Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008 Febbraio-Marzo n째 24, 2010
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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Maggio-Giugno 2010, n° 27. (Numero 28, 1 Luglio 2010) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.
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Crisi finanziaria ed empasse del modello di sviluppo di Elio Matassi
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Sul fondamento del diritto di Andrea Poma
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Sul dono secondo Marion. Osservazioni di Carmelo Vigna DĂŠraison filosofia e interpellanza poetica alcune domande a Giovanni Invitto a cura di Bachisio Meloni
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Il mondo alla rovescia del liberismo di Andrea Margheri
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Il mondo alla rovescia del liberismo di Giorgio Ruffolo
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La filosofia della relazione (brano scelto) di Adriano Fabris
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Res Singulares (brano scelto) di Remo Bodei
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Domenico Spinosa Recensione
Crisi finanziaria, empasse del modello di sviluppo e ruolo della filosofia di Elio Matassi
Dopo due anni in cui il blocco neopopulista aveva proclamato che l’Italia, tra i paesi europei, era l’unico ad aver resistito alla crisi economica, la nuova esplosione della speculazione internazionale, questa volta con devastanti riflessi sui titoli pubblici, ha di fatto infranto ogni velleità ed illusione ottimistica. La crisi, ben lungi dall’essere alle nostre spalle, è gravissima e la maggioranza governativa (il blocco neopopulista) si appresta a varare una manovra ‘correttiva’ (si tratta di un eufemismo purtroppo tragico) di ben ventiquattro miliardi di euro, colpendo ancora una volta, in maniera unilaterale, regioni, comuni, sanità, cultura, ricerca, scuola, università,
magistratura. Tutto il settore pubblico e tutte le fondazioni culturali vengono travolte da una manovra economica che nasce sotto lo stesso segno, distruggere ogni dimensione pubblica ed ogni forma di sapere critico. I proclami sull’evasione fiscale sono appunto ‘proclami’, dichiarazioni retoriche che non vengono accompagnate da provvedimenti adeguati, un’evasione fiscale che ha ormai raggiunto vertici insopportabili per il sistema economico nel suo complesso. La retorica neopopulista si appella al fatto che non vengano introdotte nuove tasse e che, dunque, non vengano sottratti denari dalle tasche dei cittadini, mentre, di fatto, questa sottrazione avviene solo in una direzione, nella direzione di coloro che in maniera del tutto trasparente contribuiscono a finanziare tutto il sistema al 100 per 100, mentre una maggioranza, pur ricca di privilegi fiscali continua allegramente nei comportamenti di sempre; il credo etico è quello di un’evasione lecita, liceità legittimata da una presunta sopraffazione dello Stato. Questo è comunque solo un aspetto, un riflesso della crisi, una crisi nella crisi, che contribuisce ad aggravare una situazione economica di per sè già gravissima. Vengono meno, sul piano strettamente teorico-ideologico, due condizioni che il trionfo del capitalismo ormai in via di globalizzazione sembrava aver sancito in maniera definitiva. Entrambe queste condizioni sono state enunciate e sviluppate in due libri del politologo americano d’origine nipponica Francis Fukuyama; la prima nel volume dal titolo paradigmatico, La fine della storia e l’ultimo uomo, le cui premesse è utile riportare per esteso: “Le lontane origini del presente volume vanno ricercate in un mio articolo intitolato Siamo forse alla fine della storia?, scritto per la rivista ‘The National Interest’ nell’estate del 1989. In esso sostenevo come in questi ultimi anni fosse emerso in un gran numero di paesi un notevole consenso verso la legittimità della democrazia liberale come sistema di governo, vincente nei confronti di ideologie rivali quali la monarchia ereditaria, il fascismo ed ultimamente anche il comunismo. Non solo, ma aggiungevo che la democrazia liberale avrebbe potuto costituire addirittura ‘il punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità’, e ‘la definitiva forma di governo tra gli uomini’, presentandosi come ‘la fine della storia’. Mentre infatti le precedenti forme di governo erano state caratterizzate da vari difetti e irrazionalità che avevano finito per provocare il crollo, la democrazia liberale pareva immune da contraddizioni interne tanto profonde. Con questo non intendevo dire però che in democrazie stabili come sono attualmente quelle degli Stati Uniti, della Francia o della Svizzera non vi fossero ingiustizie o gravi problemi sociali; ma solo che questi problemi riguardavano l’incompleta attuazione dei due principi della libertà e dell’uguaglianza sui quali si fonda la democrazia moderna, piuttosto che non difetti degli stessi principi. E mentre oggi è possibile che alcuni paesi non riescano ad instaurare una democrazia liberale stabile e che altri finiscano addirittura per regredire a forme primitive di governo quali la teocrazia e la dittatura militare, non pare invece possibile apportare miglioramenti all’ideale della democrazia liberale.” E’ chiaro come i protagonisti impliciti di questa pacificante “storia della fine della storia” fossero e sentissero di essere gli Stati Uniti. L’attuale crisi finanziaria che sta devastando i mercati internazionali e che ha la sua origine proprio negli Stati Uniti modifica i termini del problema argomentato da Fukuyama? Credo in una risposta fortemente affermativa al quesito, una risposta che mette radicalmente in questione la possibilità di portare miglioramenti all’ideale della democrazia liberale. Sia sul piano economico sia su quello
politico (tra i due piani vi è un automatismo) l’attuale crisi finanziaria capovolge il problema: il capitalismo finanziario ha di fatto minato alle radici l’idea stessa su cui si regge la democrazia liberale. Chi crede in una visione ‘integralistica’ della democrazia e non minimalistica – la democrazia è il migliore sistema politico e non il meno peggio – non può non porsi oggi il problema della sua legittimità democratica che non dovrà esaurirsi nella semplice scelta elettiva dei propri rappresentanti. Mi riferisco in particolare al recente volume La légitimité démocratique dello storico francese Pierre Rosanvallon, professore al Collège de France, creatore della Fondation Saint Simon, oggi animatore della “Rèpublique des idée”, che offre spunti importanti di riflessione alla politica. L’intellettuale francese è favorevole ad un “sistema di doppia legittimità”, dato che il verdetto delle urne non è sufficiente a realizzare compiutamente la democrazia. E’ venuta, inoltre, meno la seconda delle condizioni, annunciata da Fukuyama in un libro successivo a quello sulla fine della storia, Fiducia. Come le virtù sociali contribuiscono alla creazione della prosperità. La fiducia dovrebbe rappresentare l’ingrediente straordinario per il successo di una società meritocratica. Il cittadino crede che il sistema sia sostanzialmente ‘giusto’, e quindi è pronto ad accettare in pieno le regole contribuendovi attivamente, anche se sa che non sarà necessariamente lui il diretto beneficiario del suo impegno e dei suoi sacrifici. Il cittadino dovrebbe, dunque, nutrire fiducia nel secondo pilastro del merito, le pari opportunità, ossia confidando nel fatto che, se forse a lui non sarà consentito di realizzare i propri sogni, i suoi figli possibilmente partiranno al pari di altri che stanno molto più in alto nella scala sociale. La profonda fiducia nel fatto che le pari opportunità siano davvero tali dovrebbe far sì che i cittadini delle società meritocratiche tollerino la disuguaglianza poiché credono nella mobilità sociale. Anche questo meccanismo di fiducia reciproca si è profondamente inceppato con la crisi finanziaria; il supercapitalismo, il capitalismo nella sua declinazione finanziaria, ha di fatto espropriato la sostanza della democrazia e per questo fanno oggi sorridere per la loro ingenuità e per essere ormai scavalcati dal tempo reale, pamphlet come quello, oggi, fortunatissimo, di Roger Abravanel. Meritocrazia. Non appartengo alla schiera dei semplificatori catastrofisti. Hanno ragione sia Carlos Quijano quando sostiene che i peccati contro la speranza sono i più terribili perché sono gli unici che non hanno né perdono né redenzione, sia Paolo Rossi Monti nel suo recentissimo Speranze, quando afferma, contro gli intellettuali alla moda, che non viviamo nella peggiore epoca del mondo, dato che la democrazia va estendendosi e molti stati stanno abolendo dal proprio sistema giudiziario la pena di morte. Non affermo infatti che la democrazia debba essere sostituita da un altro sistema vago e futuribile ma che debba essere rafforzata. Se è venuta per sempre meno l’equazione democrazia liberale = capitalismo, anzi si è addirittura capovolta in quanto il capitalismo finanziario – il supercapitalismo sta attentando alle fondamenta stesse l’idea di democrazia, è venuta meno anche quella che considero una delle ipertrofie più perverse della contemporaneità, quella economicistica. Il primato dell’economico in tutte le sue implicazioni, etiche e politiche, ha avuto effetti devastanti. Strettamente congiunto a tale primato è l’intuizione di una concezione della politica come semplice amministrazione, gestione degli equilibri del presente con la conseguenza estrema di una presentificazione estrema, di una eternizzazione del presente. Una concezione della politica che ben lungi dall’educare, dal formare, indirizzare i cittadini, ne asseconda,
invece, gli istinti – pulsioni più regressive. L’adozione ormai scellerata del sondaggio come esclusivo indicatore delle linee tendenziali dell’elettorato (in realtà già proiettato e predisposte in un quadro di riferimento surrettiziamente organizzato) è uno dei riflessi più evidenti dell’ipertrofismo economicistico che ormai è penetrato in ogni singolo aspetto della realtà sociale ed istituzionale della contemporaneità. A questa presentificazione deve essere finalmente contrapposta una concezione della politica alternativa, che leghi strettamente l’idea dell’amministrazione concreta del presente ad un progetto complessivo e futuribile della società, un progetto, utilizzo finalmente questo aggettivo che sembra ormai essere stato esorcizzato dal vocabolario della politica dominante, ‘filosofico’, una dimensione teorica che sta semplicemente a misurare lo scarto tra ciò che noi siamo e quello che dovremmo essere anche in un futuro immediato. L’ipertrofia economicistica ha ormai, di fatto, cancellato la possibilità stessa della distinzione tra essere e dover essere, tra presente e futuro. Una cancellazione, che come ci insegnano i grandi classici del passato e della modernità (Platone e Kant) è alle fondamenta stesse dell’idea dell’etica, della comunità e della democrazia. Questa rafforzamento – ristrutturazione della democrazia, dinanzi alla crisi evidente del modello di sviluppo del capitalismo finanziario e di un mercato privo di regole, dovrà procedere ripristinando l’idea forte di una democrazia come partecipazione che si va sempre più imponendo nella ipermodernità. Una democrazia che si struttura su una forma-partito radicalmente nuova, che dovrà isituzionalizzare il sistema delle primarie in tutte le sue possibili forme e declinazioni. Rafforzare la democrazia nella sua forma partecipativa significa, dunque, creare una nuova comunità che diventa oltre che un’“esigenza ineludibile”, una “comunità associativa” (Gorz), una creazione collettiva, senza frontiere. Secondo la definizione di Victor Turner”, c’è un particolare modo in cui le persone guardano, comprendono, agiscono l’uno nei confronti dell’altro, stabilendo un rapporto tra individui concreti , storici, particolari”, un rapporto che non dissolve l’individuo nell’collettivo ma permette piuttosto il riconoscimento da parte degli altri. Diventa l’opposto del mercato, non nel senso che con il mercato è incompatibile, ma piuttosto che ne costituisce un “altrove”, “dominato da forme comunicative e da valori opposti – reciprocità, durata, gratuità – a cui si può accedere nel corso del processo storico. Una comunità che si proietta sullo scenario internazionale andando ben al di là della fuorviante distinzione contrapposizione negoziazione/arbitrato (il dibattito tra Rawl e A. Sen), una comunità non semplicemente identitaria ma caratterizzantesi per un modello contrattualistico polidecisionale. Perché la sfida della globalizzazione sia pienamente raccolta, andando in una direzione alternativa a quella del capitalismo finanziario, dovremo pensare a nuove prospettive di civilizzazione che non possono prescindere dall’eredità della modernità occidentale e che, pur cogliendone limiti e inadeguatezze, ne sviluppino le istanze di emancipazione, espansione delle libertà e delle capacità adeguate alle emergenze del nostro tempo.
