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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008


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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Luglio-Agosto 2009, n° 19. (Numero 20, 30 Settembre 2009) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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Il Partito Democratico, il congresso e l’alternativa “all’ideologia economica”. di ELIO MATASSI

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Fede, etica, politica: deduttivismo lineare? di GIOVANNI INVITTO

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La democrazia di massa nell’era mediatica di MAURO VISENTIN

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Alcune domande ad Andrea Poma a cura di BACHISIO MELONI

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La Terra vista dalla Luna di ANDREA TAGLIAPIETRA

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Enrico Berlinguer: alla ricerca, oggi, di una politica pulita, alta, utile di WALTER TOCCI

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Recensioni

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Il Partito Democratico, il congresso e l’alternativa “all’ideologia economica” di Elio Matassi

Il risultato delle recenti elezioni europee, provinciali e comunali, sufficientemente contenuto nelle dimensioni quantitative e, comunque, meno catastrofico delle previsioni, impone una riflessione di ampio respiro anche in vista del prossimo congresso nazionale (Ottobre). La segreteria Franceschini è riuscita, almeno in parte, ad arrestare il declino del Partito ma risulta del tutto sprovvista di un progetto più generale, ed in particolare, completamente insensibile al problema dei problemi, la forma-partito. Un compito invece sempre più urgente dinanzi all’affermarsi minaccioso del ‘divisionismo’ (dopo l’incremento del partito del Nord si


sta profilando un’ulteriore emergenza, quella della nascita di un partito del Sud, presuntamente trasversale, comunque, speculare e complementare all’altro). Il dramma politico che ha fatto dell’Italia un paese anomalo rispetto agli omologhi europei –dal debito pubblico alla irriformabilità di qualsiasi settore, al disastro in cui versano le amministrazioni pubbliche, a grandi e persistenti elementi di corruzione –sta nella coesistenza perversa di compromesso e di ‘divisionismo’: il primo costruiva oltre a valori comuni, anche vincoli e lacci e reciproche omertà, il secondo (il divisionismo) si faceva forte di appartenenze esclusive e contrapposte, due nazioni l’una contro l’altra, e questo faceva sì che il compromesso non agisse in primo luogo come condivisione di principi e distinzioni nelle politiche, ma come vincolo che riduceva la possibilità di una compiuta modernizzazione, fatta di scelte rigorose. La sostanza del vecchio sistema sta proprio in questa mescolanza perversa di valori e di vincoli, di principi comuni e di omertà che hanno impedito lo sviluppo, con quella specificità tutta italiana, per cui la società civile ha spesso proceduto per suo conto, diventando in tal modo anche il laboratorio dell’antipolitica, il paese reale contro quello legale. La riconquista di una nuova possibile ‘egemonia’ per il centrosinistra e per il partito che la rappresenta compiutamente, il Partito Democratico, deve partire da questo compito storico, il superamento del ‘divisionismo’. Superamento del ‘divisionismo’ che impone l’adozione di una forma-partito conseguente, nazionale e federale nel contempo, ma comunque ‘forte’ e non ‘liquida’ ossia non una semplice aggregazione, un semplice cartello elettorale che dovrebbe essere gestito da una leadership carismatico-verticistica, il veltronismo e la sua estrema progenie, Dario Franceschini. Il tutto sulla base di un vago ‘nuovismo’, anagrafico ma anche di stili, di consuetudini, vincolato ad una dimensione spettatoriale, già in crisi, come ha dimostrato la recente vittoria elettorale di Obama negli Stati Uniti, che mette definitivamente ai margini quei presupposti su cui si fonda il ‘nuovismo’ nostrano. L’affermarsi di Internet, dell’online, dei siti web, risponde al desiderio di partecipazione della società civile, sparigliando un sistema mediatico-spettatoriale di cui si cominciano ad avvertire chiari segnali di logoramento. A questa radiografia dei problemi esistenti deve corrispondere un forte progetto culturale, un riformismo non semplicemente light, ma sostanziato finalmente da una rinnovata cultura politica e filosofica. Non si possono eludere i problemi posti sul tappeto dalla modernità e che Hanna Arendt ha così lucidamente percepito in Vita activa. La condizione umana; la modernità trionfa sui bisogni grazie all’emancipazione del lavoro, grazie “al fatto, cioè, che l’animal laborans sia stato messo nella condizione di occupare la sfera pubblica; e tuttavia per tutto il tempo che l’animal laborans ne rimane in possesso, non può esistere una vera sfera pubblica, ma solo attività private esibite apertamente”. In ultima analisi la modernità, malgrado l’esaltazione dell’attività lavorativa, culmina “nella più mortale e più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto”. Come comprendere questo rapporto paradossale che s’instaura tra il trionfo dell’animal laborans e l’espropriazione della capacità di agire della sfera politica? La crisi dell’immaginario della modernità nasce dal fatto che essa affida al lavoro produttivo e alla sua celebrata efficacia un compito impossibile: quello di produrre senso. In tale prospettiva, il legame che unisce i produttori esula da qualunque forma di produzione politica. Esso non è dato da alcun progetto comune, non si realizza in alcuna attività collettiva generatrice di


senso, perché irriducibile alla logica dell’autoriproduzione. L’aporia della modernità o, meglio ancora, una delle aporie in cui s’inceppa la modernità sta nella mancanza di uno spazio adeguato per l’instaurarsi delle mediazioni politiche. Ne consegue una crescente depoliticizzazione, ossia l’incapacità di ravvisare una qualsiasi forma significativa di alterità politica. Oggi la politica viene per lo più concepita in maniera impolitica, perché di fatto subisce la supremazia dell’economia. Cerchiamo di capire quali sono stati i presupposti storici e teorici su cui si fonda il primato economico. Alle origini tale primato non sussisteva; infatti i Greci escludevano dal campo politico tutto ciò che competeva il sistema dei bisogni; in particolare, Aristotele sottolinea con forza che l’economia appartiene alla sfera domestica e privata (oikos) e che, in quanto tale, non concerne la società politica. L’uomo libero realizza la sua libertà partecipando alla vita politica; essere libero esige lo svincolarsi dalla costrizioni utilitaristiche e dalla dinamica dei bisogni. “La frontiera che separa il campo del privato da quello della polis, -scrive Myriam Revault d’Allones, -non è solo un problema della filosofia ma è anche un problema dell’agire completo nella misura in cui questa frontiera attraversa l’interiorità dello stesso cittadino”. L’identificazione di sé con la vita politica -la costituzione di una identità politica –presuppone che la sfera dell’appartenenza politica prevalga su quella dell’appartenenza domestica, familiare, ossia su tutto ciò che concerne i bisogni e gli interessi privati. L’Occidente è stato tuttavia l’unica civiltà in cui l’economia, da poco “incastrata” nel sociale, prima se n’è affrancata, poi l’ha fagocitata, conformandola ai suoi valori ed alle sue leggi; la promozione di questa ‘ideologia economica’ è inseparabile dalla formazione dell’individuo nel senso liberal-borghese del termine. Il risultato di questo processo è l’instaurazione della ‘società di mercato’, ossia di quella società in cui non solo i valori mercantilistici superano tutti gli altri, ma dove il modello del mercato è considerato paradigmatico di ogni fatto sociale. Nella prospettiva dell’ideologia economica, la politica non può essere solo un derivato o un residuo. Si ritiene, quindi, che la nascita della politica ritrovi le sue motivazioni in considerazioni che hanno i contorni della necessità, ossia in considerazioni, in ultima analisi, economiche. Essa deriva, dunque, nella sua essenza, esclusivamente dal calcolo degli interessi. D’altra parte l’azione politica è largamente assimilata alla gestione delle cose, tant’è che secondo i teorici liberali, una società interamente sottomessa ai meccanismi del mercato vedrà la realizzazione dell’armonia naturale degli interessi: grazie all’intervento della ‘mano invisibile’, che fa coincidere domanda ed offerta, la composizione degli interessi egoistici in un mercato –definito come luogo di scambio e come operatore del sociale –porterà miracolosamente a creare una situazione ottimale all’interno della società globale. A più o meno breve scadenza, la competenza politica sarà soppiantata dalla concretezza economica. Questa è la premessa della modernità: la riduzione del sociale ad uno scambio generalizzato tra i produttori conduce alla perdita e all’indebolimento della politica. In realtà la politica non può essere ridotta all’economia, in primo luogo perché il bene comune non è la semplice somma delle aspirazioni o dei materiali particolari, poi perché le aspirazioni ed i desideri divergenti non si conciliano spontaneamente. È qui, per l’appunto, che è assurdo parlare di ‘mercato politico’. Anche in politica esiste una domanda ed un’offerta ma nel senso


che gli equilibri politici, anche attraverso il voto, non si stabilizzano da soli in modo definitivo. Oggi, invece, la crescita abnorme dell’economia ha una ricaduta diretta nella contrattazione generalizzata, ossia nell’idea che tutto ciò che rientra nell’ordine del desiderio e del bisogno può e deve essere negoziato; la contropartita evidente sta nel fatto che si producono solo i beni che si possono vendere, mentre si ignora ciò che non ha un prezzo. Entro quest’ottica peculiare, il cittadino viene considerato in primo luogo come consumatore e la politica amministrata sul modello dell’impresa privata. Il paradigma normativo diventa il comportamento del commerciante sul mercato. Specularmente, le pressioni economiche e finanziarie, riducono sempre più il margine di manovra dei governi, che sono obbligati a piegarsi, per ‘realismo’, davanti alle leggi del mercato. Questo insediamento della società di mercato, commenta Marcel Gauchet , “ è molto di più di un fenomeno intellettuale. Ciò a cui stiamo assistendo è una vera e propria interiorizzazione del modello del mercato- un evento dalle conseguenze antropologiche incalcolabili, che si cominciano appena ad intravedere”. Il caso italiano, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, è l’esempio ottimale di tale ideologia economica. Un riformismo ‘forte’ deve partire proprio dal caso italiano, dalla natura particolare del PDL (concentrazione estrema dell’ideologia economica) proponendo un’autentica svolta, per superare l’affermarsi del divisionismo, al Nord come al Sud, e quello stadio che Massimo L. Salvadori ha ben definito democrazia senza democrazia e qualcun altro come ‘post-democrazia’. Il ‘nuovismo’ fine a se stesso (la candidatura di Beppe Grillo alla segreteria del PD) non è che la logica conseguenza di un processo di dissoluzione della vecchia forma-partito, non ancora sostituita da un’altra. Il grande problema politico sul tappeto sta proprio nel dare finalmente corpo a questa esigenza, il che non è affatto in contraddizione con le emergenze della società civile, con le spinte propulsive che vengono, per così dire, ‘dal basso’. Una forma-partito che riesca a coniugare compiutamente un partito ben radicato sul territorio, a stratificazione anche federale, con il coinvolgimento partecipativo della società civile. Un partito che deve porsi il problema del superamento del divisionismo e della connessa identità nazionale come il trascendimento dell’ideologia economica: sono questi i macro problemi che il congresso del Partito Democratico dovrà essere in grado di affrontare con una presa di coscienza che si emancipi in maniera definitiva dal semplice ricatto generazionale ed una svolta non di mera facciata per affrontare finalmente i contenuti alternativi all’ideologia economica, oggi egemone. Investire su ricerca, università, scuola e formazione, sull’economia del sapere diventa sempre più urgente e necessario: sono queste le sfide su cui si giocherà la costruzione di un partito non minimalista che sappia interpretare fino in fondo le esigenze di una democrazia autentica e non quelle di una semplice ‘democrazia senza democrazia’.


Fede, etica, politica: deduttivismo lineare? di Giovanni Invitto

Una domanda radicale potrebbe chiedere se il messaggio cristiano sia di per sé un’etica o se, invece, non sia un messaggio di fede compatibile con varie culture e con varie concezioni etiche, anche se non si può contestare ad una religione di riferirsi ad un quadro di valori, anche se questo quadro, all’interno della stessa confessione, si modifica con il tempo. Quello che venne definito “gesuita proibito”, Teilhard de Chardin, parlò di una “evoluzione” dell’etica cristiana, cioè del progressivo modificarsi nel tempo dei valori di riferimento. Questo non vuol dire giungere a compromessi con i fenomeni nuovi che le epoche presentano né un relativismo morale assoluto. Richiede invece


al credente un approfondimento della Parola che va letta e applicata nel tempo. Ciò che nel medioevo rendeva legittime per la Chiesa le guerre di religione oggi trova nella Chiesa cattolica un’importante demistificatrice delle coperture ideologiche e religiose delle violenze belliche. “Non in mio Nome” è qualcosa di più di uno slogan: è l’essenza dell’attuale messaggio della cattolicità militante. Un altro elemento di valutazione è costituito dal fatto che le posizioni etiche, conservatrici o innovative che siano, non sono patrimonio esclusivo dei cattolici. Su molte posizioni di etica proposte da settori, anche ufficiali, del cattolicesimo vedemmo convergere il laico Bobbio. Sulle questioni radicali oramai la divisione non è più sulla base della confessione, per quanto il magistero e la gerarchia abbiano il compito istituzionale di orientare le coscienze. Ma le “élite profetiche”, come le chiamava Jacques Maritain, sono sempre esistite, come sono sempre esistiti, nella cattolicità, i massimalismi conservatori, se non reazionari. Il dibattito è se ancora la politica debba essere una politica “integralista”, cioè trasferimento immediato delle proprie credenze di fede in una ideologia monolitica che riguardi il governo della cosa pubblica e le istituzioni. Nel primi due decenni del Novecento, il prete Luigi Sturzo, nel fondare il suo Partito Popolare, rifiutò dichiaratamente di mettervi nel nome l’aggettivo “cattolico” o “cristiano”, affermando che una cosa è la fede, una cosa è la politica: e non vanno confuse né mescolate. Da questo punto di vista, la posizione del sacerdote siciliano era più moderna di quella che oltre vent’anni dopo, anche se in un contesto storico diverso, fece chiamare “cristiano” un nuovo partito.


La democrazia di massa nell’era mediatica: una realtà che

la sinistra italiana non ha ancora compreso di Mauro Visentin

Ciò che è avvenuto nella politica italiana nelle settimane che hanno preceduto il vertice aquilano del G8 presenta aspetti che meritano di essere analizzati. Direi infatti che sono molto istruttivi per chiunque abbia interesse a confrontare le proprie idee (che sono, talvolta, solo i propri pregiudizi) con i mutamenti in corso nella realtà che ci circonda. Un esercizio al quale la sinistra sembra sempre meno capace di dedicarsi, ma che sarebbe, invece, proprio per lei, il più proficuo. Sgombriamo subito il campo da una questione, come spesso accade, mal posta (da destra, per evidenti motivi di interesse a porla così, ossia in modo improprio, e da sinistra per ragioni culturali): la questione del rapporto fra politica e vita privata dei leader con capacità o possibilità di indirizzo (in altre parole, quelli “che contano”, infatti


la vita privata dei politici di seconda e terza fila può, tutt’al più, definire un costume, ma non è, per quanto la concerne, certamente espressiva di un problema che abbia rilevanza pubblica). Quando lo scandalo privato che stava per travolgere Clinton giunse, in America, al suo apice, una sinistra italiana che non aveva mancato, nel corso della sua storia, di praticare con successo il principio della doppia morale (o perlomeno di essere testimone della sua efficace applicazione da parte di alcuni dei propri più qualificati esponenti), mostrò di indignarsi per l’ennesima prova di puritanesimo ipocrita di cui la più grande democrazia del mondo (che era però ancora, agli occhi di molti elettori rimasti legati alla cultura del vecchio PCI, anche il Paese-guida del capitalismo mondiale) tornava a dare prova, dopo le vicende che erano costate, a vario titolo, la presidenza degli Stati Uniti ad esponenti di spicco del Partito Democratico (ed anzi, in un caso, ad un suo vero e proprio totem) come Ted Kennedy e Gary Hart. E mostrò di preferire, tutto sommato, un sistema come il nostro, nel quale anche i cattolici esibivano, per questo riguardo, una visione più laica e tollerante, ritenendolo espressione di un modello superiore di democrazia politica. L’imbarazzo che si è visto affiorare a tratti anche negli interventi con i quali, pure, la sinistra ha affondato il coltello in occasione della campagna scandalistica condotta da alcuni organi di stampa (La Repubblica in primo luogo) contro il capo del governo è, probabilmente, ancora il segno di quella cultura. Il PD è apparso oscillare tra la gratitudine per un regalo inatteso della sorte e una specie di pudore che lo costringeva a farsi forza per sfruttarlo. Ebbene, vogliamo forse criticare questo atteggiamento? Riteniamo, per caso, preferibile una lotta politica che si serve anche di informazioni ottenute guardando dal buco della serratura o gettando un’occhiata sotto le lenzuola di questo o di quell’esponente politico? Certamente no, ma ciò non toglie che la vicenda, come dicevo, sia, per molti aspetti, istruttiva e funzionale all’esame di alcune questioni con le quali la sinistra dovrebbe, finalmente, mettendo da parte vecchi moralismi e pregiudizi ideologici, fare i conti. 1. Il primo problema è quello rappresentato dalla personalizzazione della vita politica, che in America e in numerose democrazie Occidentali (quasi tutte quelle che hanno adottato un sistema di tipo presidenziale e/o maggioritario, quindi, quasi tutte tout court) è un fatto ormai acquisito. E’ evidente che se la vita politica si personalizza il diaframma fra dimensione privata e dimensione pubblica, fra sfera personale e sfera politica, per quanto riguarda l’esistenza dei leader, si assottiglia fin quasi a sparire. Allo sviluppo di questa tendenza, senza dubbio, Berlusconi è stato, tra i protagonisti della recente scena italiana, quello che ha impresso, da noi, il maggiore impulso. Naturalmente, qui il discorso non si aggira soltanto su un problema di “nemesi” individuale (qualcosa come quella forma di giustizia compensativa che alcuni vecchi adagi, desunti dalla saggezza popolare dei nostri nonni, sapevano rendere per mezzo di sentenze depositate irreversibilmente nel patrimonio morale collettivo della nazione, come quella riguardante il ferire per mezzo della spada, o quella che si riferisce, con cinica ironia e dunque abbastanza crudelmente, ad uno degli oggetti più desiderati dagli adolescenti di un tempo, vale a dire la bicicletta e a ciò che il suo uso comporta). La questione è più articolata. E riguarda, in primo luogo, non la preferibilità o meno di un sistema caratterizzato in questo senso, ma la presumibile reversibilità o irreversibilità di questo processo. Ritenere che sia vera la seconda di queste ipotesi non è un semplice azzardo previsionale: è la ragionevole deduzione cui si trova di fronte chiunque rifletta, anche solo per poco, sulla crescente complessità dei sistemi


