Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008 Febbraio-Marzo n째 24, 2010
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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Giugno-Luglio 2010, n° 28 (Numero 29, 30 Ottobre 2010) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.
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L’economia di mercato, la globalizzazione e l’impotenza della politica di Elio Matassi
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Politica e retorica di Umberto Curi
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Ipazia di Alessandria: La donna e il cielo di Claudia Baracchi
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Sapere morale e insecuritas. Per un’etica come “scienza del conflitto” alcune domande a Marco Ivaldo a cura di Bachisio Meloni
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La crisi dell’euro di Silvano Andriani
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La “stanchezza della democrazia” di Riccardo Terzi
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L’altro eccessivo (brano scelto) di Gianfranco Dalmasso
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L’economia di mercato, la globalizzazione e l’impotenza della politica di Elio Matassi
E’ opinione diffusa che il capitalismo abbia trionfato sul socialismo. Ma si tratta di una interpretazione della contemporaneità sostanzialmente fuorviante, perché, in realtà, il trionfo è dovuto in larga misura alla democrazia piuttosto che alla economia di mercato. Qualora il capitalismo, trascendendo la politica, diventasse un sistema ‘totalitario’, come di fatto sta avvenendo negli ultimi dieci anni con le ricorrenti crisi finanziario-sistemiche, rischierebbe
di crollare a sua volta, in quanto in nessun ciclo della nostra storia recente – eccezion fatta per il periodo degli anni Trenta – le disfunzioni dell’economia provocate dal capitalismo globale sono state tanto gravi quanto lo sono oggi: disoccupazione crescente, crescita esponenziale dell’illegalità e povertà nei paesi sviluppati, miseria insostenibile in molti paesi in via di sviluppo, incremento delle diseguaglianze di reddito procapite tra i paesi. Il capitalismo globale sta di fatto provocando un’alterazione profonda degli equilibri internazionali con effetti devastanti sulla sostanza stessa della democrazia. E’ doveroso precisare che ogni sistema economico non può aspirare a rappresentare immediatamente – direttamente il sistema politico; l’economia di mercato no può esprimere, senza mediazione e controlli, un principio di democrazia e che, pertanto, entro quest’ottica peculiare, possono sussistere solo sistemi ‘spurii’. Esistono ‘democrazie di mercato’ ma non ‘economie di mercato’. Si tratta di una differenza rilevante che tiene nel debito conto i due contrapposti poli di riferimento che governano o che dovrebbero governare la totalità sociale. Da un lato, il mercato esprime una vocazione individualistica, dall’altro, la democrazia, costruita sul principio del suffragio universale, esprime quella opposta. Una contraddizione che era stata percepita fin dalle origini dalla teoria politica della Grecia antica. Soltanto la ricerca di un equilibrio tra queste due vocazioni contrapposte potrà continuare a far vivere degnamente la democrazia. Qualsiasi lacerazione di tale equilibrio non può che risultare devastante per la costruzione di un autentico assetto democratico. All’interno di tale campo di tensione, tuttavia, deve rimanere fermo quale quadro di riferimento valoriale la priorità della democrazia sull’economia di mercato, in altri termini, il principio economico dovrà essere subordinato alla democrazia e non viceversa. La democrazia non può, infatti, essere considerata alla stregua di un semplice sistema politico, rappresentando anche e soprattutto un sistema di valori, mentre l’economia di mercato è semplicemente uno strumento che può risultare compatibile con essa ma che, estremizzandosi, potrà diventare anche incompatibile, come stanno dimostrando gli eventi degli ultimi anni. Un tale quadro analitico, per quanto elementare, consente di rimettere in discussione due questioni strettamente interconnesse e molto dibattute nella contemporaneità: l’economia di mercato e la globalizzazione, dove la prima è il motore della seconda. La storia degli ultimi trent’anni può essere ricostruita in maniera plausibile con una suggestiva allegoria di Jean – Paul Fitoussi, politologo ed economista che insegna all’Institute d’Etudes politiques di Parigi, di cui presiede il consiglio scientifico: “Alla vigilia della globalizzazione, le popolazioni europee si riuniscono in una stanza; al suo interno si colgono differenze di ricchezza, di reddito e di classi sociali; ma quali che siano le difficoltà della vita quotidiana, ciascuno è socialmente integrato, ciascuno possiede un impiego e prevede un aumento del proprio reddito lungo il corso della sua esistenza; ciascuno, infine, è certo che i propri figli avranno un futuro migliore. Nell’arco di una sola notte, ecco la globalizzazione. Il giorno dopo, le stesse persone – esattamente le stesse – si ritrovano nella medesima stanza; alcune, in un numero esiguo si sono considerevolmente arricchite; altre, un numero più elevato, hanno guadagnato molta sicurezza, sono più scaltre perché hanno applicato il dogma che i primi hanno loro ordinato di predicare: ‘Non ci sono alternative’. Una parte non trascurabile della classe media ha perduto molto e piange per il proprio avvenire e per i propri figli. Una minoranza
consistente è disoccupata o ridotta in povertà. Allora i vincitori dicono ai vinti: ‘Siamo sinceramente desolati della sorte che vi è toccata, ma le leggi della globalizzazione sono spietate, e bisogna che vi adattiate rinunciando alle protezioni che vi restano. Se volete che l’economia europea continui a crescere, è necessario che accettiate una precarietà maggiore. Questo è il contratto sociale del futuro, quello che ci farà ritrovare la strada del dinamismo’”. L’allegoria di Fitoussi rappresenta compiutamente il programma – progetto politico dell’attuale blocco neopopulista, che governa il nostro paese, un programma – progetto inaccettabile proprio sul piano della democrazia stessa. Si tratta di un’allegoria molto efficace che fa apparire la globalizzazione per ciò che essa è realmente: un alibi, un discorso puramente retorico. I vincitori, sapendo che i dadi del destino sono caduti a loro favore, non vogliono più partecipare al sistema di protezione sociale. Si tratta della stessa situazione in cui l’Europa e il mondo intero sembrano essere caduti in una deriva senza ritorno. In Italia questi tratti comuni si presentano ancor più radicalizzati: il duplice trionfo dell’individualismo è del mercato privo di regole finisce con il limitare le ambizioni redistributive della società (la resistenza del contribuente) e quelle interventiste del governo. La tutela fine a se stessa del mercato, l’inasprimento degli obblighi imposti ai governi nazionali, la riduzione progressiva delle pretese redistributive dei governi sono tutti aspetti che stanno modificando in profondità ‘il sistema di equità’ delle nostre società mediante il ritorno ad un principio ultraliberista che entra in collisione con la stessa democrazia, indebolendone struttura e finalità. Il processo di globalizzazione, concepito nella sua irreversibilità priva di regole, rovescia quel principio di equità su cui era stata finora fondata la democrazia: prima, la democrazia e, solo in secondo luogo, il mercato; in questo caso vi è un autentico rovesciamento prospettico che accresce il ruolo del mercato, svilendo quello della democrazia, un fenomeno che attraversa ormai in profondità l’Europa e che coinvolge in maniera particolare la situazione del nostro paese, un fenomeno che ricade sotto la formula, ‘impotenza della politica’, descrivendo compiutamente in tutta la sua regressività la presunta stagione politica del blocco neopopulista. Il mutamento radicale del principio di equità non deriva, infatti, da una decisione politica ma da una costrizione esterna imposta alla democrazia in nome di un’efficacia solo presunta. In tal modo l’attuale blocco neopopulista, oggi al potere, rovescia il principio – sistema di equità, collocando al primo posto il mercato e solo, al secondo, la democrazia. Sembra ormai scontata l’equazione: se la globalizzazione genera vincitori e vinti, non si ha altra scelta se non quella di premiare i vincitori con un ulteriore sovrappiù, un premio supplementare che i perdenti devono loro. Il che dimostra in maniera inequivoca come la globalizzazione, interpretata quale principio trascendentale di organizzazione, entri in rotta di collisione con il fondamento stesso della democrazia. Questa diagnosi cerca di entrare nel merito di quello che sta accadendo nel nostro sistema economico e delle risposte o, meglio, non – risposte che l’attuale blocco neopopulista sta proponendo. La distruzione ormai sistematica con cui si sta legiferando contro il pubblico: università, scuola, magistratura è ormai giunta ad un punto di non ritorno; di contro, il crescente tasso di evasione fiscale che pesa sul nostro paese e che si aggrava giorno dopo giorno in maniera esponenziale, lungi dall’essere colpito e ridimensionato, viene addirittura incoraggiato. La politica
economica del blocco neopopulista, per arrestare questa emorragia e creare nuovo dinamismo, ha scelto come soluzione quella di abbassare le imposte pagate sui redditi elevati, rafforzando ulteriormente le diseguaglianze e distruggendo in maniera definitiva l’idea stessa della democrazia. E’ indispensabile rimuovere il discorso retorico di legittimazione di un capitalismo liberista e dominante che considera democrazia e politica come ostacoli per lo sviluppo, in netta contrapposizione con i fatti. Quest’ideologia, più mercantilistica che non globale, ha ormai pervaso nel profondo le linee – guida dell’azione politica nostrana. Il blocco neopopulista, al cui interno cominciano a verificarsi le prime crepe, sta di fatto minando progressivamente la democrazia; stiamo entrando progressivamente in una forma di democrazia sempre più autoritaria o, meglio ancora, come suggerisce qualcuno, in una fase caratterizzabile dalla formula, tutt’altro che paradossale, ‘democrazia senza democrazia’. Fanno pertanto sorridere dichiarazioni come quelle argomentate da Francis Fukuyama sulla democrazia liberale: “la democrazia liberale potrebbe, a lungo andare, venire sovvertita internamente sia da un eccesso di megalotimia che da un eccesso di isotimia, cioè dal desiderio fanatico di un riconoscimento paritario. A mio parere sarà la prima che alla fine costituirà la maggiore minaccia per la democrazia. Una civiltà che indulge ad un’isotimia sfrenata, che cerca fanaticamente di eliminare ogni manifestazione di riconoscimento ineguale, si troverà ben presto a fare i conti con i limiti imposti dalla natura stessa”. L’esaltazione conseguente dell’attività imprenditoriale, “una forma regolata e sublimata di megalotimia”, in quanto spinge un produttore a far meglio dei suoi rivali – competitori, contestualizzata in un ambito psicologico – individuale non riesce a restituire quello che sta accadendo realmente nella contemporaneità; si tratta di un’analisi, molto ‘datata’ che non approfondisce il versante del supercapitalismo finanziario, della sua onnipotenza, della sua capacità onnivora di impadronirsi dei mercati e di snaturarne il normale svolgimento. Quando F. Fukuyama afferma, “Il fatto che le nature più dotate ambiziose tendano a darsi agli affari anziché alla vita politica e alle carriere militari, universitarie o ecclesiastica fa parte del progetto stesso dei paesi capitalistici democratici come gli Stati Uniti”, non riesce a rendersi conto che è venuto il momento di una pausa di riflessione e che il progetto di un’attività imprenditoriale fine a se stessa, incontrollata, è un progetto che può condurre, come di fatto sta avvenendo dinnanzi ai nostri occhi, non allo sviluppo ma alla graduale consunzione della democrazia.