Sul fondamento del diritto di Andrea Poma
Durante l’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo nella Basilica di S. Pietro, il Papa Benedetto XVI ha affermato tra l’altro: “Anche oggi è importante per i cristiani seguire il diritto, che è il fondamento della pace. Anche oggi è importante per i cristiani non accettare un’ingiustizia che viene elevata a diritto - per esempio, quando si tratta dell’uccisione di bambini innocenti non ancora nati” (http://www.oecumene.radiovaticana.org/IT1/ Articolo.asp?c=368993). Mi sembra un’affermazione molto interessante, per il nodo di problemi, intricato ma ricco, che comporta. In una società della comunicazione in cui raramente la superficiale guerra di slogan lascia il campo alla riflessione ragionata sui problemi, questa affermazione sembra l’eco di diatribe medievali tra Chiesa e Impero. In realtà essa solleva una questione di grande importanza, non solo nei secoli passati, ma anche e più che mai oggi. Le leggi sono deliberate e promulgate dallo Stato e come tali devono essere osservate incondizionatamente. Per questo il Papa ricorda che “anche oggi è importante per i cristiani seguire il diritto, che è il fondamento della pace”. D’altra parte, come somma autorità e supremo garante del magistero ecclesiale, egli aggiunge: “anche oggi è importante per i cristiani non accettare
un’ingiustizia che viene elevata a diritto”. E’ ovvio che il Papa ha una solida giustificazione ideologica per questa sua seconda affermazione: le leggi degli uomini hanno fondamento e giustificazione nelle leggi divine; quindi le leggi dello Stato, degli Stati, sono legittime solo se e in quanto non contraddicono le leggi divine, anzi vi si ispirano. Tuttavia questo impianto ideologico non è privo di motivi problematici. Il riconoscimento della sovranità dello Stato nel legiferare e dell’obbligo dei cittadini ad osservare le leggi e, con ciò, a riconoscere la sovranità dello Stato non possono essere messi in discussione senza che le stesse idee di stato di diritto e di società civile vengano sgretolate dalle fondamenta. Ma il riconoscimento di un’istanza superiore, anzi suprema, che renda possibile, da parte della società, la critica delle leggi positive e la disobbedienza civile in casi estremi, sembra necessario, pena l’inaccettabile sudditanza della società a regimi dispotici e tirannici. Infatti, se la critica e il ripudio di leggi “ingiuste” non fosse mai legittimo, la resistenza alle tirannie, come il fascismo o il nazionalsocialismo, non sarebbe mai giustificata né giuridicamente né moralmente. Ma, ripeto, la strana e per certi versi paradossale figura della “legge ingiusta” implica la necessità di riconoscere un’istituzione e un’autorità più alta della legge, a cui fare riferimento e da cui trarre legittimazione. Non può essere considerata tale la presunta autorità suprema della “coscienza”. Il concetto borghese di “coscienza” non è alla fine niente altro che la traduzione ideologica dell’istanza dell’interesse individuale o corporativo, che rivela l’anarchismo sempre presente sotto traccia nella democrazia borghese, minimalista e negativa. Anche la Chiesa Romana fa spesso appello al concetto di “coscienza”, ma dà a questo un significato del tutto diverso, poiché nella tradizione cristiana la “coscienza” è la voce di Dio in noi. Quindi, in ultima istanza, anche su questo tema l’appello della Chiesa alla coscienza è un appello alla suprema autorità della legge di Dio. Non si creda che in una prospettiva non religiosa, e nemmeno in una prospettiva laicista, questo problema non esista. Infatti in questo caso non si farà evidentemente appello alla legge divina, ma il problema della possibilità di ricorrere a un’istanza superiore alla legge positiva dello Stato e in qualche modo assoluta (la libertà, la giustizia, i diritti umani, ecc.) resta reale, se non si vuole ammettere il dovere incondizionato di sottomettersi acriticamente alle leggi positive dello Stato. Inoltre mi sembra che qualunque riferimento a un’istanza superiore alla legge sia inevitabilmente una forma di fondamentalismo ideologico. I termini del problema non cambiano se la fonte suprema di autorità è la legge divina secondo il magistero ecclesiastico, la Bibbia, il Corano o la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Il punto è che si riconosce una fonte suprema di autorità, dalla quale ogni altra legittimità dipende. D’altra parte è anche vero che la negazione di qualunque autorità superiore a quella dello Stato si configurerebbe anch’essa come una forma di fondamentalismo statuale. Infine voglio ancora suggerire un altro ordine di problemi. Il principio della legge divina come fondamento necessario della legge positiva sembrerebbe implicare l’impossibilità di un diritto e, più in generale di un’etica fondata autonomamente e indipendentemente da opzioni religiose. Naturalmente si potrebbe rispondere che l’esplicita opzione religiosa non è necessaria, poiché la legge divina è inscritta nel cuore di ogni uomo. Questo importante principio, tuttavia, mi sembra ancora declinabile in modi differenti, che riporto qui agli estremi: da una parte, se essa è inscritta nel cuore di ogni uomo, allora qualunque prospettiva umana la esprime; d’altra parte, se non
ogni prospettiva umana la esprime, ma solo quella coerente con l’insegnamento del magistero religioso, allora si deve aggiungere che, dato l’ottenebramento del cuore umano, è necessario che l’insegnamento positivo del magistero riconduca i cuori alla retta volontà (ovvero che l’insegnamento della scienza o di non so che altro li riconduca alla retta ragione), allora si torna alla posizione fondamentalista. Termino qui questa breve riflessione su un’affermazione del Pontefice e, con lui, del magistero cattolico, che ancora una volta si dimostra una delle poche istituzioni che quando parlano propongono riflessioni importanti per tutti. Questa conclusione è evidentemente carente di una soluzione ai problemi sollevati. Da una parte, infatti, non la posseggo e quindi non la posso proporre; d’altra parte, mi sembra che sarebbe utile se, nei tristi tempi attuali dei beceri conflitti televisivi e non tra soluzioni senza riflessioni, si cominciasse a contribuire, ognuno per la sua parte, a riflessioni che si astengano da frettolose conclusioni.
Sul dono secondo Marion. Osservazioni di Carmelo Vigna
1. La relazione di scambio nel dono non è evitabile. L’importante è scambiare un dono e non una cosa utile. Per scambiare un dono, occorre scambiarsi in senso trascendentale. 2. Un dono che prescinda dal donatore non ha senso compiuto, a meno che qualcosa non si doni. Ma se qualcosa si dona, non è qualcosa di (almeno) formalmente finito. 3. Senza infinito non vi è possibilità di costituire la figura del dono. Noi ne sappiamo per il fatto di possedere un’infinità formale o trascendentale. 4. Il gioco del dono appartiene però in prima istanza all’infinito in senso ontologico. Ma da questa parte sta il mistero. Che può essere un poco esplorato, se si guarda a ciò che ci doniamo nel rapporto di riconoscimento, cioè se si guarda al dono reciproco della libertà (della signoria).
