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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008


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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Maggio-Giungo 2009, n° 18. (Numero 19, 30 Luglio 2009) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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La crisi politico-culturale del “mercatismo” e il “mondo nuovo”. di ELIO MATASSI

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Per una vera “letizia” di UMBERTO CURI

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Enzo Bianchi. Per un’etica condivisa di ROBERTA DE MONTICELLI

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Alcune domande ad Agnes Heller a cura di BACHISIO MELONI

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La missione dell’università e l’attuale maggioranza di governo di MAURO VISENTIN

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Verso un New Deal globale di STEFANO FASSINA

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L’avventuriere del sapere: Roger Caillois di MARCO FILONI

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La crisi politicoculturale del “mercatismo” e il “mondo nuovo” di Elio Matassi

L’esperienza di “Inschibboleth”, ormai biennale e, dunque, in via di consolidamento impone una riflessione di largo respiro. La scelta di operare sulla rete, una scelta difficile e complessa, almeno rispetto al panorama nazionale dominato dalla ‘spettatorialità’ televisiva, costituisce un primo elemento di riflessione. La recente vittoria di Obama alle presidenziali americane, oltre ad aver contrassegnato un punto di svolta nella storia della politica americana, ha messo in risalto il nuovo e potente ruolo di Internet nell’informazione libera e di massa. La vittoria di Obama è stata conseguita, infatti, anche grazie alla rete: oltre tre milioni di persone hanno sostenuto la sua candidatura


con donazioni on-line, un milione di persone si è offerto come volontario, utilizzando la rete, per la sua campagna elettorale e più di cinque milioni ne hanno seguito i comizi su YouTube. Ancora oggi, oltre cento addetti curano i rapporti di Obama con la rete. Non vi è alcun dubbio sul fatto che Internet abbia rappresentato un elemento veramente decisivo; negli Stati Uniti, in effetti, di fatto pochi milioni di persone decidono le elezioni, ed i democratici, puntando a raggiungere i giovani mediante la rete, sono, per esempio, riusciti, dopo decenni, ad ottenere un ottimo risultato anche negli stati del Sud. Inoltre Obama ha puntato molto sulle piccole donazioni on-line, piuttosto che limitarsi come consuetudine alle cene con i simpatizzanti più facoltosi, e ciò ha contribuito a portare introiti assai maggiori e molta più partecipazione. Dando un’occhiata alla pagina principale di Obama nell’ormai famoso social network Facebook si potrà constatare che tra i contatti si contano più di tre milioni di persone, l’immagine di Obama inoltre è presente su Myspace e Flickr. Si tratta sicuramente dell’inizio di un nuovo tipo di comportamento presidenziale, molto più informale per cui è del tutto legittimo utilizzare la formula seguente: se Roosvelt iniziò l’epoca dei discorsi alla radio e Kennedy quella della televisione, ora Obama ha inaugurato quella del web; negli Stati Uniti sta già tramontando l’era del primato televisivo e spettatoriale, i giovani non la guardano se non in rare occasioni, ed ormai anche per le news la rete è molto più utilizzata della televisione. Quella dell’affermarsi del web è dunque una vera e propria rivoluzione culturale. Per quanto non siano infrequenti siti poco affidabili e faziosi ed altri che addirittura propagano l’odio, l’uso di Internet aumenta in maniera esponenziale la possibilità di accedere all’informazione . Inoltre la navigazione sulla rete richiede un intervento volontario ed attivo da parte dell’utente. Per questo l’uso di Internet diventa uno strumento di democrazia e di partecipazione, esattamente l’inverso del primato della spettatorialità televisiva che domina il dibattito pubblico, politico e culturale nel nostro panorama nazionale. La scelta di “Inschibboleth” di affidarsi alla rete è stata pertanto una scelta lungimirante anche se nell’immediato può apparire minoritaria; una scelta, comunque, coerente con l’assunto di fondo della nostra rivista che si può riassumere in due formule decisive: 1) la democrazia non deve essere considerata una scelta di ripiego, il male minore, la democrazia non rappresenta il meno peggio dei sistemi ma il migliore, la scelta della democrazia è, dunque, per “Inschibboleth” una scelta integralistico – massimalistica e non minimalistica. Seconda formula: è venuto il momento di chiudere definitivamente i conti con l’interpretazione weberiana del ‘disincanto del mondo’; una volta stabilita l’equazione modernità – disincanto si è assistito ad una deriva inarrestabile che è sotto gli occhi di tutti. E’ necessario capovolgere questo trend, è necessario ‘reincantare’ la politica per uscire dall’empasse che è dinnanzi a noi. Reincantare la politica non significa limitare il potere della democrazia ma salvaguardarlo dall’attuale anonimato. I due fili conduttori della ricerca di “Inschibboleth” diventano ancora più urgenti dinanzi alla crisi provocata dal meccanismo del capitalismo finanziario, selvaggio e senza regole, una crisi che ha messo in questione l’idea e il principio stesso della democrazia, lacerando in maniera irreparabile l’equazione capitalismo – democrazia. Su questi tre fronti vi è un’ampia convergenza tra il progetto di “Inschib-


boleth” e le luci di analisi prospettate da Massimo D’Alema nel suo recentissimo, Il mondo nuovo. Riflessioni per il Partito Democratico, Fondazione Italiani Europei, 2009. La premessa di carattere generale di Massimo D’Alema non si presta ad ambiguità alcuna: “Sta nascendo un mondo nuovo. E’ finito con un brusco risveglio quello che è stato definito ‘il sogno dogmatico della perfezione del mercato’. La crisi del capitalismo globale selvaggio o, come altri preferiscono dire, del ‘mercatismo’ è una crisi politica e culturale prima che economica da cui, sono convinto, uscirà un mondo profondamente cambiato” (p.V). Ad entrare in una crisi irreversibile è proprio il meccanismo necessitante che stringe nello stesso nesso democrazia liberale e capitalismo, nesso che veniva esaltato nel volume del 1992 di F.Fukuyama, The End of History and the Man. Questo libro presumeva un’interpretazione di Hegel, mutuata dal franco – russo e hegelo – marxiano (ma pur sempre sullo sfondo inequivocabilmente nietzschiano della “grande politica”) Alexander Kojève (abbreviazione e francesizzazione per Kojevnikof) autore dell’Introduction à la lecture de Hegel, uscito presso Gallimar nel 1947 e parzialmente tradotto in inglese nel fatidico 1968, a cura di Allan Bloom, che non casualmente Fukuyama ringrazia per l’aiuto ricevutone sia in questo che in precedenti lavori. Dall’inizio degli anni ’80 si ha negli Stati Uniti un interesse crescente per Kojève, e sulla sua figura appare a Toronto un libro di Barry Cooper nel 1984. Anche se l’ipotesi di ricerca di Filosofia della storia di Fukuyama non può essere inquadrata completamente nel punto di vista imperiale americano, il suo fondamento – Hegel è per eccellenza il filosofo della ‘fine della storia’ – e le sue conclusioni – non possiamo più uscire dai confini del dominio in senso lato geopolitico degli Stati Uniti – portano esplicitamente verso un assunto che grosso modo può essere riformulato nei termini seguenti: non esiste una prospettiva alternativa a quella della globalizzazione, interpretata come primato economico e politico-culturale degli Stati Uniti. Un primato fondato sull’indissolubilità del nesso capitalismo – democrazia liberale, equilibrio che il capitalismo senza regole ha lacerato per sempre. Come ha scritto Allan Bloom, “Fukuyama ci dice dove eravamo e dove siamo e, cosa più importante, si chiede dove probabilmente saremo, con chiarezza ed una sorprendente ampiezza di riflessione e di immaginazione”. La premessa è che esista una direzione della storia del genere umano. Ma se si tratta di una storia direzionale, esiste una fine di questo movimento? E rispetto a questa “fine della storia” a che punto ci troviamo noi, oggi? Per capirlo, secondo Fukuyama, dobbiamo tener presente che due sono le forze motrici della storia umana, “la logica della scienza moderna” e “la lotta per il riconoscimento”. La prima dovrebbe portare l’uomo al soddisfacimento di un orizzonte di desideri in continua espansione attraverso un processo di razionalità economica; la seconda, la lotta per il riconoscimento, è per Fukuyama il vero motore di una dialettica storica. In ogni caso, ambedue le forze dovrebbero concorrere al collasso di ogni tirannide o totalitarismo. Premesse e conclusione della sequenza argomentativa di Fukuyama si sono rivelate inadeguate dinanzi all’esplosione del capitalismo finanziario ed alla grave crisi economica provocata. Non si può più parlare di ‘razionalità economica’ se questa razionalità si è trasformata nel suo contrario ne si può più congetturare sulla fine dei totalitarismi se quella presunta razionalità ha minato alle basi il principio stesso della democrazia. Si tratta ora di riflettere al meglio su tale decisiva ‘discontinuità’ e Massimo D’Alema lo fa con tutta la radicalità indispensabile: “La mia convinzione (di Massimo D’Alema) è che una grande prospettiva di cambiamento debba