Politica e retorica di Umberto Curi
E’ diventato un ritornello, un mantra, una formula sacramentale. Una di quelle locuzioni il cui significato non corrisponde più a quello dei termini costituenti, ma che servono piuttosto ad evocare una emozione. Qualcosa che parla alle viscere, più che alla ragione. E’ l’espressione che, nei travagliati giorni in cui si è decisa la manovra finanziaria, abbiamo sentito costantemente ripetuta dagli esponenti della maggioranza governativa, e ripresa anche dai leader dell’opposizione, nel primo caso per rivendicare con fierezza la bontà della manovra finanziaria, nel secondo caso per criticarne con asprezza le molte iniquità. E’ l’espressione che è stata ripresa anche da alcuni governatori leghisti, come Cota in Piemonte e Zaia nel Veneto, per motivare il consenso nei confronti dei provvedimenti “romani”, pur se lesivi degli interessi di tanti cittadini dei territori da loro governati (bell’esempio di federalismo, complimenti). Per denunciare il pericolo di una rapina, di un raggiro fraudolento, di una sorta di circonvenzione di incapace. “Mettere le mani nelle tasche degli italiani” – o, meglio, “non metterle” – è la testimonianza più eloquente del degrado culturale e civile, prima ancora che strettamente politico, a cui è giunta la politica nel nostro paese. Come se la politica non consistesse proprio, nelle sue forme migliori e più
compiute, nel saper “mettere le mani”. Come se la politica non sia sempre stata se non arte di prelevare risorse, per poi ridistribuirle e impiegarle, secondo gli interessi materiali e per il bene di tutta la comunità. Come se la dichiarazione solenne di Berlusconi, pedissequamente ripetuta dai suoi luogotenenti regionali, di non aver “messo le mani”, oltre al fatto di essere falsa, dovesse davvero rincuorarci, anziché allarmarci. Cos’altro dovrebbe fare la politica, se non “mettere la mani”? Cosa dovrebbe fare, se non occuparsi di ciò che il singolo cittadino da solo non è in grado di fare, e cioè provvedere agli ospedali e alle scuole, alle strade e ai servizi pubblici, alla previdenza sociale e all’assistenza? E come agire in questa direzione, se non attingendo a risorse della comunità per conseguire finalità che riguardino tutta la comunità? E per quale ragione un governante dovrebbe menare vanto di non “mettere le mani”, e cioè di non fare il proprio dovere, di non assolvere ai propri compiti? Fra tutti, è questo il vero e proprio capolavoro dell’ingannevole retorica berlusconiana: far passare per un merito, quello che è in realtà un grande difetto; accreditare come segno di rispetto, la colpevole negligenza delle proprie responsabilità; far credere di essere solleciti degli interessi dei cittadini, proprio nel momento in cui essi vengono di fatto calpestati. Storicamente e concettualmente, nel suo più specifico statuto, la politica altro non è stata se non la capacità di raccogliere e destinare per esigenze comuni le risorse necessarie alla vita della collettività. E’ stata – e dovrebbe continuare ad essere – arte di “mettere le mani”. Dovremmo essere consapevoli dell’inganno, o della menzogna, di chi dice di non farlo. Delle due l’una: o mente, e non vi è cosa peggiore di personaggi investititi di responsabilità di governo i quali non dicano la verità ai governati. Ovvero dice la verità, e allora non è degno di restare in un posto che implica per l’appunto la capacità di prelevare e poi redistribuire con equità ciò che serve alla comunità. Con equità - il che vuol dire in proporzione - nel prelievo; e con obbiettivi condivisi nell’impiego, il che vuol dire senza sprechi, mazzette o tangenti. L’esatto opposto di quanto sta accadendo in questo sfortunato paese.
Ipazia di Alessandria: la donna e il cielo di Claudia Baracchi
Entrai a Ipazia un mattino, un giardino di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io andavo tra le siepi sicuro di scoprire belle e giovani dame fare il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevano gli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i capelli verdi d’alghe. (Italo Calvino, Le città invisibili)
Questa primavera si è tornato a parlare molto di Ipazia di Alessandria, in occasione dell’attesa (e contrastata) uscita del film di Alejandro Amenábar, Agorà. Come il film è arrivato nelle sale italiane, l’attenzione si è prontamente spostata altrove. Ma vorrei prendere questa circostanza a pretesto per una breve riflessione.
A Milano per la presentazione, Amenábar ha detto di aver ricevuto l’impulso iniziale per questo lavoro nel corso di un viaggio in barca: l’esperienza della nuda esposizione al cielo stellato aveva lasciato un’eco profonda in lui. Aveva così cominciato a maturare l’idea di un film sull’astronomia e a fare ricerche su studiosi di varie epoche: Keplero, Galileo, Newton…. La scoperta di un solo nome femminile, quello di Ipazia di Alessandria, lo stimolò a “rappresentare la scienza attraverso una donna”: attraverso una vita di donna, di questa donna che fu astronoma, matematica e filosofa neoplatonica nella tarda antichità. In che modo, dunque, l’esperienza di una donna inflette e intepreta la scienza? Come visse, Ipazia, la ricerca che diciamo scientifica? Come operò nella scienza, da donna di scienza, e da filosofa? * Se della vita e dell’insegnamento di Ipazia sappiamo poco, la sua morte è sovrastante. Fu vittima di un estremo ostracismo perpetrato dai cristiani nel marzo del 415. Socrate Scolastico, suo contemporaneo, scrive nella Historia Ecclesiastica che “la ero fuori dalla sua carrozza e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum, dove la spogliarono completamente e poi l’assassinarono con dei cocci. Dopo avere fatto il suo corpo a pezzi, portarono i lembi strappati in un luogo chiamato Cinaron, e là li bruciarono…. Questo accadde nel mese di marzo durante la quaresima, nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il decimo consolato di Onorio ed il sesto di Teodosio.” Damascio aggiunge che “le cavarono gli occhi, mentre ancora respirava un poco.” Dal secolo dei Lumi, e secondo molteplici varianti, Ipazia è divenuta simbolo della lotta del libero pensierocontro l’oscurantismo dell’istituzione religiosa. Malgrado sia stato notato, per esempio da Mariateresa Fumagalli su L’Unità (13 aprile 2010), che “le cose erano un po’ più complicate di quel che appare nell’immagine convenzionale di Ipazia martire predestinata,” tale semplificazione, nellasua apparente e seducente ovvietà, ha dominato anche le recenti discussioni. Colpisce in particolare l’insistenza su Ipazia come scienziata e paladina della ragione. La dimensione propriamente filosofica del suo lavoro e della sua formazione viene oscurata a favore di un’esaltazione del razionalismo scientifico di cui Ipazia sarebbe stata tra i primi rappresentanti. Ipazia offre pertanto occasione per la riduzione della ragione a scienza e l’obliterazione della filosofia nel suo più ampio respiro (penso alle sue dimensioni aporetiche, alle cure etico-politiche, al pathos della ricerca, alle aspirazioni contemplative). Come se la scienza fosse massima espressione e sintesi ultima delle potenzialità del pensiero, e non una delle sue modalità. Come se, dall’antichità ad oggi, assistessimo al lineare e progressivo sviluppo della scienza, implicitamente intesa come categoria trans-storica, vale a dire sempre già moderna. Come se potessimo astrarre la scienza moderna dal suo orizzonte genetico e proiettarla come costante atemporale. Così, già nel 1999, l’esemplare Piergiorgio Odifreddi scriveva: “Ipazia viene ricordata come la prima matematica della storia: l’analogo di Saffo per la poesia, o Aspasia per la filosofia. Anzi, fu la sola matematica per più di un millennio: per trovarne altre, da Maria Agnesi a Sophie Germain, bisognerà attendere il Settecento” (“Santa Ipazia, matematica e martire,” in Tuttolibri de La Stampa, 21 agosto).Salvo poi precisare, in un recente dibattito (Repubblica TV, 12 aprile 2010) e per dovere di “matematico e razionalista,”
che questa “proto-martire della ragione” non fu “una grande matematica, una grande scienziata,” e che si è “costruito” su di lei “un mito.” La risposta di Stefano Puglisi (Cronache laiche, 14 aprile 2010) a tale valutazione risulta sia comprensibile che sorprendente: lamenta l’infondatezza del drastico ridimensionamento dell’alessandrina da parte di Odifreddi (“Ipazia di Alessandria uccisa due volte”), mentre di quest’ultimo tacitamente sottoscrive i presupposti teorici. Vale a dire: non mette in discussione per un istante la caratterizzazione di Ipazia come scienziata e razionalista, e anzi ribadisce che ella fu tra coloro che “si sono battuti per gli stessi valori ed ideali nei quali un laicista come Odifreddi si dovrebbe riconoscere appieno.” Sulla stessa falsariga Adriano Petta (Alias, 10 aprile 2010), riferendosi all’ascesa della cristianità al potere politico tra IV e V secolo, e alle efferatezze che l’accompagnarono, richiama al compito di raccontare “senza alcuna pietà la storia di coloro che hanno depredato l’umanità di almeno 1200 anni di progresso.” E d’altronde, già nella prefazione al libro di Petta e Colavito (Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo, 2009), Margherita Hack si era conformemente pronunciata: “Ipazia rappresenta il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza, che aveva fatta grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio comincia quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tenta di soffocare la ragione.” Di “lotta per la ragione” scrive egualmente Alberto Crespi su L’Unità(23 aprile), ma l’elenco potrebbe continuare, ribadendo l’opposizione schematica (invero caricaturale) tra chiesa e scienza, fede e ragione, forze regressive e progressive—o perfino spiritualità e materialismo. Tanto che Vito Mancuso (per la verità attenendosi all’analisi del film di Amenábar), sente di dover replicare difensivamente: per tutelare “le religioni” dai facili attacchi, ricorda che non sono esse sole ad essere portatrici di violenza e intolleranza: “Ipazia, filosofa e matematica, ad Alessandria nel 415; Florenskij, teologo e matematico, a Leningrado nel 1937: la prima uccisa dall’intolleranza dogmatica della religione, il secondo ucciso dall’intolleranza dogmatica dell’antireligione” (La Repubblica, 24 aprile 2010). Non mi pronuncio qui sull’efficacia di tale “difesa.” Ma certo il martirologio comparato di Mancuso mette in luce la povertà e illusorietà delle opposizioni in generale. Rivela che gli opposti sono parimenti forme di fondamentalismo; che il fondamentalismo è dogmatismo, e questo non è prerogativa esclusiva delle religioni; che ogni fondamentalismo segue la stessa logica e produce così i propri santi e martiri. Il fatto stesso di parlare di martiri e vittime sacrificali tradisce il rimando, cosciente o latente che sia, alla testimonianza di verità dogmatiche. E poco importa se i dogmata siano rivelati piuttosto che ateisticamente dimostrati, cioè frutto della fede in una scienza una, oggettiva e progressiva, non meno escatologica nel suo slancio e teologica nei presupposti (onto-teologia, diagnosticava Heidegger). Posso qui solo notare, in margine, che anche l’intervento di Nicla Vassallo (L’Unità, 25 aprile 2010) riposa sullo stesso assunto: sulla fede ingenua (non esaminata, spesso incosciente) in una razionalità illuminativa, autofondata, unica, emancipata da vincoli di natura storica quanto corporea. Vassallo si appella all’androginia della ragione (“l’onesta razionalità androgina della filosofascienziata” Ipazia), al fine di proteggere la parità intellettuale femminile e di “mettere a tacere con onestà intellettuale ogni teoria della differenza sessuale e ogni nocivo dualismo cui la differenza si presta.” Come dire: la razionalità è una, e le sue operazioni sono assolutamente separate dal corpo, dalla vita e dall’esperienza in cui accadono. E così si afferma l’eguaglianza tra donne e uomini nel modo più violentemente sbrigativo: confondendo