democratici e sull’impossibilità che ad essa non faccia da contraltare, pena la perdita di qualsiasi controllo sui processi decisionali che la democrazia deve sottoporre alle proprie complicate procedure, una crescente semplificazione politica. I partiti politici, che sono sempre stati strumenti imprescindibili di pluralismo democratico (anche se la loro proliferazione incontrollata ha talvolta rischiato di soffocare la democrazia, che si è, perciò, dovuta, per lo più attrezzare, imponendo vincoli alla crescita esagerata, entro il suo ambito, delle istanze “di parte” nella vita pubblica) si sono sempre contraddistinti per via di una struttura verticale. Anche i governi occidentali presentano, di norma, questo doppio carattere: legittimati ad esistere dalla procedura “orizzontale” e democratica che ha dato loro vita, funzionano (se e quando funzionano) come istituti “verticali”, di impostazione leaderistica. Inoltre, il peso crescente degli strumenti comunicativi nell’acquisizione e gestione del consenso ha determinato inevitabilmente la concentrazione del corpo elettorale, più che sui programmi, su poche parole d’ordine, facilmente comprensibili, e sulla riconoscibilità di leader che siano anche e sempre più, uomini-immagine. Tutto questo ha, come conseguenza, appunto, la personalizzazione della vita politica, un fenomeno al cui dilagare, viste le premesse sulle quali si basa, delle istituzioni ben strutturate (quali non appaiono essere, almeno per questo riguardo, le nostre) possono porre degli argini, senza, però, poterne invertire l’orientamento. In un quadro come quello delineato, nel quale, oltretutto, il confronto fra destra e sinistra sembra avviato a realizzarsi sempre più sul terreno dell’etica pubblica, la coerenza fra impegni politici e comportamenti privati è destinata ad assumere, per dei leader capaci di dare, del proprio ruolo, un’interpretazione all’altezza dei tempi, un peso crescente. Se nella moderna società della comunicazione di massa il rispetto per l’intimità di ciascuno è ormai un diritto pressoché evanescente, essa ha in sostanza cessato, si può dire, addirittura di essere un vero e proprio diritto per ogni uomo pubblico che conti, il quale si vede costretto, in cambio dei molti privilegi che il suo ruolo gli garantisce, ad accettare il sacrificio di questa sfera della propria vita sociale. Piaccia o no, questa è, innanzitutto, una conseguenza dell’evoluzione naturale delle democrazie liberali nelle società comunicative di massa. E la sinistra dovrebbe prenderne atto senza imbarazzati pudori. La questione, infatti, è di sostanza: se in questo sistema un leader è tanto più forte quanto più forte è la sua immagine, ciò significa che esso è, per la stessa ragione (vista l’essenziale volatilità e fragilità di questo fattore della vita collettiva) molto più vulnerabile di un tempo. E quindi esposto alla minaccia di ricatti e ritorsioni. Per questo, non per falso moralismo, occorre che la vita privata di un uomo pubblico, tanto più se con responsabilità di leader, e in particolare di leader politico, sia o appaia credibilmente essere lo specchio fedele delle sue scelte e decisioni di carattere generale. 2. Se ora, dalle considerazioni appena svolte e che si riferiscono alle moderne democrazie di massa nel loro complesso (anche se prendendo dichiaratamente spunto da recenti episodi di cronaca del nostro Paese), scendiamo ad esaminare, nel dettaglio, il caso italiano, appaiono evidenti due aspetti: il ritardo culturale della sinistra nel dotarsi di strumenti analitici adeguati, atti ad assolvere meglio di quanto sin qui non sia stato fatto, il compito essenziale di decifrare la realtà storica corrente, da un lato, e, dall’altro, le basi d’argilla sulle quali si fonda il legame “carismatico” che la destra ha stabilito, attraverso la persona del suo capo ed inventore, con la maggioranza del corpo elettorale. Questo legame appare profondo e solido soltanto per una ragione: l’assenza di alternative credibili che siano in grado


di prospettare a questa maggioranza di elettori una scelta diversa. Nel corpo elettorale italiano convivono, ignorandosi, nella migliore delle ipotesi, o detestandosi a vicenda, una maggioranza di votanti antropologicamente di destra e una minoranza ideologicamente di sinistra, con, in mezzo, una massa ondivaga, superficialmente permeata di valori religiosi, che la dispongono al rispetto nominale dell’autorità ecclesiastica e, nello stesso tempo, all’accoglimento almeno potenzialmente favorevole del concetto di “bene pubblico” e della sua messa in opera. Quando una parte di questa massa ondivaga si somma alla componente ideologica e di sinistra dell’insieme degli elettori, la sinistra politica raggiunge il massimo del suo possibile consenso, ossia qualcosa come un terzo dell’elettorato complessivo (quota che può variare in più o in meno anche in conseguenza delle astensioni dal voto e della loro distribuzione). Oltre questa soglia, essa non è mai riuscita sostanzialmente a spingersi. Ciò che le si oppone, impedendole di conseguire un risultato più incoraggiante, è la solida e coriacea componente maggioritaria del corpo elettorale, che ho definito prima “antropologicamente di destra”. Si tratta di una “destra” non ideologica anche se spesso benpensante e cattolica per conformismo o tradizione famigliare, familistica, localistica, essenzialmente miope e incapace di vedere il proprio interesse estendersi al di là dell’ambito immediato in cui si colloca il soddisfacimento delle esigenze più superficiali e materiali della vita di relazione. Questa destra si rispecchia perfettamente nell’attuale maggioranza di governo, sostanzialmente priva di valori propri ossia di un’identità assiologica. Ma dal momento che nessuna forza politica può fare a meno di un’ideologia che la identifichi, l’attuale centrodestra ha preso in prestito la sua dalla Chiesa cattolica, favorita in ciò dall’avvento, al vertice di quest’ultima, di un papa retrivo e tradizionalista per ciò che concerne la salvaguardia dei valori cristiani. L’operazione si è dimostrata vincente: essa ha saputo, infatti, coniugare l’interesse egoistico con il desiderio di tutela e protezione stimolato dalle molte paure che l’afflusso di una consistente massa di migranti ha indotto nella parte meno evoluta del corpo elettorale, proponendo un’identità cristiana forse posticcia ma di elevato valore difensivo. A questa si è aggiunta l’ideologia caricaturale, pseudo-celtica, territoriale della Lega Nord, non meno superficiale e artificiosa, ma altrettanto convincente e suggestiva agli occhi di un elettorato culturalmente piuttosto primitivo, disorientato e in cerca di riscatto. 3. Questa singolare commistione, cementata dal rapporto personale instaurato con i suoi elettori dal capo del governo, si è dimostrata finora vincente. Ma, come dicevo, ha basi d’argilla. Le ragioni di questa fragilità sono essenzialmente di due ordini. Cominciamo dalla prima. Il rapporto che Silvio Berlusconi ha stabilito con la massa degli elettori che lo votano (che votano lui, personalmente, ciò che lui rappresenta e il partito o l’alleanza che ha saputo costruire) è, ho già detto, di tipo carismatico. Devo riconoscere che questa definizione suscita, tenuto conto della personalità del soggetto investito di questo consenso, qualche imbarazzo. Sono infatti persuaso che in nessun altro Paese d’Europa o dell’Occidente liberal-democratico sarebbe stato consentito ad un uomo con il ruolo e le caratteristiche umane e psicologiche di Berlusconi di giungere a rivestire (per ben tre volte) la carica di Primo Ministro. Cosa che non depone certo a favore della maturità, della lungimiranza, della perspicacia e del senso critico della maggioranza degli elettori italiani, perlomeno nel confronto con i loro “colleghi” europei. Ma fatta questa premessa, è bene aggiungere che, forse, in un giudizio simile, pecco di ottimismo, per un verso, e di autolesionismo nazionale, per l’altro. Non è detto, infatti, che un avvenire simile non si prospetti per tutte le


democrazie di massa o per gran parte di esse, se le tendenze degenerative che è possibile già adesso intravvedere all’opera in questi sistemi non verranno efficacemente contenute attraverso un complesso di regole istituzionali in grado di fungere da contrappesi. Insomma, piuttosto che una specie di circo equestre politico, come verosimilmente essa appare oggi alla maggior parte degli osservatori stranieri, l’Italia odierna potrebbe essere vista come una sorta di laboratorio in cui si sperimentano equilibri politico-istituzionali e sistemi di acquisizione del consenso destinati ad imporsi in tutti o quasi i regimi democratici di massa. Ad ogni modo, se il rapporto che lega in nostro attuale capo dell’esecutivo alla maggioranza del corpo elettorale è del tipo che ho detto, occorre riconoscere che esso si presenta come l’ennesimo capitolo di quella “autobiografia della nazione” di cui il Fascismo era, per Piero Gobetti, una sorta di epitome. Intendo dire, con questo, che il governo di centrodestra rappresenta un tentativo dei ceti economicamente più forti di instaurare un “regime” autoritario, minando alla radice le garanzie giuridiche della democrazia repubblicana, come a suo tempo il Fascismo aveva fatto con l’esangue sistema liberale uscito a pezzi dalla guerra ’15-’18? Naturalmente no: una simile, puerile semplificazione è tanto lontana da ciò che penso quanto lo è dalla realtà storica effettiva con la quale è doveroso misurarsi al presente. Né i tratti illiberali che pure si riconoscono nell’azione di questa maggioranza e che affiorano nella mentalità dirigista, nell’attacco sistematico alla magistratura, nella svalutazione del ruolo del parlamento, nel fastidio per il principio del bilanciamento dei poteri e nell’imposizione per legge di valori etici non condivisi sono, per ora almeno, tali da far temere che la stabilità delle istituzioni democratiche sia a rischio. Il mio intento è piuttosto quello di mettere in luce come il rapporto fra Berlusconi e il corpo elettorale che in gran maggioranza lo ha votato assomigli molto – per l’investitura popolare incondizionata di cui, in conseguenza del voto, lui stesso si considera oggetto, e per la delega totale e “in bianco” che i suoi elettori sembrerebbero avergli voluto conferire – a quello che per vent’anni ha contraddistinto, nella prima metà del secolo scorso, il legame della parte di gran lunga più numerosa degli italiani con un altro “cavaliere” (un po’ come lo zio e il nipote di cui parla Marx all’inizio del 18 Brumaio). Un legame che, come il rapido e quasi improvviso tracollo del Fascismo ha dimostrato, era tanto apparentemente solido quanto sostanzialmente fragile (anche per via del carattere non molto edificante della nazione, timorosa di esporsi, ma pronta a seguire in massa il primo che abbia il coraggio di farlo quando i tempi volgono al peggio). A ciò occorre aggiungere che anche il credito personale di Berlusconi presso i ceti dirigenti italiani e internazionali sembra in rapido declino. In Italia, per via di una gestione della crisi economica globale che è stata aggressiva solo sul piano comunicativo, e che, in definitiva, ha messo in luce soltanto il convincimento discutibile che una realtà virtuale, costruita con dichiarazioni ingannevolmente ottimistiche, possa, in maniera del tutto illusoria, prendere il posto, nelle coscienze degli attori reali, di quella effettiva. All’estero a causa del cambio della guardia avvenuto alla Casa Bianca, delle vita privata disinvolta che il nostro Primo Ministro continua a condurre come fosse ancora un semplice imprenditore e che all’estero ha grande risonanza, e dei comportamenti personali da lui tenuti in occasione dei vertici, che mostrano il carattere per lo più dilettantesco e velleitario della sua politica internazionale. L’altro motivo di fragilità dell’ampio consenso di cui gode l’attuale maggioranza è quello rappresentato dal rischio che, incrinandosi il rapporto con la Chiesa, venga almeno in parte a mancarle la copertura ideologica


“posticcia” che esso le garantisce. Indubbiamente, questo rapporto appare oggi molto forte, ma si cominciano ad intravvedere alcune crepe, in conseguenza delle notizie relative ai comportamenti privati del Presidente del Consiglio, che stanno diffondendo sconcerto nell’elettorato cattolico, come pure dei possibili conflitti, già a tratti esplosi, anche se solo episodicamente, tra la visione cristiana dell’accoglienza e l’ideologia xenofoba della Lega. Ultima considerazione da fare al riguardo è quella concernente la contingenza di questa “unità di intenti” con le gerarchie ecclesiastiche, che potrebbe facilmente mutare se mutassero gli orientamenti attuali della Chiesa – alla guida della quale si trova adesso un pontefice poco propenso alle aperture sul piano etico e dogmatico – in seguito, per esempio, all’avvento al pontificato di un esponente dell’ala progressista della Conferenza Episcopale. 4. In un quadro come quello che è stato appena descritto, i ritardi culturali del centrosinistra appaiono evidenti. Per molti aspetti, alcuni dei suoi leader sembrano ragionare come se la situazione che si presenta oggi agli occhi di un analista politico non fosse affatto cambiata rispetto a quella che ha caratterizzato la lunga stagione in cui la controparte era rappresentata dalla Democrazia Cristiana. In comune con quel periodo la situazione presente mostra di avere solo una cosa: la sinistra nel suo complesso ha mantenuto all’incirca la sua base tradizionale di consenso, perlomeno in termini quantitativi, senza incrementarla di un’unghia. Ma a quel tempo, a garantire l’immutabilità dei rapporti di forza era il cosiddetto”fattore K”, cioè il mondo diviso in due blocchi, il muro di Berlino, la guerra fredda. Oggi tutto questo non c’è più: i socialisti sono spariti insieme alla Democrazia Cristiana e con essi è sparito il vecchio centro-sinistra (anche come ipotesi politica), la legge elettorale è stata modificata prima in senso maggioritario (con un recupero proporzionale) poi in senso proporzionale (con correzione maggioritaria), la sinistra è riuscita in due occasioni a coalizzare un certo numero di forze male assortite, dando vita così a governi instabili e contraddittori, nessuno dei quali è riuscito a durare per tutto l’arco di una legislatura, e ha cambiato composizione e denominazione due o tre volte. Si è, insomma, tentato di tutto e di più, eppure gli orientamenti di fondo dell’elettorato italiano sono rimasti sostanzialmente gli stessi. Ciò che è sfuggito all’esame cui gli esponenti di spicco del PD e delle sue componenti hanno verosimilmente sottoposto i loro insuccessi e il favore che il corpo elettorale ha riservato da subito ad un parvenu della politica come Berlusconi è stato, in primo luogo, il fattore antropologico di cui ho appena terminato di esporre i tratti essenziali, o perlomeno il suo carattere e la sua possibile evoluzione, in secondo luogo, la natura dei mutamenti intervenuti negli ultimi vent’anni. Se il primo ha continuato a funzionare essenzialmente come funzionava il “fattore K” (che di esso è stato, forse, solo una variante storica, alla quale si potrebbe, in tal caso, ricondurre semplicemente l’effetto di averlo, per così dire, ingessato), sostituendosi ad esso dopo la sua caduta, la seconda ha aperto scenari che avrebbero consentito, ove si fosse riusciti a decifrarla correttamente, di intervenire sulle propensioni antropologiche di fondo della maggioranza degli elettori (una volta caduto il fattore ingessante), modificando il loro indirizzo o contrastandone la disposizione. La prima conseguenza che deriva dall’esame del carattere piuttosto antropologico che ideologico del consenso di cui gode la destra consiste in questo: che l’elettorato italiano è, nella sua maggioranza, un elettorato a-ideologico. Più facilmente attraibile, per le ragioni che abbiamo visto e perché a ciò lo dispone il suo orientamento socialmente egoistico, miope e privo del senso dell’appartenenza ad una collettività nonché del rispetto degli