muovere intorno a tre idee forza fondamentali: la democrazia, l’eguaglianza, l’innovazione” (p.VI). In primo luogo ‘democrazia’ perché l’assenza di regole e di istituzioni in grado di controllare la trasparenza e la legalità dell’ipertrofico sviluppo del capitalismo finanziario ha distrutto l’essenza stessa della democrazia. Un ruolo che nei secoli scorsi fu svolto dagli stati nazionali che riuscirono a trovare un equilibrio fra sviluppo capitalistico, democrazia politica e coesione sociale. Oggi l’aspetto più preoccupante sta proprio in quello che D’Alema definisce icasticamente “un vuoto di democrazia” e la soluzione del problema non potrà certo essere quella del ritorno agli stati nazionali. La vera sfida sta nel costruire “una dimensione democratica sovranazionale”, una sfida che dovrebbe rappresentare la vera cifra dell’identità europea ma che l’Europa non riesce ancora ad interpretare. Il secondo tema centrale su cui D’Alema invita a riflettere con tutta la necessaria spregiudicatezza intellettuale e politica è quello della ‘eguaglianza’, che non potrà essere limitato al riconoscimento dell’eguaglianza delle opportunità ma che dovrà presumere una nuova azione pubblica per riequilibrare la distribuzione della ricchezza: “La crescita selvaggia degli ultimi anni ha generato diseguaglianze crescenti non solo tra Paesi ricchi e paesi poveri, non solo tra continenti vincenti – come l’Asia – e continenti emarginati – come l’Africa – dalla globalizzazione economica, ma all’interno stesso dei Paesi più ricchi “(p.VII). Stati Uniti ed Italia sono fra i Paesi tra i quali la crescita delle diseguaglianze è stata di gran lunga maggiore negli ultimi quindici anni. D’Alema si rende perfettamente conto che l’eccesso di diseguaglianza non è solo ingiusto in sé, per una questione di principio ma anche perché diventa un ostacolo per la crescita economica: la concentrazione della ricchezza in poche mani frena di fatto la crescita dei consumi, minando alla fine la coesione sociale. Non di rado, caso esemplare è proprio quello che sta avvenendo in Italia, la crescita delle diseguaglianze si accompagna ad una progressiva caduta della produttività del lavoro e della competitività dell’economia. L’eccesso di diseguaglianza è, dunque, l’esatta antitesi della razionalità economica, producendo come risultato non lo sviluppo ma il decadimento inevitabile del sistema economico. In fine, la terza condizione, posta da D’Alema, per aprire una nuova stagione politica è quella di puntare sull’innovazione: “Nei Paesi ricchi la finanza ha generato l’arricchimento dei gruppi dominanti indipendentemente dalla capacità competitiva dell’economia. Oggi la sfida decisiva torna ad essere quella sul terreno della competizione e dell’innovazione” (p.VIII). Una sfida che la nuova Presidenza degli Stati Uniti sta giuocando sulle nuove tecnologie ambientali, sulle fonti alternative di energia, riducendo la dipendenza dal petrolio, sulla ricerca biomedica volta a combattere le malattie ed a migliorare la vita delle persone. Una scelta quella dell’innovazione che dovrà concentrarsi su forti investenti nel settore dell’economia della conoscenza (formazione, cultura, Università). La crisi, dunque, come grande occasione di rilancio per l’economia e la cultura italiana. Per il PDL e per la sua leadership, invece, la crisi è diventata solo il pretesto per un ritorno regressivo, per un consolidamento delle diseguaglianze. Il progetto di ampio respiro di Massimo D’Alema è stato, da sempre, anche il progetto politico – culturale perseguito da “Inschibboleth”, che ha sempre cercato d’interpretare le esigenze nate direttamente ‘dal basso’, dalla società civile contro ogni tentazione lobbistica che, purtroppo, in taluni


casi, ha contaminato in misure non irrilevanti ampi settori della dirigenza del Partito Democratico. All’interno di questo grande progetto, il nuovo Partito, il Partito Democratico dovrà ritagliarsi uno spazio, molto difficile da conquistare, tra il populismo delle destre (una presunta antipolitica il cui approdo è ‘la vecchia politica’) ed il “minoratismo giustizialista” alla Di Pietro (un altro partito personale ed antipolitico), uno spazio che dovrà essere immune dall’illusione velleitaria dell’autosufficienza. Uno spazio che dovrà essere condiviso da moderati e progressisti sulla base del richiamo forte al valore della laicità e, dunque, egualmente distante dalle vie fuorvianti che dovrebbero condurre ad un’alleanza o con il solo ‘centro’ o con la sola ‘sinistra’. In fine, “Inschibboleth” condivide con Massimo D’Alema il monito per “l’aspettativa per improbabili palingenesi generazionali, l’attesa messianica dei nuovi ‘ragazzi’ della provvidenza” (p.IX). Anche una nuova classe dirigente non potrà nascere senza il rafforzamento di un partito fortemente radicato nella società in grado di selezionarla, formarla, metterla alla prova.



Per un vera “letizia” di Umberto Curi

Secondo un luogo comune ormai abusato, in politica la malizia sarebbe non solo concessa, ma anche vivamente raccomandata. Al punto da indurre a ritenere verosimili anche le congetture più stravaganti. Si può allora capire per quale ragione, alla vigilia di un turno elettorale dall’esito tutt’altro che scontato, si possa immaginare con qualche fondamento che il grande polverone suscitato da alcuni casi clamorosi riguardanti il premier – l’affaire Noemi Letizia e la condanna dell’avvocato Mills, in primis – sia in fondo alimentato ad arte proprio dallo stesso Berlusconi e dai suoi amici. Vediamo perché. Con l’approssimarsi dell’appuntamento delle urne, la situazione politica della maggioranza mostra ogni giorno che passa crepe sempre più profonde. In primo piano, vi sono i provvedimenti assunti per fronteggiare la crisi economica, giudicati da tutti, anche dagli osservatori più imparziali, del tutto inadeguati. Nell’attuale bilancio dello Stato, non vi sono i presupposti per un significativo mutamento di rotta, anche per via di una politica delle entrate (cancellazione dell’ICI, indebolimento della lotta all’evasione, ecc.) che ha obbiettivamente ridotto i margini per una iniziativa più decisa. A ciò si aggiunga che la vicenda del terremoto abruzzese ha obbiettivamente drenato ulteriori risorse, rendendo molto problematiche, se non impossibili, manovre correttive mirate. Gli effetti di questa complessiva inadeguatezza cominciano a farsi sentire pesantemente, e non soltanto negli strati più ampi dei lavoratori più esposti alla crisi, ma anche nel tessuto dell’imprenditorialità di piccole e