5. Il rapporto di reciproco riconoscimento è il luogo storico del dono. La Trinità è il luogo metastorico del dono. 6. L’analisi del luogo storico del dono è fenomenologicamente eseguibile. L’analisi del suo luogo metastorico è una faccenda teologica. Si possono tuttavia costruire delle significative analogie. 7. Derrida presenta una riduzione trascendentalistica del donare (donare il tempo). Marion presenta una riduzione fenomenologica del dono. Entrambe le riduzioni abbisognano di un prolungamento metafisico : tendenzialmente rifiutato da Derrida, tendenzialmente proposto da Marion. 8. Il prolungamento metafisico nasce dalla analisi del donarsi. Chi si dona si sdoppia. Non si può essere nello stesso senso e sotto lo stesso rispetto dono e donante, come non si può essere nel contempo movente e mosso. 9. La polemica di Marion contro la causalità è equivoca. La causalità è vista in modo efficiente e per giunta come causalità fisica (cioè poi meccanicistica). 10. La polemica contro la “rappresentazione”, di ascendenza heideggeriana, riduce la presenza alla sua forma “neutra”, scambiando l’apparire con una certa forma d’apparire: quella che si relaziona all’oggetto al modo del dominio. 11. L’apparire in quanto tale precede i modi di apparire, cioè le molte forme di relazione intenzionale e le possibilita. L’apparire non è oltre le molte forme di apparire, ma esiste nelle forme d’apparire, una delle quali è insieme una e insieme fondamento delle molte : il puro e semplice apparire.
Déraison filosofica e interpellanza poetica. Un singolare tentativo di commercio con l’oscurità Alcune domande a Giovanni Invitto a cura di Bachisio Meloni
D.: Professor Invitto, mi permetta di iniziare la nostra conversazione non senza aver fatto prima cenno a quanto è stato osservato in precedenza in questi nostri dialoghi, ad esempio riguardo all’interpretazione filosofica chiamata in causa in vista di possibili soluzioni e azioni determinanti in ambito, ad esempio, più specificamente politico o economico, ossia in vista di possibili ottenimenti pratici, in attesa magari di nuove indicazioni di percorso nell’ambito della progettualità, dello stare al mondo. Vorrei ribaltare la questione, chiedendomi al contrario se il compito del filosofo non sia in
realtà quello di procedere nell’ambito dell’estraneità, con un passo oltre ogni singolo evento ed esperienza pratica, quasi al di là dunque del possibile; se il compito dell’ermeneuta, ben al di là del pur indispensabile recinto disegnato dalla filosofia kantiana, e con buona pace per l’intento prometeico della proposta speculativa marxiana, non sia in realtà quello di procedere in ambiti e territori la cui indeterminatezza ai margini di ciò che un tempo era relegabile più che altro alla dimensione degli inferi, all’insondabile – da Nietzsche ad Heidegger – rende difficilmente ipotizzabile qualsiasi presupposto ideale, sia esso etico ancor prima che teoretico. Il quesito è suggestivo e mette in causa tanto l’essenza del pensare filosofico quanto il rapporto del soggetto-filosofo con la realtà storico-politica ed esistenziale. Non ho mai pensato che quello che chiamiamo, solo per intenderci, “filosofo” abbia la funzione di mosca cocchiera della comunità. Anzi si tratta di abbandonare pretese élitarie e narcisimi intellettuali. L’oggetto del filosofo non è quello di dar senso, ordine, efficacia alla situazione, bensì di radicarsi nel nonsenso che ognuno di noi avverte dentro di sé. È un nonsenso che ci costituisce, di cui dobbiamo tener conto, che dobbiamo accogliere ed accettare. “La più alta ragione confina con la déraison” (Merleau-Ponty): il che non vuol dire che noi abbiamo di che crogiolarci e rassegnarci alla nonragione, ma prenderne atto e finalizzarla nell’esistenza individuale e collettiva. Le fedi, le emozioni, le passioni (ciò che veramente è universale nel soggetto, come affermava Soren Kierkegaard) vanno conservate, curate, tutelate, così come Francesco d’Assisi che nel suo orto lasciava crescere le erbe selvatiche, senza estirparle, accanto agli ortaggi e ai fiori che erano stati seminati. Ha scritto Alain: «Chi non vede che il migliore dei nostri pensieri è in alcune passioni salvate?» Non so se quello di cui stiamo discutendo siano gli inferi, so bene che stiamo parlando di noi stessi, dell’uomo e dei suoi chiaroscuri. Non si tratta di semplice rassegnazione, né di resa, ma occorre capire che la realtà non è solo la ragione e dobbiamo adoperarci per costruire percorsi comunque produttivi per noi e per gli altri. D.: In questo senso, riferendomi ai Suoi percorsi di studio (penso in particolare a Narrare fatti e concetti, Milella, Lecce 1999) mi sembra di capire come la ricerca speculativa, per quanto distante in virtù dei suoi tratti specifici – e per quanto debole la propensione ad una revisione dei meccanismi di scrittura filosofica –, sia rivolta pur essa forse in modo ancora più esplicito, e ben al di là degli schematismi tradizionali, verso ciò che suscita l’interrogazione poetica e letteraria; anzi, come interrogazione filosofica ed interpellanza poetica viaggino da sempre in virtù di un formidabile legame di reciprocità sulle basi di un singolare tentativo di commercio con l’oscurità: al pari dell’io frantumato del poeta, anche l’avventura del più umile fra i pedoni della filosofia è toccata – così almeno fin dalle sue più lontane origini, come in ambito tardo novecentesco – dal materiale incandescente, lavico del thaumàzein, ossia da quella stessa meraviglia e da quello stesso orrore suscitato dall’ordine o disordine universale. Sono d’accordo. Oggi è ormai legittimo considerare la messa in discussione della filosofia intesa come sistema concettuale, e ricondurla ad essere un fenomeno storico-esistenziale effettivo. C’è chi riporta questa svolta a Nietzsche, c’è chi la retrodata… Comunque sia, la crisi della filosofia come pensiero sistematico e onnivoro apre lo spazio anche alla filosofia come atteggiamento e come comprensione. E questo percorso di comprensione
può essere anche un percorso di narrazione. Quasi sempre la filosofia ha dimenticato la propria essenza di racconto e adopera il genere del sistema e del trattato, ritenendo che il suo essere esoterica sia compagno di verità e di profondità. Maria Zambrano, da parte sua, ha invitato la filosofia alla consapevolezza, perché, quando essa fa la propria storia, spesso dimentica “sdegnosamente” ciò che gli uomini devono ad altri saperi “la cui origine è più in là o più in qua di essa. Ciò che si deve, per esempio, alla poesia e al romanzo”. Allora la questione è se gli altri generi narrativi, che pure sono stati sempre presenti nella filosofia, stiano semplicemente ad indicare una pluralità di possibilità espressive della filosofia o se oggi, con la caduta del primato se non della esclusività di alcuni modelli, non ne possano costituire una delle vie privilegiate. La forma, in filosofia, è sostanza: si tratta di strumentare modelli e stili (per quanto si sia consapevoli che questo non sia sufficiente in assoluto) contro le false coscienze universalizzanti D.: Le origini più remote del pensare coincidono con lo stupore e con lo scoramento (il thaumàzein) per il nostro essere in persistenza circondati e interpellati dal mistero, e la filosofia non è da meno in questo lasciarsi rapire dagli enigmi. Mi viene in mente, accanto alla più antica tradizione greca, l’esperienza ebraico-talmudica, in cui si predilige una modalità critica ispirata all’idea di interpretazione infinita dei testi e dedita al confronto con le innumerevoli stratificazioni del loro commento; non solo dunque passione e gusto retorico per gli enigmi, dinanzi ai quali ci si pone con l’animo e l’intento di chi non ha pretese di tradurre, quanto almeno di decifrare. Riflettendo su questa modalità del pensare e del conoscere – su questo metodo che impone non tanto la risoluzione degli enigmi, quanto il più severo e scrupoloso giudizio in grado però di mantenerli rispettosamente come tali, e fors’anche aggiungendone di nuovi – si richiede umiltà di parola, e parole che pur rimanendo in prossimità del Sacro, mantengono la loro provenienza e natura corporea e terrestre: questo mi sembra uno dei compiti e compimenti fondamentali (irrinunciabili) della meditazione filosofica, la quale fornisce elementi indispensabili perché l’idea di enigma non si produca come sovrastante dominio (soltanto) nel senso fascinoso e tremendo del mistero di fede o del poetico. Certamente l’ermeneutica oggi privilegia un rapporto diretto, quasi un corpo a corpo con il testo, con l’enigma, come Lei afferma. L’enigma è come una di quelle “figure ambigue”, di cui si parla in psicologia, che il soggetto deve interpretare: nessuna interpretazione è totalmente giusta, nessuna è totalmente sbagliata. E l’enigma rimane enigma. Ma, a proposito di testi, ricorderei qui una importante frase di Gregorio Magno: “Divina eloquia cum legente crescunt”, cioè: le parole divine crescono con chi le legge. La parola “sacra” non è una pietra, è un lievito che cresce entro di noi e fa rampollare altre parole, altri sensi e, perché no, altri enigmi. Tutto ciò fa ritornare ad una domanda (viziosa?) su cosa sia filosofia. Spesso è trascurato un passaggio del 1820 contenuto nello Zibaldone. Leopardi afferma, ad un certo momento della sua vita, di essere filosofo. È noto che parla di una “mutazione totale”, un passaggio “dallo stato antico al moderno”, avvenuto nell’arco di un anno, il 1819, che coincide con la perdita della vista e, quindi, con l’impossibilità di dedicarsi alla lettura: “cominciai a sentire la mia infelicità in modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose [...], a divenir filosofo