oneri che questo comporta, da un’ideologia conservatrice-tradizionalistica (se non peggio). Ma anche ideologicamente educabile. Il che vuol dire, per l’elettorato nel suo complesso: nella condizione di poter essere, forse, con un’azione adeguata delle forze politiche, indotto ad assumere progressivamente il profilo di un moderno elettorato di cittadinanza (mentre per quella parte di esso che, invece, tradizionalmente vota la sinistra radicale e che appare legata ad una coscienza ideologica tanto anacronistica quanto rigida potrebbe semmai voler dire: lentamente rieducabile). E impegnarsi nel conseguimento di questo scopo spetta oggi alla sinistra moderata, sia perché è suo interesse farlo, sia perché essa sola è, per i motivi già visti, nelle condizioni di poterlo fare. Ciò che la sinistra (il centrosinistra) deve comprendere è che l’idea di poter attrarre la maggioranza dell’elettorato italiano qui ed ora – ovvero così come questa maggioranza è attualmente – è del tutto illusoria. Non perché in seguito ad una crisi del governo di centrodestra questo obiettivo non si possa comunque realizzare: questo sarà senz’altro possibile in futuro così come lo è stato in passato. Ma come una parentesi, senza poter gettare solide radici. La tentazione di fare a meno dell’ideologia (e quindi dell’identità), costruendo un partito pragmatico attento ai problemi del momento, è solo un equivoco. Certo, un moderno partito riformista deve essere “anche” pragmatico (soprattutto a proposito di temi rispetto ai quali la sinistra storica si è tradizionalmente fatta guidare da furori ideologici). Ma un’opposizione che sfrutti solo le défaillance in cui incorre la maggioranza non può fare altro che inseguire quest’ultima sul suo terreno, condannandosi alla marginalità. Nello stesso tempo, un’opposizione ideologica e di principio che si rivolga al “berlusconismo” nell’intento di denunciarne proprio la valenza antropologicamente degenerativa è destinata, senza una preliminare preparazione del terreno, ossia senza alcuna iniziativa volta a promuovere la crescita culturale e morale dell’elettorato italiano, a rafforzare, in ultima analisi, proprio il fenomeno che vorrebbe colpire e ridimensionare. Radicarsi nel cuore e nel cervello dell’elettorato (meglio: della sua maggioranza) come una reale e valida possibilità alternativa, dando vita alle premesse di un’autentica competizione politica per la conquista del diritto a governare è una meta che si può raggiungere, ma solo se la sinistra si impegna in una trasformazione della mentalità dell’elettore medio, ossia in una crescita economica, morale e civile del Paese che richiede un’opera mirata di modernizzazione consistente in un rinnovamento strutturale, infrastrutturale e istituzionale (in tutti i grandi paesi occidentali sono state soprattutto le buone istituzioni – che sono anche istituzioni efficienti – a rendere buono, cioè dotato di sufficiente discernimento, il relativo elettorato). Quindi, verosimilmente, tempi lunghi e qualche, per lei, doloroso sacrificio: quello di alcune delle convinzioni più consolidate della cultura politica cui essa fa ancora prevalentemente riferimento e che, in rapporto a certe caratteristiche assunte dalla situazione storica attuale, appaiono in serio ritardo. Indicherei, a titolo di esempio, quattro questioni che costituiscono altrettanti fattori di ritardo e in riferimento alle quali questo ritardo mi sembra particolarmente grave ed evidente, anche se vanno facendosi largo all’interno del Partito Democratico (per ora, purtroppo, solo a parole e per ragioni, temo, ancora esclusivamente tattiche) programmi che mostrano una chiara visione dei problemi da affrontare. Sono fattori di ritardo rispetto all’evoluzione storica della società di massa in Italia e alle sue dinamiche: A) La difesa della televisione pubblica. Credo non ci sia bisogno di


sottolineare come la televisione pubblica sia uno strumento a disposizione della maggioranza politica di turno per conquistare il consenso, amministrando l’informazione diretta (quella dei notiziari) e indiretta (quella delle trasmissioni di intrattenimento, che comprendono una vasta gamma di realtà comunicative, da quelle di profilo culturale e informativo elevato fino a quelle che, per questo riguardo, possono apparire di profilo molto basso o, in genere, popolare). Oggi, per fortuna, la diffusione della “rete” impedisce che quei Paesi nei quali il controllo politico dell’informazione è ferreo siano effettivamente in grado di isolare del tutto dal resto del mondo la propria opposizione interna (si tratta dei Paesi totalitari, che – ne abbiamo avuto un esempio assai calzante nelle vicende che hanno sconvolto l’Iran dopo le recenti elezioni presidenziali – possono giungere ad “oscurare” pressoché interamente un evento sgradito o a tentare di farlo). Ma la ragione per la quale la “rete” rappresenta oggi un valido antidoto contro questo rischio risiede nel suo carattere anarchico. Ossia, nella sua sostanziale incontrollabilità. La sinistra dovrebbe, pertanto, combattere ogni forma di monopolio (pubblico o privato) dell’informazione e della comunicazione. Al riguardo, la cosa essenziale, non è, però, rappresentata dalle dimensioni eccessive delle aziende che operano in questo settore, ma dal fatto che queste dimensioni non comportino un monopolio, ossia dal fatto che ce ne siano diverse in grado di concorrere fra loro e che esse diano luogo ad un’effettiva competizione. Più ampia e articolata è la gamma di proposte ideologiche alternative e concorrenti che vengono offerte alla massa del corpo elettorale, più efficace e vitale è il funzionamento di un sistema democratico. Al conseguimento di un simile obiettivo è chiaro che l’esistenza di una televisione di Stato oppone un indiscutibile ostacolo. B) La preferenza accordata in linea di principio alla piccola e media impresa (industriale o commerciale, non importa). Non è affatto vero che i grandi gruppi siano nemici della democrazia. Al contrario, la natura impersonale della direzione e il carattere diffuso della proprietà sono elementi sui quali è possibile far leva (vigilando perché non si formino cartelli e patti di sindacato, dentro e fuori le imprese, che possano alterare o aggirare questa natura) per introdurre fattori di maggior trasparenza e rispetto delle norme (perlomeno sul piano degli strumenti di controllo posti a garanzia degli interessi sociali, dei consumatori e degli utenti). C) La difesa della costituzione nel suo impianto istituzionalmente “debole”. La sinistra ha sempre visto nell’apparato statale non uno strumento per mezzo del quale garantirsi, ma una minaccia dalla quale proteggersi (depotenziandola). Questo vecchio riflesso agitatorio è stato, insieme all’esperienza cocente, allora appena trascorsa, della dittatura, la radice (oggi inconscia) che a suo tempo indusse la componente di sinistra dell’Assemblea Costituente a convergere con l’antistatalismo cattolico, dando vita ad una costituzione dal profilo istituzionale poco netto, con un bilanciamento insufficiente dei poteri a causa della forte prevalenza accordata al legislativo. Proprio la vicenda che stiamo vivendo dovrebbe, invece, insegnare al PD che i rischi di involuzione democratica di cui si intravvedono le tracce nell’azione dell’attuale maggioranza di governo sono stati resi possibili precisamente dall’attuale contesto istituzionale e che non c’è miglior difesa dell’ordinamento democratico di quella che si ricava da un sistema solido ed efficiente di poteri e contropoteri forti e ben definiti. Il segno della vocazione alla sconfitta dell’odierno centrosinistra è riconoscibile appunto nel prevalere della paura, nell’incapacità di accettare la sfida con coraggio, ricordando il principio che gli uomini passano e le


istituzioni restano, nel far ruotare il problema della forma istituzionale nuova, necessaria al rinnovamento della Repubblica, intorno all’esigenza o al timore del momento (che può avere anche il volto di un uomo), anziché impegnarsi per trovare ad esso una soluzione destinata a durare nel tempo e a servire le generazioni che verranno. D) La difesa della politica delle alleanze e dei governi di (ampia) coalizione. Andando al di là del valore fondativo, rispetto alla democrazia, che una mentalità di questo genere sembra assegnare al puro e semplice numero, nella sua piatta estrinsecità, delle forze politiche in campo – che è questione importante ma da discutere a sé e in altra sede –, la convinzione che per governare si debbano mettere insieme molti partiti sembra sottovalutare drasticamente uno dei principali problemi che investono il processo comunicativo in una società di massa. Ossia quello della semplicità, della coerenza e della chiarezza del messaggio. Per superare la resistenza psicologica che l’orientamento e la disposizione antropologici della maggioranza dell’elettorato oppone alla proposta politica del centrosinistra occorre rendere questa proposta più plausibile e chiara, e un modo di farlo è certo quello di non stipulare accordi con forze ideologicamente eterogenee (come sono oggi quelle residuali che, all’estrema sinistra, si riconoscono ancora in parole d’ordine il cui significato e contenuto sono ormai fuori dalla storia, o quella di un partito di centro che si dichiara espressamente confessionale e si richiama all’esperienza storica della Democrazia Cristiana): l’andare da soli, in determinate circostanze, è forse, più che una scelta di isolamento, una necessità imposta dall’obbligo della chiarezza, e ignorarla potrebbe comportare il rischio, per la sinistra, di “restare al palo” fino alla fine dei suoi giorni.


Sulle ragioni del male: tra giustizia divina ed autonomia dell’etica. Intervista ad Andrea Poma A cura di Bachisio Meloni

Non Le dispiaccia se in questa nostra riflessione a partire dalla Sua interpretazione filosofica dell’esperienza religiosa di Giobbe (Parole vane, Apogeo, Milano 2005) intendo avvalermi dell’apporto di alcuni fondamentali riferimenti testuali. Penso anzitutto ad un’opera difficilmente trascurabile: Ontologia della libertà, il male e la sofferenza, di Luigi Pareyson (Einaudi, Torino 1995), nella quale si afferma come nell’affrontare il problema del male la filosofia si sia dimostrata nel corso dei secoli “straordinariamente


manchevole se non addirittura insufficiente” (Ivi, p. 151). Secondo Pareyson il problema del male radicale è stato del tutto ingiustificatamente relegato allo stretto ambito dell’etica; non solo, lo stesso linguaggio razionale e concettuale della filosofia non ha potuto finora che caratterizzarsi come del tutto inadeguato ad affrontare ciò che è insito nella “profondità della natura umana e nel segreto recesso dei rapporti dell’uomo con la trascendenza” (Ivi, p. 152). Solo il linguaggio del mito e del simbolico sembrano invece rivelarsi come costitutivamente in grado di esprimere e di riferire l’inoggettivabile. È emblematico come lo stesso Pareyson – proprio per via dei limiti riscontrabili nel procedimento filosofico – non abbia potuto far a meno di intrattenersi preferendo l’analisi del testo biblico o i “romanzi filosofici” di uno scrittore quale Dostoevskij. Lei fa riferimento all’opera filosofica importante di Luigi Pareyson, di cui fui studente e che, soprattutto attraverso l’insegnamento del mio maestro Giuseppe Riconda, certamente mi influenzò. Tuttavia, per essere sincero, non ho mai condiviso il tema di un male ontologico, che sovrasterebbe l’uomo, senza che questi possa sfuggirvi. La mia lettura del Libro di Giobbe presenta un protagonista che, appunto, non accetta nemmeno di prendere in considerazione tale prospettiva: per questo Giobbe chiede ragione a Dio del male che lo perseguita. Certo, si può considerare il Libro di Giobbe un mito, ma questo mito racconta di un uomo del tutto razionale, che ha fiducia nella ragione, non solo nella propria ma anche in quella divina, e per questo chiede a Dio di rispondere ai suoi dubbi, di spiegare, in modo che egli possa capire e solo allora accettare (non la sofferenza, che Giobbe accetta fin dall’inizio, ma la morte senza che si avverino le promesse del Signore). Il caso di Giobbe – ben al di là dall’essere rappresentato in qualità di figura dal carattere “prometeico e tragico” – sottolinea al di là della correlazione di causa ed effetto – laddove una colpa esige una pena – l’idea di una personalità “giusta e paziente” che soffre nella propria intimità una pena senza colpa. Al di là dei rapporti di causalità in lui subentra il richiamo al valore della giustizia, giammai compensabile. È il senso di una responsabilità mai paga di sé; qualcosa di assai prossimo alla “follia” del tutti colpevoli e ognuno più di tutti, come nel dramma incarnato nella straziante figura dello sventurato Mitja nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Nell’idea di Responsabilità, come abilità al rispondere, quale eco in grado di anticipare la voce che interpella, è possibile percepire come una sorta di adaequatio all’idea di giustizia divina, la quale, come Lei sottolinea, non è eterogenea, ma in continuità, se non in simbiosi, con quella ricercata, perseguitata o riscoperta dal soggetto nella sua relazione inesauribile con la trascendenza. Che la giustizia divina sia in continuità con la giustizia umana è affermazione forse non del tutto giustificabile, almeno in questa forma diretta. Ciò che credo (e che mi sembra anche Giobbe creda) è che la ragione divina sia in continuità con quella umana. Leibniz diceva giustamente che tra la ragione divina e quella umana vi è la differenza che distingue il mare da una goccia d’acqua: si tratta tuttavia di una differenza quantitativa, non qualitativa. Per tale differenza Dio pensa, comprende e decide ciò che noi non siamo in grado di pensare e di comprendere. Per esempio, e si tratta di un aspetto fondamentale, Dio concepisce la giustizia e la misericordia come un unico valore, mentre noi continuiamo a non comprendere questa unità. Comunque se la ragione che Dio stesso ci ha donato non è tutt’altro dalla ragione divina, cioè non è


una non ragione, allora deve sempre essere possibile, non già comprendere il senso di ciò che avviene, ma almeno, come ancora diceva Leibniz, dei motivi razionali di credibilità di ciò che la Scrittura e l’esperienza ci dicono delle scelte e delle azioni di Dio. In ciò Giobbe, alla fine del racconto, è confermato, perché la risposta di Dio (poiché davvero si tratta di una risposta non di una mera esibizione di potenza, differentemente da quanto una gran parte degli interpreti sostengono) gli spiega quanto il lettore già sapeva dall’inizio, cioè che Dio aveva posto un limite alle pretese di Satana: quello di non attentare alla vita di Giobbe, che era appunto il timore di quest’ultimo. Sempre sul piano della responsabilità, in tale nozione – direi centralissima in gran parte del pensiero contemporaneo –, vi è qualcosa forse di più profondamente stimolante e rivelatore rispetto a quanto riesce ancora ad emergere invece dal senso originario di colpa, dal senso del “peccato”; come sostiene Martin Buber, sul quale Lei ha avuto modo di insistere anche recentemente con un Suo intervento (cfr. aa.vv., Colpa e sensi di colpa, Apogeo, Milano 2008), “La colpa non è riducibile alla dimensione psicologica del senso di colpa, ma ha altre implicazioni, ben più importanti”. Vuole soffermarsi su tali decisive questioni? Martin Buber, nella conferenza da Lei citata, rivolta ad un pubblico di psicoterapeuti, e recentemente tradotta in italiano (con diversi commenti, tra cui anche uno mio), solleva una questione essenziale: se sia corretto e se sia bene, in una prospettiva psicoterapeutica, curarsi solo di liberare il paziente dai sensi di colpa, senza preoccuparsi di accertare che non vi siano delle colpe effettive, che costituiscono un ostacolo, non solo per la psiche dell’individuo, ma per la sua stessa personalità. Eliminare i sensi di colpa senza affrontare il problema della colpa potrebbe essere persino un ostacolo ad un percorso di redenzione, necessario e arricchente per la persona. Quanto al peccato, penso che, contrariamente a quel tabu oscurantista che tanto spesso è stato presentato, si tratti di una dimensione religiosa molto liberante della realtà della colpa: se una persona ha la fiducia e la speranza di confessare il suo peccato, la sua colpa davanti a Dio, allora ha anche la possibilità di considerarla come accolta e perdonata (peccato significa infatti la colpa in quanto è confessata davanti a Dio e perciò perdonata). Questa è l’unica dimensione peculiare della religione rispetto alla questione della colpa, che per tutto il resto è una questione etica, affrontabile in termini integralmente umani, senza alcun bisogno di ricorrere alla opzione di fede. Penso sia importante affermare con forza che l’etica è una questione umana e che non è accettabile la tesi dell’impossibilità dell’etica secolare, cioè non fondata sull’opzione di fede: l’opzione di fede non aggiunge nulla quanto alla responsabilità e al dovere etico, aggiunge solo l’esperienza della speranza acquisita che la colpa sia già perdonata. A proposito del commento al libro di Ph. Nemo, Giobbe e l’eccesso del male (tr. it., Jaca Book, Milano 1977) già E. Levinas ebbe modo di individuare la prima domanda metafisica non nella questione posta da Leibniz “Perché c’è qualcosa e non piuttosto il nulla?”, ma nel tormento di Giobbe che implora “Perché c’è il male e non piuttosto il bene?”, sottolineando come la domanda sulla genesi del senso implichi una relazione trascendente, insomma, stando alla sua prospettiva di un’“etica come filosofia prima”, una “priorità dell’etico in rapporto all’ontologico” (in La trascendenza e il male, ora in Di Dio che viene all’idea, Jaka Book 1983, p. 158).