medie dimensioni, insofferente di un’inerzia sempre più evidente. Da non sottovalutare, in secondo luogo, le difficoltà politiche. Lo smarcamento di Fini rispetto a Berlusconi, da qualunque motivazione sia sostenuto, è diventato tuttavia un tema politico ricorrente e largamente condizionante, soprattutto per quanto riguarda la coesione di un partito messo insieme con un’operazione improvvisata e puramente propagandistica, quale è il PDL. Malumori e tensioni anche sul fronte della Lega, irritata soprattutto dall’atteggiamento assunto da Berlusconi a proposito del referendum, ma più in generale poco disponibile a subire passivamente la volontà di egemonia degli azzurri nelle regioni del Nord, dove ormai il Carroccio ha quasi ovunque sopravanzato lo stesso PDL. Un significativo sintomo di questo malessere può essere considerata la situazione davvero paradossale creatasi in Sicilia, dove una maggioranza del 65% non è stata sufficiente ad evitare dissensi e lacerazioni che hanno infine condotto alla crisi della giunta. Da non trascurare, infine, le difficoltà che l’attuale leadership governativa registra ormai sistematicamente sul piano internazionale, dove i moniti all’Italia sul tema degli immigrati o sul contrasto agli effetti della crisi economica sono da settimane all’ordine del giorno. In questo quadro generale, molto meno roseo e rassicurante di quanto il Cavaliere tenda a sottolineare, si può capire che la posizione personale del premier , più che della coalizione da lui guidata, appare caratterizzata da una fragilità di fondo che è solo mascherata dall’esibizione di sondaggi altisonanti. In discussione, almeno al momento, non è tanto la supremazia del centrodestra, rispetto ad opposizioni deboli e finora, quanto piuttosto specificamente il ruolo del premier, criticato e contestato più o meno apertamente da settori significativi della sua stessa maggioranza. Di qui la scelta di ricompattare coercitivamente un fronte altrimenti in ebollizione, con l’appello alla solidarietà del “capo” ingiustamente attaccato. Per lunga e rinnovata esperienza, Berlusconi sa bene che ciò che, in altri paesi, produrrebbe la crisi irreversibile di un personaggio politico, nella nostra bella Italia produce invece l’effetto di un rilancio di popolarità. Non avendo sottomano tonnellate di spazzature napoletane da far magicamente sparire, né rovine di paesi abruzzesi da visitare con l’elmetto in testa, il Cavaliere ha pensato di rispolverare il ruolo che ha sempre recitato meglio degli altri (anche per la complicità di coloro che sono caduti in questo trappolone), vale a dire quello di vittima. E allora, dagli con Noemi (soprattutto se la cosa viene sempre più ad assomigliare alla nauseabonda stampa scandalistica, o ai reality televisivi, di largo consumo in Italia). E dagli anche con i perfidi giudici milanesi, perseveranti in un complotto le cui origini più lontane risalgono a ben 15 anni fa. Come si accennava in apertura, è possibile che il quadro appena abbozzato sia dettato soltanto da eccessiva malizia. Ma anche di questo dovesse trattarsi, un dato politico resta indiscutibile: l’opposizione, e il PD in maniera particolare, dovrebbero in ogni caso agire in modo da non lasciarsi trascinare su un piano, sul quale – da sempre – hanno fatto registrare le sconfitte più pesanti. Credere di poter battere Berlusconi, facendo leva sull’indignazione della gente o sul rifiuto per la dubbia integrità morale del personaggio, vuol dire non aver imparato nulla dagli ultimi anni di storia politica, né essere riusciti a sintonizzarsi con la “pancia”, oltre con la testa e il cuore, della gente. La strada da compiere è un’altra. Incalzare l’attuale maggioranza sul terreno strettamente politico, senza cedimenti né compromessi, costruendo sistematicamente proposte alternative, e dimostrando concretamente ciò che, finora, è mancato al centrosinistra, vale a dire la credibilità come forza di governo. Lasciando che, come è giusto, di quella Letizia chiamata Noemi si occupino le riviste in carta patinata.


Enzo Bianchi. Per un’etica condivisa di Roberta De Monticelli

A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Un senso nuovo di questo cristiano principio di laicità nutre l’ultima tesa, attentissima meditazione di Enzo Bianchi sui nostri giorni (Per un’etica condivisa, Einaudi, pp. 126, € 10). Un senso che tanto limpidamente si incarna nel Monastero di Bose, questa primavera che da quarant’anni fiorisce nel deserto. Un’etica condivisa etsi deus non daretur è la premessa di un cristianesimo puro, reso alla sua vocazione profetica e al suo “orizzonte mistico”, liberato dagli idoli e da quella sua “caduta” che è la sua “riduzione a religione”. Questo il pensiero fiammante che attraversa lucide pagine di denuncia di tutti i fenomeni dell’attuale dilagante confusione fra spiritualità ed etica, religione e politica, potere e diritto, e infine fra Cesare e Dio. Enzo Bianchi non li separa come due principi l’uno all’altro indifferenti: ma come due principi che solo nella loro separazione, nella rigorosa purezza di ciascuno, si postulano l’un l’altro. “L’etica è nel cuore di ogni uomo, anche di quelli che non ammettono nessuna trascendenza”. E’ la chiesa ad affermare che l’uomo, creato a immagine di Dio, è capax boni, “sia egli cristiano o meno”. Ed è proprio la “differenza cristiana” – ma in certa misura propria anche degli altri monoteismi – quella


di pensare la verità divina come “eccedenza che supera tutti e che nessuno può definire” – e per la quale l’uomo cristiano si fa su questa terra “straniero”, testimone di questa trascendenza non posseduta, fermento anti-idolatrico e anti-ideologico nel mondo. Di tutti è l’etica – perché è il dovuto da ciascuno a tutti; ma da nessuno posseduto è Iddio, che pure per il cristiano ha un volto d’uomo, umano in tutto fuorché nell’essere soggetto al male. E poiché da nessuno è posseduto, neppure è rivendicabile come garanzia di identità e fondamento di norma. Bellissima la riflessione stupita sull’ossessione delle “radici”, le “radici cristiane” dell’identità europea: quando il Nazareno, con bella immagine “contadina”, insegna semmai a giudicare la bontà degli uomini e delle loro istituzioni “dai loro frutti”. Un pero fra gratuitamente le sue pere, non si sforza d’esistere identico a se stesso, non esibisce le sue radici: è, fiorisce, dà frutto. E’ una parola che fa bene, quasi un balsamo, questa: “gratuito”, l’aggettivo che ricorre più volte a connotare la vita non indifferente al divino, o la spiritualità dell’agnostico, o la libera “fede” del credente, che è un “dono”. Tale è il regno della grazia, il suo silenzio, la sua solitudine, e anche la sua abundantia cordis, il dono di vita, di salute e di parola che ne viene al “profeta”, e a chi l’ascolta. Perché Enzo Bianchi è – come sa ognuno che conosca Bose – esperto anche del lato sensibile della grazia – la bellezza. Mario Luzi diceva che alla parola si addice la temperatura del fuoco – Enzo Bianchi constata quanto poco vi si avvicini lo stile della comunicazione religiosa oggi. Un balsamo oggi raro, ricordarci quanto la grazia e la libertà che l’accoglie (o la respinge) siano l’antitesi stessa della legge che costringe, del potere che decide per noi, e anche del dovere etico. Senza riconoscere l’universalità e l’accessibilità “laica” di questo, senza condivisione dell’etica, invece, la stessa gratuità della fede è a rischio di scadere a mero legame di religione. Il soffio allora si fa cemento, ciò che univa le comunità nell’entusiasmo diventa politica identitaria – e per l’universalità dell’etica è la fine, ma è la fine anche per la trascendenza non posseduta, la grazia e la profezia. Se posso rubare una battuta a un bell’articolo di Elio Matteo Palumbo (“Contro Corrente”, Aprile 2009), certamente non è di una religione civile che si sente il bisogno chiudendo il libro di Enzo Bianchi: ma di una religione più civile, sì.


Per un’etica della libertà

Alcune domande ad Agnes Heller a cura di Bachisio Meloni

Prof. Àgnes Heller, with this interview we would like to dwell upon the principle of individual freedom and the concept of humanity, on which you have so admirably insisted. For we believe that your philosophical criticism of the totalitarianisms, as well as the study and the interpretation of Marxism, of its deepest ethics and its political and social consequences, started from this basic perspective, thus characterizing your whole speculative way. About the “legacy of Marxian ethics”, you stated in your essay how it is not possible to speak about a “Marxist” ethics at all, but “only of the private ethics of persons who accept the Marxian theory and, independently of this act of acceptance, conduct their actions in keeping with values and norms which are in no way interconnected with their scientific creed”. We reckon this statement of yours encloses the spirit of your whole proposal, whose