di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale”. La cosa, apparentemente paradossale, è che, divenuto “filosofo”, egli “sente” l’infelicità del mondo, mentre da “poeta” egli “conosceva” quell’infelicità, per quanto egli aggiungesse in un altro frammento che un grande filosofo è anche un grande poeta e viceversa. Traducendo tutto in un lessico a noi usuale, potremmo dire che la filosofia ci fa anche sentire quel nonsenso, quella déraison e quella “patìa” che possiamo esprimere nel narrare, scrivere, parlare. Sono echi, evocazioni, suggestioni che spesso non possiamo tradurre in rigidi concetti. Da ciò il nesso inevitabile tra filosofia e narrazione, nelle sue varie forme di cui partecipa la stessa filosofia. Pur non disconoscendo il valore della concettualizzazione – la filosofia esiste per questo – dobbiamo dire che i concetti possono essere rigidi e anchilosati, quindi non veri, se la verità fa corpo ed è relativa al contesto cui si riferisce. D.: Come dire, tener desto il senso della domanda, del dubbio: su ciò ogni buona filosofia dovrebbe più adeguatamente insistire, vivendo il nucleo di ogni meditazione speculativa nella sua fondamentale duplicità, che è peraltro aporia e contraddittorietà dell’essente, della sua finitezza nel porre la questione del limite, o del confine. È questione specificamente filosofica e ciò, ma non solo, a dispetto di arte e fede, ambiti con cui il pensiero contemporaneo trova maggiori affinità; è “umiltà di potenza” dell’individualità precaria, di un’umanità filosofica che intraprende percorsi speculativi e tuttavia in grado di trascendere la fenomenologia dell’umano; è azione che riporta la questione più che al “dar ragione”, alle origini stesse, quelle più oscure e impenetrabili, del suo fondamento; e più che riportarericondurre all’“uno”, è spinta verso l’aporia, dialogo e ambivalenza del “due” del pensiero tragico. Filosofia dunque a stretto contatto con i tormenti della fede o con lo smodato e inaudito suscitare di immagini poetiche in grado di creare “condizioni” per un pensiero inavvicinabile, ad alta tensione emotiva e significativa, o pensabilità estrema delle idee o di idee difficilmente contenibili – “sconfinato teatro” di rilkeiana memoria. Ma che cosa dire quando si è nella convinzione di persistere in un sapere illusorio, tra protrarsi e ritrarsi del linguaggio, che è del resto pulsione assai prossima alla stessa ineffabilità e attività del nulla (di “un nulla che non sta fermo”, ma che “nullifica” al pari di un ribollio manifestantesi in parole che scadono vieppiù nel fondo indistinto dell’indeterminato), attività del pensare stesso come traccia indefinita, la cui genealogia sembra specchiarsi sullo stesso sfondo o baratro di questo “quasi nulla”. Sicuramente questa, più che una questione, è una tesi condivisibile purché si sia d’accordo che la fede è sempre domanda e interrogazione e non messa tra parentesi dei pungoli critici che ci interpellano continuamente. Io non credo che la fede sia un “dono” che comporta l’attesa e la passività del ricevere. Agostino ha narrato la propria ricerca di fede, il suo primo girovagare tra certezze poi risultate vuote e devianti. La fede è attesa, come ha scritto Simone Weil: attesa di un incontro che può anche non avverarsi. Il rapporto mistico può pure comportare l’annichilimento del soggetto, come tutti sappiamo. L’arte, rispetto alla fede, ha qualcosa di più decisivo che proietta l’indicibile in suoni, colori, parole, immagini... Ancora una volta potremmo tornare al nulla che, nel momento in cui viene reificato nell’arte, è uno specchio con cui l’animo si confronta e in cui si può riconoscere. Lo stadio dello specchio, di cui parlava Lacan, è lo stadio della costruzione
dell’identità; è anche lo specchio nel quale il soggetto può cogliere il proprio modo di essere, le modalità con le quali si presenta all’altro autocostruendosi. L’arte è gravidanza, saturazione, espulsione, frammenti di essere coagulati nella materia. D.: Un’ultima domanda, che mi sembra d’obbligo, tentando un’importante quanto indispensabile riapertura di una tematica, così presente in ambito francese e novecentesco – e del resto sempre così drammaticamente inattuale –, quella riguardante l’indagine sulla crisi del soggetto, sull’idea di svuotamento dell’io che proprio in quanto pensa si separa da sé, dal suo essere proprio, ma che al di fuori di sé non scorge se non la crisi o il fallimento e la minaccia del relativismo nichilista. In tale visione persino la malattia, al pari di ogni altra condizione di precarietà emotiva (la vergogna, la noia, la nausea ecc.), dice in fondo un distacco da sé ma in qualità di mancanza e come desiderio d’essere, un mal-essere, un punto di vista che suggerisce ancora una volta ostinazione su di sé; idea di soggetto che altresì implode e collassa paradossalmente in quelle stesse filosofie che determinano l’io quale dominus dell’universo. Intrattenendoci su tale riflessione, in che termini, Le chiedo, pensa sia possibile porre ancora di fatto margini per una strategia in grado di suggerire per il tema cruciale della soggettività, sospinta al di fuori di ogni orizzonte apocalittico tipico di molto anti-umanesimo contemporaneo o destino a sfondo nichilista, una prospettiva non disperante? Le saremmo grati se volesse dirci qualcosa in proposito. Se avessi una soluzione per quello che Lei propone avrei trovato la lampada di Aladino. Oramai la contingenza dell’esistente e del reale è un dato acquisito, anche se non sempre consapevole a livello di coscienza. Questo non vuol assolutamente dire che viviamo in una realtà luttuosa o soltanto precaria. Proprio la precarietà e la contingenza riaffidano all’uomo le redini della storia e la responsabilità del soggetto e della comunità. Debbo, non casualmente, citare nuovamente Merleau-Ponty che, dopo la seconda guerra mondiale, scriveva che i santi del cristianesimo e gli eroi delle rivoluzioni passate non hanno mai fatto altro che pensare ad un futuro già determinato: “Semplicemente tentavano di credere che la loro battaglia fosse già vinta nel cielo o nella Storia. Gli uomini di oggi non hanno questa risorsa. L’eroe dei contemporanei non è né Lucifero, non è neanche Prometeo, è l’uomo”. Sempre nell’ambito di quel clima teoretico che è passato sotto la cifra del pessimismo esistenziale, il rifiuto di Sartre dell’affermazione di Dostoevskij secondo la quale se Dio non è, tutto è possibile. Il francese ribatteva che, proprio se Dio non è, non tutto è possibile: tocca supplire alle tavole della legge, darsi delle regole di convivenza, costruirsi dei valori positivi. Ogni rivoluzione o è morale o non è rivoluzione, aveva scritto Charles Péguy nel primo decennio del Novecento. Le filosofie dell’esistenza, basate sulla contingenza, si autoriconoscono come “umanismo” e non solo perché qualcuno riprende come epigrafe dei suoi saggi l’affermazione marxiana secondo la quale essere radicale significa considerare le cose in base alla radice, “ora per l’uomo la radice è l’uomo medesimo”. Il destino dell’uomo è, comunque, quello di costruirsi la comunità: essere animale politico vuol dire che si sopravvive nella comunità regolamentata dalle leggi che noi ci diamo. L’arte, le fedi, la filosofia sono tanti tratti di un percorso che le generazioni si passano come un testimone. Noi siamo responsabili: noi rispondiamo di tutto il bene e di tutto il male. Luisa Muraro, pensatrice della differenza, parla anche della contingenza di Dio. Dio c’è e non era necessario che ci
fosse. E contingenza non è libertà, è casualità su cui noi interveniamo con la nostra libertà, costruendo una convivenza umana su valori umani: cioè relativi.