Il destino della domanda “perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?” è singolare. Essa infatti compare effettivamente in Leibniz, ma in un contesto nel quale è proposta come già sempre risolta: Leibniz infatti dice che ci si potrebbe porre questa domanda, ma che nel porla già si impone la risposta, perché il principio di ragione, originario come e più del principio di identità e non contraddizione, dice che vi è una ragione per cui esiste qualcosa piuttosto che nulla. Fu Heidegger che, estrapolando intenzionalmente questa citazione di Leibniz dal suo contesto, ne fece una domanda del tutto aperta. Ora a parer mio accade che proprio nel trasformare il principio fondamentale (Grundsatz) di Leibniz in una domanda radicale e fondamentale (Grundfrage) si elimina il carattere di autentica domanda. Una domanda, infatti, è tale se ha una risposta, o almeno una direzione in cui cercare la risposta, un’ipotesi da verificare. In questo senso il principio di ragione di Leibniz è un’autentica domanda, non un dogma preconcetto. La domanda heideggeriana invece non è un’autentica domanda e, in realtà, nella sua formulazione c’è già, implicita, la tesi del nulla della realtà, tanto è vero che l’atteggiamento autentico di chi pone la domanda, secondo Heidegger, è l’angoscia. La tesi di Levinas, secondo la quale la domanda più originaria, la domanda sul senso, non sia la questione dell’essere, ma la questione etica del bene, mi sembra avere una relazione con quello che ho brevemente descritto. L’uomo che non voglia imprigionarsi nell’identità totalitaria del pensiero dell’essere, che voglia andare oltre, pensare e vivere l’altrimenti che essere, deve fare un’opzione originaria per il bene: il pensiero dell’essere presuppone la responsabilità per la differenza di ciò che è. Pensiamo all’idea di ricerca di un senso di moralità e di giustizia ritenute perdute come ad una questione fondamentale avvertita da più parti. Più che la mancata volontà per un ripristino della sensibilità morale penso manchi, come Lei sottolinea, un orientamento più preciso, ossia il giusto riferimento a ciò che costituisce il “fondamento” della morale. Proprio perché la morale non scada perseguendo prospettive di natura “retributiva” – in fondo è questo il Suo principale monito – occorre seguire l’esempio biblico di Giobbe. Con esso ci troviamo di fronte all’origine fontale cui tenta di risalire l’appello kantiano, quello di non fondare la propria moralità sulla fede (che è ipocrisia di un “gioco d’astuzia” al riparo della/dalla giustizia di Dio), ma la fede sulla moralità. Significa anteporre in senso levinasiano la mediazione della ragione contro la follia di un contatto diretto con il sacro, nella tradizione ebraica più in generale l’amore per la Torah ancor prima che a Dio. Da un punto di vista strettamente laico ciò significa non tanto inchinarsi dinanzi all’oscurità dell’enigma divino, ad un credo quia absurdum, ma disporsi all’interrogazione, all’ingresso, quando non allo sfondamento del Bene in seno all’esistenza propria di ognuno. Accoglienza del Bene, malgrado lo sfondo abissale ed orrorifico della “sofferenza inutile”. Sull’autonomia dell’etica da ogni presupposto di fede e sull’opzione fondamentale per il bene ho già detto qualcosa prima. Sui caratteri della sensibilità etica generale e della riflessione etica specifica nella nostra cultura attuale, il discorso dovrebbe necessariamente essere lungo e complesso. Vorrei evidenziare unicamente un aspetto. Non direi che oggi vi sia una carenza di consapevolezza e di riflessione etica; al contrario, vi è una grande attenzione e un intenso dibattito sugli aspetti etici dei comportamenti individuali e collettivi. Mi sembra però che, per la grande influenza della cultura nordamericana e


dell’etica utilitaristica che sin dall’origine la caratterizza, le questioni etiche vengano in generale poste in un quadro utilitaristico di costi/benefici, che non viene a sua volta messo in discussione. Anche coloro che, come John Rawls, hanno tentato di arricchire il dibattito con apporti della tradizione kantiana, non hanno di fatto posto la questione kantiana fondamentale, cioè quella della fondazione dell’etica, da cui dipende la possibilità stessa di riconoscerne la validità. Ciò naturalmente non avviene casualmente, ma è del tutto funzionale alle caratteristiche generali della nostra cultura. Infatti la cultura postmoderna è l’epoca del capitalismo compiutamente realizzato e del tutto dominante e l’etica utilitaristica è un’“economica”, cioè una dottrina della gestione delle decisioni e dei comportamenti nei termini capitalistici che riducono ogni valore a valore di scambio. In questo senso credo che una riproposizione di Kant, se avesse fortuna, sarebbe dirompente. In questo medesimo senso penso che la resistenza di Giobbe agli argomenti dei suoi amici sia per noi anche l’esempio di una rivendicazione risoluta di un’etica fondata e costituita, come dice Kant, sulla sincerità del cuore e non sul vantaggio. Rispetto all’indeterminatezza della giustizia divina, Dio che “dimentica la propria giustizia”, che appare come contraddizione insanabile, c’è una speranza in grado di andare oltre, ossia di recuperare il senso della giustizia in termini più ammissibili, quelli dell’esperienza esistenziale nella prospettiva dell’umano. Giobbe attraverso la sua testimonianza, anch’egli vittima dell’implacabile giustizia degli uomini e di Dio, non manca di suggerirci l’idea di “vedere al presente il realizzarsi futuro della giustizia divina”: la sua è prospettiva messianica, la quale tuttavia non porta alla considerazione (in verità egoistica) di una dilatazione del tempo all’infinito, quanto semmai al suo compimento, che è come dire pensare alla contrazione dell’infinito nell’attimo presente; è, come Lei sottolinea, il “già ora” che si realizza nell’impegno disinteressato o nel sacrificio etico. Lei sottolinea giustamente l’importanza della prospettiva messianica, per la quale si è in grado di “vedere al presente il realizzarsi futuro della giustizia divina”. Ovviamente con ciò non si intende un ottimismo scioccamente ingenuo, ma, al contrario, dell’unico atteggiamento veramente serio di fronte al male. Se questo “vedere” sia una fede o una speranza non lo so, ma ciò che è certo è che solo l’opzione a priori per il senso del tutto rende possibile un atteggiamento costruttivo, vorrei dire, con una parola molto significativa ma che non gode di buon credito, “edificante”, di fronte alla realtà del male. “Vedere” ora la giustizia futura non è una falsa contemplazione, un’evasione illusoria, ma un agire concreto per costruirla. La fede autentica, nel monoteismo ebraicocristiano, è azione etica, ciò va inteso in un significato radicale: non solo la fede comporta di conseguenza l’azione etica ma significa immediatamente azione etica. In Es 24,7 è scritto: “E prese (Moshè) il Libro del Patto, e lesse nelle orecchie del popolo. Ed essi dissero: Tutto ciò che ha detto il Signore faremo ed ascolteremo”. Non, dunque, ascolteremo e faremo, ma faremo e ascolteremo. E nel Talmud si trova il seguente commento: “Nel momento in cui i figli di Israele anteposero la parola ‘faremo’ ad ‘ascolteremo’, scesero 600.000 Angeli e posero su ogni ebreo due corone: una corrispondente a ‘faremo’ ed una ad ‘ascolteremo’” (Talmud Bavlì, Shabbat 68). E nella Lettera di Giacomo 1,22 è scritto: “Ma siate esecutori della parola e non uditori soltanto, ingannando voi stessi”. In conclusione ribadisco: il significato messianico della frase “vedere al presente il realizzarsi futuro della giustizia divina” ha il significato etico dell’agire per realizzare la giustizia.


Tra le due prospettive presenti nel modello inaugurale di Elifaz e in quello di Giobbe, ossia tra un’idea di giustizia arbitraria e tirannica ed una giustizia come promessa di salvezza per l’uomo, ve n’è una terza, quella forse più prossima alla sobrietà del modello di sofferenza di ispirazione jobica: penso alla prospettiva etica teorizzata nella proposta speculativa dell’ateismo religioso (ma non oserei trascurare altresì la posizione dell’ateismo russo, al quale ho fatto cenno, il suo carattere squisitamente etico non meno che trascendente), secondo la quale in tale esigenza di giustizia e di moralità autentica, ossia proprio perché umanamente e sensibilmente predisposti al pieno rispetto di una moralità “non retributiva”, si deve operare per niente, “come se Dio non ci fosse”, come se il Bene atteso fosse nozione in grado di anticipare e di superare l’idea stessa di Dio. Che la scelta del bene e l’azione per realizzarlo debba essere disinteressato è un presupposto di molte tradizioni etiche, di quella stoica, per esempio, che giunge fino a Spinoza, di quella kantiana, per eccellenza, per la quale ogni altro motivo determinante della volontà che anche solo si accosti all’unico motivo a priori, cioè alla legge morale stessa, rende l’azione legale ma non morale, di quella esistenzialista, almeno nella sua parte laica, di cui è un bell’esempio Albert Camus, che crede nell’unica motivazione della solidarietà umana per l’azione morale. Anche nella tradizione cristiana si trova spesso questo tema, per esempio in Dietrich Bonnhoeffer. Tuttavia anche in questa direzione sono possibili eccessi, come dimostra la mistica del puro amore, che, per una malintesa ascesi personale, giungeva ad esiti scettici, che distruggevano l’idea stessa della speranza. Come ho già detto sopra, credo che l’impegno etico non abbia bisogno di Dio o della fede come presupposto, ma debba e possa essere prodotto del tutto autonomo della ragione. Tuttavia, la tradizione critica kantiana, da Kant stesso a Cohen, ci insegna che Dio resta la speranza della realizzabilità dell’etica. L’azione etica umana, del tutto umana, tende a realizzare il bene. Il bene non supera l’idea di Dio, ma è l’idea che Dio ha della realtà; come pensa Kant, il bene è l’oggetto realizzato della volontà santa di Dio e insieme l’oggetto a cui tende la realtà morale dell’uomo, ancora, come dice Cohen, Dio è il Buono, che rende possibile all’uomo di credere nella realizzazione del bene e di perseguirla.


La Terra vista dalla Luna di Andrea Tagliapietra

“Volere la luna”: il modo di dire è rimasto. Nel linguaggio comune il detto esprimeva e ancora esprime l’ambizione per un oggetto irraggiungibile, il desiderio per qualcosa che rimane assolutamente al di fuori della nostra portata. Eppure, gli scomodi passeggeri dello stesso secolo di Auschwitz e di Hiroshima la luna l’hanno avuta. I padri, quella notte del 20 luglio 1969 – perché, a differenza degli Stati Uniti, in Europa lo sbarco avvenne alla luce della luna - , sono entrati in silenzio nelle stanze dei figli e li hanno svegliati per mostrare, ai loro occhi ancora velati dal sonno, il “piccolo passo” del comandante Armstrong, incerto come quello di un bambino, diventare “a giant leap for mankind”, “un balzo gigantesco per l’umanità”. Mai come allora l’immagine televisiva si mostrava intrecciata con quell’impalpabile sostanza di cui sono fatti i sogni, ma, forse, mai come in quella notte d’estate, padri e figli insieme sono stati fieri, almeno nei remoti angoli della terra in cui il segnale elettronico poteva raggiungere il lusso di uno schermo televisivo, di appartenere a quel genere umano che realizzava l’incredibile impresa di Astolfo a cavallo del suo Ippogrifo. Come Mosè sul monte Nebo l’umanità, grazie all’occhio diafano della Tv, poteva gettare uno sguardo sulla terra promessa a venire, sullo spazio stellare dove miliardi di mondi si affacciavano e la speranza di una vita migliore diventava vertigine di


possibilità e sete d’infinito. Ma tutto questo, improvvisamente, sembrava a portata di mano e concreto, come la sabbia lunare violata dalle prime impronte degli astronauti. Se il tempo della storia non è quella retta assoluta che connette un inizio con la fine, ma consente proiezioni in avanti come il moto oscillante della sinuosa spirale, ebbene il giorno dell’allunaggio è probabilmente quel “futuro passato” che ci attende sulla cresta dell’onda, più in là del presente di questa soglia del millennio sulla cui misera attualità siamo schiacciati, per usare un’immagine di Bertrand Russell, quasi fossimo informi e piattissime amebe. Lì il XX secolo ha fatto un balzo in avanti e poi si è piegato su se stesso, rinunciando all’utopia, facendosi, certo, come alcuni dicono, più realista ed adulto, ma anche assai più gretto e meschino, incapace di sognare e di progettare nuovi universi nell’ampio cobalto del cielo. Quando, a quarant’anni di distanza, volgiamo il pensiero alla conquista della luna, proviamo una nostalgia diversa da quella che si esercita verso le cose passate che non ci sono più perché, come suggeriva Ernst Bloch, il grande maestro del “principio-speranza”, c’è anche un rimpianto che non guarda all’indietro, ma ha a che fare con il futuro, con quel futuro delle promesse non mantenute che ogni passato lascia in eredità a tutte le generazioni a venire. Sta, quindi, a chi viene dopo il compito di riprenderne il filo e di consentire a quel futuro prima di essere e di divenire tale e poi di farsi presente e cominciare a vivere. Ma il futuro promesso dalla luna attende ancora, come un’eredità nascosta tra le pietre lunari che Armstrong e i suoi compagni hanno riportato sulla terra. In fondo, forse aveva ragione il poeta dell’“Orlando Furioso”, che sulla luna vedeva raccogliersi ciò che quaggiù si perde o per nostro difetto, o per colpa del tempo e della fortuna, come i “vani disegni” e i “vani desideri”, “che la più parte ingombran di quel loco”. Non è un caso che, l’anno prima dello sbarco sulla luna, si proiettasse nei cinema il capolavoro di Stanley Kubrick, “2001: Odissea nello spazio”, un poderoso tentativo di riflettere “attraverso le immagini” sul significato del limite e sul senso del suo oltrepassamento in direzione dell’alterità. Un osso che diviene un’astronave, un computer che diviene un uomo, un uomo che diviene Dio. La metamorfosi è il contenuto, più o meno manifesto, di tutte le mitologie dell’umanità. Il fascino della metamorfosi è il fascino del divenir altro dello stesso. Ma la metamorfosi è anche l’irruzione dell’altro nella dimensione dell’identico, è il “perturbante” di cui parlava Freud e che, all’improvviso, come ci insegna l’omonimo racconto di Kafka, rende inquietante anche la scena più consueta e familiare. Ecco, la ragione per cui possiamo tornare a vedere “2001” senza mai trovarlo banale o superato, come è accaduto, invece, per molto del cinema che, nel corso del tempo, ha saccheggiato i temi narrativi ed ideologici del capolavoro di Kubrick, è la geniale scelta kubrickiana di attestarsi su quel confine che separa l’inconoscibile, che non può mai essere conosciuto, da quell’ignoto che, un giorno, forse, potrà cessare di esser tale. In questo senso “2001: Odissea nello spazio” forniva, un anno prima dell’impresa dell’Apollo 11, l’autentico significato ideologico della conquista della luna con il disegno fantastico di un destino futuro, ossia di un senso verso cui tendere, per l’intera umanità. Il monolite nero, che collega tutte le tre metamorfosi raccontate dal film di Kubrick, è, infatti, alla stregua delle piramidi egizie che già stupirono Democrito e Platone, un simbolo eccellente di quello che gli antichi greci chiamavano “enigma”. L’enigma e il dire enigmatico sono il modo con cui la nostra cultura, dal tempo dei Greci, ha cercato di attestarsi


sul bordo del mondo, senza ricadere al di qua del crinale, nel già noto che addomestica e rassicura, ma anche senza spingersi al di là, perdendosi nel delirio notturno della follia. Enigmatiche sono le proposizioni chiave della filosofia, enigmatiche sono le preghiere del mistico, enigmatici sono i versi dei veri poeti, enigmatici sono, di sovente, i capolavori della musica, della pittura, della grande letteratura e, oserei dire, enigmatica è anche la scienza, là dove essa, abbandonata ogni vocazione all’utilità pratica, diviene indagine rigorosa dell’estremo. Kubrick, per descrivere quell’autentica “crux philosophorum” che è costituita dall’irruzione dell’alterità nei processi di trasformazione - la domanda è, dai tempi di Zenone di Elea, dove finisce l’identico e dove comincia il diverso - impiega l’immagine del monolite nero come un enigma. Il monolite nero innesca l’evoluzione strumentale, che trasforma l’osso dell’australopiteco in astronave dell’homo sapiens, secondo una ricostruzione dell’origine della civiltà che è incentrata sul ruolo “costruttivo” della violenza. Il monolite nero è, poi, ciò che dà avvio al processo di trasformazione dello strumento intelligente, il computer HAL 9000, in uomo, ovvero in ciò che, con Kant, definiamo lo scopo di ogni agire strumentale, ossia di ciò che non si può mai trattare come mezzo, ma sempre come fine. Ritroviamo, in conclusione, il monolite nero all’inizio e al termine dell’ultima metamorfosi, quella dell’uomo in Dio, se così possiamo interpretare quell’enigma degli enigmi che è l’immagine del “feto cosmico” con cui si conclude il film. Il segreto di Kubrick, l’inarrivabile eccellenza di “2001” rispetto ai suoi numerosi epigoni, sta nel non aver costretto l’altro - si chiami quest’“altro” Dio, intelligenza non umana o extraterrestre, o, vuoi anche, morte, dolore e annientamento - ad identificarsi, presentandoci credenziali familiari e tranquillizzanti. Se con l’“Odissea” Omero inaugura l’Occidente come la civiltà di quell’identità che rimane se stessa malgrado tutte le peripezie della differenza - i “mostri” che Ulisse sconfigge -, il capolavoro di Kubrick continuerà ancora a stupirci con le immagini di un futuro metamorfico, in cui l’altro non si annuncia alla porta e chiede di essere ammesso, con i documenti in regola, ma sopraggiunge in noi, e diventato noi, ci trasforma, con tutta la potenza della sua mostruosa e inaudita novità. Non è un caso che l’anno prima dello sbarco sulla luna, fosse il Sessantotto. Sui muri del Boulevard Saint-Michel, a Parigi, al tempo del maggio francese, fra le molte scritte anonime degli studenti asserragliati dentro alla Sorbona, ne campeggiava una che diceva: “lo spirito fa più strada del cuore, ma va meno lontano”. Il bilancio di quegli anni, che per alcuni furono formidabili e che per altri, invece, rappresentarono un’esperienza drammatica e da dimenticare, è forse del tutto racchiuso nel rovesciamento di questa semplice frase. Il cuore del Sessantotto, la sua carica selvaggiamente utopica, quell’idea di rivoluzione permanente dei paradigmi, delle tradizioni e delle istituzioni della cultura e della convivenza sociale, sono andati meno lontani dello spirito del Sessantotto che, anzi, ha finito per configurare numerose mode, abitudini e stili di vita che ancora ci appartengono. Il cuore del Sessantotto pare, oggi, assolutamente non-contemporaneo. Esso riposa, ancora caldo, nella cenere, come il cuore del soldatino di piombo della celebre favola. Se guardiamo, infatti, al tratto comune che riunisce sotto l’etichetta del Sessantotto, le rivolte studentesche dei paesi occidentali e i moti di riforma dei paesi oltre la “cortina di ferro” - da Praga, a Varsavia e Belgrado -, fino alla “rivoluzione culturale” cinese e al movimento di liberazione terzomondista del Che Guevara, noi scorgiamo lo scenario unitario di un’emozione collettiva più che l’identità universale