l’eguaglianza nei diritti e nella dignità con l’identità, l’indifferenziazione. Così per ovviare al pericolo di vedere la differenza sessuale distorta e la duplicità ridotta a dualismo, si ricorre alla drastica misura dell’eliminazione della differenza. Come dire, la differenza è vulnerabile, sempre esposta a interpretazioni svilenti e strumentali: liberiamocene, semplifichiamo. (Come se, tra l’altro, fosse possibile.) E si fonda così, nell’androginia in-differente e difensiva della ragione, quell’altro dualismo che da secoli ci domina, operando una frattura profonda in noi: quello tra mente e corpo. Va sottolineato: la soppressione della differenza è sempre anche l’annuncio di una soppressione, non necessariamente solo simbolica, del corpo. Non sto qui a soffermarmi sull’attacco di Vassallo alle “filosofe della differenza sessuale,” presentate come concordi “con la Chiesa cattolica.” Ci porterebbe lontano. Mi limito a rilevare ciò che è evidente: quando Vassallo si appella all’androginia, sicuramente non ha in mente la conjunctioalchemica, indice di una raggiunta completezza psichica, di uno sposalizio dei sessi ed equilibrio delle forze in cui si annunciava una perfezione umana alle soglie dell’angelico. No, androginia per l’autrice significa indifferenza e irrilevanza dei corpi e delle storie nell’esercizio del pensare: il mito della neutralità. Significa l’astrazione della ragione una e unica, che assicura che, indipendentemente da differenti vicende individuali, storiche, filogenetiche, antropologiche e morfologiche, uomini e donne pensano ugualmente, pensano uguale, pensano lo stesso. È per questo, credo, che l’autrice celebra Ipazia come “una donna ‘contro natura,’” cioè, una donna che, malgrado la natura (corpo di donna), fu intellettualmente non differente da un uomo. O addirittura fu intellettualmente uomo. (Poiché è vano il tentativo: l’androginia non può essere neutralità, se “lo stesso” che uomini e donne penserebbero “ugualmente” si identifica di fatto con ciò che è emerso nel corso e discorso di una storia che neutra non è, né androgina, ma essenzialmente di uomini.) Non dico sia semplice; il percorso è disseminato di rischi e imboscate, si può sempre ricadere in facili semplificazioni, o perfino prestarsi al surrettizio riemergere di gerarchie e discriminazioni: ma pensare la differenza, anche quella sessuale, che pure ci si impone perentoria, mi pare compito ineludibile. Ineludibile e degno, anche politicamente. Poiché di quale ausilio può essere ignorare ideologicamente la differenza, le differenze, monodicamente insistendo su ciò che ci accomuna? Non è altrettanto urgente riconoscere ciò che ci separa, lavorare sulla nostra capacità di riconoscere l’irriducibilità dell’altro, l’impossibilità di chiudere il cerchio, l’ineluttabilità dell’apertura e della molteplicità, e imparare a sostenere la complessità, in noi e intorno a noi? Forse la possibilità della comunità passa crucialmente attraverso questo esercizio. * Ma torniamo a Ipazia. Ipazia era una santa del laicismo? Una fondamentalista del razionalismo, caduta nella lotta emancipativa contro la buia minaccia del cristianesimo? O, ancora, una scienziata contro natura che, come avrebbero fatto poi gli scienziati moderni (uomini e cartesiani), si opponeva alla natura per farne il proprio oggetto e carpirne il segreto? E la scienza stessa—la scienza è una? Anaffettiva, astratta, emancipata dal corpo e dal suo tempo? E se, invece, molteplici fossero le vie conoscitive, irriducibilmente declinate secondo contesto e sensibilità? Mariateresa Fumagalli nota che varie furono le convergenze tra neoplato-
nis������������������������������������������������������������������������� mo e cristianesimo, al punto che quest’ultimo è stato più volte interpretato come una sorta di platonismo (“per il popolo,” diceva Nietzsche). Non si può quindi ridurre la relazione tra cristianesimo e filosofia neoplatonica ad antagonismo, e tanto meno all’opposizione tra teismo ed ateismo. Nella meditazione platonica, e ancora tramite Plotino, la dimensione scientificodimostrativa e quella propriamente teologica sono inscindibili, sebbene discernibili. Il lavoro della ragione si articola nel rigore che gli è proprio, ma non basta a se stesso; il suo movimento ha luogo in un orizzonte che lo eccede e resta misterioso, come eccessivamente misteriosi (nel senso di indimostrabili) restano i princìpi primi ed ultimi. La prospettiva di una razionalità atea ed autonoma è frutto squisitamente recente, e pertanto anacronistico in questo contesto. E il senso del divino, articolato sia tramite la riflessione sul bene sia nella contemplazione del cosmo-natura, acquista unità solo trascendendo un paganesimo figurativo e antropomorfo, e rasentando l’intraducibilità in sistema, l’ineffabilità, il silenzio. Così si configura la dimensione sorgiva della filosofia. È pertanto difficile, o perfino inappropriato, insensato, cercare una collocazione di Ipazia sui fronti opposti di fede e ragione. Anche lei, dice Gabriella Caramore (Adista, 1 maggio 2010) fu profeta, ma lo fu nel modo della filosofia: “Ipazia non ha divinità da ascoltare. Parla a nome di se stessa. Nessun dio le appare immune dagli attributi di idolo che l’essere umano gli conferisce. E tuttavia anche Ipazia è in ascolto di una voce che le impone di dire la verità, di fare verità, e di esprimersi in piena e totale libertà.” Dunque fu profeta, parlò “con franchezza, in amore di verità” (la parrhesiaricordata da Socrate Scolastico), ma non fu fanatica della ragione perché dubitava, e instancabilmente sperimentava, cercava. Questo il film di Amenábar mostra bene. E si deduce anche dal coinvolgimento pratico che caratterizzò il suo neoplatonismo. In esso convergevano studi geometrico-matematici e tensione etico-politica, e ciò lo distinse dal neoplatonismo di matrice retoricoumanistica, più astratto e argomentativo (si pensi per esempio ad Isidoro, maestro di Damascio). Più in generale, il precario equilibrio tra geometria e vita distinse il neoplatonismo alessandrino tanto da quello magico-teurgico (Giamblico) che da quello anti-cristiano e militante di Atene. Ipazia fu dunque profeta. Al contempo, ancora nelle parole di Caramore, ella fu “figura del dubbio, della perplessità, della ricerca,” ma in un’epoca in cui dubitare era sommamente pericoloso, perché occorrevano “opzioni certe,” scelte di campo: occorreva sapere “con chi e contro chi combattere.” In questo senso, Ipazia non fu martire. Così come non lo fu Socrate. I loro percorsi indicano una ricerca in cui il logos non assurge a nuovo dio, un amore della verità che non prende la forma dell’acquisizione e del possesso certo: un amore esposto, indifeso, appeso ad un filo che è facile spezzare. A maggior ragione se ad amare così è una donna. Dicono che Ipazia insegnasse il platonismo delle origini: Platone, Plotino, Porfirio. Ma Suida (le fonti sono Esichio e Damascio) riporta che commentava anche Aristotele, e che offriva i suoi insegnamenti in pubblico. E mentre è vero che scarsa è la documentazione pervenutaci sulla natura del suo insegnamento, è lecito pensare che le opere di Sinesio, suo allievo e corrispondente per tutta la vita, ci trasmettano un riflesso del pensiero della maestra “veneratissima.” È su questa base che Gemma Beretta (Ipazia di Alessandria, 1993) sottolinea, nella filosofia di Ipazia, l’essenziale unità di studi fisico-matematici e interrogazione del divino. Secondo Beretta, Ipazia “non si mosse alla ricerca dell’essere e del divino attraverso un discorso retorico-dimostrativo che costruisce il vero facendo a meno dei fenomeni e
dell’esperienza.” Proprio come in Platone, lo sguardo si rivolge al cielo non per trascendere la condizione terrena, ma per trovare di essa lo specchio immenso; non per investigare i fenomeni celesti in uno studio fine a se stesso, ma per gioire della bellezza degli ornamenti di luce; per cogliere nelle scansioni armoniose delle sfere non solo la divinità, ma la radice del giusto (com) portamento in questa vita, su questa terra. Come in Platone, il cielo è matematica visibile, musica inudibile, divinità che appare e forma del nostro vivere. E come in Aristotele la contemplazione che è detta sophia si eleva al di là della materia quotidiana senza per questo trascendere il sensibile: il cielo, corpo manifesto del divino, è ancora fenomeno—fenomeno di massimo splendore e unico accesso al dio. (Nell’Egitto tolemaico, Serapide è la divinità che si ammanta del cielo.) Nel testo giovanile De dono astrolabii, scrive Sinesio: “’astronomia è di per se stessa una scienza di alta dignità, ma può forse servire da ascesa a qualcosa di più alto, da tramite opportuno, a mio avviso, verso l’ineffabile teologia, giacché il beato corpo del cielo ha sotto di sé la materia e il suo moto sembra essere ai sommi filosofi un’imitazione dell’intelletto. Essa procede alle sue dimostrazioni in maniera indiscutibile e si serve della geometria e dell’aritmetica, che non sarebbe disdicevole chiamare diritto canone di verità.” Invero, come ribadito due volte nelle epistole, “la geometria è cosa sacra.” La scienza fisica, la matematica, la teologia e l’indicazione etica si intrecciano indissolubilmente in questa ricerca filosofica. E fino nelle scienze uranie, apparentemente remote dalle umane cure, si coglie la valenza