criticism is per se most anti- ideological. There is no marxian ethics as there is no cartesian ethics either. Although ethics is one of the traditional branches of philosophy, one can speak about ethics of a philosopher only if he or she is not just interested in ethical issues, but also reflects on ethics and morals in a speculative manner. There is place for an ethics in every philosophy, also in that of Marx, but this place remained in his case empty, for his interest focused elsewhere. Nowadays, this is no more an important question-the moral of modern men is self founded and in this sense singular. Good or decent is a person, who has chosen himself herself as one who rather suffers than commits injustice. This act of self choice is independent on world view with the exception of racism, which denies the truth of the above criterion in principle. About your Marxism, or in fact your “non-marxism”, your proposition is comparable to a foundation of the value of freedom as a sovereign right within the ideal democratic community. A consitutive value completely inconsistent if separated from the equally primary obligation of the “social duties”. Full freedom is, so to speak, “absence of social duties”. Your ineludible call concerns one of the unavoidable elements for the Hebraic thought in the twentieth century: ethics as a responsibility towards others. The value of freedom is, beside that of the value of life, one of the dominating values of modernity. A democratic state is self founded by its citizens who constitute a constitution. Social duties, which are also rights, concern the promotion and achievement of equal life chances for all this duty is social, insofar the contestation of justice goes on also, or even primarily, in civil society. But in a democratic State the contestation of justice in civic lice belongs to the powers which might grossly contribute to the change of the laws of the state. In non democratic societies where there are no citizens but subjects, social duties are not related to rights and they are also ambiguous, for dictatorships of different kind always superimpose their own concept of duty, first of all that of obedience, on their subjects. Ethics, as you also say, is always related to the others. We carry responsibility first of all towards others, but also to ourselves. For example women’s responsibility towards themselves frequently contradicts social obligations. (See nora) We think that a strictly ethical and philosophical, more than ideological, approach to the Marxist thought might finally let emerge what is truly actual in this thought itself (nowadays one may read Das Kapital more as a literary text than an economic-philosophical essay). We refer in particular to the Marxian reflection about the dominion of things and goods over the man, that is, the nihilistic reification of the innermost dignity as a person, and to the attempt to go back nevertheless to an order based on the principles of morality and social righteousness. One can read every significant text in different ways. Especially today, in a era of hermeneutics. This is true also about Das Kapital. Nowadays many of us read it as a book of philosophy, especially the chapter of fetishism. others refer to his excellent observations about the development of capitalist economy, for example centralization, accumulation, glo-


balization and the capitalization of agriculture. However, no interpretation accepts his theory of surplus value, for it is based on the labor theory of value, developed by Ricardo, which turned out to be a bad theory. And there are hardly even marxists, who would accept today the idea of Marx, that nature gives us everything free and that the exploitation of nature can go on infinitely. To reform the most genuine spirit of modern democracies naturally means to consider a new and more adequate juridical and institutional apparatus; nevertheless, any reformational thrust seems truly impossible without a precise reference to an ethical root of the human: this seems to be your deepest challenge message. In a genuine democracy no reform is possible without the ethical consensus of the majority of citizens. This consensus can change, and it does often change, under the influence of discourses conducted by citizens and (or) by scientific community (see abortion, euthanasia, genetic intervention in human cells). In these first stages of Mr Obama’s administration a reformational principle seems to animate the new course of the American politics. Do you reckon one could think of a politics that is able to develop, as you invite to support, the “ethics of the good”, provided that it is not a strategic expediency required by necessity? No good politics is aimed at promoting of “the good” and a democratic politics should not do this by definition. The aim of a democratic politics is, in this field, to secure that all citizen or group of citizens could live according their own conception of the good, if, and only if, they respect the form of life of others and remain within the limits of the law of the State. It is important, however, for a political leader to carry also moral authority. Obama does and people appreciate it. Yet he is the President of the United States. He will not, for a moment, neglect the interest of his country for the sake of any lofty ideology the present change in America towards a less consumerist way of life is the result of the economic crisis, but has also deep roots in the protestant, mostly puritan, tradition of the country. Your main polemical task has been the idea of totalitarism, with its charge of atrocities, that you and your family sadly personally experienced. Nevertheless, one can have the impression that a certain idea of totalitarism somehow has just altered its features. Do you reckon that the new forms of authoritarian regime are now showing themselves as a very depletion of the sense of freedom and the rights of the individual, as it were, from within our democratic constitutions? I never cherished the illusion, that with the withering of european communist systems totalitarian threat is also matter of the past. In my view totalitarianism is as much a modern product as democracy. European totalitarian systems operated with secular ideologies, like racism or the ideology of the class, whereas contemporary totalitarian systems and movements operate with religions, first of all with islam, as an ideology. We do not know what comes next.


About your Lectio, we would like to ask you: to refer to the literary language, to the trascendent disposition of the poetic language in its attempt to speak the Other, is what is missing in the structure of the philosophic language? Likewise the speech of the Writings, the space designing the poetical function is an even more explicit and urgent invitation to “make the reader take a position on the validity claims connected with the philosophical text” (Habermas)? Could you please explain us the advantages and the limits of this new and fascinating perspective, even though – as Levinas’ criticism has insisted – not at all free from imperceptible ambiguity? In my view the language of philosophy, worked out by metaphysics, included categories, or ground words on the one hand, and a special grammar, called method, on the other hand. The content of the ground words, like substance, attributes, reason, understanding, ideas, opinion versus true knowledge, principles, nature, God, and especially of the main characters like the good, the truth, the beautiful, have been always reinterpreted by each and every philosopher while their grammar has also been modified. This is the langue philosophy has lost, according to Foucault with whom i agree at this point. The text by Habermas, you quoted, has little to do with this problem i briefly referred to. Perhaps, too briefly. Habermas offers a yardstick for the readers of a text, that is, for the hermeneutical exercise. I cannot speak about the limits or advantages of his position, for it is deeply rooted in his theory of communicative action, speech acts and discourse in general. Ambiguity is the birthmark of every philosophy, including the quoted statement and the theory it involves.


La missione dell’università e l’attuale maggioranza di governo di Mauro Visentin

Come mi ero impegnato a fare in un intervento riguardante l’università comparso sullo scorso numero di novembre di InSchibboleth, torno su questi temi. Non, però per dare seguito all’impegno preso allora di affrontare altre questioni relative al pessimo stato in cui versa l’università italiana, dopo che, in quell’intervento, avevo discusso del metodo che l’attuale maggioranza di governo preannunciava di voler adottare per risolvere il problema, rilevantissimo, del reclutamento dei docenti. Due “casi” hanno, infatti, di recente, destato in me l’esigenza di non lasciar cadere l’opportunità, che con essi si è offerta, di riflettere sul rapporto che il governo in carica e la maggioranza politica che lo sostiene intendono stabilire con l’accademia, il suo ruolo e la sua missione. Sono, uno, di carattere generale (riguardante, cioè, la condizione dei nostri atenei nel loro complesso e attinente sempre alle linee programmatiche che il ministero si appresterebbe a tradurre in leggi e decreti


aventi ad oggetto i concorsi universitari), l’altro, di natura specifica e perfino, in un certo senso, personale, in quanto relativo ad un’iniziativa promossa dall’università nella quale insegno: quella di Sassari. Si tratta di due fatti emblematici, che esprimono bene il modo in cui il partito berlusconiano e il governo che ne è espressione guardano alla realtà universitaria, e che, d’altra parte, si prestano ad alcune considerazioni che ritengo istruttive. Iniziamo dal secondo. Un’interpellanza parlamentare e un appello che ha raccolto numerose adesioni nel mondo accademico, promossi entrambi dai radicali, hanno fatto sì che esso uscisse dalla cerchia ristretta dell’ateneo e della città di Sassari. Si tratta della proposta, formalmente avanzata dalla facoltà di Giurisprudenza, di conferire una laurea honoris causa al colonnello libico Muhammar Gheddafi (o, come nelle loro lettere di protesta, che hanno circolato largamente nella rete dell’indirizzario d’ateneo, hanno scritto i colleghi più dotti e raffinati, Mu’ammar Abu Minyar al-Qadhdhafi). Sulle origini dell’iniziativa è stato steso, dai proponenti, un velo di riserbo. Il preside di giurisprudenza, Giovanni Lobrano, in una dichiarazione rilasciata all’Adnkronos, sostiene a) che essa non è partita da lui anche se lui e la sua facoltà l’hanno fatta propria, b) di essersi consultato, prima di avanzarla, con alcuni colleghi anziani e con il rettore uscente, Alessandro Maida, e c) di non poter dire di più “perché non si tratta di questioni personali” delle quali l’interpellato possa liberamente disporre. La dichiarazione dell’ottimo collega (nei confronti del quale queste considerazioni non intendono sollevare alcun rilievo polemico, visto che nutro per lui la massima stima al punto di avergli dato il mio voto in occasione delle ultime elezioni per la guida dell’ateneo, nelle quali ha, senza successo, opposto la sua candidatura a quella del rettore in carica) appare confusa e imbarazzata. La ragione dell’imbarazzo è chiara: l’ondata trasversale di proteste che la proposta ha suscitato l’ha resa automaticamente orfana, e coloro che l’hanno concepita, suggerendo a Lobrano e a giurisprudenza di farsene ufficialmente promotori, si sono defilati, inducendo Lobrano, per correttezza e discrezione, a non svelare i risvolti dell’affaire. Ma in città ed entro la cerchia dell’ambiente universitario la voce ricorrente è che essa sia stata ispirata da un esponente sardo di rilievo della maggioranza di governo. E’ verosimile che, in occasione della riunione del G8, in un primo tempo prevista in Sardegna, a qualcuno nel centrodestra sia venuta l’idea che, per rinsaldare i legami di amicizia con la Libia e il regime che la governa, legami che proprio adesso stanno dando i frutti attesi in tema di cooperazione tra Italia e Libia nel controllo dei flussi migratori che transitano fra le due sponde del Mediterraneo, fosse opportuno concedere al leader libico un’onorificenza accademica. Non voglio commentare la proposta né gli argomenti con i quali è stata difesa da Lobrano (sulla prima ho già espresso, in diverse sedi, la mia ferma contrarietà, sui secondi non vorrei infierire, anche se non posso fare a meno di osservare che la “singolare perizia” – cui, secondo il decreto regio del 1933 che ancora regola la concessione delle lauree ad honorem, come ricordato e invocato da Lobrano, va ricondotta l’attribuzione di questa onorificenza – può certo essere riconosciuta a qualsiasi leader che si sia impadronito del potere e lo abbia mantenuto per un cospicuo numero di anni, come è accaduto e accade, nella storia del secolo scorso e ai giorni nostri, in tante dittature, senza che per questo costui debba essere indiscutibilmente considerato degno di stima e rispetto, ossia di quei tratti che il termine latino honos/honor compendia in sé, non limitandosi a designare una semplice capacità di realizzazione, ossia una qualità moralmente neutra, per la quale il latino utilizza altre espressioni – virtus, facultas, ars, per esempio). Il mio intento, in questa