di un’idea che sarebbe sciocco confinare nella storia del marxismo o di qualsivoglia ideologia politica. Il sentimento comune fu la persuasione, che allora avvicinava, malgrado tutte le differenze, il guerrigliero Vietcong al giovane universitario di Berkeley, la guardia rossa maoista allo studente della primavera di Praga, di poter essere padroni del proprio destino, di liberare il proprio presente dall’oppressione del passato, ovvero dalla sua pigra coazione a ripetere. Il Sessantotto, infatti, al di là di ogni distinzione di campo, appare come l’immane tentativo di un’intera generazione umana di emanciparsi da quell’autorità della storia che si cristallizzava nella gerarchia sociale, nelle istituzioni statali, nella manipolazione politica, nelle forme di consumo, nell’ideologia del partito-Stato dell’Est, nella struttura di consenso dei movimenti politici tradizionali dell’Ovest. Il significato di frattura assoluta del Sessantotto va commisurato sul tentativo titanico di abolire la verticalità della tradizione sostituendola con l’orizzontalità del presente vissuto. Qui i giovani, la fascia d’età compresa fra i sedici e i trent’anni, non rappresentarono più, com’era d’uso in molte agitazioni e ribellioni del passato, un settore particolarmente attivo della protesta, ma l’intera base sociale di essa. Con il Sessantotto, si potrebbe dire, i “giovani” diventano soggetto politico e danno l’assalto al potere. Seguendo le dottrine dei teorici della “società repressiva”, Marcuse e Reich, e della Scuola di Francoforte, Adorno e Horkheimer, il Sessantotto scopre, tuttavia, che il potere non è un oggetto da conquistare, quanto una una prassi, un modo di essere e sogna di poterlo rifiutare. Un’umanità non angosciata e divisa dal potere è forse possibile? Pace, amore e corporeità possono ricondurre la cultura umana ad una nuova e non alienata continuità con la natura? E non è, forse, la fantasia più che la ragione che potrà realizzare questo sogno desto che, come tutti i sogni, è illuminato dalla magica luce dell’astro lunare? La ribellione morale si muta, allora, in separazione, nell’esaltazione della differenza, nella paura dell’“integrazione”, nel manicheismo dei duri e puri, nella tendenza ad allontanarsi dalla società, nella fuga “on the road”, nei paradisi spirituali o artificiali. La sconfitta del cuore del Sessantotto consegnerà la categoria sociologica dei giovani, almeno in Occidente, al ruolo subalterno e marginale che noi tutti, oggi, abbiamo sotto gli occhi, mentre il giovanilismo, il nuovismo e il rilancio legittimante della trasgressione che lì albergavano, depurati dalla calda tragicità dell’elemento rivoluzionario e dalla sincera creatività del sogno desto, diventeranno retorica comune all’intera società. In questo senso lo spirito del Sessantotto, molta parte dei suoi simboli, dei suoi miti e del suo linguaggio - oltre che dei suoi uomini -, sono entrati nella stanza dei bottoni e si son fatti regime, il regime che oggi governa la cosiddetta globalizzazione. Una globalizzazione che non guarda mai il cielo dalla cui altezza, per la prima volta, gli astronauti fecero esperienza sensibile di quella perla verdeazzurra che pure chiamiamo “globo” e che ora essi intendono, dal basso e non diversamente dagli uomini del XIX secolo, come un immane ammasso di merci umane e non umane. Del resto, di fronte al cinismo dello spirito che molti dei leader del mondo mostrano di aver appreso dimenticando la luna e i suoi sogni desti, del cuore utopico del Sessantotto sembra rimanere solo quell’immaturità diffusa che si esprime, troppo spesso, nel frequente ricorso, da parte dei reduci di quella stagione, alla retorica della nostalgia. Ogni epoca ha il futuro che si merita. Non solo perché, banalmente, ogni periodo storico determina, con l’operato e le idee degli individui che lo abitano, il proprio avvenire, ossia ciò che effettivamente accadrà in seguito.


Ma soprattutto in quanto ogni epoca si specchia in un’immagine di futuro che le appartiene: nelle speranze, nei sogni ad occhi aperti di un’intera generazione, ma anche nelle prognosi, nei pronostici, nelle profezie e nelle previsioni che gli uomini incessantemente elaborano su ciò che li attende. Dopo lo sbarco sulla luna, si potrebbe anche sostenere che il futuro previsto ha preso il sopravvento, fino ad estinguere il futuro sognato. Nell’era della scienza e della tecnica, infatti, anche il futuro diviene oggetto di calcolo. La previsione si trasforma in esercizio di esattezza e di precisione. Lo scienziato deve saper già dove il modulo lunare atterrerà prima che il razzo parta o persino prima che venga costruito. Il computer elabora modelli di “futuro virtuale”, anticipando il flusso e la portata delle maree, indicandoci il cammino e l’intensità delle perturbazioni, ma anche i limiti e l’usura di una macchina, il “punto di rottura” di un utensile o di un materiale. “Prevedere” sembra essere il destino della tecnica, inscritto nel suo stesso mito. Nel nome di Prometeo, il Titano che, secondo la mitologia greca, donò agli uomini “indifesi e muti” le tecniche, risuona l’etimologia di “pro-métis”, il “pre-vidente”, ossia “colui che è in grado di vedere il futuro”, “colui che pensa in anticipo”. Il tempo della tecnica è, cioè, strutturalmente proteso verso il futuro nel senso dello scopo, della méta che porta a compimento un’azione, del bersaglio su cui si fissa lo sguardo e si prende la mira. Il tempo della tecnica è il tempo del progetto, che attinge nel recente passato i mezzi per la realizzazione dei fini in un futuro strettamente connesso al presente, perché solo in questo modo si sarà in grado di misurarne l’efficacia e, quindi, la verità. Il futuro della tecnica è, così, un futuro che, malgrado la potenza del calcolo e l’esattezza della previsione, appare assolutamente condizionato dal presente. Anzi, è una sorta di portentosa amplificazione strumentale del presente. Inoltre, il tempo della tecnica introduce nell’idea di futuro un elemento di insopprimibile aleatorietà che si scontra e confligge con il bisogno di esattezza e precisione che essa pure promuove. Per quanto la tecnica moltiplichi esponenzialmente le sue capacità di calcolo e l’efficacia dei suoi strumenti, è nella natura del progetto il fatto che il bersaglio possa essere mancato e lo scopo fallito. Così, attorno al futuro previsto cresce, con le potenzialità distruttive della tecnica, un alone che trasforma il futuro sognato in futuro d’incubo, per cui alziamo lo sguardo verso l’orizzonte più lontano a cui andiamo incontro solo per spiare i segni di una possibile catastrofe. Al progressismo si sostituisce il catastrofismo, a volte neppure così ben “éclairé”, come auspicava Jean-Pierre Dupuy. L’incombenza della catastrofe - ecologica, economica, demografica, culturale, persino siderale, a detta degli astronomi che studiano le orbite prossime di meteore ed asteroidi -, l’inerzia con cui si procede verso di essa, sostituiscono, nell’immaginario collettivo, la fiducia di andare verso un mondo più bello e più giusto, sicché non si agisce per migliorare quello che c’è, bensì solo per salvare il salvabile, ossia per conservare quello che, per adesso, non si è ancora perduto. Oggi, che le azioni del futuro sognato sono in gran ribasso rispetto a quelle del futuro previsto, il futuro è solo addizione e moltiplicazione e la sua positività si misura mediante gli indici d’incremento dell’economia e del PIL globale. Nel futuro non sappiamo più scorgere la pensosa responsabilità della nascita che vincola il padre a non espropriare l’avvenire del figlio. Il futuro-presente della nostra generazione sta ipotecando non solo il presente ma anche il futuro delle generazioni che verranno secondo una modalità che già Kant, nel suo famoso scritto sull’illuminismo, definiva “un crimine


contro la natura umana”. Le grandi utopie sociali che, prolungando lo slancio della fede religiosa, immaginavano la capacità dell’uomo di trasformarsi e di trasformare il modo stesso di vivere insieme, hanno lasciato il posto alla religione surrogata della scienza e della tecnica, che inventa strumenti prodigiosi, ma lascia pur sempre l’uomo com’è, nella sua solitudine, e, per di più, nudo di simboli e di linguaggio. Spesso, anzi, si limita solo a centuplicarne la crudeltà, il potere di far male e di distruggere, schiacciando l’essere umano in quella cosiddetta “naturalità” che, in quanto tale, ossia nel corso della sua storia di animale simbolico, egli non ha mai avuto. “Come vorresti che fosse il futuro?” s’interrogava, prima della crisi globale che è davanti ai nostri occhi, la presuntuosa pubblicità di un’azienda di quella “new economy” che intendeva vendere anche il futuro come se fossero azioni e quotava in borsa “the next thing”, la “prossima cosa”. “Certo non come lo volete voi!”, era, ora come allora, l’unica risposta possibile, l’unica risposta ad avere un futuro. Così, se oggi Astolfo tornasse sulla luna, in quell’immenso emporio di oggetti desueti e di speranze rottamate troverebbe, accanto alla piattaforma del LEM, anche l’ingenuità della fiducia in una scienza e in una tecnica al servizio dell’immaginazione dell’uomo, l’incontraddittorio convegno della ragione calcolatrice di Fermat e di Einstein e dell’avventura che spinse Colombo a salpare verso l’ignoto e Hillary a sfidare la vetta dell’Everest, la splendida aspettativa che “utopia”, lungi dall’essere la terrestre “never never land” dei Peter Pan, ovvero dei bambini che non vogliono crescere, potesse essere il nome di uno spazio amico. Di un cosmo-casa in cui l’animale visionario che alberga nell’uomo, invece di provare angoscia, come quel Pascal che si sentiva smarrito nell’immensa solitudine dello spazio, trovasse patria e dimora. La luna, infatti, significava per la scienza avviarsi lungo la macroscala dei pianeti, dei sistemi stellari e delle galassie, avanzare nella conoscenza dell’infinitamente grande, mentre oggi, con il senno di poi, quel maestoso movimento di espansione è come imploso nell’infinitamente piccolo, nel microcosmo cellulare della genetica o nei microchips della virtualità dei computer, dove si giocano le nuove frontiere del sapere, quasi ignorando quel “cielo stellato sopra di me” che Kant paragonava alla maestosa dignità della legge morale che abita in ciascuno di noi. Ma la terra vista dalla luna è stata anche una grande occasione per invertire una buona volta la scala d’importanza con cui valutare i nostri “umani troppo umani” problemi, adottando lo sguardo disincantato del Micromegas di Voltaire, ossia di quell’illuminista celeste che rapportava alla misura degli spazi interstellari le miserevoli beghe terragne di monarchi, preti e mercanti. Oggi, gli storici che ridimensionano il significato dell’impresa lunare, collocandola nel quadro di sfida della guerra fredda come una troppo costosa “spettacolarizzazione” del “grande duello” fra USA e URSS – “ventiquattro miliardi di dollari per venticinque chili di pietre lunari” -, riprendono nuovamente la miserabile unità di misura del piccolo pianeta, globalizzato dai ragionieri e dai banchieri, e sbeffeggiano i lirici e sovrumani obiettivi di quello che, un po’ troppo ampollosamente, era stato celebrato come l’inizio dell’“era spaziale”. Eppure quella targa posata da Aldrin ed Armstrong sulla superficie sassosa del Mare della Tranquillità – “Qui gli uomini del pianeta Terra hanno per la prima volta raggiunto la Luna. Luglio 1969 A.D. Siamo venuti in


pace a nome di tutta l’umanità” - non era solo propaganda. Rappresentava, piuttosto, un programma e una conseguenza. Di quel programma già Nietzsche aveva enunciato lo slogan, “siate fedeli alla terra”. Ora quello slogan diventava un nuovo modo di vedere. Quel vedere che gli astronauti avevano restituito al globo, abbracciandolo per la prima volta, per intero, con un unico sguardo e in nome di un’unica gente, “gli uomini del pianeta Terra” e che, quarant’anni dopo, si dovrebbe certo correggere, dando voce e testimonianza anche a tutti gli altri esseri viventi che popolano quella lontana perla verdeazzurra che si vede dalla luna, con un assai meno specista, “gli abitanti del pianeta Terra”.


Enrico Berlinguer: alla ricerca, oggi, di una politica pulita, alta, utile di Walter Tocci*

Parlando di Berlinguer bisogna aggrapparsi alla sedia per resistere ai sentimenti che ci portano via dal discorso. Occorre rimanere svegli per non farsi incantare dalla memoria ingannatrice che dei tempi andati nasconde sempre gli affanni e riporta alla luce solo le passioni. Ecco la difficoltà: non farsi prendere dalla nostalgia, rimanere all’oggi, ai nostri compiti e alle nostre responsabilità. Perché siamo qui a parlare di Berlinguer? È lui che viene a noi o siamo noi che andiamo verso di lui? I due movimenti coesistono. C’è una pienezza di Berlinguer che trabocca il suo tempo e arriva a noi e ci rinfresca. C’è una penuria nostra che spinge a ricordare, a fare esodo dal nostro tempo, come il nomade che cerca l’acqua nel deserto. Allora la domanda diventa più precisa. Perché proprio oggi parliamo di Ber-


linguer? Nei primi dieci anni dopo la sua morte fu dimenticato, anzi il suo ricordo venne rimosso. Poi, lentamente crebbe di intensità fino a questo Venticinquesimo ricco di celebrazioni. Un quarto di secolo ci divide da lui. È accaduto di tutto: il Novecento è finito, il comunismo ha fallito, i partiti che fecero la Repubblica sono stati travolti. Proprio perché quel suo mondo non esiste più, la sua figura si ingigantisce. Un gigante, nani quelli venuti dopo di lui. Eppure, bisogna ricordarlo sinceramente, le sue strategie politiche, il compromesso storico e l’alternativa democratica, furono entrambe sconfitte. Qualsiasi uomo politico sarebbe stato dimenticato in seguito a quel doppio smacco e invece siamo qui a parlarne. Perfino nel suo stile c’era qualcosa che andava oltre. Mi è capitato in questi giorni di rileggere i suoi discorsi che suscitano sempre riflessioni razionali, poi però capita di vedere un video con la sua voce e il suo volto e allora il fascino della persona vince su tutto il resto. C’è un di più di Berlinguer, c’è una persona che va oltre il suo pensiero, va oltre la sua opera, va oltre il suo tempo. Rubo le parole a Mario Tronti per spiegarmi meglio: «Si conoscono bene solo gli uomini che non sono niente di diverso da quello che appaiono. Per chi possiede un di più di vita interiore la comprensione è lenta e lunga, e soprattutto postuma». Questo di più è l’alterità di Berlinguer. Sì, la parola appropriata è «alterità», l’unica in grado di rompere gli stereotipi che gli sono stati attribuiti. Alterità è infatti l’opposto di identità. Se la sua memoria fosse ridotta a una statua dell’identità comunista sarebbe già stata travolta dalla storia. Alterità non è neppure da confondersi con diversità. La diversità è una mera contrapposizione all’altro. L’alterità è andare oltre, è trascendere l’altro. Per questo rimane attuale oltre il suo tempo. Infine, l’alterità spiega anche la persona, con il doppio senso della parola che significa anche fierezza e coglie quel senso di nobiltà del suo tratto umano. L’alterità è la dimensione in cui vibrano come un diapason quei termini apparentemente antitetici che caratterizzano lo stile e gli ideali di Berlinguer: italiano e antitaliano; politico e, si direbbe oggi, antipolitico; rivoluzionario e conservatore; aristocratico e popolare; comunista e democratico; utopista e realista. Questa forza morale e politica supera il suo tempo e viene verso di noi. Rimane da capire l’altro movimento che porta noi verso il suo ricordo. Che cosa ci manca? Che cosa cerchiamo? Cerchiamo la politica come l’intendeva Berlinguer. Cerchiamo la politica pulita, alta, utile. Qui si inserisce la «questione morale» di cui parla il titolo di questo convegno. Per Berlinguer essa non è solo una questione riguardante lo Stato e le sue regole, non è solo un tema cruciale per tutelare i diritti dei cittadini, ma è prima di tutto una condizione di possibilità della politica. Per molti della mia generazione fu importante non solo la famosa intervista a Scalfari, ma in particolare un saggio che pubblicò nel dicembre 1982 su «Rinascita», Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci, nel quale indicava la questione morale come «la premessa indispensabile per poter riavviare qualcosa di serio, di pulito, di nuovo nella vita politica italiana» e poi aggiungeva una frase che oggi noi faticheremmo a pronunciare «e noi sentiamo l’orgoglio di rappresentare questa speranza per il popolo e per la nazione». Noi, militanti ed elettori di sinistra, cerchiamo da tanto tempo questa politica pulita, alta e utile. Da quando Berlinguer non c’è più abbiamo faticato a trovarla. Talvolta un evento ci dava l’impressione di essere vicini alla meta, ma poi si rivelava una delusione. Così fu nell’Ottantanove con la svolta,