Il mondo alla rovescia del liberismo di Andrea Margheri*
Tutti i dati ci dicono che siamo ancora molto lontani dall’alba della ‘nuttata’ che ha avvolto, avvolge e quasi soffoca l’Europa, con primo epicentro la tragedia della Grecia, e nei giorni successivi con un terremoto vasto come l’Unione, particolarmente violento in Portogallo, Spagna e Italia. L’Europa, frenata dalla Germania della Merkel, ha agito tardi. Si è limitata a misure di emergenza (la possibilità per la Bce di acquistare titoli degli Stati, il Fondo europeo per contrastare situazioni fallimentari). Ma, l’attacco dei mercati ha una dimensione assolutamente maggiore dell’area dell’intervento di emergenza, che pure costituisce un passo avanti sulla via di un governo comune dell’economia). Non solo perché mira al cuore della struttura finanziaria dell’eurozona, la Bce appunto, che non avendo alle spalle né uno Stato né una politica economica davvero coordinata, spesso contraddetta da interessi nazionali ben più aggressivi, è esposta all’attacco delle forze della speculazione. Ma soprattutto perché è «solo il calcio di inizio» (Cacace) di una partita decisiva per l’in-
tero sistema del capitalismo globalizzato e delle forze che lo compongono. È un vero e proprio scontro politico per stabilire chi comanda. Per decidere chi è servo e chi padrone, come ci ha spiegato tante volte Silvano Andriani. La finanza internazionale sta verificando, a partire dalla crisi greca, ma mirando agli altri Paesi europei in difficoltà, la capacità degli Stati di sostenere quei disavanzi che si sono formati proprio a causa dell’esplosione della bolla speculativa e proprio per salvare le banche dal fallimento. Quei disavanzi, infatti, si sono formati quando le banche, avendo in ostaggio le grandi masse di risparmiatori, hanno imposto in tutto il mondo, a partire dagli Usa, agli Stati e ai cittadini il peso della crisi causata dagli ‘eccessi’ della finanza creativa e dall’esplosione della ‘bolla’ speculativa dei derivati. Come sostiene giustamente Obama, quella crisi è stata così grave per il vuoto di regole e di controlli che ha reso ciechi e impotenti gli Stati proprio mentre avveniva quel colossale trasferimento di risorse dall’impresa e dal lavoro alla intermediazione finanziaria. Naturalmente, dopo il «caso» Lehman Brothers, gli ostaggi sono sempre stati salvati al prezzo imposto dalle banche, dai Fondi, dalle assicurazioni. Speculazione. Così una crisi devastante, nata dai meccanismi del mercato autoregolato, insuperabile da una crescita della disuguaglianza (il trasferimento di risorse dalla produzione e dal lavoro alla rendita speculativa, che oltre a essere iniquo comprime insopportabilmente la domanda aggregata, come Krugman e Stiglitz ci hanno spiegato) si è evoluta e momentaneamente placata attraverso un ulteriore aumento della disuguaglianza, e cioè scaricando costi enormi sugli Stati e quindi principalmente sui lavoratori dipendenti e sui ceti medi che pagheranno il prezzo più alto dell’austerità imposta dai disavanzi. Contemporaneamente, alle imprese diventa più difficile ricorrere al sostegno necessario del credito. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: caduta della domanda, difficoltà delle imprese, disoccupazione, caduta dei servizi anche di più alto livello (formazione e cultura). È questa la condizione che in Italia il governo di centrodestra si è ostinato a nascondere dietro la formula di una rapida «uscita dalla crisi», e che è semplicemente il trasferimento della crisi alle grandi masse popolari. In questo scontro violento tra la finanza e la politica sinora il meccanismo fondamentale del capitalismo è rimasto intatto per l’accanita opposizione alla istituzione di nuove regole e nuovi controlli sia su scala internazionale sia al livello degli Stati nazionali. È inevitabile un ulteriore attacco nei punti più esposti contro gli Stati più indebitati ed economicamente più squilibrati. Fa parte della partita che è solo iniziata. Per questo il primo obiettivo è l’euro, che è una moneta senza Stato. Il caso della Grecia dimostra che si è aperta una corsa del sistema verso una disuguaglianza sociale drammatica, difficilmente tollerabile. Ma gli economisti liberisti ci spiegano ora che bisognava lasciare la Grecia al suo destino. Oppure che due Euro, uno a Nord uno a Sud, possono reggere meglio di una sola moneta (Zingales) e prefigurano, così, un’evoluzione rovinosa per molti Paesi e per il Sud dell’Italia, in particolare. Sono solo proposte isolate e si collegano a una spinta culturale e politica più vasta e articolata, possibilista sulle soluzioni di emergenza, ma molto determinata sull’obiettivo strategico? Credo che sia vera la seconda ipotesi. E l’obiettivo strategico è il seguente. Il sistema capitalistico fondato sul potere assolutomdella finanza deve restare identico a se stesso. Nonostante il risultato catastrofico sul piano produttivo e sociale, non c’è niente di sostanziale da cambiare. Ora questo modello dispiega tutto il suo potere attaccando le faticose conquiste politiche dell’Unione europea come la moneta unica e la solidarietà tra gli Stati
membri. Il cerchio si chiude. Il sistema rilancia il suo ‘squilibrio permanente’, ancora senza regole e senza controlli, e tenta di imporre la sua egemonia alla politica. Nella sua strenua battaglia Obama lo ha ben compreso. Per questo è sostenuto da una cultura di sinistra combattiva e ricca di contributi. È una battaglia davvero storica, che ha messo a nudo la natura delle forze contrapposte, ma anche le falle di un sistema democratico in cui il peso anche mediatico ed elettorale dei diversi interessi organizzati è estremamente disuguale, determinato com’è dalla quantità di denaro che ciascuna organizzazione di interessi mette in campo. L’abbiamo potuto leggere chiaramente nello scontro per la riforma sanitaria, la prima battaglia storica sostenuta da Obama: la disuguaglianza sociale condiziona ancora, molto pesantemente, la democrazia americana. Nella sua Storia del popolo americano dal 1492 a oggi, Howard Zinn ha ricostruito con molta chiarezza questa costante della società americana che ha attraversato la discriminazione razziale e i conflitti sociali, fino ai grandi conflitti operai di inizio secolo. Ma oggi c’è un attacco al principale pilastro della società americana, quel ceto medio laborioso e creativo che ne costituisce storicamente la principale forza propulsiva. Obama incarna la possibilità di una risposta riformista e vincente. Così, lo sbocco della crisi globale è il terreno di un confronto di altissimo livello tra le tendenze democratiche più avanzate, anche sul terreno sociale e culturale, e le tendenze conservatrici della rendita e dei privilegi, della disuguaglianza sociale che domina il sistema finanziario ancora sotto il vessillo del «pensiero unico » ultraliberista. Quel vessillo che ha trionfato con Reagan e con Bush e che falsifica il pensiero liberale democratico anche di fronte agli effetti della attuale crisi. Il contrario avviene in Europa. Nel nostro continente la sinistra attraversa un periodo di afasia e non è stata in grado di presentare un’analisi esauriente della crisi e un progetto politico adeguato alla gravità delle sue conseguenze. Così, la sola risposta è stata l’intervento dei governi di fronte all’emergenza più evidente e immediata: il rischio di fallimento delle banche e le difficoltà finanziarie delle imprese maggiori. Dopo questo intervento, mentre già molti intravedevano una luce alla fine del tunnel e facevano i conti di una ripresa produttiva considerata molto prossima – i più ottimisti parlavano in Italiano – le stesse forze che avevano generato la bolla speculativa davano il via a una ‘ripartita’ degna del Barça e intervenivano sugli indebitamenti degli Stati. A partire dalla Grecia, per minacciare Portogallo, Spagna e Italia. La crisi mostrava più chiaramente la sua natura ‘sistemica’, il suo carattere di crisi del modello capitalistico forgiato dal potere assoluto, senza regole e controlli, della finanza. Alla ‘ripartenza’ della speculazione corrisponde il coro degli economisti liberisti che «paventano» rivalutazioni dello statalismo di ispirazione socialista ed esondazioni del potere politico nei campi dell’economia. Così, di fatto, ripropongono il «pensiero unico» che ha già dato i suoi risultati più vistosi dal 2008 a oggi. In «Mondoperaio» Covatta paventa «conclusioni affrettate sulla crisi del capitalismo». Ma non è forse lecito, da un punto di vista rigorosamente riformista, constatare che è proprio questo modello di capitalismo, proprio l’assetto geopolitico che esso ha imposto appoggiandosi alla forza economica, tecnologica e militare degli Usa, proprio la ‘rete’ di istituzioni che non garantisce né solidarietà né cooperazione, il ‘sistema’ insomma, così com’è ad imporre la necessità storica di una svolta? Coloro che invocano a gran voce riforme radicali non tirano, caro Covatta, «conclusioni affrettate». E, aggiungo io, non sono certo preda di inconclu-