sede, è di mettere in luce il concetto che dell’università deve nutrire una classe politica come quella attualmente al governo se ritiene di potersi servire di un ateneo per omaggiare in modo ipocrita e servile il leader di un Paese con il quale si vogliono ristabilire rapporti diplomatici di buon vicinato, per ragioni dettate dall’interesse nazionale e dalla realpolitik. E’ vero, naturalmente, che non meno grave e censurabile è la risposta di quegli organi accademici i quali, di fronte ad una pressione indebita di questo tipo, non hanno saputo fare altro che mostrare la propria condiscendenza. Ma questo è un problema diverso, di uomini, caratteri, personalità, non un problema “sistemico”. O lo è soltanto nel senso che dimostra la debolezza (soprattutto economica) dell’università italiana e dunque la sua ricattabilità da parte del potere politico. Non denuncia, in altre parole, l’atteggiamento generale di una classe dirigente (tanto è vero che la proposta di cui stiamo parlando ha incontrato un nutrito fuoco di sbarramento da parte di moltissimi docenti dell’ateneo al centro del caso e anche di numerose altre università italiane; del resto, possiamo essere certi che come iniziativa non sarebbe mai potuta nascere spontaneamente all’interno del mondo accademico). Il caso è tanto più significativo perché consente di mettere in chiaro il legame che indubbiamente intercorre tra la considerazione in cui il governo e i suoi esponenti mostrano di tenere l’università – e ciò che essa, bene o male, rappresenta – e un’identità culturale, quella dei partiti che ne fanno parte, che di solido ha, evidentemente, solo l’apparenza o la facciata, facendo anche risaltare la coerenza che sussiste fra le due cose. Le formazioni politiche che hanno dato vita all’attuale maggioranza hanno esibito sin qui e continuano ad esibire un atteggiamento di rifiuto nei confronti del multiculturalismo, considerato (sulla scia della Chiesa e fatte salve le schermaglie che contrappongono quest’ultima alle decisioni più incresciose imposte dalla Lega in fatto di immigrazione clandestina) l’equivalente del relativismo culturale. Questo atteggiamento si è spinto, in alcuni casi, attraverso gli esponenti più oltranzisti del “partito del nord”, fino ad abbracciare posizioni palesemente xenofobe. Sembra un paradosso, ma la proposta di conferire una laurea ad honorem a Gheddafi mostra una sintonia occulta con tutto questo. Ho già definito questa iniziativa “servile e ipocrita” e tanto più tale giudizio deve essere ribadito quanto più appaia chiaro che nessuna necessità diplomatica spingeva il governo verso una deriva così cinica: non si possono, forse, intrattenere rapporti amichevoli, fondati su interessi comuni, politico-economici, di scambio e cooperazione, senza mostrare ossequio, acquiescenza e sostegno nei confronti di una politica – nonché dei valori che essa esprime – che è agli antipodi di tutto quello che costituisce l’identità assiologica dell’Occidente? E’ chiaro che sì. Dunque la proposta, o meglio il suggerimento venuto all’università di Sassari dal mondo politico esprime un eccesso di zelo che non riguarda la diplomazia ma piuttosto l’ignoranza elementare del fatto che il riconoscimento e l’accettazione della diversità non si spinge, non deve né può spingersi, fino a valicare il confine che separa i valori di riferimento di una cultura da quelli di un’altra. Come ho già diffusamente cercato di spiegare sulle pagine di questa rivista, il relativismo ontologico non va mai confuso con quello assiologico e il primo non implica affatto il secondo. Crederlo è il segno inequivocabile di una incertezza e insicurezza di fondo a proposito della propria identità culturale e del suo significato, un’incertezza e un’insicurezza che spingono ad oscillare fra la chiusura oltranzista, ai limiti della xenofobia (e talvolta anche ben oltre questi limiti), e, torno a ripetere, l’acquiescenza servile nei riguardi di posizioni con le quali il confronto è possibile, e talvolta proficuo, solo se, innanzitutto, si produ-


ce sulla base di una precisa presa di distanza. Tutto questo è uno dei frutti migliori dello svolgimento storico della civiltà e della scienza occidentali. Ovvero, precisamente dei valori e del patrimonio rispetto ai quali compito e missione dell’università sono sempre stati quelli di esserne, ad un tempo, testimone, garante e promotrice. Alla luce di queste considerazioni, come stupirsi se la maggioranza che governa attualmente il Paese mostra segni evidenti di assoluta noncuranza per l’immagine, il ruolo, il peso e le finalità dell’istituzione scientifica che, piaccia o non piaccia, esprime ancora, da noi, l’impegno maggiore e sopporta la maggiore responsabilità nel dare seguito alla propria vocazione volta ad assicurare lo sviluppo e la trasmissione del sapere, ossia l’università pubblica? E come stupirsi se, dopo tutta l’indignazione mostrata lo scorso autunno per il familismo e il localismo dilaganti nell’università italiana, quando si doveva contrapporre all’ondata di proteste che i tagli finanziari all’istruzione di ogni ordine e grado aveva suscitato nella scuola e negli atenei, oltre che in buona parte dell’opinione pubblica, il governo non ha trovato di meglio che contrabbandare una proposta di sostanziale sanatoria e promozione ope legis degli attuali associati e ricercatori come una riforma dei meccanismi concorsuali che dovrebbe introdurre, nell’università, rigore, selezione meritocratica e oggettività di valutazione, innalzando la qualità e la produttività della didattica e della ricerca nei nostri atenei? Di che cosa si tratta? Semplicemente di questo: della sostituzione di un metodo concorsuale fondato sulla costituzione di commissioni locali (costituite per 4/5 di docenti esterni all’ateneo che bandisce, eletti a livello nazionale dai loro colleghi di raggruppamento) – che, nell’ultima e più rigorosa versione, conferiscono una sola idoneità a colui, tra i candidati, che ciascuna di esse ritiene scientificamente più maturo e attrezzato – con un’unica commissione nazionale (per ogni raggruppamento scientifico) che conferisce un’idoneità a chiunque essa ritenga ne abbia titolo. In altre parole, mentre con l’attuale meccanismo le commissioni possono “idoneizzare” al massimo tanti candidati quanti sono i posti messi a concorso, con quello che si prospetta, l’unica commissione nazionale che verrà costituita per ogni settore disciplinare potrà attribuire un numero “aperto” di idoneità (in teoria, queste ultime potrebbero essere conferite anche a tutti i candidati concorrenti, nessuno escluso) in modo che gli atenei possano poi attingere dall’elenco di idonei che si sarà costituto in questo modo, scegliendo i propri (che hanno tra l’altro il pregio, indiscutibilmente “scientifico”, di costare meno, ovvero solo la differenza retributiva corrispondente allo scatto fra i due ruoli), con l’unico vincolo della disponibilità dei fondi necessari e nella più completa libertà di destinare, quelli disponibili, alla chiamata di un collega con il quale sussistono legami annosi e rapporti di complicità e amicizia, piuttosto che ad investimenti in progetti di ricerca, in attrezzature tecnico-scientifiche che potrebbero migliorare la didattica e la qualità dello studio, in programmi di formazione e di aggiornamento. E’ circolata, alla fine di marzo, una bozza programmatica contenente questa ed altre proposte, frutto di una discussione “seminariale” promossa dal Ministero dell’Istruzione e dell’Università, nella quale, fra l’altro, si legge: “Il punto più debole della normativa finora in uso è infatti quello di costringere gli atenei a bandire concorsi teoricamente aperti quando il vero obiettivo, spesso del tutto legittimo, è quello di promuovere un docente interno”. Poche righe dopo, nel paragrafo intitolato”Mobilità”, troviamo scritto, nero su bianco, quanto segue: “Il sistema italiano è molto ingessato, poiché la mobilità tra le sedi – cioè la libera circolazione delle idee e dei saperi


