe assoluta. Il potere di simbolizzare, così intrinsecamente specifico del modo umano di essere da indurre Ernst Cassirer a definire l’uomo come «animal simbolicum», si estinguerebbe. Infatti, come lo stesso Ellul osserva, «la simbolizzazione è un processo di distanziamento, mentre il processo tecnico è al contrario un meccanismo d’integrazione dell’uomo» (25). La «trascendenza» resterebbe soppressa. Cesserebbero la paticità della mente, il piacere e il dolore interrogati oltre che patiti, la relazione non empatica o banalmente verbosa ma dialogica, insomma l’intero campo della soggettività. È evidente che un collettivo di macchine non sarebbe mai una società. 5. Ogni figlio di uomo, fattosi umano nella naturale relazione «comunitaria» della prima infanzia, non vive da uomo se non dentro un sistema di relazioni storicamente costruito, dunque artificiale, «societario». Nella relazione naturale la mente si origina come «trascendenza», movimento entro un ideale «spazio» ove al sé si oppone altro dal sé. Ne è condizione l’azione provocatoria, quasi una scossa, di almeno un’altra mente, adulta (per lo più la mente materna), la quale secondo la bella metafora di Fichte «invita» la mente nascente, cioè la sfida a rispondere, le offre la prima occasione di libertà. La «comunità» originaria non è una cosa (una collettività reale, un insieme numerabile d’individui), come molti hanno inteso per criticarne la supposta sostanzialità, bensì è una funzione (il fervore comunicativo che fa degl’individui persone); né peraltro s’identifica con l’istituzione «società», regolata convivenza di «soci», di cui invece è il «fondamento» (26). La domanda sulla libertà si può porre soltanto in concreto. Quali, in un dato momento storico, sono le occasioni con cui una società, una definita rete di rapporti istituzionali, di ideologie e di abiti pratici di massa, sfida l’uomo? In quale modo aiuta la sua mente a «spaziare» (oppure la soffoca)? A parte le sfide selvagge della natura, la società è un campo proprio delle occasioni della libertà, ma certamente né una società troppo «larga» né una troppo «stretta» aiutano la mente a «spaziare». Nella prima le sfide sono rare e deboli, nella seconda restano solo coazioni: in ambedue i casi si effettuano scelte, ma non vive la libertà. Il nostro «trascendere» è l’apparire del mondo, il luogo del nostro esser‑ci. Soppressa la «trascendenza», il mondo non apparirebbe più: funzionerebbe soltanto. Noi stessi allora non saremmo che parti del funzionamento del mondo, macchine. Ma se le macchine fossimo noi stessi, chi le «vedrebbe»? Se il nostro mondo fosse di macchine, come lo «abiteremmo» L’estrema minaccia della società tecnicizzata è la fine della «trascendenza», la s-parizione del mondo. Dissolti i significati, atrofizzato il senso, sarebbe soppresso lo spazio della «trascendenza», la coscienza come movimento di me oltre di me. Si badi: non perché uno spazio mentale, l’«interiorità», mi sia dato, io posso trascendermi; bensì soltanto nel mio trascendermi lo spazio mentale (l’«interiorità») si apre. Certo, se lo spazio mentale si chiudesse, tacerebbe «dentro di me la legge morale», e «il cielo stellato sopra di me» si dissolverebbe in un’irreversibile entropia estetica. Una volta totalmente tecnicizzata la società, ridotto il sistema sociale al sistema tecnico, reso dunque impossibile il «trascendere», è evidente che nessuna sfida più si darebbe, cioè nessuna occasione più si offrirebbe alla libertà. Ciò che seriamente ci minaccia non è un fantascientifico regno di macchine, il dominio degli automi! Il meno letterario ma ben più concreto pericolo è che gl’individui


umani cessino d’essere «persone». Con la fine delle menti patiche, ossia sofferenti e immaginose, si compirebbe la s-parizione del mondo. Ogni mente vuota di «spazio» sarebbe risucchiata dall’immediata fisicità della vita: il piacere e il dolore certo ancor vibrerebbero nelle fibre del vivente, ma senza echi che aprono spazi, senza formarsi d’inedite immagini, insomma non più sarebbero, attraverso la mediazione fantastico‑dialogica, «trascesi» in pensieri. Il mentale sarebbe ridotto all’impassibile e insensata efficienza del calcolo. A questo punto non si è ancora giunti. Ma la tendenza appare a molti irresistibile. Il sistema sociale sembra sempre più «stretto», perché sempre più tributario del «sistema tecnico». Potrebbe però anche darsi che semplicemente il sistema sociale per suoi intemi motivi, sociali e non tecnici, approfitti della tecnica per farsi più «stretto». Certamente nel nostro tempo la penetrazione della tecnica nella società fa grandi passi e sempre più veloci. Però non ancora la società può considerarsi compiutamente ridotta al «sistema tecnico». Soltanto se un giorno questa riduzione si compisse, la molteplicità dei fatti sociali, tutti allora determinati dal potere della tecnica, potremmo immaginarla pensabile, in forma di vero e proprio pensiero, essenziale e perciò necessario, come puro «sistema tecnico». In effetti, se tale riduzione si verificasse, il pensiero non potrebbe affatto pensarla perché in questo caso la possibilità stessa del pensiero sarebbe esaurita: funzionerebbe allora soltanto il calcolo. La riflessione critica non lascia scampo. Una società assimilata dal «sistema tecnico» è «impensabile». Prima che si realizzi, essa non è pensabile, perché non sarebbe organica forma, essenza, autentico oggetto di pensiero; né, realizzata, può esser pensata, perché a questo punto il pensiero si sarebbe estinto nell’automatismo del calcolo. Ci si rende ora conto di come l’idea di un sistema sociale ridotto a «sistema tecnico» non sia che un insensato incubo. Essa invece può ben avere un senso, se gli uomini non si perdono nell’assurda pretesa di pensare la sua impensabilità, ma ne intendono l’incubo come sfida. All’umanità si presenta l’eccezionale occasione per conseguire la piena maturità, per entrare finalmente nell’età della ragione, nella kantiana «maggiore età». Solo se noi ci decideremo per la difesa del pensiero vivente, che soffre e immagina e desidera il nuovo, quel che mai è stato pensato; se ci riconosceremo responsabili non verso il passato – comandi, leggi, abitudini, tradizioni, tutto già irrigidito, non capace se non di ripetersi – ma verso il futuro, verso il mondo che ancor non c’è, neppure implicito nella strapotenza della più complessa e versatile macchina calcolatrice; se, spezzando le catene dell’«eterno ritorno» del passato, ci disporremo a ricevere l’autentico nuovo, il «possibile» aperto alla grazia, allora avremo colto l’occasione del salto evolutivo, della svolta della storia, in breve la più straordinaria occasione della libertà (27). Se alla fine le morali, essenzialmente elaborate a difesa della positività di qualche ordine, saranno esaurite, potrà vigoreggiare l’etica, l’invenzione continua della libertà. La vulgata ideologica grida l’allarme contro due nemici contemporaneamente: da una parte i limiti sempre più stretti e i vincoli sempre più soffocanti della società colonizzata dal «sistema tecnico»; dall’altra parte la nichilistica distruzione di tutti i limiti e i vincoli morali. L’umanità sembra così minacciata dalla sinergia dei due opposti mali: la tecnica, totalitario ordine senza libertà; il nichilismo, sfrenata libertà senza ordine! Il diffuso timore di questa minacciosa tenaglia, e la corrispondente idea della sfida a cui oggi l’uomo sembra chiamato a rispondere, sono esemplarmente rappresentati


dal tono di una allarmata pagina di Carl Schmitt, del 1958. «Colui il quale riuscirà a imprigionare la tecnica scatenata, a domarla e immetterla in un ordinamento concreto, avrà dato risposta all’appello del presente più di colui che cerchi con i mezzi di una tecnica scatenata di atterrare sulla luna o su marte. Il soggiogamento della tecnica scatenata, questo sarebbe ad esempio l’atto di un nuovo Ercole. Da questa direzione sento il nuovo appello, il challenge [la sfida] del presente» (28). L’enfasi di Schmitt riflette gli anni in cui lo stupore di massa era suscitato dalla tecnica dei viaggi interplanetari, a ridosso e quasi a rincalzo dello sgomento seguito all’ingresso dell’arma atomica nella storia. Oggi, a mezzo secolo di distanza, siamo nel cuore di una tappa nuovissima, in cui la tecnica non si limita più, lavorando sulla materia inerte, a modificare il nostro rapporto con lo spazio e con il tempo, ma penetra nell’intimo della materia vivente, del nostro stesso corpo, e si esercita a un sempre più decisivo governo dei processi biologici, avviata a determinare fin dalle radici le condizioni della stessa vita umana. Di essa s’intaccano i limiti, la nascita e la morte, e già si perseguono deliranti prospettive di fecondazione con ovuli e spermatozoi da laboratorio, né ci si nasconde di aspirare semiseriamente all’immortalità, proprio come argomenta il mio amico psichiatra, pensando che «in questo momento della sua storia l’umanità non ha più bisogno della morte per sopravvivere». Il delirio tecnologico comporta la promessa di sopprimere il dolore. Qualcuno sostiene che in tal modo il baricentro dei problemi umani si sposta dal dolore, che la tecnica ritiene di poter contenere, al senso (29). Ma, a prescindere dal fatto che la perdita di senso, lungi dall’esser compensata dalla tecnica, da questa appunto viene in modo decisivo favorita, è impossibile che, sia pure soppresso il dolore fisico, si elimini anche il dolore morale. Questo all’uomo deriva da lui stesso, dalla sua mente: dall’angoscia della morte incombente, dalla solitudine dell’abbandono e del tradimento, soprattutto dall’idea dell’invincibilità della propria ignoranza. Vico osservò che la mente, quando contempla nelle divine idee il multiforme mondo della storia, prova «un divin piacere, in questo corpo mortale», mentre il falso provoca in essa «un forte dolore, dato che essa si adira e s’indigna di fronte alle sfacciate menzogne» (30). La mente insomma reagisce alla situazione che le è intollerabile, e cade preda di «grave dolore» quando viene aggredita, per così dire, dal suo stesso interno, quando ciò che in diritto le è proprio, il vero, viene inquinato e negato nel fatto dalla menzogna e dalla illogicità. In tal caso infatti essa è costretta, contro se stessa, a pensare il non pensiero, cioè a pensare non pensando. Qui risalta con piena evidenza come nel corpo non solo nasca il dolore che con la mente si avverte, ma s’incarni il dolore che nasce nella mente. Questa è in se medesima patica, gioiosa espansione del comprendere stimolato dalla penosità del non capire. Dunque, se per il potere della tecnica fosse soppresso il dolore fisico non soltanto ma anche, per impossibile ipotesi, il dolore morale, sarebbe con ciò tolta la mente stessa che solo nella «cultura», nella cura di sé, vive. Nel paradiso terrestre non sarebbe mai nata cultura, non tanto perché non vi sarebbe stata «conoscenza del bene e del male», quanto perché sarebbe mancato il dolore. L’«appello o la sfida a imprigionare la tecnica scatenata» sembrerebbero a questo punto dover essere dettati non dallo scompiglio da essa prodotta nei modi dell’umano abitare la Terra, bensì dallo sconvolgimento del fin qui creduto intangibile ordine della vita, e dal timore che ne resti scardinato l’ordine fondamentale della forma società, polverizzato ogni suo originario principio. Tuttavia, ben più che della consistenza biologica dell’uomo, è della sua consistenza sociale che la tecnica sempre più aggressivamente minaccia di appropriarsi, invadendone l’identità con la propria, fagocitandola. La rapidissima espansione delle tecniche informatiche sta spostando i centri effettivi del potere e del modellaggio sociale. Ai vecchi luoghi, visibili o facilmente indi-