politica, si trasmette la filosofia come “stile di vita, una costante, religiosa e disciplinata ricerca della verità” (così Bregman, Synesius of Cyrene: Philosopher Bishop, 1982). Quindi Ipazia, astronoma e matematica, fu maestra (“veneratissima”) di vita; secondo questa esperienza la scienza fu modo di vita; l’astronomia/astrologia fu ad un tempo contemplazione estetica ed etica, indagine condotta con strumenti matematici , e occasione di un contatto con il divino che segna i limiti del dicibile, diventando gesto. Per questo, notiamolo solo di passaggio, non è di grande aiuto parlare, come fanno tanti (non da ultima Silvia Ronchey), di un certo “irrazionalismo” del neoplatonismo. Cioè non è d’aiuto passare, sempre secondo la logica degli opposti, da un’enfasi razionalistica alla sottolineatura delle dimensioni non riconducibili alla ricerca scientifica stricto sensu. Né si prova illuminante (è, anzi, ingannevole) il costrutto di una dicotomia tra le scienze fisico-matematiche e propriamente razionali, da un lato, e dall’altro le derive mistiche delle dottrine esoteriche—delle quali le scienze essoteriche sarebbero state semplicemente la dissimulazione istituzionale, di facciata. Nella figura di Ipazia non ci troviamo di fronte alla dualità male integrata di matematica/scienziata in pubblico e sacerdotessa di riti occulti in segreto. Ci troviamo bensì di fronte a un senso diverso della filosofia, e quindi della ricerca scientifica che in seno ad essa si sviluppa. Ancor meno ci pare cogente supporre che, proprio per il loro “irrazionalismo,” certe comunità pitagoriche e platoniche attraessero a vario titolo donne al loro interno. Sarebbe più sobrio attribuire la presenza femminile in questi contesti al nudo fatto che le scuole di matrice pitagorica e platonica contemplavano programmaticamente l’insegnamento alle donne. Questo è originariamente inscritto nella struttura profonda dei testi di Platone, oltre che nelle esplicite dichiarazioni. Basti pensare, per esempio, alla traiettoria complessiva di Repubblicae Timeo—in bilico tra il discorso quasi (sebbene mai compiutamente) iconoclastico sul bene, grande padre invisibile di tutto il visibile, e l’immagine della grande madre al limite del dicibile: assisa
al centro del cosmo, Necessità enigmaticamente ne regge il divenire dalle sfere celesti fino alle vicende terrestri, tramite le divinità (sue figlie) che tessono i destini. Non si tratta dunque di razionalismo e irrazionalismo, ma di un pensiero più antico di questa opposizione, nel senso che la precede ed eccede. Si tratta di un pensiero che comporta un esercizio della ragione né mitigato né menomato, ma compreso in un mistero inesausto, intraducibile in dottrina. In un tale equilibrio tra il bene e la necessità, tra indicibile e inimmaginabile, armonia strana e difficile, duplicità dei princìpi e irriducibilità a uno—in tale improbabile equilibrio si svolge un pensiero che è anche un vivere, un sentire, per il quale servirebbero categorie nuove e riletture radicali della storia. In questa luce il misticismo non è deriva, ma esperienza squisitamente filosofica dei limiti del logos. * Un epigramma attribuito a Pallada di Alessandria si chiude celebrando Ipazia come “astro incontaminato.” È però nel terzo verso che, più rigorosamente, riconosce il legame di lei con il cielo, ma a partire dalla terra: Ipazia è colei che volge “al cielo” tramite le proprie “azioni” (pragmata); che collega terra e cielo, il cielo e questo corpo vulnerabile. Ipazia fu mortale e fu donna, e come donna si eclissò. Non fu soltanto uccisa: il suo corpo fu oggetto di una volontà di azzeramento. Per annientare la sua straordinaria sapienza, la sua capacità di guardare lontano e intessere legami, di sentire l’intimità con la volta celeste ed ancorarsi ad essa, fu accecata. Per cancellare ogni traccia del corpo che si rapportava all’infinito, fu dilaniata. E ancora, non fu soltanto uccisa: fu “uccisa due volte”—prima da credenti galvanizzati dalle circostanze epocali mutate a loro favore, e poi dalla scienza moderna, dalla storiografia non meno credente che l’ha voluta martire di ancora un altro dio (il dio logosa cui si richiama anche Freud, prorio nella sua polemica anti-religiosa). Comune a entrambi gli dèi: il corpo visto con sospetto, repulsione, ansia di controllo: castigato o vivisezionato, represso o esorcizzato, dimenticato o ridotto a macchina, ad oggetto; specialmente il corpo inquietante di donna, così prossimo all’animale. È forse da qui, da questa complicità tra gli opposti, che si potrebbe ripartire per pensare (sentire) il corpo—problema grave ed urgente, in questi tempi disorientati. E nell’eclissi della donna già in atto da tempo al tempo di Ipazia, e che in seguito si approfondì ancor più, tra resti di statue di dee decapitate e teste sfregiate, ci chiediamo come salvare qualcosa dei suoi frammenti, le ceneri rarefatte di donna fatta a pezzi. Ci chiediamo che cosa fu obliterato in quello smembramento, in quali altri modi la scienza si sarebbe potuta sviluppare, secondo quali ragioni, quali altre potenzialità della ragione, quale tenerezza nel pensiero. Immaginiamo, se mai fu, la possibilità di una scienza a venire che non si risolva in calcolo, quantificazione, previsione, e soprattutto che non si contrapponga allo slancio verso l’indicibile e non tema il silenzio; la possibilità di una fede legata al sentire, alla sensibilità; di un esercizio della ragione che non sia farneticazione razionalistica, che non si fondi sulla separazione e sopraffazione del corpo—di uomo, di donna, uguale e differente.
Sapere morale e insecuritas. Per un’etica come “scienza del conflitto”. Alcune domande a Marco Ivaldo a cura si Bachisio Meloni
D.: L’epoca alla quale ci sentiamo assegnati (e qui intendo riferirmi alla difficile situazione spirituale che ereditiamo dal Novecento), forse più particolarmente sensibile a raccogliere il lascito di un pensiero filosofico che ha posto a dura prova la riflessione sulla ricerca costitutiva di un fondamento
morale – penso ai forti legami teoretici fra il pensiero di Nietzsche e quello di Heidegger –, per quanto caratterizzata nel dopo Husserl a rimettere al centro delle questioni il punto di vista etico, tende a persistere mantenendo un orientamento di volta in volta pratico, individuale, legato magari all’immediatezza dei bisogni concreti, ben al di qua di un ordine complessivo generale. Emerge così il disegno di una struttura sociale livellata, aperta alle più disparate sollecitazioni ma come vincolata ad una serie di coordinate ideali o mentali volte più in prossimità alle mire o agli “istinti di conservazione” propri dell’“individualità precaria”. Qual è la Sua opionione in proposito? R.: Vorrei muovere da un’osservazione che guarda anzitutto al nostro tempo. Assistiamo oggi a un sovraccarico di attese nei confronti dell’etica. Non soltanto nell’ambito della medicina e della biologia, ma anche nell’ambito della politica, dell’economia, del diritto, ci troviamo confrontati con questioni e dilemmi di natura morale, rispetto ai quali i costumi e le regole di comportamento esistenti non riescono, o non sempre riescono, a offrire soluzioni soddisfacenti. Da qui nasce un bisogno di etica, che va oltre i confini della comunità scientifica, ma abbraccia il più vasto pubblico, e si esprime con toni e in modi diversi sui mezzi di comunicazione sociale, oppure spinge alla creazione dei comitati di etica o di strutture di consulenza etica nell’ambito delle istituzioni politiche, della salute, delle imprese. Questo sovraccarico di attese non resta senza ripercussioni sulla ricerca dei filosofi, già con la sollecitazione che questi ricevono a chiarificare che cosa sia etica, quale sia la competenza dell’etica, e perciò quali siano il suo scopo e significato, il suo statuto epistemologico, i suoi strumenti teorici, i suoi limiti. L’etica contemporanea si trova a questo proposito in una situazione paradossale: la cosiddetta “epoca della scienza e della tecnica” ha accresciuto enormemente il potere dispositivo sulla vita e perciò la responsabilità dell’uomo, e ha così fatto emergere un bisogno di etica in forme nuove; tuttavia all’accrescimento del potere non si è accompagnato un corrispondente e proporzionato accrescimento nella competenza morale, e questo anche perché i filosofi morali stessi – che dovrebbero lavorare al dispiegamento di un’etica consistente – hanno talora rinunciato al loro compito, in quanto si sono ripiegati sulla sola ricerca storico-filologica (che è soltanto una parte del loro compito) oppure si dimostrano scettici sulla possibilità di elaborare un’etica capace di sostenersi di fronte alla ragione e perciò in grado di offrire un contributo ragionevole alla chiarificazione dei problemi e dei dilemmi morali. D.: Pertanto, se di etica si può ancora parlare, la intenderemmo al pari di un’insonne ricerca, o come un risveglio di inesauribili tentativi di aperture e ricerche tramite la significazione ed il dialogo, in vista di un orientamento comune, o per dirla con Apel, di una “bussola”, o di una norma etica generale, per l’intera umanità. Ciò a dimostrazione del fatto che l’etica è concepibile non diversamente che come la pratica di un movimento di indagine volto alla rimessa in questione di un “fondamento nascosto”, di un principio universale assoluto rintracciabile attraverso una profonda, e non mai determinabile, ricostruzione “genealogica dell’umano”. Siamo in prossimità di ciò che articola e glorifica la possibilità autentica del senso. R.: L’etica si trova in una condizione di ricerca anche perché deve apprendere a considerarsi come “scienza del conflitto”, come un sapere filosofico cioè che, in vista della possibilità effettuale del bene, o della “buona vita”, contribuisce alla soluzione dei conflitti che emergono quando la “nor-