che costituisce da secoli l’essenza stessa dell’università – è ridotta al minimo e sopravvive solo perché massicciamente incentivata dal MIUR (…) Da 10 anni a questa parte circa il 95% dei docenti fa carriera nella sede in cui ha inizialmente conseguito il posto di ricercatore (…) Elementi di mobilità nazionale e internazionale vanno fortemente accentuati se l’Italia vuole tornare ad essere pienamente competitiva in sede internazionale” (corsivi miei). Ebbene, anche lasciando da parte l’ineffabilità di considerazioni come quelle che – dopo le accuse rivolte qualche mese or sono al sistema universitario di favorire, sfruttando il metodo di reclutamento vigente, il localismo e il familismo su cui si fondano e prosperano i potentati baronali – si spingono a qualificare come del tutto legittime le aspirazioni delle singole sedi accademiche di promuovere i docenti interni con concorsi “solo teoricamente aperti” (dove la denuncia non riguarda il fatto che questa apertura sia solo teorica, ma che essa imponga, comunque, ai “legittimi obiettivi” dei diversi atenei, di seguire, per realizzarsi, un percorso complicato e tortuoso!), anche tralasciando di tornare, con cose già dette, su tutto questo, come si può attribuire ad altro che a sprezzante noncuranza per la logica elementare e per l’oggetto di un discorso che non si esime dal violarla così platealmente l’accostamento fra la rivendicazione della legittimità delle “promozioni” interne e la denuncia della scarsa mobilità interuniversitaria? Come si può pensare che favorendo gli avanzamenti di carriera interni si possa altresì incentivare la mobilità dei docenti? E’ possibile che un simile ragionamento nasca da un’autentica preoccupazione per le sorti del nostro sistema di istruzione superiore e da una ponderata analisi delle esigenze della ricerca scientifica e dell’avanzamento del sapere nel nostro Paese? Ognuno può darsi la risposta che crede. I fatti sono questi.


Verso un New Deal globale di Stefano Fassina*

È oramai un luogo comune definire la crisi in corso come «epocale». Gli interventi di politica economica hanno mobilitato risorse enormi. L’aumento del debito pubblico stimato per il 2009-10 nelle economie mature (+27% negli Usa, +30% in Giappone, + 20% in Europa) richiama andamenti da economia di guerra. Le lezioni della storia sono state apprese. Ora le condizioni del malato appaiono stabili. L’emergenza sembra superata. Qui non vogliamo cimentarci nelle previsioni sulla congiuntura o sugli effetti delle correzioni, prima o poi necessarie, dei bilanci degli Stati e delle banche centrali. Non intendiamo posizionarci tra quanti vedono tante rondini e annunciano una primavera imminente, quanti vedono solo una rondine e, secondo saggezza antica, dubitano dell’arrivo della primavera e quanti non vedono neanche la rondine. Qui proviamo a fare qualche riflessione sul possibile ordine da costruire per riavviare i motori della crescita e dello sviluppo in termini sostenibili. Poiché siamo a un passaggio di fase. Viviamo un cambio di stagione. Un profondo movimento geoeconomico e geopolitico. Infatti, non è soltanto crollato un castello finanziario. È saltato il meccanismo di alimentazione della domanda globale degli ultimi quindici anni. È saltato un ordine culturale, politico ed economico. Pertanto, il termine «crisi» è riduttivo per una fase di transizio-


ne verso un ordine diverso. L’equilibrio rotto dalla crisi era, infatti, un equilibrio ingiusto, equilibrio instabile, insostenibile, sia in termini economici sia sociali e ambientali. Attenzione, però. Tale valutazione non intende disconoscere le contraddizioni presenti nell’ultimo trentennio, ossia le componenti di straordinaria dinamicità, innovazione, sviluppo, liberazione di risorse. Non capiremmo il successo di pubblico, oltre che di critica, senza riconoscere la colossale riduzione della povertà intervenuta nelle economie emergenti e in alcune economie in sviluppo, senza ricordare gli spazi di libertà, oltre ai tassi di crescita, dovuti al paradigma economico e sociale dell’information technology information e alle leve finanziarie. Tuttavia, nonostante gli indubbi aspetti progressivi, l’equilibrio precrisi era un equilibrio insostenibile, poiché retto dal consumatore americano che trainava, a debito, la domanda globale. Per trainare le esportazioni del resto del mondo, il debito delle famiglie degli Stati Uniti aumentava dal 40% del Pil all’inizio degli anni Settanta al 100% del Pil alla fine del 2007. Il lavoratore americano full time e scolarizzato, ossia le classi medie, comprava a debito anche perché il suo reddito da lavoro rimaneva fermo in termini reali o si riduceva, mentre salivano i costi dell’assicurazione sanitaria e pensionistica, del college per i figli, delle abitazioni. La vulgata neoliberista, non solo giustificava, ma poneva quale obiettivo delle politiche economiche e sociali l’aumento della disuguaglianza quale condizione per il miglioramento generale. Lo slogan era: maggiore disuguaglianza uguale maggiore crescita e maggiore reddito per tutti. E maggiore mobilità sociale L’esito è oramai noto. In un arco di tempo che ha visto quasi triplicare il Pil in termini reali, i frutti della crescita escludevano il 90% dei lavoratori. La maggiore mobilità sociale è rimasta un miraggio. L’85% ricchezza finanziaria concentrata nelle mani del 10% delle famiglie più ricche. In breve, la crisi dei welfare state ha lasciato le democrazie delle classi medie appese alle scialuppe della finanza. Nel trentennio alle nostre spalle, le democrazie delle classi medie hanno resistito attraverso la die welfar welfare finance e finance. La vicenda delle classi medie degli Usa è stata la più incisa dal paradigma del fondamentalismo di mercato, ma quasi tutti i Paesi sviluppati, in particolare i Paesi anglosassoni, hanno avuto storie simili. In un rapporto dal significativo titolo «Growing unequal », l’Oecd documenta il drastico peggioramento della distribuzione del reddito avvenuto quasi ovunque nelle economie mature. In particolare, il rapporto rileva come tale peggioramento abbia radici nel mercato del la- leva lavoro, ossia dipenda poco dall’indebolimento della progressività dei sistemi fiscali o di welfare e prevalentemente dai rapporti di forza a base della distribuzione primaria del reddito tra capitale e lavoro. L’indice di disuguaglianza pre-tax e indice trasferimenti fiscali e sociali peggiora radicalmente in Occidente e in Giappone. In sintesi, degenerazione della finanza e polarizzazione nella distribuzione del reddito sono state facce della stessa medaglia. La crescita a debito non sarebbe potuta andare avanti lungo se fosse stata accompagnata soltanto dalla politica monetaria iperespansiva della Federal Reserve. Il meccanismo ha retto grazie al comportamento delle classi medie delle economie emergenti. Il prestito a buon mercato al consumatore americano veniva dall’eccezionale risparmio dalla middle class emergente delle metropoli asiatiche. Un flusso di risparmio che si spostava in senso opposto a quanto è sempre avvenuto nella storia: dalle economie più povere alle economie più ricche.