viduabili e contestabili, se ne sostituiscono altri, dove nuovi poteri, troppo spesso anonimi e occulti, irraggiungibili, paradossalmente coltivano totalitarie trasparenze di massa. Con ciò si tende a sopprimere l’intimità privata, senza in compenso promuoverne una pubblica (l’«agorà» radicalmente democratica!). Di fatto tutti gl’individui, anche se inegualmente, vengono esposti al labirintico circuito dei controlli e dei ricatti, nel cui torbido i poteri, quanto più forti sono, tanto più pescano le carte del loro gioco. Certo le multiformi ideologie, metafisiche o religiose o politiche, in cui di volta in volta le società si esprimono, hanno sempre condizionato le menti, il che è necessario alla libertà come, nell’immagine kantiana, la resistenza dell’aria al volo della colomba. Senza condizionamenti non v’è umana determinazione. In effetti tutte le formazioni culturali, le ideologie appunto, hanno sempre condizionato le menti, però più o meno largamente, mai cioè riuscendo a toglier loro ogni spazio di attiva adesione o di convinto rifiuto (pagato magari con la vita). Anche le ideologie sono state insomma occasioni della libertà. Per esse le menti si mostrano sicure figlie della società storica, non suoi meccanici prodotti. Per un Roberto Bellarmino c’è sempre un Giordano Bruno: non il male e il bene, ma l’integrato e l’apocalittico, la ripetizione e la differenza! Ognuno ha colto a suo modo l’occasione offerta dal proprio tempo. Adesso è proprio la dialettica società-menti che la tecnica informatica minaccia di rompere. Essa tende a non lasciare alle menti spazi di opposizione. La sua logica è il semplice comunicare, indifferente al contenuto. Suo è il principio che «il mezzo è il messaggio»: il mezzo è tutto, e non altro è la comunicazione. Si ribadisce per questa via la minacciosa prospettiva dell’instaurarsi del «regno dei mezzi». Le menti si avviano ad essere sempre più strettamente condizionate ovvero, al limite, costrette dalla pubblicità (messaggio senza pensiero) e dallo spionaggio (pensiero senza intimità). Un messaggio senza pensiero e un pensiero senza intimità negano la possibilità della trascendenza. Alla fine, la cultura – che è l’umano, emancipatosi dal determinismo della natura –, se si inaridisce in pura tecnica della comunicazione, s’irrigidisce in un nuovo, ben più rigoroso e perciò stringente determinismo, «barbarie risorta», nuova selvatichezza. Estromessa la trascendenza del pensiero, non resta padrona assoluta che l’immanenza del calcolo. Allora la realtà umana non si determina più nella mediazione idealizzatrice del pensiero, insomma nella libertà, ma esclusivamente nell’immediatezza fattuale delle meccaniche cause. La nostra umanità in fieri si riduce a funzionare come quando, per dirla con Lucrezio, impulsi procedimus ictu /viribus alterius magnis magnoque coactu (31). Jürgen Habermas nel 1968, visto che tra le le prime 50 voci d’invenzioni tecniche date per probabili nei successivi 33 anni erano annoverate «un grosso numero di tecniche di controllo e di modificazione della personalità», avvertiva che, oltre le già allora praticabili «manipolazioni psicotecniche del comportamento», un «controllo del comportamento in futuro sarebbe potuto iniziare ancor più alla base e specialmente con interventi sulla trasmissione genetica di informazioni ereditarie». Alla fine «l’autoggettivazione dell’uomo si sarebbe compiuta e sarebbe culminata in un’alienazione pianificata: gli uomini farebbero la loro storia con volontà, ma non con coscienza» (32). Ora, se il seme della libertà è nel pensiero, le semplici forze «naturali» e il loro gioco non sono «pensabili», ma soltanto «calcolabili» in base all’automatica commisurazione delle utilità. La sentenza di Vico, posta all’inizio di questo libro, ora si rovescia in un’altra. Questa la si potrebbe così simmetricamente formulare: non occasio est mater societatis,


sed utilitas. Nella nostra presente prospettiva, l’occasione non è – si badi bene – una sfida a compiere gesti tecnoclastici. Il furore tecnofobico sarebbe soltanto uno stolto rinnegare noi stessi, ossia negare l’intraprendenza conoscitiva e pratica con cui abbiamo costruito la nostra stessa umanità e introdotto nel mondo inaudite differenze. La nostra occasione non è se non l’appassionante sfida a padroneggiare noi stessi, poiché noi stessi siamo la «tecnica», la nostra terza natura (dopo la prima, genetico-fisiologica, e la seconda, storico-culturale). A volerci esprimere suggestivamente con il mito platonico dell’anima come carro alato, oggi a noi – la ragione – è indispensabile tenere saldamente le briglie del terzo cavallo – il noi più capace di essere contro di noi – che Platone ancora non vide. Se esso è sempre noi, come lo sono i sensi, le passioni, l’intelligenza stessa, immaginare di sopprimerlo è sogno puerile. Il compito serio, da adulti, è dominarlo. Il nostro nemico non è la tecnica, noi stessi, ma la «tecnocrazia», il potere totalitario di una parte secessionista di noi, della tecnica fattasi prevaricazione di un corpo separato e incontrollabile, di un astratto parziale, sull’intero concreto. È il limite questo, a partire dal quale la tecnica si annette la società nella sua più stretta forma organizzata, qual è lo Stato. La capitolazione della statualità alla tecnica è alla base della riflessione di Emanuele Severino. «È la Tecnica, su cui si basa la loro forza politica, economica e militare, a servirsi sempre più degli Stati per accrescere la propria potenza, non la loro. In questo processo, l’apparato scientifico-tecnologico si costituisce come il Superstato che va lasciandosi alle spalle la politica e lo Stato e i loro conflitti» (33). Questo oggi, al di là delle piccole e meno piccole beghe degli affari di potere, miserabili apparenze, è tutto il problema «politico», grande quanto il mondo degli uomini. Per capirlo e affrontarlo occorre il pensiero, un pensiero fortissimo. Nella società stretta del modello «tecnocratico», la sfida che lo stato del mondo impone all’uomo non è tanto, contro il nichilismo, come spesso si sbandiera, la restaurazione di limiti e misure, quanto l’opposto: la rottura di limiti e misure soffocanti, lo sfondamento dell’assedio sempre più stretto, l’apertura completa dello spazio in cui la mente consiste. Qui sta ora l’occasione della libertà. Siamo tutti sfidati a rompere i confini non dell’universo rappresentato, come toccò a Bruno, ma dell’interiorità forzosamente contratta. La sfida oggi è far vivere la libertà: impedire che per nostra pigrizia o viltà la facilità del calcolo estrometta, una volta per sempre, la difficoltà del pensiero, e così la sempre più strettamente congegnata serialità dei nessi sociali soffochi la «trascendenza» della mente. Nell’età della tecnica galoppante, ci troviamo dinanzi a una sfida estrema. Nel vertiginoso giro dei tempi, se questa volta, prima che a determinare le nostre scelte e i nostri cambiamenti restino solo le costrizioni della tecnica, noi – con sapienza, pietà e coraggio curandone il desiderio – ci decidiamo ad esser liberi, potremo ancora avere occasioni di esserlo, salvarci. Altrimenti, dopo, mai più potremo essere altro che «ingranaggi».