denti pulsioni morali, fondate su un’etica delle intenzioni avulsa dalla realtà. Al contrario sono loro che hanno il semplice coraggio di una constatazione realistica e di una adeguata scelta pragmatica. È, infatti, la stessa natura della crisi che ci pone di fronte a un bivio: o la continuazione di questa marcia insensata di un modello non sostenibile né socialmente – perché irrimediabilmente diseguale e condannato dal ‘corto circuito’ della compressione della domanda –, né ecologicamente – perché fondata su un abuso irrazionale di risorse e di ambiente. O un riequilibrio del rapporto di potere tra la politica e la finanza attraverso regole e controlli nazionali e sovranazionali, attraverso nuove istituzioni globali per il funzionamento di un multilateralismo cooperativo tra tutti i popoli e tutti gli Stati. Ora l’Europa di fronte alla tragedia della Grecia ha avuto un sussulto e ha saputo muovere qualche passo su questa seconda strada. Ha saputo opporre una decisione politica risoluta, nel senso della cooperazione e della solidarietà, allo scatenamento della speculazione. È un fatto positivo. Ma la dimensione in cui l’Europa deve muoversi non è solo quella dell’emergenza finanziaria che è un’inevitabile conseguenza della mancata crescita e dell’uso scriteriato delle risorse delle future generazioni: ristagno produttivo e accumulo di debito pubblico hanno strangolato la Grecia. E potrebbero strangolare altri Paesi tra cui l’Italia. Si ripropone, quindi, come ai tempi del Piano Delors o ai tempi del vertice di Lisbona, la questione essenziale di un nuovo e dinamico modello di sviluppo, di una capacità dell’Europa o della parte più avanzata di essa, di progredire insieme con una visione cooperatrice e un programma coraggioso. Si ripropone, cioè, nei fatti anche a livello europeo proprio quell’ipotesi di un rapporto di interazione efficace tra programmazione pubblica, uso razionale delle risorse e mercato competitivo. E la condizione è una scelta coraggiosa verso una coesione politica maggiore, capace di contenere e alla lunga sconfiggerei nazionalismi. È stata questa la scelta federalista dei maestri dell’europeismo come Spinelli e Delors, ma oggi questa strategia, già sconfitta dal rifiuto francese dal progetto di Costituzione, è soffocata dal prevalere di vecchie e nuove forze nazionaliste e localiste. Ora si configura il rischio di un ritorno indietro con la riduzione dell’euro a una ristretta élite di Stati ricchi e il ritorno degli altri alle monete nazionali. Eppure un’equilibrata interazione tra politica ed economia è stata la base di esperienze molteplici nelle grandi democrazie europee, tanto da far parlare qualche anno fa di ‘modello scandinavo’ e di ‘modello renano’. E anche in Italia si avviò un confronto positivo su questo terreno ai tempi dell’‘economia mista’ e della ‘concertazione’. Tutte esperienze, oggi, affidate alla storia, ma che certo esprimevano, nel loro insieme, la necessità di stabilire in modo razionale, trasparente e democratico l’equilibrio tra l’uso delle risorse pubbliche, il sistema produttivo e finanziario, il lavoro, le esigenze di coesione sociale. E questa esigenza diventa via via più pressante di fronte alla scarsità di risorse naturali e alle condizioni ambientali provocate dal cambiamento climatico. Lo strumento necessario per soddisfarle è la programmazione democratica, condizione di un patto esplicito tra le forze sociali del lavoro, dell’impresa, della finanza, da gestire sempre in modo flessibile e con il massimo possibile di dinamismo. Credo che anche in Italia si ponga essenzialmente questa que-stione. Se si considerano le vicende e le discussioni degli ultimi giorni, si nota quanto rapidamente il polverone propagandistico dell’‘ottimismo a tutti i costi’ si vada via via diradando per lasciare il posto a un confronto più netto e chiaro di posizioni. Nessuno può dissentire dall’esigenza del rigore finanziario che il ministro Tremonti va affermando. E a Tremonti va riconosciuto il merito di aver por-
tato l’Italia in prima fila nella critica alla posizione dissennata della Merkel sulla necessità degli aiuti alla Grecia e sulla costituzione del Fondo europeo. Ma i meriti di Tremonti non vanno oltre. Quando Epifani, al Congresso della Cgil, in risposta a Tremonti ha affermato che il rigore va saldato a una strategia di sviluppo che faccia perno sul lavoro e sull’impresa, non solo per garantire l’occupazione, ma per puntellare le condizioni della crescita con il mantenimento della domanda interna, ritengo non facesse altro che interpretare nel modo più netto i più stringenti dati di fatto. Una strategia di sviluppo richiede coesione sociale e quindi una concertazione tra le forze sociali, una visione unitaria del sistema Paese che non offuschi la questione meridionale, una politica industriale fondata sull’innovazione e sulla qualità dei prodotti, un sostegno al credito per l’innovazione, una politica scolastica e formativa all’altezza del tempo presente, un intervento nazionale ed efficace, non puramente propagandistico, sulle infrastrutture e soprattutto sulle grandi reti di comunicazione, di mobilità, di approvvigionamento energetico. In questo elenco, che desumo anche dai documenti della Confindustria e delle associazioni delle Pmi, risuona l’eco di Lisbona e della strategia europea rimasta ancora sulla carta. Ma le delusioni e la necessità di una ‘ripartenza’ in Europa, non devono far abbassare la guardia alle forze riformiste in Italia. Alla posizione unilaterale e, in definitiva, sulla scorta visuale di Tremonti e di tutto il governo, si collegano gli ammonimenti liberisti contro il rischio delle ‘esondazioni’ politiche. Sono anch’essi di corta visuale. Le vere battaglie liberali contro i privilegi, le rendite di posizione, le chiusure corporative richiedono coesione e anche mobilitazione sociale. Al di fuori di questo si predica in lingua liberale, si agisce con risultati corporativi: com’è accaduto così a lungo e come accade tuttora oggi in Italia. Nella stessa direzione vanno le chiusure localistiche di quei settori della Lega ancora convinti che un pezzo d’Italia possa salvarsi da solo e rifiutano una strategia di sistema nazionale. Rifiutare questo localismo unilaterale, miope e destinato a tagliarci fuori dai processi storici del nostro tempo ci pare assolutamente necessario, tanto più che essa pesa come un macigno sull’intero governo di centrodestra. Ma ciò non significa rifiutare un confronto serio sul federalismo. Siamo, infatti, tra coloro che ritengono auspicabile una soluzione federale fondata, però, su un nuovo patto di solidarietà e di collaborazione tra Nord e Sud. D’altra parte è del tutto evidente che i ritardi di un discorso finalmente concreto e conclusivo sul federalismo fiscale e il permanente disagio a discutere charamente sui numeri e sul livello dei servizi pubblici segnalano una permanente ostilità a quel patto. È ben altro il federalismo a cui continuano a pensare i gruppi prevalenti nella congerie rissosa del governo di Berlusconi. Ancora una volta si afferma la tendenza a partire proprio dallo squilibrio drammatico tra il Nord che guarda all’Europa industrializzata e il Sud che guarda all’altra riva del Mediterraneo per imporre una prospettiva separatista ancora più rigida che rappresenterebbe la rottura dell’unità nazionale. È questo il frutto avvelenato dell’egemonia che la Lega è riuscita a costruire nella babele di linguaggi che ritroviamo nel centrodestra. Sono, dunque, numerose e forti le posizioni che rendono difficile affrontare la crisi con l’equilibrio e la razionalità necessari. Ma possono essere forti anche le esigenze culturali, sociali e politiche di cui si sono fatte portatrici le forze di centrosinistra e il movimento sindacale, solo che si superino la vocazione alla segmentazione e alla contrapposizione di ristretti interessi personali e di gruppo. Solo che si ricominci a fare politica con la consapevolezza della gravità dei problemi sociali, economici istituzionali.
Sì, la crisi è in una fase nuova, in cui più chiare sono le conseguenze sociali. Questa fase nuova va affrontata con un progetto complessivo di riforma del modello di sviluppo che non si limiti a considerare l’emergenza, ma guardi davvero lontano nello spazio e nel tempo. Da questo deriveranno, razionalmente, le scelte tattiche e le alleanze. Non può essere il contrario. Repetita Juvant: mettere il carro innanzi ai buoi, parlare degli strumenti prima che degli obiettivi, come si riducono a fare alcuni settori del Pd, è una miopia politica paralizzante. Il contrario della teoria e della prassi del riformismo socialista. In collaborazione con Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri
L’equivoco federalista di Giorgio Ruffolo*
Non tutto è chiaro, per usare un eufemismo, nel concetto di federalismo e nella distinzione tra federalismo e federalismo fiscale. Per cominciare, il federalismo fiscale parte da un principio ispiratore opposto a quello del federalismo storico. Quest’ultimo tratta di organismi politici autonomi che vogliono federarsi, unirsi in un patto (foedus) rinunciando ciascuno a una parte della loro sovranità. Nel primo caso, invece, si tratta di organismi decentrati che mirano ad acquisire competenze sottraendole alla sovranità di un ente politico superiore. In altri termini: ciò che conta nell’istanza federalista è la sua ispirazione di fondo: unitaria o separatista. Non è dubbio che l’istanza federalista rappresentata dal movimento leghista è del secondo tipo: che vede nell’unità non un ideale ma una costrizione. Il separatismo, non l’unità nazionale, è il fattore emotivo di base che anima il movimento leghista. Se esso si è adattato ad accettare l’unità repubblicana, non è certo per passione nazionale, ma per necessità politica. Ed è fonte di continue contraddizioni il fatto che, per costituirsi come maggioranza, l’attuale coalizione di governo abbia affidato proprio ai rappresentanti di quella aspirazione separatistica la responsabilità di definire le linee portanti di un federalismo che presuppone comunque l’unità nazionale della Repubblica. La domanda centrale allora è: che tipo di compromesso storico può nascere da questa contraddittoria condizione politica? È il federalismo fiscale