Dalla Cina, dall’India, dal Sud Est asiatico, dai Paesi esportatori di petrolio agli Stati Uniti e alle altre principali economie di stampo anglosassone. Un risparmio accumulato contro i rischi sociali da middle classe insicure del loro status, sprovviste del welfare rooseveltiano o socialdemocratico tipico della fase di sviluppo delle democrazie occidentali e del Giappone. Un risparmio canalizzato dalle autorità monetarie verso i titoli Tesoro e le obbligazioni bancarie Usa al fine di tenere artificialmente sopravvalutato il dollaro, così da non minare il potere d’ac- d’acquisto del consumatore Usa e, al tempo stesso, accumulare riserve in valuta, l’arsenale atomico del XXI secolo, minacciare e proteggersi dall’attacco speculativo dei mercati, potente forza di cambiamento politico e sociale nel 1997 nel Sud Est asiatico. Il meccanismo precrisi è irriproducibile. Ecco il punto politico da cui muovere. La transizione è aperta a esiti opposti. Nessun crollo dell’impero americano, profezia ricorrente nelle file della sinistra, ma sempre smentita dai fatti. Semplicemente, viviamo il ridimensionamento dell’egemonia culturale, del primato politico e della centralità economica degli Usa. Non possiamo più fare affidamento sul consumatore americano in crescente indebitamento. La scommessa della Fiat sulla Chrysler mi pare poggi su un’analisi ancora più discontinuista di quella qui proposta: dal Suv alla «Nuova 500» è una rivoluzione culturale. Ora siamo a un bivio. O un ordine globale per ricostruire le condizioni per le democrazie delle classi medie. Un patto economico e sociale e geopolitico analogo per portata al compromesso fondativo delle democrazie negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone definito a cavallo della Seconda guerra mondiale. Un «New Deal globale», riprendendo la formula dal Global Progressive Forum, il forum promosso dal Pse, partecipato da tutti i partiti socialisti e democratici del mondo e dalle organizzazioni dei lavoratori europee e internazionali. O un New Deal globale o il ripiegamento protezionistico, nazionalista e corporativo verso democrazie elitarie profondamente diseguali e inevitabilmente populiste. É il sentiero facile, da tanti già intrapreso, nonostante la retorica proglobal. Ma la partita è in corso. Il G20 di Londra segna passi avanti nella direzione giusta. Dietro i riflettori sul braccio di ferro sulle politiche di bilancio espansive è stata avviata la fase costituente per costruire la governance globale adatta al- se allo scenario geopolitico in divenire. L’intelligenza della leadership Usa, la maturata consapevolezza della propria forza e responsabilità da parte della Cina, il realismo quasi disperato del Regno Unito e, soprattutto, i legami dell’interdipendenza economica scarnificati dalla crisi in corso dipendenza hanno aperto la strada delle riforme. È evidente che il percorso è lungo e pieno di ostacoli, ma siamo in cammino. La redistribuzione di poteri nelle istituzioni di Bretton Woods e la stabilizzazione del sistema monetario globale attraverso il potenziamento del Fondo Monetario e l’inevitabile ridimensionamento del Dollaro sono condizioni necessarie per l’avvio di una domanda globale equilibrata. Solo così, le immense risorse in valuta accumulate dalle economie emergenti, Cina in particolare, possono essere liberate per spostare gradualmente l’asse del loro sviluppo dalle esportazioni alla domanda interna. Solo così, le classi medie Usa possono essere affiancate dalle classi medie delle economie emergenti per ribilanciare la domanda globale. Solo così, per guardare a noi, il made in Italy può tornare a crescere. Solo così, il Mediterraneo ritorna al centro dei flussi commerciali e offre opportunità di sviluppo al Mezzogiorno, grande


questione nazionale rimossa. La ridefinizione della governance globale ha altri tasselli decisivi. In breve: l’introduzione di standard ambientali e sociali ai commerci globali, attraverso la revisione delle clausole del Wto, la positiva conclusione del vertice di Copenaghen sull’ambiente e il potenziamento dell’Ilo, in un difficilissimo equilibrio tra diritti da tutelare e barriere protezionistiche surrettizie da evitare; la sfida energetica; il controllo dei movimenti di capitale di brevissimo e breve periodo; la regolazione della competizione fiscale, oltre ai tentativi di imporre cooperazione ai «paradisi fiscali». Un aspetto centrale per il New Deal globale è la rivitalizzazione delle organizzazioni dei lavoratori. É, innanzitutto, un’inversione culturale da compiere. L’ideologia dominante, nutrita anche dall’arroccamento dei diretti interessati, leggeva il sindacato come residuo del mondo fordista, arnese inservibile nell’universo dell’ dell’information and comunication technology, della società degli individui. La crisi in corso ha ammaccato tale lettura. Ora è più chiaro che senza organizzazione collettiva, il lavoro viene mortificato e svalutato. Non ci può essere democrazia delle classi medie senza sindacati forti e rappresentativi. Non è un caso che il presidente Obama abbia costituito una to Task Force on Middle Class W ask Working Families orking ponendo tra i suoi obiettivi la riregolazione del mercato del lavoro e dei diritti sindacali. Come non fu un caso che, per realizzare il New Deal, il Presidente Roosevelt firmò nel 1935 il Wagner Act, ossia una legge federale per i diritti sindacali nei luoghi di lavoro. Certo, la rivitalizzazione delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici non può avvenire per legge. Deve avvenire a partire dai luoghi di lavoro, sul territorio, nelle mille e disarticolate forme dell’attività produttiva. Una sfida formidabile che deve stare a l’attività cuore alle forze politiche riformiste tanto quanto alle organizzazioni del lavoro. Le forze riformiste non possono declinare la sacrosanta autonomia della politica dagli interessi economici e sociali in termini di indifferenza verso quanto avviene sul terreno della regolazione del lavoro e limitarsi ad auspicare l’unità delle organizzazioni sindacali. Insomma, il lavoro è l’epicentro etico e politico del New Deal globale. Il lavoro da ridefinire nella sua natura economica e sociale. Il lavoro da riconoscere nella molteplicità delle forme contrattuali e giuridiche. Le forze riformiste non possono dedicarsi soltanto al nobile obiettivo di « ridare dignità ai poveri». Devono ridare dignità al lavoro, unica via per inverare la democrazia delle classi medie, intesa come patto di cittadinanza in grado di dare a ogni lavoratore e lavoratrice pieni ed effettivi diritti economici, sociali e politici e ragionevoli probabilità di mobilità sociale ai suoi figli. Insomma, il nostro patto costituzionale. Invece, in questi anni, il lavoro ha perso specificità nel discorso pubblico. È diventato una componente indifferenziata delle forze produttive. Ha perso la sua funzione fondativa della cittadinanza democratica, dell’identità sociale della persona. Il lavoro è stato retrocesso a funzione di accumulazione di potere d’acquisto per realizzare l’individuo nella dimensione del consumo, dimensione rilevante, ma non esclusiva dell’identità della persona. Ovviamente, nessuna nostalgia per il conflitto ideologico e astratto tra capitale e lavoro. Ma, nemmeno rassegnazione all’ideologia dell’impresa come luogo dell’interesse generale interpretato naturalmente ed esclusivamente dalla proprie-proprietà. Tra le due contrapposte ideologie esiste un spazio ampio per indagare la