NOTE (1) Le Système technicien [1977], Paris 2004, Le cherche midi éditeur, tr. it. di G. Carbonelli, Milano 2009, Jaca Book, p. 35. (2) Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica [1857-8], trad. it. di E. Grillo, Firenze 1968, La Nuova Italia, vol. 1, p. 97. (3) Op. cit., p. 107. (4) Op. cit., p. 391. (5) La natura e il valore della scienza [1938], tr.it. in La mia filosofia, Torino 1946, Einaudi, p. 109. (6) Paris 1981, Le Centurion, p. 174. (7) “Corriere della sera”, 30 agosto 2009, p. 24. (8) Ho discusso questo tema nel libro Il tempo e la grazia, Roma 1995, Donzelli. (9) Op. cit., p. 388. (10) Ibid., p. 378. (11) Ibid., p. 384. (12) Wesen des Grundes, in Wegmarken, Frankfurt a. Main 1967 (2 ed.), Klostermann, p. 160; tr. it. di F.Volpi, in Segnavia, Milano 1987, Adelphi, p. 119. (13) Op. cit., p. 387. (14) Mario Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Torino 2009, Einaudi, p. 127. (15) La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, tr. it. a cura di G.Paoletti, Torino 2005, Einaudi, pp. 6-7. (16) Zibaldone di pensieri, 873-877. (17) Ibid., 872. (18) Ibid.., 880. (19) Ibid., 885. (20) Ibid., 3775. (21) Ibid., 3781. (22) Ibid., 163. (23) Ellul, op. cit., p. 52. (24) Riccardo Staglianò, Robot... “La Repubblica”, 5 settembre 2009, p. 43. (25) Op. cit., p. 214. (26) Il mio pensiero sul nesso comunità-fondamento è documentato soprattutto in La comunità come fondamento, Napoli 1965, LSE; e in Il senso del fondamento [1967J, 2° ed. Napoli 2009, Editoriale Scientifica. (27) Il tempo e la grazia, cit., capp. XV e XVII. (28) Dialogo sul nuovo spazio, in: Terra e mare, trad. a cura di A. Bolaffi, Milano 1986, Giuffré, p. 108. (29) Umberto Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla filosofia pratica, Milano 2006, Feltrinelli, passim. (31) De rerum natura, II, 272-3. (32) Teoria e prassi nella società tecnologica, tr. it. di C. Donolo, Bari 1969, Laterza, pp. 229-230. (33) La Tecnica, un Superstato..., “Il Corriere della sera”, 1 novembre 2009, p. 31.


Far filosofia oggi Intervista a Massimo Barale a cura di Bachisio Deledda

Domanda

Fin dai suoi albori, la ricerca filosofica si è caratterizzata quale tentativo di istituire le condizioni di un sapere universale. L’istanza di universalità di cui si è fatta interprete e da cui si è lasciata guidare anche quando ha finito per contraddirla è un suo tratto distintivo di cui è lecito chiedersi se e a quali condizioni possa ritenersi ancora attuale. È ancora pensabile un modo di far filosofia segnato dal tentativo di procedere oltre ogni visione parziale delle cose, in direzione di strutture e principi, dell’essere e dell’agire, suscettibili di valere per tutti e in qualunque circostanza?

Risposta:

L’ipotesi di un sapere suscettibile di valere per tutti e in qualunque circostanza si presta a formulazioni diverse e non v’è dubbio che alcune di esse debbano ritenersi non più attuali. In breve: inattuale e da respingere considero ogni proposito di sapere universale il cui sottinteso siano una concezione monistica della ve-


rità: l’idea di una verità a cui ogni altra dovrebbe poter essere ricondotta, l’assunto che le molte verità parziali suscettibili di concorrervi debbano risultare infine componibili in una verità unica, in grado di prenderne il posto e alla quale dovremmo pertanto, fin dall’inizio e in ogni momento, mirare. In questa tesi che verità diverse possano essere ammesse, tollerate, solo quando è possibile pensarle quali tappe di un cammino unico e, dunque, solo nella prospettiva di un loro superamento, dobbiamo oggi riconoscere un rigurgito del passato, un fantasma tra i più pericolosi perché incompatibile con quanto gli autonomi sviluppi di saperi diversi ci hanno nel frattempo insegnato circa il nostro modo di pervenire a una conoscenza quale che sia: un modo in nessun caso incondizionato, in ogni caso e a ogni livello mediato da una cornice teorica non altrimenti interpretabile se non come un linguaggio nei limiti del quale stiamo procedendo. Avendo imparato questo abbiamo imparato anche che nessuno dei linguaggi, naturali o artificiali, alle cui capacità di mediazione possiamo essere tentati di affidarci, può essere ritenuto funzionale alla generalità delle esperienze per noi possibili: ognuno può risultare funzionale, tutt’al più, a una tipologia di esperienze che altre ne sta escludendo. Nell’una o nell’altra di prospettive l’una all’altra irriducibili il nostro modo inevitabilmente mediato di pervenire a una conoscenza quale che sia ci obbliga a muoverci, con la consapevolezza che a questa pluralità di accessi disponibili non potremmo rinunciare senza che la realtà di cui facciamo esperienza non ne risulti impoverita, imprigionata in schemi che le impedirebbero di rispondere alla maggior parte delle attese e degli interrogativi che suscita. Quando mi si chiede se le proprietà del tavolo che ho di fronte siano quelle che gli sta attribuendo la mia attuale, ordinaria percezione di esso (le proprietà di una cosa, da ogni altra separabile al modo di un ente in sé consistente e per sé sussistente) o non siano piuttosto quelle che, nel suo laboratorio e alla luce delle sue analisi, gli attribuisce il microfisico quando altra realtà non è disposto a riconoscergli se non quella di un campo di forze che con altri costantemente interferisce, devo essere in grado di rispondere, non per quieto vivere, ma a ragion veduta, che entrambe queste rappresentazioni del tavolo hanno pieno diritto di cittadinanza, perché entrambe capaci di fungere da veicolo e tramite di verità ad esso riconducibili. E questa risposta non sarebbe sufficiente se non fossi in grado di aggiungere che un medesimo diritto, una analoga capacità di farsi tramite di verità ad esso riferibili, è doveroso riconoscere anche ad altre sue rappresentazioni possibili: ad esempio, alla rappresentazione che potrebbe darcene un pittore cubista, nelle forme di un linguaggio certamente diverso da quello che disciplina le nostre percezioni ordinarie non meno che da quello alle cui capacità esplicative si affida il microfisico. Ma risposte come questa non arrivano da sé e, soprattutto, vanno date con una consapevolezza che eviti di fraintenderle, di attribuire loro un significato diverso da quello che dovrebbero poter assumere. Domanda

Può essere più esplicito?


Risposta

Voglio esserlo. La tesi che propongo di porre al centro del nostro odierno modo di far filosofia, la tesi di una pari dignità di accessi diversi a una realtà che non cesseremo per questo di considerare per tutti la medesima, non è un semplice corollario della tesi che ne riconosce l’irriducibile pluralità. Questo riconoscimento, infatti, è un accertamento con cui ci si limita a rispondere alla questione di fatto circa la possibilità o impossibilità di una loro reductio ad unum, mentre affermare che accessi diversi e di fatto irriducibili godono di pari dignità teorica significa rispondere a una questione di diritto o, se si preferisce, di valore, circa la legittimità delle loro pretese. Una questione come questa può essere proposta solo assumendo che si diano punti di vista in grado di garantirne una valutazione equanime, quale potrebbe darsi solo ammettendo che identici per tutti siano i titoli che a ciascuno richiedono. Ma questo significa che, lungi dal poter essere considerata un semplice corollario della loro riconosciuta pluralità e irriducibilità, la tesi della pari dignità teorica di accessi irriducibilmente diversi, può essere coerentemente sostenuta solo su presupposti incompatibili con qualsivoglia tentazione di utilizzare il dato della loro irriducibilità come un’arma per escludere in partenza ogni prospettiva suscettibile di promuovere una considerazione trasversale di ogni altra possibile: solo ammettendo che dia un modo di considerarle rispettoso della loro autonomia, ma nello stesso tempo in grado di far valere parametri comuni a cui nessuna potrebbe pretendersi indifferente.

Domanda

Sarebbe una prospettiva certamente bene accolta da quanti sentono il bisogno di ridefinire i compiti della ricerca filosofica salvaguardandone al tempo stesso l’autonomia. Ma si può dubitare che possa effettivamente darsi ed è lecito chiedersi quali strategie potrebbero istituirla e quali condotte teoriche potrebbero consentirci di mantenerla e svilupparla. Quali sono le sue risposte a questi interrogativi?

Risposta

Le mie risposte tengono conto di quanto ho imparato da tre indirizzi del pensiero contemporaneo che su un’idea della filosofia come sapere eminentemente trasversale sostanzialmente convergono: l’indirizzo che variamente si richiama ai principi di un’ontologia definita “ermeneutica”, l’indirizzo che ha scelto di chiamarsi “analitico” e l’indirizzo che si riconosce nell’originario progetto husserliano di una fenomenologia trascendentale. Al primo di questi tre indirizzi (primo, s’intende, nella ripresa che sto qui facendone) riconosco un merito che non è tanto quello di aver sostenuto il primato ontologico del linguaggio, cioè una tesi che, nelle sue formulazioni più radicali (là dove sconfina nell’affermazione che tutto, in noi e per noi, è linguaggio e che non unicamente nei limiti di un linguaggio, ma da eventi che di natura linguistica già sempre sarebbero ogni nostra esperienza procede), mi sembra oggi difficilmente accettabile , quanto quello di aver favorito un modo di considerarlo che in ogni linguaggio ha insegnato a cogliere le sue essenziali valenze ontologiche, ben al di là di quanto di convenzionale e arbitrario va


riconosciuto nei simboli di cui si avvale. In questa direzione, le filosofie di indirizzo ermeneutico si sono incontrate con quelle di indirizzo analitico, alle cui indagini di tipo morfologico-intenzionale hanno non poco contribuito. Su questo punto vorrei un istante fermarmi, perché quel tipo di indagine che sto definendo morfologico-intenzionale rappresenta un primo e imprescindibile livello di ogni considerazione di saperi diversi che “filosofica” voglia risultare. Nella prospettiva che sto disegnando, coincide col primo livello di formazione di quel punto di vista compiutamente trasversale che miriamo a istituire. Domanda

Può dirci allora quando e come una riflessione filosofica su saperi diversi può pretendere di aver soddisfatto le condizioni di una ricostruzione morfologico-intenzionale della loro genesi?