la risposta? Per rispondere a questa domanda si devono considerare due aspetti: la soluzione finora data al problema delle autonomie nell’ambito dello Stato nazionale; il problema del dualismo storico tra Nord e Sud che si sovrappone a quello delle autonomie regionali, caratterizzando la peculiarità del caso italiano rispetto a quello degli altri Paesi «federalisti», come Germania e Svizzera. La soluzione data dall’Italia al problema delle autonomie è il regionalismo: l’attribuzione alle Regioni, previste dalla Costituzione, di specifiche responsabilità e funzioni autonome, che in alcuni casi, come quello dell’Alto Adige e della Sicilia, giungono quasi a configurare forme di federalismo. A me pare che l’esperienza regionalistica abbia avuto esiti assai diversi nelle due grandi parti del Paese: sostanzialmente positivi al Nord, nettamente negativi al Sud. Ciò è dovuto alla profonda diversità dell’evoluzione storica delle due parti d’Italia. Nel Sud, dove esperienze di governo regionale e di autonomia locale – tranne che in Sicilia ( dove tuttavia sono state duramente contrastate) – essenzialmente mancano, l’esperienza regionalista è stata fortemente esposta alla dissipazione assistenzialistica e alla pressione corruttrice. Il fatto è che qualunque forma di autentico federalismo, in Italia, non può prescindere dal dato fondamentale del divario storico tra le due parti del Paese: che, nel Nord ha provocato istanze separatiste, nel Sud quelle clientelari e assistenzialistiche, per giungere a quelle mafiose. L’istanza federalista, parte integrante dell’originale ispirazione risorgimentale, non era intesa come semplice autonomismo amministrativo, ma come un patto storico tra il Nord e il Sud, che saldasse l’Italia in una autentica unità nazionale. Tale era l’ispirazione meridionalistica dei Dorso e dei Salvemini. Il federalismo fiscale sostenuto dalla Lega si traduce in pratica nella rivendicazione di un separatismo regionale, una forma esasperata dell’attuale regionalismo. Non a caso, l’autonomia rivendicata da Salvemini era intesa per l’intero Mezzogiorno, non per le singole sue regioni: perché solo a quel livello è possibile realizzare quella condizione di parità istituzionale che è condizione essenziale del successo di un patto che persegua l’unificazione economica e politica. In questo senso bisogna intendere la proposta ‘provocatoria’ che ho avanzato nel mio libro Un paese troppo lungo, basata su due fondamentali innovazioni: l’istituzione delle macroregioni e un patto nazionale tra di esse. La prima innovazione muove dalla constatazione del fallimento di una esperienza regionalistica risoltasi in una frammentazione di governi e di burocrazie locali, fortemente esposta alla dissipazione assistenzialistica e alla pressione corruttrice. E mira a una ricomposizione articolata tra un Nord, comprensivo delle regioni settentrionali e centrali e un Sud, di quelle meridionali e insulari. Con un distretto centrale costituito dalla Capitale. Ciò ridurrebbe drasticamente il peso degli interessi locali e promuoverebbe la formazione di una classe politica autenticamente nazionale. La seconda proposta individua lo scopo storico del federalismo: quello di realizzare finalmente l’unità della nazione sulla base di un patto di sviluppo comune e comunemente gestito, che non pregiudica l’autonomia fiscale, ma la finalizza a un interesse superiore. Strumento essenziale di questo patto, non una Banca erogatrice, che finanzi progetti disparati, ma un Fondo di Programmazione che finanzi un piano di risanamento e di sviluppo. Risanamento soprattutto delle aree urbane del Sud, la cui degradazione costituisce il vero ostacolo alla vittoria sulla criminalità mafiosa. Sviluppo, in chiave europea, delle potenzialità economiche rappresentate dall’area mediterranea. Sono ben consapevole dei rischi e della componente utopistica di una proposta così
sommariamente riassunta. Ma anche del rischio di gran lunga più grave: quello della decomposizione dell’unità del Paese che l’attuale deriva comporta. E quanto all’utopia, penso che il fatto più grave sia proprio quello della sua totale e deprimente assenza. In collaborazione con Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri
Filosofia della relazione di Adriano Fabris Brano tratto dal volume TeorEtica, Morcelliana, 2010
III. 13. Responsabilità per l’universale La responsabilità di ciò di cui non si è direttamente responsabili è responsabilità per l’universale. Parlando di questa forma di responsabilità non intendo promuovere l’assunzione di un qualche atteggiamento eroico, che si fa carico dell’impossibile, o sollecitare l’accettazione di un destino che non possiamo dominare. Tale idea è invece conseguenza dei vari passaggi che abbiamo fin qui compartecipato: il ripensamento dell’agire come un essere in relazione che è punteggiato da scelte, la messa in opera della relazione come dinamica che universalmente si diffonde, la risemantizzazione dell’universalità come farsi che al tempo stesso è scelto e coinvolgente, l’esperienza di tutti questi aspetti in una prospettiva che è non solo teorica, ma soprattutto etica. Se infatti l’agire umano è realizzato propriamente come quella forma di relazione che si espande universalmente, allora viene meno l’idea –
collegata a un approccio causale – per cui l’azione è tale solo perché produce effetti, questi effetti sono qualcosa di controllabile e la responsabilità di un comportamento dipende da questo specifico controllo. Invece la responsabilità non si annuncia solo nella misura e nei limiti in cui un controllo è possibile. In questo caso finirebbe per essere privilegiata, arbitrariamente l’accezione del rispondere come «rispondere di». E neppure, nel contesto che abbiamo fin qui delineato, si può parlare di responsabilità facendo esclusivo riferimento al filo conduttore del «rispondere a». Lo sfondo di relazioni nel quale mi trovo coinvolto quando agisco, infatti, può anche venir considerato impegnativo, e tale da implicare una specifica scelta in grado di assumerlo e di attivarlo: dove questa scelta è intesa come risposta a quanto esso implicitamente richiede. Ma ciò che non dice, in generale, la prospettiva del <<rispondere a>> è a che cosa, concretamente, siamo chiamati a rispondere. Ciò che qui non è chiaro è il contenuto della richiesta che m’induce a essere responsabile (oppure, certamente, a scegliere di non esserlo). Lo è, al contrario, la prospettiva dell’agire capace di estendersi universalmente. In tale prospettiva io mi trovo io sono chiamato a essere responsabile non solo delle relazioni che risultano da me avviate, ma anche di quelle in cui sono inserito; non solo di ciò da cui singolarmente mi sento interpellato, ma da tutte le relazioni che mi coinvolgono. Perché, appunto, il mio agire è in generale essere in relazione. In una relazione che, virtualmente, si estende a tutto. Emergono così, accanto ai due modi del rispondere e ai due sensi di “responsabilità” che ad essi si ricollegano, due ulteriori livelli in cui questa condizione può essere considerata. Si tratta della responsabilità collegata alla singola azione, da una parte, e quella implicata dalla struttura stessa dell’agire, come un essere relazione che è diffusivo di sé, dall’altra. Nei confronti di entrambe sono in grado di esercitare la mia capacità di scegliere. Ma appunto riguardo al secondo aspetto si delinea l’idea della responsabilità di ciò di cui, direttamente, non sono responsabile. Una tale concezione non deve stupire. Essa serve anzi a evitare i problemi che contraddistinguono un’idea di “responsabilità” fin troppo vincolata al dispositivo del controllo. Sembra infatti che di ciò che si fugge al nostro controllo non siamo di fatto responsabili. E invece in alcuni casi riconosciamo di esserlo – come si dice – almeno «moralmente». Lo siamo anche se non abbiamo propriamente voluto un determinato esito, tuttavia è legato pur sempre a scelte particolari da noi compiute. Ad esempio siamo di responsabili, in quanto abitatori dell’Occidente e beneficiari dei suoi stili di vita, delle conseguenze disastrose che i nostri comportamenti hanno per l’equilibrio ecologico e per il determinarsi di specifiche diseguaglianze economiche e sociali. Anche se, magari, siamo contrari certe azioni proprio per il loro impatto a livello globale. Una tale idea di responsabilità, che si determina ben oltre il nostro effettivo volere e la nostra stessa capacità di controllo, va tuttavia ulteriormente giustificata: tanto più in tempi irresponsabili come quelli nei quali viviamo. Possiamo fare se ci riferiamo, appunto, alla concezione dell’universalità che abbiamo in precedenza esposto. Sono responsabile, infatti, delle mie azioni. Ma sono responsabile, anche e soprattutto, delle relazioni in cui le mie azioni si trovano inserite. Di tutte le relazioni. Lo sono a patto che questa mia responsabilità sia veramente etica. Perché etica,
come sappiamo, e ogni relazione capace di diffondersi in relazione sempre nuove. Ecco il senso del mio essere responsabile anche nei confronti di ciò che non dipende direttamente da me. Ciò non dev’essere affatto inteso come un peso, un’incombenza, un gravame. Si tratterebbe solo di un modo parziale, esclusivamente negativo, d’intendere la questione. È in gioco qui, invece,un aspetto positivo, produttivo, espansivo, di ciò che posso fare e che in effetti sono. Io sono altro. Sono (in) relazione con altro. E questa relazione è qualcosa di dinamico: si realizzano e può realizzarsi. Sempre di più. La stessa scelta che si mantiene fedele alla struttura della relazione, appunto, è quella che fa suo il compito di elaborare ad estenderla. È la scelta nella quale con la quale si realizza il coinvolgimento. Qui, allora, parlare di responsabilità per l’universale significa, in positivo, agire in modo tale che la relazione prenda il sopravvento sulla separazione, e in tal modo si diffonda. Significa, altresì, scegliere di farlo. Accanto alle dinamiche del «rispondere a» e del «rispondere di» emerge dunque quella del «rispondere per». «Rispondere per», tuttavia, è sempre rispondere per altro. È rispondere in relazione ciò che l’altro vuole o può dire. È rispondere per lui anche qualora lui non possa dire nulla. Perché io sono responsabile non solo del suo essere relazione, ma anche di ciò che altro, ogni altro, è in questa relazione. Lo sono, di nuovo, perché «io sono altro». Sono dunque chiamato, nella mia responsabilità, a dar vita a relazioni, relazioni vere, relazioni feconde di relazioni sempre nuove, sono chiamato a realizzare quell’universalità è sempre si presenta, nella comunanza degli esseri, come qualcosa di universalizzabile. Sono chiamato a ciò in quanto, certamente, posso scegliere di farlo. Ma sono indotto a farlo nella misura in cui mi trovo coinvolto, comunque, in un contesto relazionale. Ecco perché, agendo in questo modo, il bene che realizzo non è solo il mio bene, ma è il bene generale. C’è tuttavia da assumere, per far questo,un punto di partenza ben preciso: è il punto in cui io sono; è il punto che io sono. Il punto di partenza per l’attuazione dell’universale, in altre parole, è nel particolare nella sua assunzione in quanto particolare. Si tratta di ciò c’è, nelle righe precedenti, ho espresso con il pronome personale “io”. Io sono il punto di partenza di quello stesso percorso di universalità – virtuale ma sempre possibile; possibile perché scelto, scelto a partire da una dimensione di coinvolgimento – che mette in opera il mio essere relazione. In quanto tale ne sono responsabile. Ed è solo perciò posso pensare ed esprimere l’agire filosofico con un linguaggio differente. Conforme alle categorie che sono finora emerse.