quando sia i favorevoli sia i contrari credettero, pur con obiettivi diversi, di aver trovato un nuovo modo di fare politica, ma presto si accorsero di aver conservato tutti i difetti del vecchio partito e di averne smarrito rapidamente le virtù. E poi nel ’96 con le belle bandiere dell’Ulivo, ben presto ammainate a causa delle lotte di potere nello stato maggiore. E infine nelle primarie di Prodi e di Veltroni, ben presto oscurate da un ceto politico autoreferenziale. Dopo Berlinguer sono state tante le speranze deluse. L’elettorato di sinistra è come una carovana nel deserto, ogni tanto crede di trovare dietro quella duna un corso d’acqua, ma quando arriva sul posto lo trova secco. Per questo la carovana si è sfiancata, si è sfilacciata; ma ha dovuto anche aguzzare l’ingegno, si è abituata a fare da sola, senza guide sicure. La risorsa migliore della sinistra italiana è il suo elettorato intelligente ed esigente. Spesso ha risolto la partita già persa dai suoi leader. Salvò la Costituzione nel 2006 mentre molti politici cincischiavano con le riforme istituzionali. Poi portò 19 milioni di voti nonostante la campagna elettorale tafaziana dei suoi capi. Infine, ha dimostrato di credere al Partito democratico più del ceto politico che pure l’ha promosso. E anche stavolta ha detto cose chiare: ha premiato i candidati più freschi, mostrandosi freddo verso quelli più consumati. Soprattutto ci ha fatto mancare i voti nelle città dove i nostri amministratori avevano dato il cattivo esempio. Dispiace sempre perdere i voti, ma mettiamola così, in quei casi è anche una fortuna. Significa che il nostro elettorato non è rassegnato, ci chiede pulizia, continua a indignarsi per la questione morale, è esigente con i suoi candidati. Questa severità degli elettori dobbiamo considerarla una fortuna per la sinistra. È una risorsa per la sua politica. Al contrario, per la destra è una debolezza, non una forza, che i suoi candidati aumentino le preferenze quando compiono le malefatte, proprio come accade al suo capo indiscusso. Verrà giorno in cui la destra italiana si renderà conto di quanti prezzi ha dovuto pagare per essersi messa nelle mani di un impostore. C’è una forza civile dell’elettorato di sinistra che sposterebbe le montagne se ci fosse un partito capace di organizzarla. Vincerebbe anche le battaglie più difficili, perfino quella della sicurezza che sembra ineluttabilmente portare a destra. Oggi con il voto di fiducia è stata approvata la legge sulle intercettazioni telefoniche. Per nascondere le relazioni pericolose di Berlusconi si lasciano a piede libero migliaia di delinquenti. Dovremmo lavorare solo su questo nelle prossime settimane, chiedendo aiuto alla nostra gente per chiarire il problema a tutti gli italiani e per demolire con un colpo solo tutta la propaganda della destra sulla sicurezza. Nel contempo dobbiamo dire ad alta voce che l’Italia è un Paese civile, che la democrazia qui ci è costata sangue, che è intollerabile negare l’assistenza sanitaria o l’istruzione a una persona solo perché è senza permesso o strappare il figlio dalle braccia di una madre solo perché non ha un certificato in tasca. La destra ha vinto in economia, in politica e nella comunicazione e oggi punta a vincere nel senso comune, nella volgarizzazione della vita pubblica e nella limitazione dei diritti. È in gioco non solo l’amministrazione della cosa pubblica, ma il rango civile dell’Italia del futuro. La sinistra non sempre ha accettato la sfida sul terreno culturale, ha ritenuto ormai consolidato il primato dei valori democratici, talvolta ha rimosso il pericolo e qualcuno è anche corso a dare ragione agli avversari. Certo che poi i sondaggi danno ragione a loro. Dobbiamo raccogliere il guanto di sfida per la qualità della nostra democrazia. Ma questa battaglia non si fa a suon di comunicati stampa e


talk show, si può vincerla solo utilizzando l’asso nella manica, coinvolgendo appieno la forza civile del nostro elettorato. Molti elettori sarebbero ben felici di corrispondere alla richiesta di aiuto, di non ricevere solo appelli alla mobilitazione contro il pericolo Berlusconi a ridosso delle elezioni, ma di essere impegnati tutti i giorni in un’azione politica e culturale per prosciugare l’area di consenso della peggiore destra europea. Per questo ci vuole un partito vero. Quale? Certo non quello dei sondaggi, delle preferenze e dei personalismi. Serve un partito che contribuisca a organizzare la democrazia. E qui torna in mente Berlinguer quando invitava, nello stesso articolo di «Rinascita», a rinnovare il suo partito per farne un’organizzazione «a diretto contatto con la gente per aiutarla e ragionare, a organizzarsi, e a lottare». Poteva sembrare inutile quell’appello rivolto a un partito di massa che si poteva ritenere già possedesse quelle qualità. Perché allora insistere su questo da parte del Segretario? Perché addirittura usare quella parola «gente» oggi usurpata dalla destra? Perché la sottolineatura di un partito che «aiuta» a organizzare e non fa tutto da solo? Berlinguer avvertiva la fine dei partiti come organizzatori della democrazia. Con la questione morale denunciava le distorsioni degli altri, ma il vigore della denuncia era rivolto anche all’interno del Pci dei primi anni Ottanta, dove cominciavano a sentirsi i primi scricchiolii. Egli voleva salvare il suo partito dal declino dei partiti che avevano fatto la Costituzione. Presagiva con lucidità la crisi storica della Prima Repubblica. Solo un altro uomo politico italiano, da un’altra sponda ebbe una percezione altrettanto lucida delle conseguenze che ne sarebbero scaturite: era Aldo Moro. Ci vorrebbe la forza storiografica di un Plutarco per scrivere le biografie parallele di Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Entrambi capirono in anticipo che la fine dei vecchi partiti avrebbe creato una frattura tra popolo e classi dirigenti e che ciò avrebbe reso ancora più «difficile», per usare un termine moroteo, la democrazia italiana, che tutto ciò avrebbe riesumato una debolezza storica della statualità italiana, formatasi nel Risorgimento e anche prima, rispetto alla quale il primo trentennio repubblicano, oggi si vede più chiaramente, è stato una positiva parentesi. Sono stati due profeti. È andata proprio così. La terza fase di Moro e la seconda tappa della rivoluzione democratica di Berlinguer sono rimaste profezie sconfitte, questo è il filo interpretativo per comprendere la vicenda italiana, come ha sottolineato Alfredo Reichlin nella commemorazione alla Camera dei deputati. A causa di quelle sconfitte la frattura tra popolo e classi dirigenti è rimasta irrisolta per un trentennio e si è addirittura allargata ai giorni nostri. Con una differenza fondamentale, però: la destra ha trovato il modo per ricomporla mediante il cortocircuito tra l’imperatore e i sudditi, il populismo di Berlusconi. Alla sinistra invece è risultata fatale la mancanza di un partito vero. Qui è il punto più esposto alla nostalgia e ci vuole maggiore cautela per non cadervi. Sono irripetibili i vecchi partiti di massa. Quel modello funzionava nelle determinate condizioni storiche e sociali del dopoguerra, ma oggi è tutto diverso. Il vuoto è stato riempito da una forma spuria di partiti, cresciuta lentamente e quasi inconsapevolmente, senza che se ne parlasse in qualche congresso. Non è stata descritta in modo approfondito dalla pubblicistica corrente e perfino l’analisi politologica ne ha dato un’interpretazione generica con la formula del partito-pigliatutto. Dovremmo andare più in profondità per capire cosa sono diventati realmente i partiti, quanto questa stessa parola sia diventata fuorviante poiché allude al vecchio modello pur denotando una realtà quasi opposta.


La forma dei partiti ormai assomiglia all’organizzazione in franchising delle reti di vendita delle agenzie immobiliari. Entrando in un negozio di Tecnocasa o di Toscano si tratta con un rivenditore locale, ma si ha l’impressione di entrare in contatto con un’azienda nazionale più affidabile. Anche i partiti in franchising sono tenuti insieme dal simbolo e da leader televisivi, pur essendo ormai costituiti da notabili locali dotati di una forza elettorale personale che spesso trasportano da una lista elettorale all’altra. Questa forma politica costituisce il brodo di coltura per la questione morale. Ma, anche se non ci fosse il malaffare, essa sarebbe comunque devastante per i compiti e le responsabilità della sinistra. I partiti in franchising sono adatti ad attrarre clienti, non i cittadini; curano lo scambio locale, ma rimangono indifferenti ai progetti politici; mantengono il ceto politico, non selezionano la classe dirigente. Tale forma ha sostituito il vecchio partito di massa e si è consolidata con la lunga mutazione del trentennio. Per la prima volta con le primarie è apparsa all’orizzonte una soluzione diversa al problema. Sono state confuse con una mera procedura elettorale e invece costituivano un paradigma per ripensare in termini moderni una forza politica a insediamento popolare, l’unico possibile dopo il Novecento e in una società frammentata. A quei tre milioni e mezzo di cittadini che avevano mostrato la disponibilità a spendere un’ora del proprio tempo bisognava dire dopo poche settimane a quale porta dovevano bussare, quale telefono chiamare, quale militante cercare e invece si sono perfino smarriti gli elenchi. Il Partito democratico poteva essere come un’enorme banca del tempo in cui il cittadino investe un’ora e ottiene in cambio una politica per il futuro civile del Paese. Sarebbe stata un’esperienza nuova di partecipazione politica, ma comportava lo smantellamento del partito in franchising e non c’è stata la forza o la volontà di farlo. Il Pd ha perso milioni di voti perché ha salvaguardato i suoi notabilati e ha mortificato il popolo delle primarie. Ma non c’è soluzione se non si riparte da lì. Il partito dei tre milioni di sostenitori è l’unica via per ricostruire nell’Italia di oggi una forma inedita di forza politica popolare. Questa è anzi la risposta che possiamo dare al problema che assillava Berlinguer dei partiti organizzatori della democrazia. Attenzione, il problema è lo stesso, ma la soluzione è diversa, le scelte sono nostre e non possiamo metterle sulle spalle di Berlinguer. C’è una cesura storico-politica tra il vecchio partito di massa e il moderno partito democratico e possiamo indicarla con un’immagine. Nei primi trent’anni della Repubblica l’Italia è salita sul tetto della democrazia passando per la scala esterna delle grandi ideologie novecentesche. Siamo diventati democratici passando per essere comunisti, socialisti e democristiani. Nei secondi trent’anni non siamo mai riusciti a passare per la scala interna di una matura democrazia costituita da regole condivise, dalla qualità dello Stato, da istituzioni solide, dalla diffusione della cultura civile. Su questa mancanza è cresciuto il berlusconismo, apparendo come l’unica soluzione in campo. La democrazia lascia liberi anche i suoi nemici di organizzarsi. Molti dittatori hanno vinto inizialmente con regole democratiche. Ma allo stesso tempo la democrazia coltiva le risorse per la propria crescita. E la sua qualità è il risultato di questo tiro alla fune tra forze contrapposte. Negli anni Berlinguer un grande saggio come Norberto Bobbio definiva una promessa non mantenuta della democrazia proprio l’incipiente difficoltà di autorigenerarsi. Per risolvere questo problema storico-politico della Repubblica avevamo fondato il Partito democratico. Perché lo abbiamo chiamato «democratico»? Perché non avevamo altro da dire? Perché volevamo solo delimitare il campo postideologico? No, il ter-


mine «democratico» ha un significato costruttivo in quanto si propone di migliorare la qualità della democrazia italiana, cioè di trovare le scale interne per il suo innalzamento, di saper coltivare le risorse per la sua crescita. Non ci siamo ancora riusciti, dopo le sconfitte sembra anzi quasi impossibile, ma rimane una necessità per l’Italia. La nuda necessità può vincere sull’apparente impossibilità. È ancora nelle nostre mani il futuro del Pd. È il tema del prossimo congresso. Sarebbe stato preso per pazzo colui che avesse detto, non più di due anni fa, a un democratico americano che il suo presidente sarebbe andato a Il Cairo a dire che «l’Islam è parte integrante dell’America». Eppure, come si vede oggi era una profonda necessità degli Usa. Da quando Berlinguer non c’è più, gli elettori di sinistra sono spesso andati a votare con una certa insoddisfazione, tranne alcune belle eccezioni, si sono dovuti mobilitare più per sventare pericoli che per sostenere un progetto. Questa condizione esistenziale è stata rappresentata nel film di Riondino, lo abbiamo visto all’inizio del convegno, con l’immagine surreale di Berlinguer che piange, ma poi subito dopo nel video c’è quella scena, nella quale risponde a un’intervista di Minoli confessando quanto lo disturba l’attributo di uomo triste e nel dirlo prorompe in un sorriso timido e improvviso, l’immagine più cara di lui che conservano quelli della mia generazione. Ci vorrebbe un partito capace di suscitare anche nell’elettorato di sinistra quell’improvviso sorriso. ! * * Intervento al convegno «Questione morale oggi» organizzato all’Auditorium di via Rieti, Roma, 11 giugno 2009. In collaborazione con la rivista Argomenti umani diretta da Andrea Margheri


Recensioni

Andrea Tagliapietra, La metafora della specchio. Lineamenti per una storia simbolica, Bollati Boringhieri, Torino 2008 di Raffaele Ariano

Al di là e al di sotto della sua quotidiana ed usata familiarità, l’esperienza dello specchio reca in sé il carattere ambiguo dell’enigma. Riflettendo gli oggetti del mondo, gli specchi mostrano sensibilmente la possibilità della loro adeguata rappresentazione, ma pongono al contempo l’interrogativo circa la differenza tra originale e copia, mettendo perciò in questione quella veridicità che il referto dei sensi pareva inizialmente mostrare come indubitabile. Riflettendo le nostre sembianze ci concedono, rivelando quell’immagine che pur ci appartiene, ma che non potremmo mai scorgere altrimenti, una presa su di noi che è conoscenza e dominio, un chiudersi di quel cerchio che noi stessi siamo; ma è sempre aperta la possibilità che a mostrarsi nel nostro doppio riflesso sia un tratto di noi, del nostro volto, delle nostre movenze, che contrasta irrimediabilmente con quanto concepiamo di noi stessi, rivelando che oltre ogni possibilità di controllo sta l’immagine che gli altri hanno di noi. L’uso dello specchio rinvia insomma da un lato alla possibilità di una adeguata duplicazione del mondo, quale è quella che avviene nella riflessione degli oggetti, dall’altro alla possibilità di includere nel mondo l’osservatore stesso, ossia quel principio prospettico che istituisce il mondo come tale. Non deve perciò stupire la straordinaria importanza avuta dalla metafora dello specchio nella parabola della cultura occidentale, che di volta in volta ha associato all’oggetto riflettente figure chiave del pensiero filosofico come quelle dello Stesso e dell’Altro, dell’Identità e della Differenza, della Verità e dell’Illusione, del Tutto e del Nulla, della conoscenza e dell’autocoscienza. Di questa storia simbolica dello specchio Andrea Tagliapietra dà conto in questo testo, edito per la prima volta nel