Risposta

Le ha soddisfatte quando sia arrivata a privilegiarne la dimensione linguistica e a farci riconoscere in essa uno dei tanti linguaggi attraverso i quali i possibili oggetti delle nostre esperienze risultano identificabili. Mi sembra questa l’unica via che una riflessione filosofica consapevole dei propri debiti storici e dei limiti istituzionali che le impongono può oggi scegliere come specificamente propria. È la via di un’indagine che ha il merito di spostare l’attenzione da quel mero dato di fatto che un sapere quale che sia non cesserebbe altrimenti di essere verso condizioni in grado di illuminarci circa la sua possibilità. Alla morfologica ricostruzione di un sapere quale linguaggio tra altri possibili non si perviene, infatti, se non riconoscendo nelle sue strutture formali una ratio a cui stanno rispondendo, un’intenzione da cui dipendono e che può essere legittimamente assunta quale unità di misura di una loro adeguatezza se non altro strumentale. A misurarla sono criteri che nello spazio di una comprensione morfologico-intenzionale si rendono per la prima volta disponibili: compatibilità, congruenza, funzionalità. Ad essi siamo debitori di un primo esempio di considerazione trasversale, poiché non vi è linguaggio che a una valutazione condotta in loro nome possa legittimamente sottrarsi. Sono inoltre i più idonei a rendere visibili e apprezzabili forme di razionalità di tipo strumentale variamente operanti nelle diverse manifestazioni della nostra vita. È quanto basta a giustificare l’interesse del filosofo del nostro tempo verso quel tipo di indagine morfologico-intenzionale che ne consente un’assunzione metodica e coerente. Ma la trasversalità dei criteri che fa valere non è ancora quella di un’esperienza in grado di assumere i diversi linguaggi a cui si applicano quali proprie interne articolazioni. Se a questa si mira, un passo ulteriore s’impone.

Domanda

Mi sembra di capire che proprio a un’esperienza siffatta lei stia pensando come a una pratica filosofica ancora possibile. Quali potrebbero esserne le condizioni?

Risposta

Ho già accennato a un mio debito verso il progetto husserliano di una fenomenologia trascendentale. Da esso ho tratto stimoli decisivi per recuperare su basi nuove, profondamente diverse da quelle che aveva saputo offrirle la tradizione ontoteologica della


filosofia medioevale e moderna, l’ipotesi di un orizzonte delle nostre esperienze definibile come trascendentale e di un’esperienza che di esso in qualche modo sia. Da sempre, cioè fin dalle sue prime apparizioni tardo-medioevali, la nozione di “trascendentale” si è trovata associata all’idea di un punto di vista sovraordinato rispetto a tutti quelli che vengono a coincidere con l’una o con l’altra prospettiva categoriale . Oggi diremmo: rispetto a tutti quelli che dobbiamo considerare conseguenti all’adozione di un determinato linguaggio. Ma, nella prospettiva ontoteologica di quelle filosofie tardomedioevali e protomoderne che lo teorizzavano, era inevitabile pensare che un punto di vista a ogni altro sovraordinato potesse essere assicurato solo da nozioni o predicati dotati della massima generalità: tanto generali da poter valere in ogni momento e per ogni ente in quanto tale. Questa più antica identificazione del trascendentale con un ordine di nozioni tanto generali da non poter essere eluse, da dover essere ammesse come una forma di intelligenza implicita in ogni altra, è oggi non meno improponibile dei tanti pregiudizi su cui si reggeva. Nessuno si sognerebbe di riproporla, di ritenere attuali forme di trascendentalismo che non potrebbero essere recuperate se non riproponendo il modello di quelle ontologie che abbiamo imparato a definire classiche e, con esso, una concezione del pensare come classificare, del conoscere come restituzione alla realtà di immagini di sé che essa stessa spontaneamente produrrebbe, della realtà stessa quale universo di enti dotati ciascuno di una propria irriducibile individualità e destinati a occupare in esso, nell’universo finito di cui segnerebbero i confini, un luogo e un tempo univocamente determinabili. Pensieri come questi sono, per la nostra ricerca di un orizzonte comune a cui ancorare le molteplici esperienze da cui possiamo essere tentati, una zavorra che può solo scoraggiarla: fantasmi, nondimeno in grado ancora di condizionarla e da cui non potrà interamente liberarsi finché non cesserà di percorrere rotte che furono le loro. Fuor di metafora: finché suo tema continuerà ad essere un ipotetico fondamento meta categoriale delle nostre categoriali assunzioni che in null’altro se non in nozioni più generali di quelle oltre le quali lo stiamo cercando potrebbe consistere. È necessaria una svolta. E la svolta decisiva verso una nuova concezione del trascendentale esige che non più al modo di un metacategoriale fondamento, ma al modo di un precategoriale orizzonte venga cercato. L’ho imparato da Husserl ma, paradossalmente, la lezione di Husserl mi è servita soprattutto per rileggere Kant. E proprio nelle pagine di un Kant riletto alla luce delle avvertenze husserliane ho trovato la risposta che cercavo: una teoria di quella dimensione delle nostre esperienze che trascendentale merita di essere detta finalmente all’altezza delle mie aspettative, perché capace di farla coincidere con una vera e propria esperienza di ogni modo di condurre esperienze quali che siano a cui ognuna deve la propria possibilità e ai cui parametri non può pertanto, senza contraddizione, sottrarsi. Domanda

Mi sembra inevitabile chiederle di quale esperienza si tratti e quali pagine di Kant gliel’abbiano suggerita.


Risposta

Husserl mi ha insegnato a riconoscere, nella kantiana Critica della ragion pura, sepolte sotto le macerie di una metafisica delle forme che rischia continuamente di soffocarla, le linee fondamentali di una fenomenologia del senso il cui approdo finale è la scoperta di una precategoriale essenza della umana ragione: di quella capacità di orientamento e di organizzazione a cui ogni possibile assetto formale delle nostre esperienze costantemente rimanda. Metafisica delle forme ho imparato a chiamare quei momenti della teoria kantiana dell’esperienza che si prestano a fungere da vero e proprio ricettacolo dei più tradizionali pregiudizi circa una conformazione naturale della nostra mente e una conseguente impossibilità per le nostre esperienze di cogliere una verità quale che sia quando dovessero uscire dai confini di una logica e di un linguaggio ritenuti gli unici in grado di assecondarle. Fenomenologia del senso ho per contro imparato a chiamare quei suoi momenti alternativi nei quali prevale l’istanza di esperienze disposte a interrogarsi sulle proprie condizioni di senso e, pertanto, in linea di principio disponibili ad assumere forme diverse. Su questi momenti alternativi ho concentrato la mia attenzione, cogliendone il nesso con una teoria della ragione non vincolata all’assunto di una sua indeclinabilità, di un suo vincolo strutturale con un’unica sua possibile articolazione formale. Anche questo c’è in Kant. Di questa mia rilettura del suo progetto di una critica della ragione ho dato conto in molti lavori e, più recentemente, in un saggio che la rivista “Studi kantiani” proporrà nel suo fascicolo di quest’anno. Ho mostrato come luoghi canonici di una metafisica delle forme debbano ritenersi le cosiddette “esposizione metafisiche” delle forme pure della sensibilità e dell’intelletto e quei tentativi di esposizione o deduzione trascendentale delle medesime forme che sui risultati delle loro esposizioni metafisiche non possono evitare di basarsi. Ho contestualmente mostrato come, in alternativa, luoghi canonici di una inedita fenomenologia del senso debbano invece considerarsi quei capitoli della Dialettica trascendentale della prima Critica e quelle pagine della terza Critica in cui il tema diventa un’essenza dell’umana ragione non riducibile al alcuno di quegli assetti formali delle nostre esperienze in cui può trovare espressione e identificabile piuttosto come quel modo di promuoverli e svilupparli che, pur nel rispetto della loro specificità, li rende partecipi di un’impresa comune: complici di un progetto che con la sua stessa essenza si identifica. Ragionare, infatti, quali che siano le forme in cui ragioniamo, significa sempre far valere un principio di compossibilità e scommettere sulla possibilità di una finale coesistenza di tutti i possibili che accettino di obbedirvi. A Kant dobbiamo la scoperta di questa essenza progettuale del nostro ragionare, di una sua dimensione teleologica che lo caratterizza nella sua stessa scelta dei propri codici formali e quali che siano i codici formali di cui sta tentando di avvalersi. Ragionare, condurre le nostre esperienze in un modo che ragionevoli consenta loro di risultare, significa offrire alle loro possibili articolazioni formali una prospettiva che non cessa di essere la loro, l’unica condizione di senso a cui non possono rinunciare, neppure quan-


do i parametri che ci offre risultino violati dall’interpreazione che stanno dandone, da condotte che irragionevoli, non per nulla, siamo allora autorizzati a definire. In quel progetto che la nostra ragione in ultima istanza, in e per se stessa, si rivela quando ai sottintesi ontologici di quel potere di orientamento e di organizzazione in cui la vediamo manifestarsi si sappia risalire, è possibile riconoscere un orizzonte da cui le nostre esperienze scoprono di non poter uscire quando sulla propria possibilità riflettano e della propria possibilità vogliano prendersi cura. Definire “trascendentale” l’esperienza che ci è concesso farne ha un duplice significato: è un modo di sottolineare i vincoli che mette in luce, gli obblighi a cui una tale riflessiva esperienza di ciò che ragionare significa per noi costantemente ci rimanda, ma è anche un modo per ricordare il suo ineludibile carattere trasversale. Più esattamente: il fatto che la sola esperienza possibile di quel progetto che la nostra stessa ragione è, resta quella che compiamo ragionandone e scegliendo di compiere le nostre esperienze in una forma e, dunque, entro limiti che ragionevoli consentano loro di risultare. La prospettiva che ho tentato di delineare corrisponde a un modo di far filosofia la cui complessità non potevo certo esaurire in questa sede. Per chi lo vorrà, ci sarà presto occasione di riparlarne. Ci sarà offerta dal grande Congresso internazionale che vedrà riunirsi a Pisa, tra il 22 e i 26 maggio del 2010, i rappresentanti di tutte le Società di studi kantiani sparse per il mondo. Il tema scelto quale suo filo conduttore (la prospettiva cosmopolitica implicita nella filosofia kantiana) ha molto a che vedere con il modo di far filosofia che ho cercato di evocare. di uno stato in qualche modo sociale, e dunque non riconoscere che la tecnica è un effetto di società, altrettanto impossibile sarebbe immaginare una società che non fosse effetto di tecnica.