malità dei costumi” non costituisce più una realtà a-problematica, un sostrato ‘naturale’ del vivere collettivo, o non sembra più in grado di orientare adeguatamente il giudizio morale di fronte alle nuove sfide. In particolare si possono mettere a fuoco tre tipi di conflitto: 1) il “conflitto morale”, che nasce quando in una situazione determinata vale più di una sola regola o obbligazione, ma può esserne seguita una soltanto, ad esempio per la scarsità di mezzi a disposizione; 2) il “dissenso morale”, che compare allorché la comprensione dei fattori morali e la modalità di interpretazione e applicazione dei principi morali in una situazione determinata sono diverse fra differenti gruppi di una società (o fra diverse società) a causa delle diverse visioni del mondo e della vita che sono proprie degli agenti; 3) “l’eccesso di richiesta normativa”, che si presenta allorché una persona non riesce a soddisfare tutte e allo stesso tempo le obbligazioni che risultano dai diversi ruoli (familiari, sociali, professionali) in cui ella è contemporaneamente impegnata. Certamente la competenza dell’etica come “scienza del conflitto” deve ammettere una limitazione: l’etica non può abolire immediatamente i mali ampiamente diffusi nella realtà del mondo, ma può cooperare ad arginarli, a impedirli, o a eliminarli, in quanto essa cerca di chiarire il modo in cui il bene, nella figura della buona vita comune, è possibile. Se risponde a questo compito l’etica può offrire all’agire umano un orientamento che serve allo scopo di migliorare le condizioni di vita e di rendere possibile ciò che non soltanto astrattamente, ma in concreto, può venir chiamato ‘buona vita’. Ogni etica è poi in certo modo un’etica “situativa”, dato che essa contiene aspetti ed elementi che caratterizzano il contesto individuale e collettivo dell’agente. Ogni situazione richiede l’esercizio di una specifica virtù: l’esercizio della fortezza, ad esempio, presuppone una situazione in cui è richiesto coraggio, e qualcosa di analogo vale per le altre virtù. Tuttavia, e insieme, l’etica è situativa e universalistica; tra i due aspetti non c’è opposizione, se si tiene fermo che esiste un complesso di regole e di imperativi che vengono via via applicati a situazione mutevoli. Di tali regole alcune sono invariabili (analogamente a quanto avviene per le regole del calcolo); altre variano in corrispondenza del mutare delle situazioni (come ad es. le regole stradali), senza però che necessariamente vari il loro significato o la loro pretesa di validità (ad es.: le regole del traffico possono mutare, ma non cambia il carattere normativo della regola del traffico via via stabilita). D.: A proposito di tale dualismo fra etica situativa e universalistica vorrei esplicitare con Lei la possibilità di sfatare una fin troppo evidente, tal volta sgradevole, genericità e retoricità di fondo riscontrabile nell’insistente appello ad un fondamento assoluto. L’impressione è che il vivere secondo un orientamento fisso e categorico tenda ad esulare dai bisogni pratici, di volta in volta relativi, immediati, mutevoli, per l’appunto, dando vita così al dispiegarsi dell’idea di un “mondo dietro al mondo”, di un “fuori” impraticabile proprio in quanto disposizione indeterminata al di là dello spazio e del tempo comune (è Kant stesso ad offrire l’esempio di un presupposto, se non di un contrappunto ineludibile: quell’idea di resistenza che l’aria produce quale condizione essenziale al volo della colomba). Uno scenario assoluto che cela l’invito al disconoscimento della “problematicità” della realtà e l’incapacità di situarsi empiricamente nella turbolenta “irrequietudine” della Storia. Non è da sottovalutare quanto il vivere all’insegna di un ideale etico assoluto sia di per sé ansia di “follia”, contrapposizione peraltro a quel principio ideale di ricerca, sclerosi o esaurimento cioè di quella spinta
inestinguibile ed infinita verso il fondamento stesso. Movimento di ricerca che è piuttosto protrarsi infinito, seppur in grado di svilupparsi proprio in quanto legato ad una temporalità determinata, pur sempre delimitata nella sua “insecuritas”, relativa nella sua finitezza. R.: Vorrei affrontare la domanda a partire dalla relazione fra l’etica e il costume. L’etica non può non riferirsi al “costume”, alle forme della eticità vissuta, che stanno abitualmente alla base così dei giudizi morali sul giusto e sull’ingiusto come della prassi di vita degli uomini in una determinata cultura e società. Tuttavia, il costume non è affatto al di sopra di ogni dubbio, non tutti i costumi hanno un influsso positivo sul comportamento. Inoltre, il sentimento morale e il costume non sono affatto esenti dalla possibilità di divenire insicuri. Ciò che è abituale e ‘naturale’, posto di fronte a nuove questioni, può cessare di essere tale. Può avvenire – e avviene – che riguardo a domande sulla vita, sul nascere, il morire, o sui limiti della responsabilità individuale e sociale, il costume abituale non metta più a disposizione degli uomini risposte convincenti riguardo a ciò che è bene o male, giusto o ingiusto. Ora, l’etica inizia propriamente nel punto, o nel momento, in cui il sentimento morale smarrisce la sua sicurezza e la distinzione fra buono e cattivo, mediata dal costume, non risulta più evidente. L’etica è il sapere morale nella condizione dell’insicurezza. In questo senso l’etica è la ricerca dei “fondamenti” per giustificare (criticamente e auto-criticamente) la distinzione di ciò che, secondo il sentimento morale, è buono o cattivo. L’etica ha a che fare perciò con il momento della “fondazione” o della “giustificazione” del dover-essere, e possiamo pensare questo lavoro come un processo sempre aperto della riflessione e della argomentazione. Occorre distinguere fra “validità” e “giustificazione”. Avere validità significa “essere in vigore”, “essere in atto”, oppure “venir riconosciuto”. Giustificare significa invece “ben fondare”, o anche conferire legittimità. Ad esempio: “valgono” disposizioni, decisioni, pratiche di vita, norme o regole di procedura, in quanto esse vengono riconosciute e abitualmente seguite entro determinati contesti o ordinamenti. Al fatto che tali pratiche valgano, ovvero vengano riconosciute e seguite, non è necessaria la circostanza che i loro fondamenti siano saputi in maniera riflessa dagli agenti, ovvero che tali pratiche siano poste in atto con l’esplicita consapevolezza dalla loro giustificazione (o giustificazioni) in coloro che le seguono. Tra validità e giustificazioni esiste perciò una relazione asimmetrica: le validità (cioè le forme di vita o le norme riconosciute) sono precedenti alle giustificazioni che se ne possono dare e sono indipendenti da esse. Invece, le giustificazioni sono tali in quanto si riferiscono a validità, ne ricercano cioè i fondamenti, e perciò le presuppongono. Le validità sono (normalmente) irriflesse, le giustificazioni riflesse. Tuttavia è vero che le validità – le norme riconosciute come valide – sono, almeno potenzialmente, sempre sotto “pressione di giustificazione”. Le validità richiedono infatti riconoscimento, e il riconoscimento è una prima forma di giustificazione, che però non è immune da errore. Nella richiesta di riconoscimento si annuncia perciò un bisogno di giustificazione effettiva e consistente; se la soddisfazione di questo bisogno viene in linea di principio esclusa, la validità, ad es. di una norma, perde di legittimità. D.: Viene naturale a questo punto del nostro dialogo affermare che l’etica, nella sua condizione di insicurezza, non possa far a meno della volontà privata, di matrice “utilitarista”, che essa cioè non sia possibile se non a partire da un egoismo di fondo, pratico ed essenziale – eppure critico ed auto-
critico, come Lei osserva – il quale, sia ben chiaro, dovrà pur sempre essere distinguibile non tanto come fine a se stesso, quanto come punto iniziale da cui poter ripartire. Parliamo di un Io disposto quindi a perdere la propria “ipseità”, il cui egoismo – in grado di affermarsi in qualità di riconoscimento del proprio infinito valore personale – non possa essere praticato se non alla stessa stregua di un circuito esiziale suscettibile però al contempo di evocare l’invito ad essere spezzato e scongiurato; ambito dell’autonomia personale che è pur sempre rifiuto dell’indistinzione dell’en masse (così tanto denunciata da Kierkegaard), rifiuto della totalità compiuta e della pianificazione sociale, manto di dominio costrittivo da cui poter liberamente prendere le distanze; insomma, siamo dell’avviso che l’alterità dell’universale non possa fare a meno del per sé dell’esistenza individuale. R.: Vorrei riferirmi qui a Rousseau. Questi mette in luce che energie fondamentali dell’uomo sono l’amore di sé (amour de soi) e la compassione (commisération) per la sofferenza dei propri simili. Nel passare dallo stato di natura alla società, nella quale regna la lotta degli uni con gli altri, l’amore naturale di sé diviene l’amor proprio (amour propre). Il rimedio a questa degenerazione è una superiore evoluzione in virtù della componente spirituale dell’uomo, cioè lo sviluppo dell’amore di sé in un amore dell’ordine totale della realtà (amour de l’ordre), sicché l’amore di sé si estende agli altri uomini, nei quali il singolo si ritrova e si riconosce. Questa evoluzione spirituale resta ancora sempre il nostro compito etico. La moralità non è soltanto osservanza della regola indispensabile che rende possibile un rapporto tra liberi ed eguali, tanto da dover dire che la libertà a questo livello è riconoscere una regola. La moralità è anche azione creativa, incarnazione di idee o valori che promuovano la vita dell’uomo e degli uomini, una ricerca nella quale gioca un ruolo essenziale la fantasia creativa. Bergson con la sua distinzione fra la morale della pressione sociale e l’etica dell’ispirazione ha messo a fuoco questa essenziale articolazione dell’ordine morale: non abbiamo soltanto l’imperativo del non-devi, ma anche quelli del “devi”, o anche del “Sii”! In questo senso l’io trova se stesso – la propria ipseità, da non confondersi con una statica medesimezza – (ri)trovandosi con l’altro, già con quell’altro che egli ospita in se stesso (l’estraneità interiore, della quale parla Armando Rigobello). D.: Che l’etica permanga fondamentalmente in qualità o modalità di ricerca di questo principio costitutivo dell’umano (come trascendimento della singolarità chiusa ed apertura nel segno della relazione), che l’atteggiamento etico sia per sua essenza tensione dialettica e movimento spirituale verso ciò che costituisce e determina tale movimento stesso: di ciò stiamo discutendo; di ciò che, in termini hegeliani, determina il generativo del senso. Ossia, ma è convinzione o sfumatura del tutto personale, del riconoscimento dell’impossibilità di ottenere una norma e finanche una modalità di trascendenza comune, fine o impossibilità del dialogo – che è impossibilità dell’etica stessa in termini assoluti, della sua negazione. O quantomeno: ispirazione o tentativo di risalita al fondamento dell’etica, a patto di vivere però tale senso genealogico di ricerca non altrimenti che come movimento inarrestabile, infinito, di volta in volta principio da recuperare e da riaffermare nella sua essenza assoluta, e perciò stesso inattingibile. Etica e metafisica, Le chiedo, si incontrano, peraltro dicendosi e dis-dicendosi in questa comune e forse disarmante, perché in fondo per sempre tragica, tensione?