natura del lavoro, tanto più in un Paese abitato dal popolo delle partite Iva e ricco di microimprese con uno o due dipendenti. Il lavoro da rivalutare, infatti, è anche il lavoro autonomo, il lavoro dell’uomo artigiano descritto da Sennett. È un’indagine da fare per fondare l’autonomia culturale dei riformisti. Insomma, i riformisti per essere riconoscibili devono ripartire dal lavoro. Il lavoro è pilastro del neoumanesimo. Infine, il New Deal globale non può fare a meno dell’Unione europea. L’Unione europea è la forma più avanzata governo multilaterale e democratico della globalizzazione. È esempio per la costruzione di altre unioni regionali, in Africa, in America Latina, in Asia, cardini di un multilateralismo efficace. L’Unione europea ha sul terreno economico e sociale potenzialità straordinaria per giocare la partita in corso e segnare la transizione: le sue istituzioni di welfare e l’euro. Ma, l’Unione europea gioca di rimessa. È divisa. Le sue leadership sono prigioniere di una visione ottocentesca dell’interesse nazionale. La riforma della governance globale presupporrebbe una profonda svolta politica nell’area euro per istituire un effettivo governo dell’economia mediante una specifica cooperazione rafforzata. La maturazione politica dell’area euro dovrebbe essere il presupposto per l’unificazione della rappresentanza nelle sedi di governance multilaterale, in presentanza particolare nel G20 e nelle rifondate istituzioni multilaterali di Bretton W Woods. Il G8 non ha più senso. Senza lungimiranza politica, le leadership europee favoriranno la strutturazione di un G2 di fatto, costituito da Stati Uniti e Cina. In sintesi, la transizione in corso richiede uno sforzo di fantasia e determinazione politica oltre il campo della finanza. La finanza come capro espiatorio è una scorciatoia gattopardesca. Pertanto, introdurre legal standards per la finanza a livello globale è, indubbiamente, importante, ma la transizione in corso richiede visione e capacità politica tali da saper condurre in porto una vera e propria fase costituente a livello globale. Una sfida impossibile o almeno radicalmente contraddittoria alle culture politiche delle destre, segnate da comunitarismo esclusivista, negazione dell’altro da sé, corporativismo territorialista, visione ideologica dei meccanismi di mercato o statalismo arbitrario e liberismo assistito. Una sfida elettiva, invece, per le forze di origine socialista e cattolica da segnate dall’universalismo, consapevoli del primato della politica nelle società democratiche. In conclusione, senza passi avanti verso un New Deal globale rischiamo una lunga fase di stagnazione. Un contesto pericoloso. Insistere con il riformismo in un solo Paese consegna le classi medie spaventate alle destre populiste e protezionistiche. Soltanto cooperando per un New Deal globale le forze riformiste possono ritrovare slancio e costruire un futuro aperto e giusto per una comunità globale.

* In collaborazione con Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri


L’avventuriere del sapere: Roger Caillois di Marco Filoni

Una fenomenologia della vertigine. Unita alla naturale ossessione verso tutto ciò che è labirintico, incerto, misterioso. In una sola parola: umano. Roger Caillois ha camminato lungo i sentieri più incerti del nostro sapere. E l’animo che lo ha guidato è stato quello dell’esploratore – anzi: “avventuriere”, come lui stesso amava definirsi. A voler stilare un catalogo degli interessi che, non si sa bene come, sono riusciti a trovar posto nelle sue ricerche, si rimane stupiti e interdetti dalla diversità e dall’abbondanza dei temi al centro dei suoi libri. Basterà scorrerne i titoli: il fantastico, i miti, i giochi, le feste, gli insetti e gli animali, le pietre, i riti, i sogni, la guerra, l’arte, la poesia, il sacro… I soggetti trattati testimoniano una curiosità senza limiti verso le discipline più diverse e insolite. Questa poliedrica attività di Caillois lo pone oggi al centro di un gran numero di discorsi. Che si parli di mimetismo, di antropologia, del gioco, della mitologia del sacro o anche di Borges, il suo nome è sempre presente. Eppure la sua immagine rimane ancora sfocata, nella difficoltà di render ragione della complessità della sua avventura intellettuale. In fondo Caillois rimane un grande sconosciuto della cultura europea. Qualche anno


fa aveva provato a colmare la lacuna, con successo, la nostra bella rivista «Riga» che gli aveva dedicato un numero monografico1. Al quale va aggiunto l’imponente volume che raccoglie le sue opere più importanti2, pubblicato in Francia lo scorso anno in occasione dei trent’anni dalla scomparsa dello studioso avvenuta nel dicembre del 1978. Per provare a fare un bilancio dello studioso, si deve tener conto della biografia di Caillois – che non manca certo di interesse. Nato a Reims nel 1913, passa attraverso l’amicizia di Roger Gilbert-Lecomte e il gruppo del “Grand Jeu”, per poi esordire giovanissimo a Parigi con Breton e il movimento surrealista. Si distacca presto dal surrealismo per approfondire gli studi con Georges Dumézil, Alexandre Kojève e Marcel Mauss (di cui sarà allievo). Con Georges Bataille e Michel Leiris fonda il “Collège de Sociologie”, nel quale fa le prime prove generali della sua teoria del sacro e del mito – temi con i quali si confronta in largo anticipo rispetto alla cultura europea. Arriva poi il periodo del lungo soggiorno argentino: allo scoppio della guerra rimane bloccato a Buenos Aires, dove aveva raggiunto Victoria Ocampo – con la quale rimase sempre legato da un intenso rapporto. Da oltre Atlantico sostiene attivamente la lotta contro il nazismo, fondando fra l’altro la rivista “Lettres françaises” e l’Istituto francese di Buenos Aires. Ma soprattutto diventa amico dei più grandi scrittori dell’America latina: Borges e Neruda, Mistral e Reyes. Al suo rientro li fa conoscere in Europa grazie alla collana “Croix du Sud”, che nel dopoguerra fonda e dirige per l’editore Gallimard. Infine le missioni all’Unesco, dove entrerà a lavorare come funzionario, e la creazione della rivista «Diogène» che, con l’aiuto di Jean d’Ormesson, dirigerà fino alla sua morte. Nel frattempo, nel 1971, arriva l’elezione all’Académie française: qui, con spirito ironico, rompeva la monotonia delle sedute (uno dei compiti è quello di stabilire la lingua francese e vegliare su di essa attraverso la compilazione di un dizionario) proponendo parole inesistenti delle quali inventava l’etimologia in maniera così convincente che spesso gli “immortali”, suoi pari, arrivavano ad accettare. Questi brevi accenni biografici sono già rivelatori della difficoltà nel render conto del complesso universo di interessi entro i quali si mosse Caillois. Volendo fargli il torto di riassumere questo universo, potremmo dire che il grande tema della sua opera è quello della natura e della civiltà, dell’ordine umano in contrapposizione dialettica con il disordine animale. Lo studioso scorge una sorta di alienazione fra il mondo e l’uomo, e con acribia chirurgica tenta di sanare questa frattura che impedisce l’armonia dell’essere umano con la natura. Come? Attraverso connessioni, correlazioni, analogie che provino l’inesistenza dell’abisso fra il mondo naturale e il mondo umano. Analogie che lo studioso riscontra anche in ciò che l’uomo ritiene insignificante, come gli insetti: «l’uomo restituito alla natura è un invito a non dimenticare che l’uomo e l’animale, in particolare gli insetti, fanno parte dello stesso universo, e a spiegare i miti e le ossessioni del primo con i comportamenti del secondo». Negli ultimi anni della sua vita Caillois iniziò un lavoro per mettere ordine alla sua opera. Con quella che lui stesso chiamava “incorreggibile tendenza unificatrice”, tentò un’operazione non priva di rischi. Non pensava soltanto di classificare e raccogliere i suoi scritti: ciò che voleva era riunire i tanti elementi della sua vasta ricerca non solo come estetica, ma come “poetica generalizzata”. Questo significava passare da una disciplina all’altra attraverso le “scienze diagonali”. Ovvero applicare un metodo rigoroso o un’ipotesi fertile là dove nessuno aveva immaginato potessero esser applicate. Una logica dell’immaginario: ecco cosa aveva in mente lo studio-


so. Egli esigeva che l’irrazionale, di cui si occupava, fosse sottomesso al controllo della ragione – per fa sì che non diventasse un “vago gioco di società”. Questo significava mettere in evidenza la sintassi generale, quella coerenza segreta del suo universo. Un universo fatto di meraviglia, di mistero, di natura. Una natura che si confonde con le forze dell’abisso. Per questo Caillois dirà che i suoi scritti sono votati al riconoscimento e all’analisi «del potere di seduzione delle forze dell’abisso e nell’affermazione dell’assoluta necessità di opporvi i sotterfugi della libertà umana, in cui consiste la civiltà». Questo grande intellettuale è stato uno degli spiriti più interessanti del secolo scorso. Come scrisse Marguerite Yourcenar, possedeva l’audacia e la curiosità di «uno spirito che non ama non comprendere». E ha saputo comprendere, con ostinato rigore, ciò che tutti considerano incomprensibile. Roger Caillois ci ha insegnato la nostalgia del sacro. Quel sacro sul quale mantenere il primato dell’intelligenza e della volontà: perché solo da queste facoltà, ci dice, viene per l’uomo una possibilità di libertà e di creazione. Oggi, noi, abbiamo un po’ nostalgia di Caillois. Roger Caillois, a cura di U.M. Olivieri, «Riga», n. 23, 2004. Roger Caillois, Œuvres, a cura di Dominique Raboudin, Gallimard/Quarto, Paris 2008. 1 2



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