Religione, società e politica nell’Italia odierna di Mauro Visentin

Provo ad elencare alcuni avvenimenti e casi accaduti in Italia nei mesi in cui, dopo la pausa estiva, si è riaperta la stagione politica. Il PD si è dotato di una nuova direzione, eleggendo a segretario Pierluigi Bersani. Una parte dei popolari che era entrata nel partito al seguito di Francesco Rutelli ne è uscita o si prepara ad uscirne. Si è riacceso il dibattito mai spento sull’unità politica dei cattolici e sulla presenza vaticana e il ruolo giocato dalle gerarchie episcopali nella sfera pubblica di questo Paese. Si è aperta una grave crisi istituzionale tra presidenza del consiglio, da una parte, presidenza della repubblica e presidenza della camera, dall’altra, in seguito alla bocciatura del cosiddetto lodo Alfano da parte della Consulta. Il centrodestra ha presentato, di conseguenza, una proposta di legge volta a ridurre i tempi processuali previsti per alcuni tipi di reato, fra cui quelli relativi a capi di imputazione che ricorrono nei procedimenti nei quali è tuttora coinvolto il leader della maggioranza, e numerosi esponenti del mondo politico e istituzione, per un verso, della cultura e della società civile, per l’altro, hanno manifestato dubbi di legittimità costituzionale, oltre che di opportunità, al riguardo, paventando anche l’effetto che l’introduzione di una legge


simile, nelle condizioni in cui versa attualmente la giustizia in Italia, potrebbe avere, rendendo impossibile la punizione di reati anche gravi e per i quali esiste già un processo avviato. Il direttore dell’Avvenire, quotidiano dei vescovi, è stato fatto oggetto di pesanti attacchi personali, fondati su una vicenda giudiziaria a sfondo privato, da parte del Giornale, di proprietà del fratello del premier, e in seguito a questi si è dovuto dimettere. A distanza di qualche settimana, una parziale marcia indietro del quotidiano diretto da Feltri è apparsa a tutti come un tardivo risarcimento, rivolto più alle gerarchie episcopali che al diretto interessato, per la campagna ritorsiva – come era stata generalmente interpretata l’iniziativa del Giornale – contro l’atteggiamento severo assunto dalla CEI in relazione alle vicende personali che prima dell’estate avevano coinvolto il Presidente del Consiglio. Dopo che l’AIFA, l’agenzia preposta alla verifica sulla validità dei farmaci e all’autorizzazione del loro uso, ha dato il via libera all’impiego in Italia, sotto controllo medico, della pillola abortiva RU86, il governo, con un’iniziativa inconsueta e anomala, che secondo molti osservatori esorbitava dall’ambito delle sue competenze e delle sue funzioni, ha inoltrato una direttiva – cercando di imporre, senza successo, all’AIFA di farla propria – contenente alcune significative restrizioni cui l’adozione del farmaco dovrebbe essere, a suo parere, sottoposta nel suo utilizzo esclusivamente ospedaliero. Sulla scia di un referendum che inopinatamente (ma forse neppure troppo) ha visto prevalere in Svizzera i contrari alla costruzione di nuovi minareti, alcuni esponenti della lega hanno colto al volo l’opportunità di avanzare, a scopo, forse, solo propagandistico, nuove proposte volte a contrastare la penetrazione etnica, religiosa e culturale dei musulmani in Italia e sono giunti a lanciare un ruvido avvertimento contro l’azione pastorale dell’arcivescovo di Milano, rea, ai loro occhi, di privilegiare gli “ultimi”, che a Milano non sono certamente i milanesi ma, come in tutto il resto d’Italia, gli immigrati. La corte europea di Strasburgo ha emesso una sentenza che riconosce le ragioni di una cittadina italiana ostile all’idea e al fatto che il figlio dovesse frequentare una scuola nelle cui aule è appeso un simbolo religioso come il crocifisso. In risposta a questa sentenza, un gruppo di parlamentari del PdL ha depositato una proposta di legge secondo la quale il crocifisso dovrebbe essere esposto, come simbolo culturale identitario, in tutti gli edifici pubblici, prevedendo un periodo di carcerazione come pena sanzionatoria per chi, eventualmente, procedesse a rimuoverlo o per quegli ufficiali pubblici e quei pubblici impiegati che si rifiutassero di esercitare i loro compiti amministrativi sotto lo sguardo tragico e dolente dell’emblema cristiano del sacrificio. A coronamento dell’escalation di attacchi lanciati dal premier contro giudici, cariche istituzionali di garanzia (Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale), opposizioni e stampa e delle repliche sempre più allarmate ed esasperate della minoranza e in particolare di Di Pietro e del suo movimento, oltre che dei vari “blogger” che in rete lanciano parole d’ordine e proposte di manifestazioni autoconvocate contro il Consiglio dei Ministri e il suo presidente, Sivio Berlusconi è stato fatto oggetto di una violenta aggressione fisica da parte di uno squilibrato, con conseguenze che hanno imposto la sua ospedalizzazione per qualche giorno, aumentato oltremodo la già alta tensione politica e suscitato un allarme crescente per la piega che gli sviluppi della situazione in Italia potrebbero prendere nei prossimi mesi. In gennaio, a Rosarno, in Calabria, una rivolta di immigrati, esasperati dalle condizioni di vita disumane imposte loro dall’avidità dei coltivatori locali e della criminalità organizzata, che gestisce la raccolta stagionale dei prodotti ortofrutticoli, oltre che dall’indifferenza se non dall’ostilità di molti residenti, si è trasformata in una guerra a sfondo raziale fra italiani e nordafricani – con feriti anche gravi (soprattutto dalla parte dei primi, che sono stati addirittura presi a fucilate) – che ha visto, alla fine la deportazione di molti di questi nei centri di identificazione e di prima accoglienza in vista di una definitiva espulsione. Al riguardo, il ministro leghista degli interni non ha saputo trovare di meglio che imputare quanto


accaduto ad una tolleranza eccessiva nei confronti dell’immigrazione clandestina (dichiarazione grave, non solo per l’insensibilità morale che dimostra, appena dissimulata dalla finta oggettività di un rilievo pseudosociologico, ma perché ignora deliberatamente che il ricorso ai clandestini per la raccolta stagionale è frutto del combinato disposto della legge che regola male, soprattutto al sud, la politica degli ingressi, da una parte, e dell’attività delle organizzazioni criminali, dall’altra). Si tratta di un elenco incompleto e non cronologicamente ordinato (che qualcuno potrebbe perfino giudicare casuale) di fatti di diverso peso e di diversa entità, che hanno destato reazioni diverse (anche se quasi tutte negative) nella mia coscienza politica e civile e, credo, anche in quella di qualcun altro oltre a me (sebbene, forse, non in così tanti da poter supporre che questo indirizzo delle cose possa, a breve, cambiare). Che cos’hanno questi fatti in comune? Meglio ancora: hanno, intanto, qualcosa in comune, gli eventi che ho menzionato? In due giorni successivi degli inizi di dicembre, il 9 e il 10, sono apparsi, rispettivamente sul Corriere della Sera e su Repubblica, due interventi, il primo di Massimo Franco, che come si sa è un editorialista politico del Corriere, e l’altro di Vito Mancuso che, cosa altrettanto nota, è un teologo “liberale” (non so se la definizione incontrerebbe il suo consenso), assurto da qualche tempo ad una certa notorietà in virtù di un suggestivo saggio sul destino dell’anima, e divenuto anche, da poco, un collaboratore del quotidiano fondato da Scalfari. La cosa si segnala, perché i due interventi sostenevano, da punti vista assai diversi, tesi, in fondo, complementari. Provo a riassumerle in poche battute. Massimo Franco avanzava l’opinione che – anche in seguito alla diaspora dei cattolici succeduta al crollo della Democrazia Cristiana, ma non solo – il peso che i politici dichiaratamente schierati in difesa della fede sono in grado di esercitare in entrambi gli schieramenti e, di conseguenza, la capacità del Vaticano di incidere nelle scelte politiche dei partiti e del governo in Italia si sono notevolmente ridotti e sono destinati a ridursi sempre di più. Mancuso asseriva che stiamo assistendo, a livello planetario, ad un ritorno (una “rivincita”) di Dio, che però non si tradurrebbe, a suo parere, in una rivincita del Cristianesimo, in generale, e del Cattolicesimo, in particolare, inteso quest’ultimo, ritengo e se non comprendo male, come Chiesa, apparato, dogma, teologia canonica e pensiero scolastico. Insomma, come tutto ciò che la storia della cultura europea moderna ci ha abituato a considerare “religione cattolica”. Bisogna però fare attenzione: il discorso di Mancuso intendeva proporsi come interno a questa prospettiva religiosa, non solo per ragioni di “militanza teologica” e di fede personale, ma perché ciò che egli voleva mettere in risalto non era il successo di un’altra religione (per esempio l’Islam) a fronte di una difficoltà del Cattolicesimo di mantenere e di estendere la sua area di influenza a livello mondiale o geopolitico, ma il fatto che la ripresa di interesse per il fenomeno religioso e una diffusa ansia di salvezza che cerca e trova risposte nella fede, non gli sembravano, attualmente, riconoscersi più nel messaggio cristiano ufficializzato attraverso la sua istituzionalizzazione ecclesiastica, bensì, piuttosto in un’accentuata ricerca di spiritualità, che a suo parere giungerebbe, a tratti, a vere e proprie forme di misticismo e che avrebbe – suppongo – nella figura di Cristo oltre che in qualche singolare esempio di pietà e di elevazione religiosa i suoi modelli e i suoi punti di riferimento. L’aspetto stando al quale questo orientamento – secondo Mancuso frutto della postmodernità – non si rivolgerebbe né alla Chiesa né al cristianesimo della tradizione, per i quali proverebbe invece noia e disinteresse, veniva da lui indicato come quello in cui avrebbe dovuto riconoscersi, a suo parere, la vera novità rappresentata dal fenomeno. I due interventi, dicevo, apparivano complementari. Entrambi, infatti, segnalavano una perdita di influenza – politica, il primo, addirittura religiosa oltre che culturale e teologica, il secondo – del Vaticano e delle sue gerarchie. La valutazione, almeno con riferimento all’Italia, non poteva non destare un certo stupore. Sembra, infatti,