Res singulares di Remo Bodei Brano tratto dal volume La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari 2009 Il salvataggio delle persone e delle cose avviene, sul piano della percezione sensibile, attraverso l’arte, ma, su quello concettuale, attraverso la filosofia. Spinozianamente è lo sguardo della mente, che le considera sub specie aeternitatis, a modificarne e riorientarne il senso, operando la loro conversione in cose da amare e ‘santificare’ proprio grazie alla loro singolarità, al loro essere nodi specifici di relazioni cognitive e affettive. Ogni cosa viene strappata al suo isolamento e con essa a Dio (all’intera natura) attraverso l’amor intellectualis, che comprende, ama e conserva nel loro essere le singole cose, le res singulares. Seppur riproducendo le concezioni di una marginale setta eretica del periodo della Riforma, lo scrittore svizzero Gottfried Keller ha mostrato in Ursula, una delle Novelle zurighesi, come ogni cosa si connetta, in modo analogo, alla vita del Tutto, in questo caso al Dio cristiano panteisticamente interpretato: «Egli è nella polvere di questo pavimento e nel sale dell’acqua marina! Egli si scioglie come la neve del tetto e noi lo vediamo gocciolare! Splende nello sterco della strada, guizza con i pesciolini nelle profondità delle onde e scruta con occhi di nibbio librato nell’aria». Prendendo in mano una mela e mettendosela di fronte, il “profeta” contadino della novella così le parla: «Ebbene, o mio bel piccolo Dio: ti sei rifugiato qui, stai dentro a questa mela e credi che io non ti trovi? […] Guardate, fratelli e sorelle, come la mia mela comincia a risplendere dall’interno, come si gonfia in mano e diventa un mondo!» [Keller, 288, 289].
Le cose parlano, da un altro punto di vista, anche a chi sa interrogarle poeticamente, come è il caso delle pietre e delle erbe nell’unico racconto di Paul Celan, Gespräch im Gebirg, Conversazione in montagna. In Spinoza, tuttavia, a parlare è la cosa stessa, secondo ferree concatenazioni di idee, more geometrico. Le res singulares devono, invece, essere comprese nel contesto della totalità della natura, che include anche noi: «le cose singole non possono essere pensate senza Dio» e «Quanto più conosciamo le cose singole, tanto più conosciamo Dio» [Spinoza, II, prop. XLV, dem., p. 883; V, prop. XXIV]. Traducendo quest’ultima proposizione in un linguaggio più piano, quanto più conosciamo e amiamo ogni singola cosa, tanto più conosciamo ed amiamo il mondo. Giunta al livello supremo dell’amor Dei intellectualis, dove l’intelligenza si fonde con gli affetti, la mente può concepire le cose sub specie aeternitatis, vedere in ciascuna di esse un nodo di infiniti rapporti con l’intera natura. Quasi come beneficio collaterale, chi contempla le cose in questa prospettiva avverte in sé un incremento di gioia, un’espansione del proprio essere, perché si rende conto che le cose non sono morte e che noi facciamo parte della natura che le (e ci) ingloba. L’uomo non è un autonomo «impero in un impero» [Spinoza, III, praef.] e ciascuno, in base alla sua «potenza di esistere» (vis existendi), partecipa, in qualche misura, delle vicissitudini dell’intera realtà. Nel caso delle nature morte e delle opere d’arte in genere, è poi come se le cose ci dicessero (parafrasando l’oraziano Carpe diem!): Carpe aeternitatem in momento! Cogli la vita nel suo culmine, godi delle cose nel tempo opportuno, senti la pienezza della tua esistenza nel mondo, prima che declini e che ti sfugga. Il memento mori non viene in ciò dimenticato, ma, come ha scritto Thomas Merton, ci sono due modi opposti di far fronte alla caducità: «la vita sfugge dalle nostre mani, ma non può sfuggire come sabbia o come semente». E come semente la si coglie, appunto, nell’arte, nella filosofia e in ogni trasformazione riuscita degli oggetti in cose. Davanti alla rivelazione dell’aeternitas, a vincere è la vita delle cose, assieme alla nostra e a quella degli altri uomini. Tutto quanto ci coinvolge attraverso la conoscenza affettiva delle res singulares ci libera, infatti, dal ricatto di quelle istituzioni che fanno della caducità e della paura della morte uno strumento politico e religioso di dominio. In questo senso, «l’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita» («Homo liber de nulla re minus, quam de morte cogitat, et ejus sapientia non mortis, sed vitae meditatio est») [Spinoza, IV, prop. LXVII]. Questa sensazione di plenitudo vitae ci coglie allo squarciarsi, improvviso e momentaneo, dell’opaco velo dell’esperienza quotidiana. Allora «sentimus, experimurque, nos aeternos esse», avvertiamo in noi e nel mondo, pur senza poterla dimostrare, la presenza di una pienezza fuori del tempo: «né l’eternità si può definire mediante il tempo, né può avere alcuna relazione col tempo. Ma nondimeno sentiamo e sperimentiamo di essere eterni» [Spinoza, V, prop. XXIII, schol., e cfr. V, prop. XXIX, schol.; da una diversa angolazione, cfr. Deleuze]. Forse, per noi, tale pienezza esiste soltanto nella logica del desiderio, ma ciò non toglie che serva da metro per giudicare l’inadeguatezza e la banalità di ciò che, offertoci, non soddisfa. Nell’epoca del «sex appeal dell’inorganico», della produzione in serie e del maggior spreco di intelligenza e di vita ha ancora senso fare appello alla filosofia di Spinoza e sforzarsi di guardare le cose sub specie aeternitatis?
Può, inoltre, lo stilleven [“vita immobile” o “vita silenziosa”, n.d.r.] della pittura olandese, con il suo pathos per il toppunt [“perfetta maturità delle cose”, n.d.r.], rappresentare un esempio per noi che viviamo tra oggetti che sembrano aver perduto la loro durata ed assunto l’aspetto di evanescenti simulacri?
Pietro Marcello, La bocca del lupo, ovvero lo sguardo disincatato sul Novecento di Domenico Spinosa
Miglior film del 2009 Torino Film Festival per la sezione “Concorso internazionale lungometraggi”, premiato con il “Caligari” nella sezione Forum alla 2010 Berlinale, La bocca del lupo del giovane regista Pietro Marcello rappresenta, da diversi punti di vista, un’importante novità per il cinema italiano (e non solo italiano). Prima di tutto, da quello formale e linguistico. Da più voci considerato come un documentario, il film risulta invece di difficile collocazione in un genere preconfezionato. E in ciò si concretizza la scommessa dell’autore. La bocca del lupo, infatti, facendosi
testimone di una certa attuale crisi del linguaggio cinematografico, incarna una possibile proposta di ripensamento del fare filmico che interessa, in particolare, il montaggio. La lunga, voluta e vera storia d’amore di Mary e Vincenzo, ci viene narrata e presentata a partire da uno sfondo fatto di immagini di repertorio, amatoriali e d’archivio, girate e realizzate a Genova nel corso del Novecento. Questo connubio di forme e figure sia del presente sia della Grande Storia, questo incontro, che ci piace quasi pensare battezzi in qualche modo anche l’unione esistenziale dei due protagonisti, non solo funziona ma ci fa pienamente dimenticare del tempo che scorre e ci lascia in toto godere di quell’esperienza estetica che ancora oggi il cinema è capace di offrici. E scopriamo così quella che potremmo definire la “secolarizzazione” del cinema, ovvero questo suo appartenerci, senza se e senza ma, come fenomeno culturale escludendo il quale risulta impossibile leggere e interpretare il Novecento. La bocca del lupo ci fa pensare proprio a questo, al portato e al senso che le immagini in movimento hanno acquisito e acquisiscono nel mondo contemporaneo. Di questo Novecento si può anche provare nostalgia, ma una nostalgia particolare. Una nostalgia che si fa rimpianto per un sogno rimasto tale, per un progetto che ha fatto naufragio, che ha prodotto tanta speranza e fiducia di cui rimane appena l’amaro. Esistenze-fantasma hanno albergato questo secolo che ci siamo lasciati alle spalle, esistenze che senza rimorsi, ma grazie soprattutto all’amore, sono sopravvissute nonostante intorno macerie e rovine. E poco importa se queste ci sono. Infatti si finisce ancora una volta in un bar a giocare con la vita che non si lascia comprendere e che va solo fortemente voluta e vissuta. Tutto il film ci parla di un presente a noi sempre più sconosciuto (o invisibile) che il mare, come consuma, porta via. Un presente fatto di mani artigiane logorate dall’uso, di mani violente ma che sanno teneramente accarezzare. E qui incontriamo il “senza tempo”, quello spazio mitico che viene da lontano che fa sentire la sua presenza nel porto di una città come Genova. E forse solo come è riuscito Fabrizio De André con la musica, Pietro Marcello arriva con il cinema a scoprire le pieghe di Genova.