1991, di cui recensiamo qui la seconda edizione, riveduta, corretta ed ampliata di due appendici che sviluppano le tematiche trattate, mostrandone la relazione con i lavori successivi dell’autore. L’approccio qui adottato è quello della storia delle idee che, prendendo fino in fondo sul serio la questione dell’influenza, cerca di cogliere il movimento filosofico non solo nella tradizione testuale che usualmente rubrichiamo sotto il nome di “filosofia”, ma in tutte quelle forme dell’espressione e del pensiero umano – un tempo si sarebbe detto “dello spirito” – che le usuali partizioni disciplinari finirebbero per separare tra loro, sclerotizzandole e impedendo perciò di comprendere in quale modo esse vadano a formare dei sistemi di pensiero. Parlando di sistemi di pensiero non si vuole alludere però ad una concezione olistica degli stessi, come se le parti che li compongono formassero delle totalità chiuse ed impossibili da scardinare. Al contrario, appartiene all’eclettismo della storia delle idee quello sguardo obliquo e decentrato sui tradizionali concetti della filosofia che mira a decostruirli partendo dalle esigenze multiformi e dinamiche che li hanno prodotti, rendendo perciò eventualmente possibile il loro stesso rovesciamento e il loro riutilizzo decontestualizzato. Il modus operandi seguito non separa mai, perciò, fino in fondo il momento dell’analisi storica da quello dell’elaborazione teorica, pur tenendo costantemente presenti dinnanzi a sé l’accuratezza filologica e il rispetto per il testo come ideali regolativi. Strumento precipuo di quest’opera, tanto utile quanto insidiosa, di trascendimento delle partizioni disciplinari canoniche è, appunto, l’analisi metaforologica. La metafora, facendo venire a contatto significati che appartengono ad aree semantiche eterogenee tra loro, è il linguaggio nella sua più scoperta componente dinamica e creativa ed è perciò ambito di quell’inconcettuale – di quel non ancora concetto e di quel substrato del concetto – il cui studio permette di gettare luce sul mondo della vita, che, come scriveva Blumenberg, è “sostegno motivazionale di ogni teoria” e ben si lascia esprimere in simboli ed immagini che circolano liberamente tanto nella filosofia quanto nel mito, nella religione, nella pittura e nella letteratura. Se, come Tagliapietra sostiene ricordando la lezione di Derrida, “l’intera sfera della visione e della luce è chiamata in causa, in quanto referente metaforico, nell’edificazione della metafisica occidentale”(p. 113), addensare lo sguardo su una metafora come quella dell’oggetto riflettente non significherà soltanto soddisfare una curiosità erudita, ma cogliere in azione uno dei meccanismi di senso più antichi ed efficaci del pensiero filosofico. La metafora dello specchio prende avvio dall’analisi di quel fondamentale fenomeno di passaggio che in seno alla cultura greca ha condotto, attraverso il radicale ripensamento platonico del vocabolario dell’imitazione e dell’immagine, alla fuoriuscita dall’orizzonte tradizionale del mito e all’instaurazione di quello ontologico della filosofia. In un’accurata analisi che occupa i primi quattro capitoli del suo studio, Tagliapietra mostra come l’esperienza greca dell’alterità sia originariamente custodita in tre miti che ruotano eminentemente intorno alla figura dello specchio: quelli di Narciso, Medusa e Dioniso. Il primo è incentrato, come noto, sul personaggio di un magnifico ed altero fanciullo che, dopo aver rifiutato l’amore di tutti coloro che gliel’hanno offerto – tra di loro, in una delle versioni del mito, la ninfa Eco – è destinato ad innamorarsi senza saperlo della propria immagine riflessa in uno specchio d’acqua. Nell’esito tragico di questo amore impossibile, Tagliapietra scorge una precisa configurazione del rapporto tra il Sé e l’Altro: il rifiuto dell’apertura all’alterità, rappresentato, in tutte le varianti del mito, dal diniego opposto da Narciso ai suoi pretendenti, conduce allo scacco inevitabile dell’amore per un Altro irraggiungibile ed illusorio, che non è in realtà nulla se non l’inconsapevole reiterazione del Medesimo, e cioè di un Sé non saputo come tale. Senza l’apertura all’Altro, ci racconta forse la saggezza del mito di Narciso, è insomma impossibile quell’auto-riconoscimento che è indispensabile alla costituzione stessa della nostra identità. Nel secondo mito, invece, Medusa è chiamata a rappresentare simbolicamente l’alterità assoluta ed indicibile della morte e, nei limiti dell’orizzonte pre-ontologico del mito, del nulla.


La vista orribile di Medusa è insostenibile, pietrificante, ed è perciò necessario mettere in atto dinnanzi ad essa un meccanismo di interdizione/differimento dello sguardo che permetta di fronteggiarla senza esserne sopraffatti. Ecco perciò che ritorna lo specchio, questa volta nella sostanza del lucido scudo di Perseo, sul quale l’eroe può scrutare il riflesso del mostro senza incrociarne mai lo sguardo pietrificante. Infine, il mito dello specchio di Dioniso, nel quale il dio-fanciullo, prima di venire dilaniato dai Titani, si guarda e vede riflesso non il suo volto, ma il cosmo. Il riflesso non mostra qui né l’identico né l’assolutamente differente, bensì l’originaria compresenza e co-implicazione di identità e differenza, di totalità e parte, di medesimezza ed alterità. Nello specchio, Dioniso vede la totalità cosmica, eppure essa non è altro da quell’individuazione della totalità che egli stesso è. Dioniso, dio del gioco, dell’ebbrezza e del teatro, rappresenta, secondo la feconda intuizione nietzscheana della Nascita della tragedia, l’ambito mitico e cultuale di un’esperienza dell’alterità in cui la morte e la contraddizione non vengono differite, come avveniva nel mito dello specchio di Medusa, né redirette, come avviene secondo il Girard de La violenza e il sacro nel rito sacrificale, ma accolte ed accettate attraverso la rappresentazione drammatica. Dioniso è insomma il dio della mìmêsis teatrale, nella quale l’esperienza dell’alterità passa attraverso un costante farsialtro di ciascuno, un uscire da sé, un divenire stranieri a se medesimi che permette l’instaurazione di uno spazio sociale basato sull’accoglimento dell’alterità in noi, nella consapevolezza che ogni identità è originariamente rifratta dallo sguardo altrui – è questa l’essenza rispecchiante dell’uomo su cui Tagliapietra torna nell’appendice dedicata, non a caso, a William Shakespeare. La risistemazione platonica del vocabolario dell’immagine, incentrata in più di un’occorrenza sulla metaforica dello specchio, mirerà proprio a ridefinire questo concetto della mìmêsis, approdando, secondo Tagliapietra, a quel meccanismo tipico della metafisica occidentale in cui la fondazione dell’Identico è basata sulla rimozione del Differente, in cui l’Altro, narcisisticamente, è lasciato essere tutt’al più come mera emanazione del Medesimo. Allo specchio di Dioniso, nel quale si riflettono i personaggi, le azioni, il dramma, Platone identifica surrettiziamente quello del sofista che, “fatto girare da ogni lato”, sa riprodurre fedelmente, ma illusoriamente, le immagini degli oggetti verso cui è rivolto. Attraverso un nuovo utilizzo della metafora dello specchio, Platone sostituisce ad una figura diadica della mìmêsis, tipica di quell’uscire da sé per divenire il proprio altro che è caratteristico dell’esperienza teatrale, una figura triadica, nella quale è installato il ruolo di uno spettatore “distaccato”, dinnanzi a cui la mìmêsis diviene questione nient’altro che della adeguata riproduzione di “enti”. In virtù di questo dispositivo, l’imitazione riceve su di sé il marchio del decadimento ontologico, giustificando perciò quell’interdetto del logos filosofico che conduce all’espulsione dei poeti dalla città ideale. L’atto di fondazione dell’estetica occidentale perciò, con la sua “ghettizzazione filosofica dell’arte”, ruota emblematicamente attorno alla metafora dello specchio e alla riqualificazione della mìmêsis come luogo dell’illusione e della falsa apparenza. Scrive Tagliapietra che la ridefinizione platonica del vocabolario dell’immagine “mette in scena la rimozione, l’esclusione di alcuni visibili, ossia le immagini oniriche, i presagi, le «seduzione teatrali» dell’arte – in una parola, le «illusioni» –, per poter affermare la legittimità di un campo ristretto della visione, dove, tuttavia, i garanti, i paradigmi di questa visibilità autorizzata, sono dei «visibili» (idéai) del tutto sottratti alla vista […] e quel principio assoluto della visibilità che l’astuta metafora della Repubblica paragonerà ad un «sole invisibile» – vale a dire alla luce che non si vede, ma che fa vedere”(p. 149). Dopo aver analizzato, nel quinto capitolo, quei “paradigmi della visibilità” cui è legata l’impostazione stessa della struttura metafisica, mostrando che tutte le più importanti teorie della visione dell’Antichità dipendono dal modello teorico dello specchio, Tagliapietra dedica un capitolo al pensiero di Plotino, nel quale la metafora dell’oggetto riflettente ha ancora una volta una funzione essenziale. Si mostra infatti nelle Enneadi l’esigenza di una duplice radicalizzazione del dispositivo metafisico di Platone: da un lato, la posizione di un identico che sia realmente tale obbliga ad


affermare l’assoluta trascendenza del Principio, di quell’Uno al di là dell’essere e dell’intelletto del quale non si potrà parlare che per “metafore assolute”; dall’altro, l’esigenza di escludere definitivamente ed assolutamente quell’Altro che, seppur come rimosso, continuava a minacciare dall’interno la metafisica platonica, costringe alla ricerca di una via che permetta di eliminare ogni residuale corporeità della materia, estrema emanazione dell’Uno, affermandone fino in fondo la pura e semplice ricettività. È in questo senso che Plotino paragona la materia ad uno “specchio invisibile”, che si mostra ed anzi esiste solo in virtù delle forme che si riflettono su di esso; forme che d’altra parte traggono a loro volta l’intera esistenza unicamente da ciò di cui sono il riflesso. Nel settimo e nell’ottavo capitolo del suo studio, Tagliapietra dedica invece la sua attenzione alle Scritture, mostrando come la figura catottrica accenni in esse ad un pensiero dell’alterità che dischiude a tutti gli effetti la possibilità di una via differente da quella percorsa dall’asse “totalitario” dominante nel pensiero occidentale. Un passo dell’Esodo che connette lo specchio alle figure del dono e della femminilità consente a Tagliapietra di richiamare le analisi levinasiane sul femminile ebraico, inteso dal filosofo francese come luogo di una esperienza del rapporto coniugale del tutto alternativa a quella concettualizzata per la prima volta dalla filosofia greca. L’esempio dell’erotica platonica, perfettamente espresso dal mito aristofanesco del Simposio, dà la chiara dimensione di una concezione del rapporto di coppia in cui alla dualità e alla differenza degli amanti è fatta precedere l’unità metafisica originaria dalla quale essi sono decaduti e alla quale desiderano disperatamente fare ritorno. Nell’erotica filosofica, i due amanti si rapportano infatti tra loro come le parti imperfette di una totalità, secondo la stessa dinamica oppositiva ed escludente che caratterizza la relazione logica tra “due specie dello stesso genere”. Essi si specchiano l’uno nell’altro, ma il loro fine autentico è, deve essere, quello di trascendere, nella dissoluzione chenotica delle immagini riflesse, la duale corporeità che li costituisce, per ascendere infine all’unità originaria ed incorporea dell’idea. In fondo, pur in un contesto apertamente alternativo a quello di Platone, che cos’è il piacere puro per l’epicureismo, si chiede Tagliapietra, se non l’analogo dell’idea platonica e, per suo mezzo, dell’Essere parmenideo? A ben guardare, ne presenta gli stessi caratteri: immobile, sganciato dal flusso del divenire, non può diminuire od aumentare giacché, come l’idea, si colloca nel luogo dell’Identità, fuori da ogni rapporto. Scrive Tagliapietra: “al centro dell’epicureismo […] l’Altro è assente. Ogni uomo è sempre solo col proprio piacere e la presenza del piacere dell’Altro è inavvertibile oppure soltanto strumentale: si vuole il godimento dell’Altro poiché esso, in qualche modo, assicura il proprio”(p.157). Non così nella cultura ebraica, nella quale il rapporto erotico si coniuga immediatamente al duale, secondo un esperienza dell’Altro orientata eminentemente alla preservazione della sua sostanziale irriducibilità. Ciò è possibile appunto in virtù di quel “mistero” del femminile che, secondo l’autore, si dà nella figura del pudore, e cioè nell’atto di un sottrarsi, di un nascondersi, “che tuttavia non è un negarsi”(p. 206). Ma forse nella Sapienza biblica, ipotizza Tagliapietra, il pudore ha una importanza ancora più generale. È ad esso infatti che è improntata l’intera relazione tra l’umano e il divino. Vi è un tratto fondamentale della religione ebraica la cui importanza rimane inalterata anche nell’orizzonte neotestamentario: l’istanza anti-idolatrica. Il Dio dei giudei si mostra sempre di spalle, il suo volto non può essere visto neanche da Mosè, che pure è stato scelto per mediare tra Dio e il popolo eletto, giacché nessuno che l’abbia fatto potrà restare in vita. La letteratura rabbinica sviluppa, com’è noto, il tema del nome innominabile di Dio, approdando a quel Tetragramma la cui impronunciabilità è espressione, secondo l’autore de La metafora dello specchio, dell’irrappresentabilità stessa di Dio. L’episodio del vitello d’oro e l’intera polemica anti-idolatrica delle Scritture possono essere interpretati appunto come una condanna della superbia di chi vuole rappresentare l’irrappresentabile, di chi cerca di ricondurre violentemente la trascendenza di Dio alla figura determinata dell’idolo. Se il Dio biblico è irrappresentabile, è altresì vero però che esso si è rivelato e che nella Genesi sta scritto che l’uomo fu creato a sua “immagine e


somiglianza”. Questa apparente contraddizione può essere sciolta solo se si sa tracciare in modo netto la differenza tra i due concetti di idolo e icona. L’idolo cerca di tradurre il divino nella determinatezza segnica della rappresentazione; l’icona, al contrario, testimonia il Dio invisibile mantenendone l’invisibilità, lasciandolo essere come Altro. È in un luogo così cruciale che ritorna la metafora dello specchio. Se Dio non può essere visto in faccia, lo si potrà scorgere, invece, riflesso nella sua opera. Nella Summa contra Gentiles, Tommaso d’Aquino scriveva che “non possiamo conoscere Dio in modo più alto di quello che ci porta a conoscere le cause a partire dagli effetti”, mentre nella Summa Theologiae aveva sostenuto che “vedere qualcosa per mezzo di uno specchio è come osservare una causa attraverso il suo effetto”; e non sono certo queste le uniche occorrenze che attestano una simile teologica iconicità dello specchio. Tutta l’angelologia medievale si basa in fondo sul presupposto che la funzione dell’angelo sia quella di riflettere nel mondo terreno lo splendore di Dio, pur mantenendone la sostanziale imperscrutabilità. L’evento cristico stesso si inscrive in questa struttura di rimandi speculari. Scrive Paolo, nella lettera Ai Colossesi, che “Cristo è immagine [eikôn] del Dio invisibile”, mentre nella Prima Lettera di Clemente ai Corinzi leggiamo che per mezzo del Cristo “noi vediamo come in uno specchio l’immacolata e sublime sembianza di Dio”. L’avvento del Dio fattosi carne permette quindi il raggiungimento di quella specularità tra Dio ed uomo che, annunciata nella Genesi, sarà ripresa con forza, e ancora una volta secondo la metaforica dello specchio, dalla mistica cristiana, nel tentativo di portare infine l’uomo all’esperienza dell’identità col divino. La metafora catottrica contribuisce perciò ad instaurare la struttura di rimandi tra Dio, uomo e cosmo che caratterizza il concetto stesso della “leggibilità del mondo” tanto nella cultura medievale quanto in quella rinascimentale. La specularità diviene insomma, sostiene Tagliapietra, “la caratteristica distintiva dell’intera organizzazione del sapere”(p. 268). Scrive Niccolò Cusano che “le cose visibili in modo verace sono immagini di quelle invisibili, sicché le creature possono vedere e conoscere il creatore come in uno specchio”. Come già Michel Foucault aveva sostenuto nella prima parte de Le parole e le cose, la forma peculiare di questa corrispondenza a specchio tra creatore e creato, tra macrocosmo e microcosmo, è costituita nel Rinascimento dalla somiglianza. Conoscere per i rinascimentali significava intraprendere il percorso infinito che, di somiglianza in somiglianza, di analogia in analogia, permette di connettere tra loro le cose del mondo, consentendo la decifrazione del disegno che il creatore ha seppellito nel cuore nascosto delle cose. Questa catena infinita di rimandi era sostenuta, evidenzia ancora Foucault, da una concezione del segno in cui era bandita ogni reale arbitrarietà nella connessione di significante e significato: è stato Dio, in verità, a legare tra loro le cose del mondo, rendendo le une il segno delle altre e lasciando il contrassegno visibile della loro relazione nella trama conoscibile delle somiglianze. Nel nono capitolo del suo studio, Tagliapietra compie perciò un’analisi dettagliata della rottura epistemologica che ha condotto, agli albori della modernità, all’abbandono di questo immane sapere speculare della somiglianza. La svolta delle idee “chiare e distinte” dell’epistemologia cartesiana porta ad associare il sapere “onirico ed incantato” delle somiglianze nient’altro che alla visione del folle, rinnovata figura dell’Altro, sulla cui metodica esclusione si fonda la legittimazione stessa dell’identità del soggetto dubitante. Scrive Tagliapietra: “come nella sistemazione platonica dell’apparire, […] la nuova ortodossia della visione si costruisce in rapporto a un’esclusione, vale a dire, ancora una volta, [...] sulla barra che interdice il vedere del sogno e/o quello della follia. Eppure, mentre l’interdetto platonico era funzionale all’apertura di uno spazio dell’apparire «disancorato dall’essere» […] per Cartesio è quella stessa «indipendenza» ontologica dell’immagine a condannarla irrimediabilmente di fronte al tribunale del dubbio. In questo modo, se l’operazione platonica aveva condotto alla «nascita» dell’immagine, dischiudendo la possibilità di un «regno delle somiglianze» […] il nuovo «inizio», dovuto alla sintesi cartesiana, della filosofia che d’ora in poi si chiamerà «moderna», liquida decisamente lo «spazio dell’immagine» e i «simbolismi interni» all’universo dei segni”(p. 277). Come testimonia anche la teoria del segno elaborata dai