piuttosto difficile negare che l’attuale governo di centrodestra abbia stipulato un tacito accordo con la Chiesa in virtù del quale sulle cosiddette questioni eticamente sensibili la maggioranza parlamentare e lo stesso esecutivo si sono venuti sempre più rigidamente schierando a fianco del Papa e dei vescovi, con uno zelo che gli esponenti della vecchia DC non sono mai giunti neppure a sognarsi, vista anche la sfrontatezza e tracotanza illiberale per mezzo delle quali lo si ostenta. Allo stesso modo, sul fronte strettamente religioso e teologico, dopo il successo che ha contraddistinto – in una fase in cui il Cristianesimo e in generale la dimensione religiosa dell’esistenza sembravano essere stati messi totalmente fuori gioco dal processo di secolarizzazione – l’impegno di Giovanni Paolo II nel riorganizzare le fila della Chiesa cattolica a livello planetario, rilanciandone l’azione e il culto, non appare affatto evidente la tesi di Mancuso, circa le vie diverse e alternative che, rispetto all’ufficialità della religione istituzionale, avrebbe imboccato il bisogno di affidamento al sacro, senza alcun dubbio facile da riscontrare sulla scia delle carenze che la civiltà tecnologica mostra di continuo riguardo ai temi della vita, della morte, del loro senso e scopo. Eppure, qualcosa di innegabile, percepito, prima ancora che compreso, come tale, e di cui occorre quindi rendersi conto e darsi ragione, era presente, riconoscibilmente presente, nelle considerazioni di Mancuso non meno che in quelle di Franco. Si potrebbe riassume la cosa in questi termini: ciò che distingue la piaggeria religiosa dell’attuale centrodestra berlusconiano da quella della vecchia DC è soprattutto l’assoluta spregiudicatezza e l’evidente opportunismo di cui essa apertamente si nutre. Sia chiaro, qui non si tratta di denunciare un atteggiamento più o meno ipocrita: molta e indiscutibile ipocrisia era presente e avvertibile nella condotta politica e di vita di numerosi esponenti democristiani della “prima repubblica”. Ma la loro fede, forse mediocre, se valutata con il metro di un Dossetti o di un La Pira, era autentica, così come autentica era l’obbedienza che costoro tributavano alla Chiesa e alle sue gerarchie. La novità che caratterizza l’attuale fase politica è che, invece, nell’atteggiamento del centrodestra – e si potrebbe dire che ciò dimostri un assoluto “laicismo” psicologico da parte sua – il rispetto per i principi dell’etica religiosa è del tutto svincolato dalla fede e, direi, anche dalla cultura, nel senso che ha visibilmente un carattere di chiara matrice ed impronta strumentale (nell’accezione stretta e “tecnica” del termine – non in quella metaforica e venata di riprovazione – ovvero nel senso di “finalizzato ad uno scopo”). E lo scopo che il centrodestra persegue con questo mezzo è il consenso. Non solo in termini elettorali, ma, prima ancora, in termini ideologici. In altre parole, il centrodestra ha capito, prima e meglio del centrosinistra, grazie soprattutto all’istinto comunicativo che contraddistingue il suo leader, i meccanismi che oggi, in Italia, regolano la “cattura” del consenso, ed ha così mostrato di aver compreso che più che il consenso dei cattolici esso doveva mirare ad ottenere quello dei conservatori. Di coloro che nel Paese rappresentano da sempre la componente maggioritaria dell’elettorato. I quali, privi di ogni senso di appartenenza ad una comunità che varchi i confini, al massimo, di una cultura regionale, percepiscono come minaccia tutto ciò che rappresenta un’intrusione dello Stato e del governo nella loro vita quotidiana. Una minaccia da cui doversi difendere e nei confronti della quale doversi garantire. E’ una disposizione psicologica che, si potrebbe dire, corrisponde ad una sorta di istinto difensivo primario. Ad esso occorre poi si sovrapponga, per poter alimentare il bisogno, comune a tutti, di autostima, la professione di fede in alcuni valori. Quelli più a portata di mano, quelli più adusi ad essere svincolati da comportamenti che ne rispecchino con coerenza l’ispirazione morale, quelli che sono già stati a lungo pensati, discussi ed elaborati (e che per questo esonerano dal compito di impegnarsi direttamente nel giudicarli e farli criticamente propri) sono i valori desunti dalla tradizione religiosa, che, in Italia, è essenzialmente la tradizione cattolica. Il centrodestra ha avuto la capacità


di comprendere che, consumatasi, con il crollo della Democrazia Cristiana, l’unità politica dei cattolici, il modo migliore di attrarre il consenso di massa resosi in tal modo disponibile, evitandone la diaspora (ossia evitando che, per mancanza di offerte ideologiche a lui affini, esso iniziasse una sua migrazione verso approdi diversi) era elaborare una proposta che tenesse insieme, con le promesse di un fisco favorevole e poco invasivo, un’etica conservatrice, rigoristica solo e selettivamente sulle questioni che attengono alla vita biologica, non, però, riguardo a quelle che concernono l’esistenza sociale e individuale. Tutto questo non è stato frutto di una scelta pianificata: è venuto sedimentandosi gradualmente, per aggiunte successive, grazie all’intuito comunicativo di cui ho già parlato. L’esito finale di un simile processo è quello che sta sotto i nostri occhi: rappresentato da un’etica pubblica estremamente degradata (perché senza dubbio ipocrita e opportunistica), profondamente illiberale, demagogica e proterva, ma sufficientemente identitaria da risultare suggestiva per un numero cospicuo di italiani e pertanto efficace nella conquista e nel mantenimento del sostegno della maggioranza del corpo elettorale. Viste le cose in questa prospettiva, è almeno in parte vero ciò che sosteneva in dicembre, nel suo editoriale, Massimo Franco. Il rapporto tra centrodestra e Vaticano è oggi un rapporto paritario, non di subordinazione (come era quello della DC rispetto alla Santa Sede). Un rapporto in cui si può, certo – ed è quello che è avvenuto finora – andare d’amore e d’accordo, ma in cui i vertici della Chiesa non possono spingersi fino al punto di cercare di dettare l’agenda al governo, magari riprendendo con severità le posizioni xenofobe della Lega (che per questa formazione politica, indispensabile agli equilibri della maggioranza, sono irrinunciabili) o ammonendo pubblicamente il premier a proposito dei suoi comportamenti privati disinvolti. In tal caso, infatti, la risposta non si fa attendere. Il caso Boffo insegna. E se poi si arriva ad una parziale e tardiva ritrattazione (“tardiva” perché avviene a cose fatte e ad obiettivo ormai raggiunto, ma, in realtà, proprio per questo, non tardiva, nelle intenzioni di chi si è servito del caso per far giungere all’episcopato italiano e alla Chiesa un preciso avvertimento, bensì perfettamente studiata nei tempi) è solo per evitare che una volta recapitato il messaggio e incassato il suo “avviso di ricevimento”, la controparte possa apparire pubblicamente troppo umiliata e debole. Su questa strada, del resto, il centrodestra si è mostrato disponibile a spingersi, per compiacere la Chiesa in ciò che non mette in discussione i propri interessi e la tenuta della sua maggioranza, fino al punto di reintrodurre in Italia, quantomeno sul piano della costituzione materiale, aspetti teocratici come quelli presenti nelle costituzioni dei Paesi che riconoscono una loro confessione religiosa come religione di Stato, a detrimento di tutte le altre presenti e professate nei confini nazionali oltre che, di conseguenza, del principio laico e liberale dell’eguaglianza di tutte le fedi di fronte alle istituzioni politiche. Sul versante dell’opposizione può, del resto, apprezzarsi anche la parziale verità delle osservazioni di Mancuso. Dopo il grande rilancio planetario del cattolicesimo che è stato reso possibile dall’incredibile carisma, unito ad un fortissimo istinto “politico” (o, come forse sarebbe più opportuno dire “geopolitico”), di Giovanni Paolo II, la Chiesa conosce oggi un momento di difficoltà. Ciò è dovuto, innanzitutto, alla diversa personalità del nuovo Pontefice, al suo forte tradizionalismo e al suo scarso senso politico. Tutto questo ha fatto sì che il ruolo del Vaticano abbia finito col pesare, in Italia, solo in ragione della volontà e delle convenienze del centrodestra, che gli ha riconosciuto il diritto di sindacare, assecondandolo e in certi casi perfino anticipandolo, sui territori sui quali alla maggioranza tornava utile permettere le sue invasioni di campo, mentre si è mostrato piuttosto sordo, e in taluni casi perfino sprezzante, nel rinviare al mittente tutti gli appelli che il mondo del volontariato religioso, alcuni vescovi e la stessa Santa Sede (sia pure, questa, con più circospezione)