R.: Penso che l’‘etico’ sia una struttura originaria della coscienza umana, che si impone a partire da se stesso nella presentazione della legge morale, in ciò che Kant ha designato come il fatto della ragione pratica. La legge morale dal canto suo non dipende dall’uomo, ma lo sovrasta, ed esige assoluta obbedienza, anche se in questa richiesta è implicata la possibilità della trasgressione, ossia è implicata la libertà umana come capacità di bene e di male. Se l’esperienza morale non fosse accompagnata dall’esperienza di trascendenza, e di alterità, della legge morale, scomparirebbe, come ha messo in luce Kant, qualsiasi distinzione fra bene e male, che sono gli oggetti della ragione pratica dischiusi dalla coscienza del dovere-essere, che potremmo anche esprimere come la coscienza, o l’appello, della persona che devo/voglio essere (coscienza che si manifesta, ad esempio, in quelle che Taylor chiama le “valutazioni forti”). In questo senso l’etica è autonoma rispetto alla metafisica. Al tempo stesso tra metafisica e morale esiste un nesso di inseparabile articolazione, variamente declinato nella tradizione della filosofia: se la legge morale comanda incondizionatamente, questa incondizionatezza non può avere nell’uomo la sua origine, ma ha a che fare con la dimensione originaria dell’essere. Certamente, di questa dimensione dell’originario possiamo dare soltanto predicazioni indirette, e avanzare affermazioni simboliche, o asserzioni “al limite”, dato che ogni nostro sapere e parlare si relaziona in via diretta alla sfera dell’apparire. Si tratta di un dire che insieme deve concomitantemente dis-dire se stesso, come Fichte ha mostrato nella sua filosofia trascendentale. D.: Un’ultima domanda, Professor Ivaldo, spero in grado di condurre il nostro discorso a riflettere degnamente sul caso specifico della situazione politica attuale (non solo italiana e non solo europea). Penso però, in parallelo al nostro discorso, più che alla ricerca di un fondamento assoluto (semmai realizzabile in una società in grado di riconoscersi nei termini di una comunità civile), alla compossibilità di uno scardinamento (avveduto, sensato) dell’orientamento comune, chiedendomi se la ricerca di nuove prospettive di pensiero, per quanto forse più attinente a quell’ibrida assunzione del “politeismo dei valori” (di cui paventiamo tuttavia esiti puramente emotivi, se non persino irrazionalistici, dove l’“altro” si rivela l’assolutamente “superfluo”), possa giungere a determinare in modo più proficuo il rovesciamento della tradizionale genealogia dei riferimenti ideali, dei modelli teorici di ispirazione. Mi riferisco in tal caso – ma non saprei dire quanto pertinente sia il mio richiamo – alla presente predisposizione di un vero e proprio nuovo firmamento culturale e intellettuale, specie in seno alla componente militante della nuova destra (per cui Hannah Arendt succede al posto di Jünger o Schmitt, Aron e Berlin subentrano a Popper e von Hayek ecc.), dove la spasmodica ricerca di nuove coordinate, specie se autenticamente vissuta, sembra contraddistinguere la riflessione postideologica dell’epoca attuale. R.: La domanda mi sollecita a considerare alcune, serie modificazioni del costume: in questi anni, non solo in Italia, ma in Italia con caratteri abbastanza decisi, si viene imponendo e diffondendo – certo con diverse gradualità, ma in modo piuttosto diffuso – una certa immagine di uomo, un forma mentis che plasma le scale di priorità e i piani di vista personali. È l’emergenza di un individuo che si vuole come auto-referenziale, coltiva i propri desideri
interpretandoli in maniera semplicemente empirica ed egoista, eleva immediatamente questi desideri, così angustamente interpretati, a misura del proprio rapporto con la realtà. Questo individualismo onni-desiderante, propagandato come comportamento quasi “naturale” da una parte assai cospicua dei media – che intende il sacrificio di se stessi come massima insensatezza e non eleva altro criterio di giudizio che l’auto-soddisfazione empirica e il successo immediato – rappresenta a mio giudizio la manifestazione contemporanea più inquietante del nichilismo. Inoltre l’Italia ha conosciuto negli ultimi anni un processo già da tempo in atto in altre società europee: le ondate migratorie hanno popolato le nostre città non solo di nuovi colori, ma anche di culture, costumi, religioni diverse. Orbene, il governo di fenomeni complessi come l’accoglienza dei diversi, dello “straniero”, e la realizzazione di una convivenza solidale e regolata fra differenti culture e religioni in uno stesso spazio territoriale, politico e giuridico, richiederebbero una sapiente mediazione politica e una consistente cultura della complessità, e non sembra possano venire ragionevolmente affrontate esorcizzandole con scorciatoie identitarie, chiusure fondamentalistiche, introversioni localistiche. Un altro aspetto del quadro è – come già accennavo – l’enorme crescita del potere tecnologico sostenuto dalle conquiste scientifiche. Come ha accentuato fra gli altri Hans Jonas la vita non è più oggi un presupposto indiscusso. Le bio-tecnologie aprono nuove possibilità di intervenire sulla vita, ma questo potere scientifico-tecnico moltiplica i dilemmi morali – cioè i dilemmi che si riferiscono non al poter fare, di per sé aperto al bene e al male, ma al dover essere –, in particolare quando di tratta della vita umana. I codici deontologici fino ad ora condivisi, e le legislazioni, faticano a padroneggiare le nuove questioni. Ci troviamo ad esempio confrontati con il potere che le tecnologie mediche, o le tecnologie che richiedono competenze mediche e sanitarie per essere applicate, hanno o potranno avere nel determinare i processi che riguardano sia l’iniziare che il terminare della vita sensibile. Fino a che punto, cioè entro quale limite etico, relativo al dover essere, l’applicazione di queste tecnologie alla vita sensibile è compatibile con la natura morale dell’uomo, natura morale della quale fa parte necessariamente anche la libertà di determinare con un giudizio se stessi? Su questi punti si contrappongono abbastanza vivacemente visioni morali e concezioni antropologiche diverse; la politica si trova messa così a confronto con problemi sui quali sembra arduo pervenire a soluzioni condivise, dati la differenza delle antropologie di partenza e il pluralismo conflittuale di visioni morali che non sempre manifestano reale disponibilità a realizzare quello che Jürgen Habermas chiama un “apprendimento complementare”. In questo senso si evidenzia il ruolo costruttivo della ricerca etica come “scienza del conflitto” della quale parlavo all’inizio, per tentare di padroneggiare secondo la comune ragionevolezza, esercitata in vista dell’intesa, le questioni maggiori di questa nostra età complicata.
La crisi dell’euro di Silvano Andriani
Molti si sono rallegrati che i governi europei abbiano deciso finalmente di intervenire a favore dei paesi dell’area euro in difficoltà derogando ad alcune regole: la Banca Centrale è stata indotta ad acquistare titoli di Stato in violazione del proprio statuto ed è stato costituito un fondo in violazione del trattato di Mhasthrict che esclude la possibilità di salvataggi. L’entusiasmo, tuttavia, svanisce se ci si rende conto che non tanto del salvataggio della Grecia si tratta quanto dell’ennesimo salvataggio di banche, soprattutto di banche francesi e tedesche. Negli ambienti economici si dà per scontato che la Grecia andrà comunque in default. Si dice: abbiamo guadagnato tempo. In pratica si tratterà del tempo necessario a trasferire il rischio greco dalle banche alle spalle dei contribuenti. Una ristrutturazione del debito greco, avrebbe imposto perdite alle banche, ma avrebbe evitato alla Grecia un’austerità così feroce ed avrebbe avuto maggiori possibilità di successo. La via di uscita che viene scelta dalla destra al potere in Europa è l’austerità, ma sarà essa la soluzione? Il grafico che pubblichiamo mostra plasticamente la vera natura del problema. Esso fa un confronto fra l’andamento del cambio reale fra i Pigs e la Germania. Paesi che hanno la stessa moneta e lo stesso cambio nominale possono avere cambi reali diversi se il tasso di inflazione è diverso. Per i paesi dove l’inflazione è più alta è come se il cambio si rivalutasse e le proprie merci diventassero più care rispetto agli altri paesi e viceversa. Si tratta, in pratica, di una misura della dinamica differenziata della competitività a partire dall’entrata in vigore dell’euro.
La tendenza alla divergenza appare chiara ed inarrestabile ed all’estremo opposto alla Germania non si trova la Grecia, ma Spagna ed Irlanda, i due paesi con il debito pubblico più basso in Europa. La Spagna ha avuto il bilancio pubblico addirittura in attivo nei tre anni precedenti la crisi. Ora si fa un gran parlare della necessità di rafforzare il patto di stabilità. E nessuno pare accorgersi che paesi come la Spagna, l’Irlanda, l’Inghilterra, che secondo i criteri del patto erano i paesi più stabili, sono invece la principale fonte di instabilità. Il patto di stabilità, così come è, non funziona. Esso è tarato sulla crisi degli anni ’70 che era molto diversa dall’attuale. Quella nasceva da un conflitto distributivo tra paesi produttori e paesi consumatori di petrolio e tra capitale e lavoro e si manifestava attraverso forte inflazione e crescita del debito pubblico. Le politiche economiche furono orientata negli anni ’80 al controllo dell’inflazione e dei deficit pubblici ed ebbero successo. Dalla fine degli anni ’80 l’instabilità si è manifestata con la formazione ed esplosione di bolle speculative che nulla avevano a che vedere con il debito pubblico, piuttosto nascevano dall’eccesso di debito privato e dai flussi di capitale corrispondenti. Anche la crisi attuale è nata quando l’inflazione era bassissima e i deficit pubblici sotto controllo. Se si vuole davvero avere un patto di stabilità allora bisognerebbe tenere conto non solo del debito pubblico, ma anche di quello privato e del tasso di risparmio ; in ultima analisi della eventuale tendenza di ciascun paese a vivere al di sopra dei propri mezzi. Le divergenze tra paesi europei hanno sì origine dalla loro diversa struttura economica e dalle grandi diversità esistenti al momento dell’avvio della moneta unica, ma sono alimentate anche dal funzionamento dell’euro. Il tasso di cambio tende a fissarsi né al livello dei paesi deboli, né a quello dei paesi forti, ma fra questi due livelli. Esso risulta perciò troppo alto per i deboli, che ne sono svantaggiati, e basso per i forti, che ne traggono vantaggio. Le stupefacenti performance della Germania nel commercio estero si spiegano anche così. In mancanza di politiche europee di sviluppo dirette a ridurre le divergenza la frattura dell’area euro sarà inevitabile. Le politiche di austerità aumenteranno le divergenze in quanto saranno più dure per i paesi più deboli. Coloro che sostennero negli anni ’80 l’introduzione della moneta unica sapevano che una moneta senza Stato non era mai esistita. Consideravano comunque la sua nascita come tappa di un processo che doveva portare all’unità politica dell’Europa. E non si trattò solo di un disegno istituzionale, ma anche del tentativo di definire un progetto si sviluppo economico e sociale europeo sostanzialmente diverso da quello anglosassone che il pensiero unico cercava di imporre in tutto il mondo. Quella stagione di crescita dello spirito e della progettualità europei fu guidata da leader della sinistra, dai Mitterand, Brandt, Delors, Napolitano. Ma la generazione successiva abbandonò quella strada per seguire il suono illusorio della retorica della “terza via”. Il divario crescente fra la retorica dell’elite politica e la realtà ed il senso comune – tipo: non vi è contraddizione fra allargamento ed approfondimento dell’Unione; l’euro sostituirà il dollaro come moneta internazionale; stiamo salvando la Grecia- può essere mortale. L’esempio più tipico di tale divario è il progetto di Lisbona. Lì si affermava che gli europei sarebbero diventati i migliori, ma si rinunciava a politiche sociali ed economiche comuni per ripiegare su inefficaci pratiche di coordinamento, che riducevano il ruolo dell’Unione a quello di controllore, e non si esprimeva alcuna valutazione critica del processo di globalizzazione e del modello di sviluppo dominante.
Abbiamo assistito al fallimento di una generazione che ha lasciato la sinistra europea inerme di fronte alla crisi ed alla necessità di cambiare sostanzialmente l’approccio ai temi della globalizzazione e dell’unificazione dell’Europa. Bisognerebbe prenderne atto e cercare di cambiare pagina.