grammatici di Port-Royal, il pensiero moderno espelle quindi la somiglianza dalla genuina costituzione del sapere, dedicandosi infine in modo esclusivo alla prudente analisi, tipica della scienza moderna, delle identità e delle differenze che sussistono tra gli oggetti del mondo, nella convinzione che la ricerca delle analogie non possa essere altro, in definitiva, che occasione d’illusioni ed errori. In questo nuovo contesto culturale, agli specchi, privati del loro metaforico rinviare reciproco tra Dio e natura, non resta altro che farsi metafora della metafora, e cioè metafora del funzionamento stesso del segno e della rappresentazione, come Tagliapietra mostra in un’interessante interpretazione del quadro Las Meniñas di Diego Velàzquez, sul quale già si erano esercitati in passato filosofi come John Searle e, appunto, Michel Foucault. Già Diogene Laerzio connetteva gli specchi al “conosci te stesso”, riferendo l’aneddoto secondo il quale Socrate era solito esortare i suoi discepoli ad un attento esame della propria immagine riflessa; è ad ogni modo nel pensiero moderno, con la nuova centralità che in esso riveste il problema gnoseologico, che l’oggetto riflettente diviene perno metaforico per l’elaborazione di un sapere attorno al soggetto. La metafora dello specchio sembra confermare il principio secondo cui i termini che denotano i processi psichici derivano tutti da parole che più anticamente si riferivano a processi fisici: i concetti di riflessione e di speculazione, e cioè i nomi stessi che la filosofia moderna dà al pensiero, paiono proprio recare in sé, come “metafora dormiente”, l’influsso dello specchio. Il decimo capitolo, intitolato significativamente “La metafora oltre il soggetto”, comincia perciò ripercorrendo il cammino storico di questi due termini. Nell’Essay concerning the human Understanding, ad esempio, Locke ritiene che tutte le idee dell’intelletto traggano origine dai due soli principi di sensazione e riflessione, descrivendo quest’ultima come la “conoscenza che l’anima acquista delle proprie diverse operazioni: conoscenza per mezzo della quale l’intelletto viene ad acquistare le idee di quelle operazioni stesse”. L’immagine dell’uomo che si guarda allo specchio offre perciò il contenuto esperienziale di questo metaforico “ripiegamento del pensiero su se stesso” che è proprio della riflessione e che, come mostra Tagliapietra, diventerà il punto di riferimento dello stesso kantismo. Nel pensiero del filosofo di Köningsberg, infatti, sarà proprio la riflessione a permettere di “evidenziare positivamente i limiti della conoscenza, ossia, secondo la parola chiave kantiana, gli a priori dell’esperienza”(p. 309). Nell’opera di Schelling ed Hegel, la tormentosa rielaborazione dei concetti di riflessione e speculazione giungerà, in un processo caratterizzato da numerosi ripensamenti e torsioni semantiche, a caratterizzare ora l’una, ora l’altra, talvolta come espressione del pensiero puramente intellettuale – che scinde soggetto e oggetto, pensiero e realtà, uomo e mondo, trascendenza e immanenza –, talaltra invece come ambito fruttuoso del suo superamento nel sapere assoluto. La metafora dello specchio, ad ogni modo, sarebbe tornata, anche al di là della vicenda di questi due concetti, nel ripensamento critico del pensiero hegeliano condotto da autori come Arthur Schopenhauer, Bruno Bauer e Karl Marx. Per la storia del “soggetto moderno” e della sua disgregazione è, secondo Tagliapietra, rilevante in particolar modo la teoria marxiana del feticismo. In essa, Marx rende conto dei rapporti tra il soggetto e il mondo sociale alla luce della categoria del “lavoro”, sostenendo che le nostre produzioni possono essere considerate alla stregua di specchi nei quali si riflette la nostra essenza. Soggetto e oggetto si svuotano nel rispecchiamento reciproco, giacché, come leggiamo nel Capitale, “l’arcano della forma-merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori”. Secondo Tagliapietra, l’utilizzo marxiano della metafora dello specchio rivela perciò la crisi dei presupposti metafisici che ancora erano presenti nella filosofia della soggetto, costringendo a prendere atto di quello che secondo lui è un vero e proprio “compimento” dell’epoca della soggettività. Seguendo questo percorso, è davvero breve il passo che da Marx porta a Nietzsche,


e Tagliapietra si concede perciò, a questo punto, una interessante digressione di argomento letterario. Attraverso le pagine di Stendhal, Flaubert, Balzac, Stevenson, Pirandello e altri ancora, gli è possibile recuperare tutt’un insieme di immagini che connettono l’oggetto riflettente all’angusta condizione dell’individualità borghese. Stretto tra la fantasmagoria del mondo della produzione e la superficiale doppiezza delle relazioni sociali – per propiziare le quali sarà sempre bene mettere alla prova dinnanzi allo specchio le espressioni del proprio volto e l’adeguatezza del proprio abbigliamento – il borghese non saprà far meglio che rincantucciare se stesso nella privatezza di un intérieur, la dimora tipica del XIX secolo, riccamente adorna di superfici riflettenti. Nel pensiero di Friedrich Nietzsche, infine, l’avventura identificante della soggettività, iniziata con il socratico “conosci te stesso”, giunge a ribaltarsi nella consapevolezza dell’irricucibile pluralità e frammentazione del soggetto stesso, nel riconoscimento dell’originaria alterità che contraddistingue, e spezza al suo interno, ogni identità. L’avventura filosofica dello specchio si concede quindi, nell’opera di Nietzsche, l’estrema torsione in cui viene recuperata la saggezza originaria dello specchio di Dioniso, da cui lo studio di Tagliapietra aveva preso le mosse. Ci piace concludere con le parole dell’autore: “in questo mondo di specchi, in questa universale Wunderkammer [stanza delle meraviglie] dell’alienazione feticistica, si intravede all’opera proprio quel ribaltamento definitivo di tutte le grandi partizioni della tradizione filosofica occidentale che dissolve ogni fissità di rapporto tra interno ed esterno, come fra soggettività e oggettività e, vuoi anche, tra uomo e mondo. Nel mondo speculare delle merci l’estremo rischio sfiora il trionfo definitivo, l’apogeo della salvezza: tra l’ultima obnubilazione dell’Altro e la pienezza del suo insediarsi al centro della scena, rovesciandone completamente ogni topologia, sta il fragile diaframma dell’io post-soggettivo, in cui la «morte di Dio», dopo l’epopea del soggetto trascendentale, approda, con la «fine del mondo vero», all’«abolizione anche di quello apparente», alla zarathustriana «fedeltà alla terra»”(p. 340).

H. Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1979; tr. It. Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, il Mulino, Bologna 1985, p. 115

Paolo Salandini, La permanenza e l’inquietudine. Per una storia obliqua della filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2008. di Alfredo Gatto Questo studio di Paolo Salandini è una meditazione ‘narrativa’ che attraversa alcuni luoghi decisivi della comprensione filosofica della temporalità occidentale: sostando su alcune ‘figure-limite’ di questa avventura concettuale, funzionali al progressivo incremento dello spazio metaforico, quale luogo pronto a porre in-forma la chiarezza solida e distinta dei topoi filosofici, l’autore sostiene che l’esperienza del tempo possa essere espressa ed indagata attraverso un’endiade, rappresentata dalla relazione permanenza-inquietudine, capace di accogliere la plurivocità degli indirizzi che si sono affiancati e sovrapposti nelle analisi storiche. I due termini del rapporto, come ha sottolineato Andrea Tagliapietra nella sua introduzione al volume, mentre “si annunciano, all’inizio, nella forma addizionale e paratattica dell’endiade”, vengono in seguito articolandosi nella loro con-fusione, “in felice contraddizione, in quelle metafore, argute ed estreme, che trovano adeguata


condensazione negli ossimori convergenti – autentici emblemi dell’humana conditio – di un’inquieta permanenza e di una permanente inquietudine” (pag. 13). Nel paradosso di questa reciproca compenetrazione, nei margini inattesi emersi dalla loro correlazione, la possibilità umana di resistere al tempo – in un esercizio di continua liberazione dall’orizzonte conchiuso ed inesorabile del tempo meccanico – potrà prendere ‘corpo’ e ‘figura’, abitando l’inquietudine di quel permanere a cui la resistenza narrativa del tempo umano darà voce e forma. La necessità che il permanere non possa sostare presso di sé senza essere attraversato da un inquieto spazio metaforico, in grado di dare propriamente ‘vita’ alla dinamica dell’accesso simbolico al divenire del mondo, guida l’intera parabola del saggio di Salandini. L’autore dà inizio alla propria indagine delineando tre ‘figure dell’eternità’: si può fare riferimento, infatti, ad una 1) eternità teoretica (o concettuale) che, nella sua variante “annichilitoria”, svela l’esperienza temporale, dimostrando l’esser nulla del tempo, mentre, nella sua accezione “costruttiva”, mediata dall’esperienza ebraico-cristiana della temporalità, diviene segno del divario fra l’essere del Creatore e l’esserci della creatura; è possibile parlare, inoltre, di una 2) eternità volgare (o ordinaria), necessaria per pensare l’eterno come infinito permanere del tempo; infine, e questa è l’accezione più pregnante e foriera di notevoli sviluppi, possiamo fare riferimento ad una 3) eternità organica (o aiònica), funzionale a dischiudere la circolarità dell’orizzonte logico-concettuale, in vista di un “terreno mitico-sacrale”, sottratto, per definizione, alle maglie discorsive dell’intelletto raziocinante. Quest’immagine dell’eternità non definisce se stessa nel proprio surplus di durata, bensì manifestandosi nella viva eternità di un apeiron divenuto aion, infinita forza generatrice capace di dare forma non ad una trascendenza oggettiva, subordinata alle regole della filosofia classica, ma ad una “trascendenza senza metafisica”. In tal modo, l’eternità aiònico-organica, disegnando una “totale complementarità tra l’eterno e il temporale”, porrà le condizioni per pensare il loro reciproco co-appartenersi, senza alcuna esiziale subordinazione. L’idea che l’esperienza della temporalità non debba risolversi nella staticità di un eterno indisponibile all’umano racconto, ovvero che non vi sia un punto mediano di saldatura per sostare nel teatro sempre cangiante di un divenire acefalo, è nuovamente affermata nel prosieguo del lavoro. L’indagine di Salandini, a tal proposito, tenterà di presentare alcune figure classiche della metafisica, per porre in luce, proprio nei margini della loro presenza, l’opportunità di pensare la compenetrazione della permanenza e dell’inquietudine, senza prendere astrattamente partito per uno dei termini della relazione. All’interno di una tale contesto, la triade Cartesio-Hegel-Nietzsche può ben rappresentare un esempio paradigmatico per la (ri)lettura di questa problematica: il tempo-istante del cogito, ad esempio, garantendo l’istantanea presenza della propria verità, sarà il plesso cardine in cui si svilupperà il dualismo cartesiano. Infatti, se l’epochè della cogitatio da tutto ha isolato il pensiero tranne che dal tempo, la richiesta di certezza, propria del movimento di ogni auto-assicurazione, dovrà comporre lo scarto fra la simultaneità puntuale del cogito e il meccanismo di successione e durata caratteristico della res extensa. Accanto all’orizzontalità di tale relazione, la cogitatio in tanto potrà ri-flettere su sé medesima in quanto si troverà situata in un rapporto immediato con la propria idea di Dio. Se, come suggerisce Salandini, “l’essere dell’idea di Dio intimamente presente al Cogito fa sì che pensare a sé sia inseparabile dal pensare a Dio” (pag. 55), la verticalità del rapporto Creatorecreatura, necessariamente implicato in ogni singolo pensiero, verrà articolandosi in una ‘felice’ coesistenza di tempo-eternità, costituita dal tempo-istante del cogito e dall’attualità eterna di Dio. La compenetrazione fra permanenza-e-inquietudine, quale realtà ultima del vero, è lo “sforzo supremo” portato avanti da Hegel. L’eternità inquieta – ‘inquieta’ perché ‘viva’, senza alcuna cristallizzazione – è il risultato ultimo, ultimo in quanto inevitabilmente presupposto, e quindi ‘primo’, dell’intera dialettica hegeliana. L’isolamento della conoscenza intellettuale, che, non aprendosi alla vita, finisce per negarla nel nomos del principium, costringendo il pensiero a non fare esperienza della propria negatività essenziale, viene letteralmente superato – tolto-e-superato,


uno actu – dalla dinamica della Spirito, “ritorno eternamente inquieto e eterna inquietudine del ritorno” (pag. 80). La vita activa della Ragione, dunque, quale auto-comprensione della “Totalità vivente”, sarà il movimento di una continua e ‘contraddittoria’ appropriazione di relazioni vitali, di immedesimazione, come già affermava il giovane Hegel, con l’eternità vivente della realtà mondana. Il tentativo di rimuovere ogni astratta separazione fra eternità e tempo, condurrà il filosofo tedesco ad in-formare la realtà di un concetto ‘organico-vitale’ di eternità, pensando la permanenza come uno “stare inquieto”, e liberando così il pensiero dall’assolutezza della propria finitudine. Seppur lontano dalla vertigine concettuale hegeliana, anche Nietzsche, allontanandosi dalla rappresentazione del tempo portata avanti dalla ‘malattia’ dell’uomo storico, tenta di sottrarsi alle comuni vulgate relative all’esperienza temporale: la figura dell’übermensch, nelle dinamiche di questa strategia, sarà quell’incontro di forze in cui la linearità del tempo verrà tras-figurata. Questa operazione decostruttiva, tuttavia, lontana dal costituirsi come una negazione della temporalità, sarà “innanzitutto un incontro con il tempo”, in-contro ‘reale’, ritmato da un “tempo tragico”. Infatti, come “essere non-più-uomo significa essere autenticamente uomo”, nello stesso modo “il non-più-tempo” verrà costituendosi come il “tempo autentico, il tempo in cui «si ride» del tempo” (pag. 83). Questa trans-valutazione della temporalità oltre-modo-umana, porterà ad una (con)fusione tra chronos-e-kairos, dando luogo ad un accesso ‘estatico’ al tempo, ad una eternità ‘cairologica’, organico-vitale, in cui il tempo sarà pronto a ‘dare-inizio’, in ogni istante, alla tragicità di un “tempo-rischio”, “l’unico che cela in sé quella coappartenenza di tempo ed eternità (aion) in cui solo può distinguersi il piano del sacro” (pag. 86). Il lavoro di Salandini, dopo un attento confronto fra il “presente vivente” dell’egologia husserliana, incapace di fare spazio all’esistenza di un alter ego che non sia immediatamente riconvertito nelle maglie della rappresentazione cogitativa del soggetto, e l’ermeneutica ricoeuriana, in cui la narrazione, portando a linguaggio il tempo, dis-chiude la relazione etica dell’incontro inter-soggettivo, inizia a delineare una personale interpretazione di un’etica della temporalità che non sia vissuta e patita come un orizzonte dequalificante per l’humana conditio. Il fare poetico, all’interno di un tale contesto, sembra poter essere l’unica prassi concreta capace di consentire all’uomo di porsi in una relazione attiva con la temporalità che gli compete: se “solo il canto del tempo si sottrae al tempo, nel senso che ne rovescia la passività in attività” (pag. 125), il “continuo differimento del tempo nel tempo”, ad opera dell’agire poetico, è concreta s-figurazione della ‘sostanzialità’ temporale, in grado di infrangere la serialità univoca del tempo ‘meccanico’, rendendo possibile, fra le differenti pieghe della narrazione, l’apertura etica quale luogo aurorale del tempo umano. “Il tempo poetico”, infatti, “diviene tempo etico poiché la poesia permette agli uomini di non subire interamente il tempo, di non portare da soli il suo insostenibile carico, in quanto la poesia mi dà libertà di far presa su di esso” (pag. 126). La temporalità metaforica del racconto umano dà forma all’identità temporale, aprendo, nel ritmo del tempo, un’umana melodia, ospitale ed accogliente. Dando così un volto al tempo, descrivendone le sembianze e le fisionomie, l’agire poetico “fa risuonare il tempo in note umane”, rendendo possibile l’esperienza etica della propria narrazione. Una siffatta etica della temporalità, ad ogni modo, non dice l’abbandono dell’eterno, il ripiegare della propria enérgeia lungo la linearità mondana di un universo de-sacralizzato; al contrario, significa aver la forza di pensare un’eternità aiònica, un’originaria eternità vivente quale “fonte poetica originaria”, che di continuo genera la possibilità di poter generare. Nella permanenza-e-inquietudine di questa traccia, ‘segno’ del continuo tralucere del tessuto temporale, e nelle ferite di questa vitale armonia, troverà dimora il canto poetico dell’uomo.



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