hanno lanciato a favore dei principi di umanità ed accoglienza nei confronti degli immigrati. Il risultato è una Chiesa che oggi appare divisa (da sfumature, beninteso, non da lacerazioni interne, e tuttavia in un modo che è divenuto ormai percepibile) fra episcopato e Vaticano, soprattutto dopo il pensionamento di Ruini. E che mostra contraddizioni al suo interno fra le posizioni più oltranziste e dogmatiche degli esponenti che puntano la loro attenzione prevalente sui temi etico-biologici e quelli che sono più impegnati sul fronte pastorale. Inoltre, l’ostentazione con la quale il Presidente del Consiglio conduce una vita certo non molto ispirata ai principi della morale cattolica dal punto di vista sessuale e famigliare ha prodotto sconcerto in molti credenti e ha imposto anche ai più fervidi sostenitori, tra i vertici vaticani, dell’attuale governo una certa presa di distanza. Il Partito Democratico si trova, a questo punto, ad un bivio: o sfrutta l’opportunità che l’uscita di Rutelli e quella di alcuni esponenti dell’ala cosiddetta teodem (che potrebbero ben presto e auspicabilmente diventare tutti) gli offre per avviare un chiarimento interno con quei cattolici che sono rimasti, culturalmente, ex-democristiani e che mantengono, con le gerarchie religiose, un rapporto psicologicamente subalterno, o cede al vecchio riflesso condizionato dell’alleanza compromissoria e tenta, in accordo con i rappresentanti della vecchia DC che sono confluiti nei suoi ranghi e con quelli che hanno, al suo esterno, dato vita all’Unione di Centro, di resuscitare la “prima repubblica”. Alcune indicazioni contenute nel programma con il quale Pierluigi Bersani ha vinto le primarie ed è diventato segretario del partito fanno temere che la nuova dirigenza si avvii ad effettuare una scelta di quest’ultimo tipo. In primo luogo, l’idea di un ritorno al proporzionale senza premio di maggioranza con una legge elettorale di tipo “tedesco” (ma “italianizzata”). In secondo luogo, il proposito di costruire un’alleanza organica con l’UDC. Ad ostacolare questo progetto è, innanzitutto, la resistenza interna degli ex-popolari che fanno la fronda (in accordo tattico con Veltroni e il suo seguito), finora con successo, nell’intento di impedire la confluenza del PD nel Partito Socialista Europeo e la socialdemocratizzazione dei democratici italiani. Ma si tratta di un’alleanza tattica, come dicevo, segnata dalla contraddizione fra il riformismo istituzionale dell’ala veltroniana e il conservatorismo che, su questo terreno, continua ad essere l’espressione prevalente dell’orientamento della componente popolare. Un secondo ostacolo è costituito dalla reticenza dell’UDC che vuole mantenersi libera da accordi organici per riproporre la vecchia strategia democristiana dei “due forni”. L’anomalia rappresentata da Berlusconi, le sue bordate contro gli organi costituzionali di garanzia, la sua assoluta mancanza di cultura liberale, il suo populismo, la sua demagogia e la sua forza mediatica, unitamente alla sua intolleranza per le regole e il dissenso potrebbero, però, ricompattare tutta la minoranza, spingendola ad una riedizione dello sgangherato cartello elettorale prodiano 2006-2008 con l’aggiunta dell’UDC (e se quelle che al momento appaiono uscite estemporanee, frutto di una completa assenza di rispetto per i diritti e la libertà di espressione oltre che di amore per le scorciatoie e di insofferenza per le vie tortuose e lente delle procedure democratiche, dovessero alla fine tradursi in qualcosa di più che semplici provocazioni ad effetto, sarebbe difficile, anche per un convinto bipolarista, sottrarsi al richiamo di un’alleanza per la difesa della democrazia costituzionale). Senza tutto questo, la strada per un PD che volesse costruire una vera alternativa al centrodestra sarebbe segnata e richiederebbe la progettazione di un partito liberale e laico di sinistra, in cui i cattolici (alcuni cattolici, quelli ai quali, nel suo intervento di dicembre, Mancuso attribuiva il merito principale della “rivincita di Dio” oggi) trovassero modo di riconoscersi al di fuori di ogni sudditanza nei confronti della Chiesa, animati da un intenso desiderio di spiritualità e insofferenti, senza essere irrispettosi, di ogni etica istituzionalizzata e dogmatica. Un PD, insomma, che diventasse anche la casa di quei credenti che con istinto “modernistico” riconoscessero nelle scelte morali qualcosa che per definizio-


ne sfugge (nel senso che per essere davvero autentico deve inevitabilmente sfuggire) alla regolamentazione coercitiva di una legislazione pubblica. Berlusconi ha svecchiato la politica italiana, le ha imposto ritmi e linguaggi ad essa originariamente estranei, ha costruito un centrodestra moderno, che si serve con spregiudicatezza dei valori che la tradizione ha consolidato come espressivi di un’etica pubblica conservatrice. Purtroppo, per limiti soggettivi di natura culturale e caratteriale, lo ha fatto di istinto, non spinto da un disegno lungimirante, sollecitato a intraprendere questo cammino da esigenze di tutela personale e con scarso discernimento fra ciò che è possibile fare in difesa della propria parte e ciò che non lo è senza scardinare gli assetti della democrazia repubblicana. Questi limiti sono quelli che hanno garantito il suo successo, perché sono espressivi di una realtà umana che corrisponde al modello cui la maggioranza degli italiani (e questo è forse il problema più grave con il quale la sinistra moderata e pensante deve, da noi, fare i conti) si ispira e in cui si riconosce (o vorrebbe potersi riconoscere). Così come, allo stesso tempo essi rappresentano, in quanto aspetto che contraddistingue e incarna più di ogni altro l’anomalia di questo Paese e della sua politica, anche il fattore che ha trattenuto il PD dal dare pienamente corso ed impulso all’evoluzione della sua cultura e della sua ideologia. E’ quindi piuttosto difficile prescinderne o fare come se non ci fossero, secondo una retorica attualmente molto diffusa, che, rispetto ad una situazione anomala come questa, non sa avanzare altra proposta se non quella di fingere collettivamente che l’anomalia non esista: questo è il problema specifico (che si aggiunge a quello storico riguardante l’elettorato italiano e la sua estraneità alle istituzioni pubbliche) cui la congiuntura politica, sociale e culturale nella quale versa il nostro Paese ci pone oggi di fronte. Ignorarlo non può certo servire ad evadere da una simile distretta.


Di integralismi discriminatori e della comunità di popolo di Giovanni Invitto

Nell’arco di due giorni, in gennaio, alcune testate giornalistiche meridionali hanno dato due notizie che segnalano due modi opposti di rapportarsi all’altro, sulla base delle opzioni esistenziali in rapporto alla fede ed alle scelte concrete di vita. In un piccolo paesino lucano, il parroco, tra l’altro cappellano militare, ha chiuso le porte della chiesa rifiutando di fare una celebrazione funebre per una defunta, affermando grosso modo: “Mai vista a messa. Né lei, né la sua famiglia. E io non celebro i funerali”. La famiglia ha portato la salma nella chiesa di un paese vicino e lì si è svolta la funzione religiosa. Il vescovo della diocesi di S. Maria di Leuca, ultimo lembo orientale d’Italia, dal suo letto di malattia e di sofferenza, ha concesso un’intervista nella quale, parlando di divorziati, di separati e delle “situazioni irregolari”, ha affermato che queste persone “fanno parte pienamente della Chiesa perché sono battezzati” e debbono essere accolte “a pieno titolo, nel pieno rispetto della loro situazione e della sofferenza in cui la vivono. Una sofferenza che non può essere oggetto di condanna o di biasimo, ma soltanto di accoglienza, comprensione e di aiuto”. Naturalmente nei


due casi siamo comunque all’interno di orizzonte di fede. Eppure all’integralismo “materiale”, burocratico e, si licet, non-cristiano del primo sacerdote, si oppone la cultura dell’accoglienza fraterna di un altro uomo di fede che accetta e comprende situazioni collocate in uno spazio di scelte esistenziali che, pur anomale rispetto ad una prassi e ad una consolidata cultura cattolica, non vanno discriminate, demonizzate, emarginate. È un abuso lessicale e ideologico dire qui che all’integrismo rozzo del primo sacerdote si oppone una visione universalmente “laica” dell’altro? Dico laica, proprio perché ciò che è decisivo e primario, per il vescovo di Leuca, è sentirsi popolo e comunità e non gerarchia e potere discriminante.


Ulteriorità nella prossimità: una ricerca per una filosofia prima di Marco Ivaldo

Mi interessa in questo contributo enucleare, ricostruire e illustrare alcuni pensieri fondamentali di un libro recente di Armando Rigobello Prossimità e ulteriorità (Rubbettino, Soveria Mannelli 2009), che giudico significativo sia per il proposito che lo guida – di delineare il profilo essenziale di una “philosophia prima” – sia per la forma di esecuzione di questo proposito – che avviene attraverso una interpretazione e discussione di alcune posizioni fondanti della fenomenologia del Novecento -. Rigobello non desidera tanto passare dalla fenomenologia alla metafisica, come pure hanno tentato di fare importanti figure del pensiero nello scorso secolo alla scuola di Husserl, quanto piuttosto intende pensare al limite alcuni portati della fenomenologia per aprire, attraverso una inversione del procedimento, un accesso noetico giustificato alla sfera di un senso “metafisico”. In tal senso l’autore offre at-