La stanchezza democratica di Riccardo Terzi
Il dato più saliente che emerge dalle ultime elezioni regionali è la crescente ‘stanchezza’ con cui viene vissuta l’esperienza democratica. L’indice più significativo di questo fenomeno è quello dell’astensionismo, che ha avuto un’ulteriore impennata e che ormai non può più essere considerato come un dato fisiologico, come un inevitabile sottofondo di passività, ma acquista, per la sua ampiezza, un significato politico che deve essere attentamente interpretato. L’argomento consolatorio, più volte invocato, in base al quale non c’è nessuna particolare anomalia italiana, essendo questa la tendenza prevalente in tutte le grandi democrazie del’Occidente, non fa che spostare il problema su una scala più ampia, ed esso dimostra quindi solo che la crisi della democrazia è più profonda e più penetrante rispetto alla nostra comune percezione. Prendiamo il caso della Francia: possiamo davvero esultare per quel risultato, lasciando nell’ombra il fatto allarmante che metà del corpo elettorale non ha partecipato al voto? Se si vince così, di quale vittoria stiamo parlando? A questo punto, dobbiamo sapere che non c’è solo la competizione tra destra e sinistra, ma a questa si sovrappone una competizione ancor più radicale tra politica e antipolitica, tra la democrazia e la sua negazione. L’astensionismo è solo un aspetto, un indice parziale, al di là del quale si può registrare una più diffusa disaffezione verso la politica anche tra gli elettori, di destra o di sinistra, per molti dei quali il processo democratico è solo un rituale svuota-
to di senso, che non produce partecipazione reale e responsabilità, perché tutto il gioco politico è manipolato ed è nelle mani di ristrettissimi gruppi di potere. E si tratta di una sensazione non infondata, perché tutte le straordinarie innovazioni della ‘Seconda Repubblica’ hanno avuto l’effetto di verticalizzare la politica, di spostarla in un ambito che è sottratto alla libera decisione dei cittadini, fatto per cui ciò che oggi si realizza non è più un meccanismo di «rappresentanza», ma è solo una delega fiduciaria, senza nessuna possibilità di controllo. E spesso c’è solo l’automatismo di un gesto di appartenenza, di cui si è perduto il significato. La legge elettorale è del tutto funzionale a questo esito di spoliticizzazione, con le liste bloccate, col premio di maggioranza, con l’ingessatura forzata di tutto il sistema politico in un bipolarismo imposto dall’alto. Il processo democratico, che è il movimento dal basso di legittimazione del potere, è stato rovesciato nel suo opposto, in un processo che è sempre e solo di vertice. E allora non può stupire che si allarghi l’area della passività e del rifiuto. Questo esito è il frutto di precise scelte politiche, di una linea consapevole che ha puntato sulla semplificazione e sulla personalizzazione del potere, restringendo tutta la competizione politica nella designazione plebiscitaria del leader. Intorno al mito della democrazia maggioritaria e bipolare si è formata una vera e propria casta sacerdotale, severissima nel condannare come eresia ogni minimo scostamento da quel modello. Ma forse è giunto il momento di dire, semplicemente, che la vocazione maggioritaria è solo un altro modo per dire vocazione autoritaria, perché quel modello non è compatibile con una democrazia partecipata. È evidente che il problema non sta tutto nei meccanismi istituzionali, i quali possono solo assecondare un determinato processo politico, ma non ne sono mai il fattore determinante. La crisi della democrazia, ne abbiamo già parlato in precedenti occasioni, ha cause più profonde, politiche e sociali, e non se ne esce con qualche espediente istituzionale. Possiamo sì mettere mano alla legge elettorale, ed è ragionevole farlo, ma la voragine che si è aperta nel nostro sistema democratico non sarà per questo riassorbita, perché ciò che è in gioco non è la forma della democrazia, ma la sua sostanza, il valore e il significato della politica. E allora la domanda, semplice e radicale, è la seguente: a che cosa serve la politica? A questa domanda non è agevole rispondere, e in questa problematicità della risposta si inseriscono le diverse suggestioni dell’antipolitica. Se la politica può essere definita come l’azione collettiva in vista di un fine, essa entra in crisi o per la dissoluzione della dimensione collettiva o per il venir meno della sua finalità. Ed entrambi questi fenomeni sono oggi presenti. Da un lato, c’è il processo di individualizzazione, per cui il tessuto sociale non è più strutturato per grandi blocchi collettivi, ma si frastaglia in tante reti molecolari, e allora il soggetto è guidato solo da ragioni private, o di gruppo, che restano comunque al di qua della dimensione politica. L’antipolitica, in questo caso, si presenta sotto la forma dell’autonomia della società civile: non abbiamo bisogno della politica perché ci autoregoliamo, e perché il nostro orizzonte è solo quello individuale e non abbiamo bisogno d’altro che della nostra libertà di scelta. La politica è solo un’interferenza estranea di cui ci dobbiamo liberare. Su un altro versante, c’è un movimento rovesciato rispetto a quello dell’individualizzazione, ed esso consiste nella ricerca ansiosa di una qualche ragione a cui ricondurre la propria vita individuale, di un trascendimento della sfera privata, di una meta, quindi, su cui convogliare tutti i nostri sforzi soggettivi. L’accento viene così a cadere non sull’individuo, ma sulla comunità, sull’appartenenza, sulla condivisione di un destino o di una fede. Ora, an-
che questo movimento entra in collisione con la politica, perché essa, nelle attuali condizioni, non offre nessuna risposta a questo bisogno di identità e di comunità. e si ritaglia solo lo spazio dell’amministrazione, della gestione dell’esistente. In questo caso, prende forma un’antipolitica che è un voler andare oltre la politica, oltre i suoi limiti e la sua mediocrità, per poter attingere a qualcosa di più sostanziale, che dia un fondamento alla nostra vita. La politica viene intaccata sui due lati, ed essa appare essere o troppo o troppo poco, o un’invadenza nel privato, o la rinuncia a un progetto di più largo respiro. È l’azione congiunta di questi due processi che crea intorno alla politica una vasta area di freddezza e di diffidenza. E può anche accadere che i due movimenti dell’antipolitica, quello individualistico e quello comunitario, diano luogo a una convergenza, a un intreccio, che insieme convivano: ripiegamento nel privato e bisogno di identità, domanda di autonomia e domanda di appartenenza. Il fenomeno dell’antipolitica è quindi complesso, multiforme, e può prendere le più svariate direzioni. La «stanchezza democratica» che accomuna queste diverse tipologie, queste diverse situazioni esistenziali, dipende essenzialmente dal fatto che la politica non sembra neppure accorgersi del problema, e parla d’altro, e sta su una diversa lunghezza d’onda, lontana dalla vita concreta delle persone. In questo panorama accidentato, c’è solo la Lega che sembra muoversi in controtendenza. L’elettorato leghista è l’unico motivato, mobilitato, sicuro di sé, perché sente di essere entrato in un movimento ascendente, di essere proiettato verso nuove conquiste, di avere in mano le carte decisive per il futuro del Paese. Per opporre alla Lega una efficace linea di contrasto, per non essere travolti dalla sua ondata espansiva, che già si sta allargando anche nelle regioni del centro, è indispensabile, in via preliminare, un’analisi attenta e rigorosa delle tendenze in atto. Non si può combattere nessuna battaglia se non c’è una comprensione delle forze in campo. È un’antica regola: vince solo chi ha una superiore comprensione della realtà, e sa quindi riassorbire nella sua prospettiva anche le ragioni dell’avversario. In altri termini, vince chi sa costruire una posizione di egemonia. Dobbiamo quindi partire da questa domanda: qual è la chiave del successo dell’operazione politica della Lega? A mio giudizio, la Lega ha capito più di altri che anche in una società individualizzata c’è un bisogno di identità, di comunità, di appartenenza. Mentre imperversava l’ansia di sbarazzarsi delle vecchie ideologie novecentesche, mentre tutti sembravano convergere nell’idea che modernizzazione significa razionalità pragmatica e superamento dei miti e delle utopie, la Lega ha fatto l’operazione opposta, ha investito sul mito e ha offerto a una società di individui spaesati il surrogato di una ideologia primitiva ma efficace. Ha saputo così incanalare gli umori e i rancori di questa nostra umanità dissociata in una rappresentazione collettiva, in una narrazione che racconta non solo dell’«io», ma del «noi», del nostro essere parte di una storia comune. In questa costruzione ideologica si tengono insieme individuo e comunità, politica e antipolitica, si tengono insieme perché sono fissate le linee del conflitto, e c’è un nemico su cui si scarica tutto il deposito delle nostre aggressività, e il nemico è tutto ciò che sta fuori dai nostri confini, dalla nostra tradizione. Il militante leghista non si sente isolato, ma è parte di una massa, la quale si costituisce nello scontro, nella guerra contro un nemico, non importa se reale o immaginario. I confini di questo conflitto sono nebulosi e cangianti: il Nord contro il Sud, la secessione contro l’unità nazionale, il federalismo contro il centralismo, gli indigeni contro gli stranie-
ri, l’identità cristiana contro il multiculturalismo, il lavoro produttivo contro la grande finanza. Ciò che conta, in tutte queste diverse possibili versioni, è il sentirsi coinvolti in un combattimento, in una sacra crociata, e proprio perciò ci si mette nelle mani del comandante supremo, senza spirito critico, perché questa è la regola della guerra, e la democrazia è solo il rifugio degli smidollati. C’è tutta una psicologia guerresca che tiene insieme il movimento, il quale ha bisogno continuamente di essere alimentato con dosi massicce di aggressività. E ora il fulcro dell’aggressione sembra essersi concentrato sull’immigrazione, vista come l’ondata barbarica che travolge le nostre tradizioni. La Lega, in questo senso, è un pezzo di medioevo che sta all’interno della nostra società modernizzata e secolarizzata, è un arcaismo che sfida la nostra modernità e la colpisce nei suoi punti deboli, nelle sue fragilità. Anche in altri contesti c’è un analogo fenomeno di ritorno al passato, con il riemergere degli odi nazionali, o delle sette religiose, o dei movimenti razzisti. È tutta la civiltà moderna, costruita sui principi di libertà e di eguaglianza, che è messa sotto accusa. Non dobbiamo perciò sottovalutare la forza corrosiva della Lega, il fatto che essa non è un momento del confronto democratico, ma è la negazione, in radice, della logica democratica, perché a essa sostituisce una diversa e opposta logica, quella di una comunità chiusa ed esclusiva, che non ammette al suo interno nessuna forma di pluralismo. Se vediamo insieme questi due aspetti, da un lato l’infiacchimento dello spirito democratico, dall’altro la virulenza dell’ondata leghista, appare allora chiaro che siamo vicini a un punto di rottura, che siamo in una condizione di emergenza. Le forze democratiche non sono vitali, e le forze vitali non sono democratiche: quanto può reggere questo stato di cose? Se non si agisce per tempo, la situazione non può che degenerare, perché la Lega esprime una forza di massa, e la massa, in quanto tale, ha una forza di attrazione, di espansione, e contiene anche un potenziale distruttivo che a un certo punto può essere fatto esplodere. E tutto ciò interagisce con le strutture del potere, assecondando la tendenza verso una concentrazione autoritaria, la quale a sua volta opera nel senso della massificazione della vita collettiva, del suo livellamento, mettendo fuori gioco tutto ciò che si oppone al pensiero dominante. Massa e potere, nel momento in cui si incontrano e si fondono l’una nell’altro, divengono un’unica fortissima potenza coercitiva. Il problema su cui interrogarci è quale sia la risposta. Il punto decisivo è che non c’è risposta se non c’è una politica che si muove a largo raggio e che cerca di offrire un punto diapprodo ai molteplici fermenti da cui è attraversata la società. L’antipolitica si può contrastare solo se la politica sa riprendere la sua centralità. Il movimento da fare, quindi, è l’opposto rispetto a tutto ciò che fin qui è stato teorizzato: non la fine delle ideologie, ma la capacità di offrire una nuova interpretazione del mondo, non la politica che si ritira e si riduce ad amministrazione, ma all’opposto una politica che si misura con le domande fondamentali della vita, e che perciò sa parlare al cuore delle persone. I grandi partiti di massa, nel passato, hanno svolto questa funzione. Ma questa è ancora oggi la funzione che dà un senso e una legittimazione alla politica. Se i partiti diventano macchine elettorali, prive di un pensiero e di una visione del futuro, il loro destino è segnato, e saranno altri ad occupare lo spazio della comunità. Il declino del partito politico non è un destino, ma è solo l’esito di alcune scelte sconsiderate ed avventate, e ciò vale in particolare per la sinistra, che ha pensato di poter vincere solo camuffandosi, solo con la manovra, liberandosi della sua tradizione come di una zavorra. E ora si trova a fronteggiare con le mani nude, senza un pensiero ricono-