testazione e prova di un pensiero in ricerca, o di una ricerca nel pensare, che non si arresta all’ermeneutica di differenze che si pretendono non-mediabili, ma nemmeno si affretta verso una affermazione metafisica che si pretende convalidata dal solo fatto di volersi come antidoto contro derive relativiste e nichiliste. Ponendo in interazione le ‘categorie esistenziali’ di prossimità e di ulteriorità la ricerca di Rigobello guarda alla condizione umana, come tensione-verso, desiderio, approccio, esitazione, speranza. In essa la prossimità esprime una vicinanza trattenuta, una situazione al limite, un arresto che non annulla l’intenzionalità. Proprio in merito all’intenzionalità il primo interlocutore di Rigobello è Levinas, che rovescia l’intenzionalità disegnando un movimento che va dall’oggetto al soggetto, che muove cioè dal presentarsi di un “volto” che ci visita e ci assoggetta a una convocazione. Un tale rovesciamento avviene in una sintesi passiva, pre-riflessiva, prediscorsiva, dove il Dire, il primo Dire, genera il discorso. In tal senso un avvenimento pre-linguistico precederebbe il discorso come comunicazione, e l’etica, come prossimità che si istituisce dalla visitazione del volto dell’altro, sarebbe la stessa “philosophia prima”. Orbene, in questo rovesciamento della intenzionalità Rigobello vede il presentarsi di un pericolo, quello di scrivere un “testo senza contesto”, precisamente di tracciare la figura di una prossimità che resta priva della possibilità di reciproca conoscenza, di dialogo, di sinergia. Come contrappunto a questo Levinas l’autore introduce il tema pascaliano della “sproporzione continua” in quanto caratteristica dell’umano e comprende la condizione umana come sottesa da una dialettica incompiuta e in-compibile, a parte hominis, fra un “già” e un “non-ancora”, come esistente in una situazione di perenne e in-concluso “esodo”. Anche in Levinas si può in verità parlare di una situazione di esodo, solo che nel suo radicalismo si impone piuttosto la figura di “un esodo senza garanzia dialettica” che lascia l’uomo “intirizzito nella sua nudità”. In definitiva la dialettica è in lui sconfitta dalla fenomenologia, e l’ulteriore è fenomenologico, non dialettico: è il cambiamento di segno dell’intenzionalità che penetra la coscienza, la decostruisce, le impone il primato dell’etica. L’idea di infinito è in Levinas una contraddizione in termini, nel senso che l’ideato, cioè l’infinito, fa esplodere la forma concettuale che ogni idea deve assumere. Resta una “traccia sconvolta di un Dio che è già passato”. Per Rigobello invece più che l’infinito bisogna pensare l’ulteriorità, o meglio bisogna pensare l’infinito come ulteriorità. L’ulteriorità è ciò che la prossimità ci lascia presagire, è l’apertura di una domanda che si presenta come richiesta di compimento finale, intravisto e mai posseduto. La fenomenologia si muta perciò in dialettica, scandita dal rapporto fra prossimità e ulteriorità. La prossimità riserva sempre una insuperabile alterità, che non si esaurisce né nella comprensione né nella insormontabile differenza. Perciò l’ulteriorità spinge altre, alla ricerca non di una totalizzazione, ma di un trascendimento che si sottrae a ogni totalizzazione, orientandosi verso una pienezza di senso, una “parola che ci precede e ci salva” (Ricoeur). Colta nella dialettica di prossimità e ulteriorità la condizione umana si presenta come attraversata da una dinamica di trascendimento e come abitata da una richiesta di senso, un senso che deve assumere una connotazione personale, essere cioè una “vita intellettuale”, per non cadere nell’’idolatria”. Come potremmo, afferma Rigobello rinviando al Sofista, lasciarci persuadere che il moto, la vita, l’anima, l’intelligenza non ineriscano a ciò che assolutamente è? La prospettiva qui delineata comporta una ineludibile richiesta di senso finale, “un sì nella tristezza del finito” (ancora Ricoeur), solo, questa richiesta non affretta affatto la conclusione, non salta il difficile cammino della riflessione, il lavoro del “medio”, il “dialettico”. In questo senso Rigobello caratterizza la metafisica della quale vuole tracciare il profilo come un “pensare apparentemente debole per una filosofia forte”, come una “ontologia in situazione”, come un “discorso metafisico essenziale e quin-


di breve che afferma il senso finale in un contesto di ampia e pensosa problematicità”. Tale discorso si presenta come una “analisi rigorosa della pre-comprensione del vissuto”, una “esplicitazione di presenze originarie”, una “via lunga” a partire da una intuizione intellettiva singolare e immediata coinvolta nella domanda ineludibile sul senso finale della realtà e di noi stessi. Questa metafisica, non debole ma umile, deve per un verso essere consapevole della pluralità di approcci e di itinerari in cui si concretano le innumerevoli singolarità dell’avventura umana; per l’altro verso deve discernere in essi il manifestarsi di una domanda di senso riguardante l’intera realtà in cui siamo coinvolti, domanda (o postulato) che ha il carattere di una intuizione intellettiva. Una esemplificazione di questo percorso dialettico è il confronto che Rigobello instaura con il secondo grande interlocutore del libro, cioè Husserl, sul tema – già oggetto di altre sue importanti riflessioni – della “estraneità interiore”. Nel § 44 delle Meditazioni cartesiane Husserl, come è noto, opera una riduzione del vissuto della coscienza fino a pervenire a quel limite ultimo della appartentività che si presenta come “un certo strato unitario e coerente” e che è quanto ci rimane del “fenomeno mondo”. Ora, a questa riduzione husserliana Rigobello accosta una “riduzione della riduzione”, verso l’alto, verso un altro tipo di sostrato, che si presenta come un nucleo di senso che nella sua assolutezza è estraneo alla coscienza. E’ un estraneo che tuttavia – usando le parole di Agostino – è “interior intimo meo”, più intimo a me di me stesso. L’autore designa questo centro di senso: estraneità interiore. Nella riduzione husserliana otteniamo allora una natura appartentiva; la riduzione della riduzione di questo libro termina a una estraneità interiore. Rigobello accentua però che tale estraneità è sì interna, ma non è un quid necessariamente connesso con la natura appartentiva. E’ un quid de-situante, estraniante; e non è “il volto di Dio”, ma l’”esigenza incontrovertibile che giustifica in altri contesti l’idea di Dio e la dimostrazione della sua esistenza”. Per andare oltre e dare una spiegazione della stessa apoditticità del senso originario occorre operare una “rottura metodologica”, nella quale “la stessa fenomenologia ci abbandona”. L’ulteriorità può configurarsi in molti modi e “darle un volto” significa intenderla come realtà vivente e cosciente, personale (si rammenti il rinvio al Sofista). Si apre qui lo spazio per un interessante confronto con Gilles Deleuze, caratterizzato come “l’autore forse più speculativo della filosofia francese degli ultimi anni del Novecento”. Rigobello richiama che per Deleuze il mondo è un contesto di forme alogiche in cui si muovono gli individui, abitati da un desiderio, per soddisfare il quale ciascuno elabora un proprio progetto e lotta per piegare a esso una realtà naturale e sociale in se stessa priva di finalità. Anche in Deleuze agisce allora una richiesta di senso, che deve venire soddisfatta in uno scenario di non-senso. Rispetto a questa impostazione Rigobello marca una distanza critica: la richiesta di senso ha per lui una interna dinamica che va “dai mille piani del senso” verso un “senso finale” attraverso un movimento del pensare che realizza una radicalizzazione, e questa non è una semplice procedura logica, dato che “ci troviamo coinvolti nell’essere”. E’ un pensiero che non si arresta alla géométrie, ma impegna la finesse, e il cui itinerario conosce le tappe della prossimità e della ulteriorità. Ora, se intendiamo attribuire alla prossimità e all’ulteriorità il carattere di categorie della spiritualità umana, di figure di una fenomenologia radicata nella vita vissuta, la dinamica del loro intreccio richiede una distinzione reale fra la persona che perviene alla prossimità e tende all’ulteriore e la Persona che è quella realtà vivente che ne personifica il compimento. Al vertice, con Platone, deve essere una “vita intellettuale”. Andare oltre quella che qui Rigobello caratterizza come una “scarna argomentazione” significherebbe però oltrepassare l’ambito della filosofia per entrare nell’ambito della religione, della teologia spirituale, della mistica. Ritornando sulle due categorie portanti del libro Rigobello sottolinea che la cifra


di una filosofia prima può essere caratterizzata come ulteriorità nella prossimità. Si tratterebbe allora di una filosofia prima essenzializzata, di una ontologia emergente dal vissuto, una metafisica à la source, la quale delinea un atteggiamento originario che restituisce all’essere una fluidità, si attiene al piano di una “duttile presenza”, di un “inizio del discorso”, di una “condizione di possibilità”. Anche Rigobello evoca perciò l’orizzonte di un autrement qu’être, solo che l’”altrimenti” è per lui un essere atematico, una “prossimità inesauribile, una interiorità che continuamente ci sfugge e ci arricchisce”, e la ricerca della filosofia prima sarebbe – riprendendo espressioni di Levinas – “un modo di cercare ancora colui che tuttavia è il più possibile vicino”. La prossimità apre in tal modo uno scenario sempre più denso di incognite, una ricerca che rivela prospettive inconsuete, un mistero di comunione in cui non è possibile arrestarsi. La filosofia prima custodisce così i confini del discorso, ne alimenta le dinamiche sempre parziali, ne apre le prospettive fra attese, speranze, ripiegamenti. Ma quale è il “più proprio” di questa filosofia? Il suo primo elemento costitutivo – risponde l’autore - è il tema dell’originario. La seconda nota è la questione del senso, che sollecita al “pensare fino in fondo”, quel senso che è diffusivum sui e non è conciliabile con la possibilità nichilistica: la comprende, ma non può condividerla. La “tristezza del finito” non cancella la “gioia del sì”. Pertanto la filosofia prima è “diaconia”, ma aperta a un possibile dialogo, a un tentativo di comprensione e di superamento nell’impresa di sperimentare l’enigmatico rapporto di prossimità e ulteriorità. Si potrebbe domandare chi sia il ‘soggetto’ di questa filosofia prima, l’interrogato e interrogante insieme dalla e della domanda di senso. Nel libro immediatamente precedente – L’apriori ermeneutico, 2007 – Rigobello aveva caratterizzato questo ‘soggetto’ come l’io interpretante, a partire da una richiesta di senso, quell’io interpretante che consente di parlare di un apriori ermeneutico in quanto condizione trascendentale dell’interpretazione. Forse è proprio questo elemento ‘trascendentale’ il terzo elemento che, assieme all’originario e alla questione del senso, potrebbe comporre il “più proprio” di questo sollecitante profilo di una filosofia prima.



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