scibile, tutta l’offensiva di destra, che punta a una nuova egemonia culturale, ribaltando le stesse basi costituzionali della nostra Repubblica. Occorre quindi un lavoro di ricostruzione, dopo un periodo in cui la sinistra si è dedicata a dilapidare il suo patrimonio. Ricostruire non vuol dire tornare al passato, riproporre ciò che si è esaurito, ma ritrovare un pensiero che sia capace di illuminare il nostro presente. Vuol dire restituire alla politica la sua dimensione. In questa ricostruzione l’aspetto culturale è il necessario punto di partenza, proprio perché le forze con cui dobbiamo misurarci non esitano ad utilizzare tutte le risorse ideologiche disponibili, con grande strumentalità, ma anche con una indubbia capacità comunicativa. In questo scontro, anche la religione viene tirata in mezzo e usata come arma contundente. Per questo, io credo che la questione religiosa rappresenti oggi un nodo strategico essenziale, che condiziona tutto il futuro sviluppo della nostra democrazia. La religione può essere inglobata dentro una operazione politica e messa al servizio del blocco conservatore, usata come il cemento ideologico e come la legittimazione di quel blocco. Così è accaduto più volte nella storia millenaria della Chiesa, e ancora una volta può accadere che si stringa un patto di potere, nel quale non c’è più nessun confine tra ciò che è di Cesare e cio che è di Dio, perché tutto sta insieme in un unico ordine autoritario, dove la sacralità diviene l’attributo del potere. Che molti si stiano muovendo in questa direzione è del tutto evidente: basti ricordare la prima uscita dei presidenti leghisti di Piemonte e Veneto sulla pillola abortiva, o la feroce strumentalizzazione del caso Englaro. La Chiesa è vista, in questo caso, come lo strumento di una definitiva saldatura tra la massa e il potere. A quel punto, i giochi si chiudono e il sistema politico si cristallizza in un vero e proprio regime. È del tutto evidente allora che per le forze di sinistra e democratiche diventa decisivo un diverso e opposto approccio alla questione religiosa, il quale deve essere fondato sul pieno riconoscimento dell’autonomia e del ruolo sociale della Chiesa, nel quadro di un assetto laico delle istituzioni politiche, laico in quanto aperto al confronto interculturale. La religiosità deve essere riconosciuta nella sua funzione propria, in quanto forza spirituale e in quanto rete di solidarietà che agisce attivamente nella sfera sociale. Il fatto religioso entra quindi a pieno titolo nel processo democratico, con i suoi valori e con la sua visione della vita, a condizione di stare dentro un processo aperto, dove tutto è sottoposto al vaglio della verifica democratica, e dove quindi è esclusa ogni forma di fondamentalismo, l’idea cioè che dei fondamenti si debba occupare qualche autorità esterna allo stesso processo democratico. Si tratta di un’ispirazione coerente con tutta l’elaborazione del Concilio, con l’idea di una Chiesa che sta nel mondo e si confronta con il mondo, e che pensa alla sua missione non più come potenza temporale, ma come forza di evangelizzazione che è messa al servizio dell’integralità della persona umana. Come dice Paolo VI nella Populorum progressio: tutto l’uomo e tutti gli uomini. Da questo punto di vista, il Pd rappresenta una grande occasione, e la presenza di una vasta area di cattolici democratici costituisce una risorsa di straordinario valore. Dimostra che è possibile declinare diversamente tutto il rapporto tra religione e politica, in una logica che si oppone all’integralismo, in uno spirito di laicità che non è un mettere tra parentesi la fede religiosa, ma è il modo per farla fruttificare nel rapporto con gli altri. È proprio questa compresenza, in una comune militanza politica, di diverse culture e di diverse credenze la prova vivente di una pratica laica, la quale consiste appunto nel dialogo e nel rispetto reciproco tra le diverse concezioni. È un grave errore avvertire questa convivenza come un impaccio, perché
essa è al contrario la ragione fondante del Pd come forza laica e democratica. Si può dire, più in generale, che il nostro obiettivo strategico dovrebbe essere quello di organizzare e di valorizzare il pluralismo, per dar vita a una società articolata e aperta, che non si lascia dominare da un pensiero unico e da un unico dispositivo di potere. Questo è il terreno su cui si decide del nostro futuro. La destra populista si rivolge a una massa indifferenziata, e tende ad appiattirla, a omologarla, perché qualunque forma di potere autoritario ha bisogno di reggersi su una condizione di passività e di conformismo. Massa e potere, appunto, come i due lati di un medesimo processo, il quale si snoda dall’alto verso il basso, secondo una precisa logica gerarchica. Per questo, l’idea di competere sul medesimo terreno, adottando lo stesso modello di concentrazione del potere e puntando tutte le carte sulle risorse personali di un aspirante leader, è un idea semplicemente grottesca. Se c’è ancora qualcuno tentato di avventurarsi per questa strada, bisogna sbarrargli subito il cammino. Il nostro obiettivo è la divisione del potere, perché esso altrimenti è destinato a degenerare. E tutta la strategia politica e istituzionale deve quindi avere ben chiara questa bussola. Il nostro problema non è la ricerca di un capo carismatico che possa competere con Berlusconi, ma è piuttosto la messa a regime di un sistema politico che possa finalmente fare a meno dei capi carismatici. E quelli di sinistra, lo dimostra tutta la storia, non sono meno pericolosi. Sul piano sociale occorre che contro la massificazione si sviluppi una strategia che abbia il suo punto di forza nella rete delle rappresentanze. Non c’è una generica ‘società civile’, ma un’articolazione di interessi, di obiettivi, di organizzazioni, con cui la politica deve sapere entrare in una comunicazione attiva. Mettere al primo posto il lavoro, ad esempio, non può ridursi a una affermazione identitaria, pur importante, ma implica una pratica sociale, attraverso un’interlocuzione sistematica con i diversi soggetti in cui si articola la rappresentanza del lavoro, a partire dalle grandi confederazioni sindacali. Un partito politico si definisce anche così, per le sue relazioni, per i suoi interlocutori privilegiati, per le sue alleanze. E, nella prospettiva di una società plurale, questo non è un dettaglio, perché da questo dipende l’idea che abbiamo della società e del rapporto tra società e politica. Il principio di autonomia è il concetto chiave. All’idea di un comando della politica sulla società si sostituisce così l’idea di un sistema di relazioni, tra soggetti autonomi, che realizza un continuo movimento di passaggio dal sociale al politico, senza che vi sia mai un unico centro di decisione. La politica è il lavoro di mediazione tra i soggetti, è ciò che tiene insieme il sistema, non con la trasmissione gerarchica del comando, ma con il metodo del confronto e del coinvolgimento democratico. È solo a questa condizione che i soggetti sociali possono sfuggire alla logica corporativa e possono concorrere alle scelte generali, assumendo così una posizione di responsabilità. È un principio che è entrato anche nella nostra Costituzione,nel nome della sussidiarietà, con la quale si riconosce la pluralità dei soggetti che possono concorrere al bene comune. Si è appena concluso il congresso della Cgil, e da tutta la discussione risulta molto chiaro che il sindacato ha bisogno non di nuovi collateralismi, ma di una cornice politica che sia funzionale allo sviluppo dell’azione contrattuale, e quindi di un progetto economico e sociale che sia in grado di offrire un punto di riferimento positivo per le rivendicazioni dei lavoratori e dei pensionati. La stessa unità sindacale, oggi in una situazione di sofferenza, può ritrovare respiro se c’è una politica che mette in campo la proposta di un diverso modello di sviluppo, superando i dogmi del pensiero
liberista dominante. Azione sindacale e azione politica restano comunque due movimenti tra loro del tutto autonomi, ma per una forza di sinistra la capacità di una relazione positiva col movimento sindacale è un banco di prova decisivo. In questo senso, mettere al primo posto il lavoro è davvero lo spartiacque su cui si misurano tutte le prospettive della sinistra. Anche in altri campi, nelle politiche di welfare, nell’informazione, nella giustizia, c’è bisogno di un partito che non punti sull’autosufficienza, ma che si proponga di essere il punto di sintesi e di mediazione, in un rapporto costante con le diverse competenze e con le diverse organizzazioni sociali. La nuova segreteria di Bersani ha cercato di imprimere un nuovo corso all’azione politica del Pd, con meno retorica, con meno gesti plateali, e con più concretezza. Penso che sia la strada giusta, ma essa è appena iniziata, e sono molti, troppi, i retori che storcono il naso, gli adoratori del «nuovo», per i quali tutti i discorsi sul lavoro, sul sociale, sugli interessi, sono solo i relitti del Novecento. Consiglierei a Bersani di procedere con la massima determinazione, per costruire un partito di cui si possa dire che conosce ciò di cui parla, e che parla della vita reale delle persone. Per questo, per dare un senso e una visibilità a questo indirizzo politico, non possiamo per l’ennesima volta farci incastrare nell’infinita e inconcludente discussione sulle riforme istituzionali. Non è affatto vero che questa è la priorità. Ed è vero piuttosto che tutti quelli che ne parlano pensano, in sostanza, a un restringimento degli spazi democratici, pensano a una governabilità che richiede semplificazione, procedure decisionali più veloci, meno controlli, meno attenzione al pluralismo delle posizioni politiche. È una partita truccata, il cui esito è già scritto. Questa non può essere l’agenda politica del Pd. Dobbiamo tentare di rovesciare l’ordine delle priorità, ed entrare in comunicazione con il Paese reale, che fa i conti con la crisi e che si interroga sul proprio futuro.
L’altro eccessivo di Gianfranco Dalmasso
Brano tratto dal volume Invenzioni dell’altro di J. Derrida, Jaca Book, Milano (postfazione).
(…) Il “soggetto decostruente”, secondo questo movimento di pensiero è perciò spiazzato, dislocato originariamente: introvabile. Il soggetto decostruente è introvabile perché è introvabile un punto di vista che regga, che sia, per così dire, “fondato”: il soggetto decostruente è introvabile perchè decostruito dal suo stesso decostruire. Non si tratta, io credo, di un’affermazione “nichilista”, se per nichilismo si intende una concezione della realtà che non è in grado di scommettere sulla ragione. Si tratta invece di una certezza diversa da quella che deriva da una concezione del mondo: si tratta di una certezza strana, in-trovabile. L’etimo di invenzione soccorre anche se, per certi aspetti, complica la questione: da una parte il latino invenire significa gtrovare, scoprire, rendersi conto, entrare in contatto con ciò che in qualche modo manca h e, dall’altra, esso significa ginventare, creare, suscitare h. Inventions de l’autre è, più che un sottotitolo, l’essenziale seconda parte di
Psyché. Che il soggetto, il soggetto tout-court, a meno che per soggetto non si intenda l’ypokeimenon aristotelico oppure il soggetto cartesiano (il che renderebbe il discorso che si sta facendo ancora più rigoroso ma più lungo come articolazione e come percorso) sia introvabile significa che esso non può essere né trovato né inventato. Il soggetto della modernità e della postmodernità, dunque il soggetto decostruente, interpretante forse potremmo azzardare, operando una sorta di cortocircuito, implicato dalla struttura di questa argomentazione, sembra organizzarsi attorno ad un elemento, a una x, che non si può trovare e che non si può inventare: un non proprio, un non mio, a tutto campo, sembra erodere il suo terreno e la sua possibile retrovia, il suo possibile retro-fondo. Invenzioni dell’altro. Non io e l’altro, ma io come altro. La strategia e lo stile di pensiero derridiani sono differenti. E’ dall’altro, altro imprendibile, originariamente impossedibile, non speculare, ma effetto di un non proprio abissale che può derivare l’inventare e il trovare. Il punto di vista “introvabile” allora sembra derivare dall’altro così intenso. Tra i due punti introvabili si gioca, scatta, diventa frequentabile la questione dell’io. Dell’io moderno e/o dell’io antico, dell’ anima: psyché (...).