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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008


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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Marzo-Aprile 2009, n° 16. (Numero 17, 30 Aprile 2009) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Enrica Sanna. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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Il PD e la nascita “ufficiale” del partito unico PDL di ELIO MATASSI

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Destra e Sinistra: un “vecchio” tema e un nuovo equivoco di MAURO VISENTIN

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Chiamarsi Partito in Italia di ANDREA MARGHERI

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Intervista a Adriano Fabris a cura di BACHISIO MELONI

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Il surrealismo fenomenologico di Giancarlo Rota di GIANFRANCO DALMASSO

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Brevissime riflessioni sulle cose ultime di SEBASTIANO GHISU

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Sulla morte televisiva di Jane Goody di CARMELO MEAZZA

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Recensioni

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Il PD e la nascita “ufficiale” del partito unico del PDL di Elio Matassi

Dopo le traumatiche dimissioni di Walter Veltroni e le elezioni alla segreteria del partito di Dario Franceschini, il Partito Democratico, si trova dinnanzi ad uno dei ‘passaggi’ più complessi della sua controversa vita: l’imminenza di una ‘tornata’ elettorale molto rilevante (amministrativa ed europea) e la nascita, sancita dal primo congresso del partito ‘unico’ del PDL, accompagnata dalla retorica e dall’appello diretto al ‘popolo’ ed alla nazione, il partito autentico ‘degli italiani’, del bene comune e dello spirito nazionale. Se si comparano le affermazioni dei vari leaders del PDL con l’attuale situazione internazionale (la grave crisi finanziaria), in particolare, e le maniere di uscirne, prospettate dai maggiori capi di governo europei e dall’attuale leader degli Stati Uniti, Barak Obama, recentemente eletto, sembra quasi


che l’Italia faccia parte di un altro pianeta. L’affermarsi di un blocco conservatore con vocazione maggioritaria, con dei distinguo rilevanti al proprio interno, dalla retorica neopopulistica con l’appello conseguente ad un nuovo ‘miracolo economico’ e l’ostentazione di ottimismo, supportata dal collante ideologico dell’anticomunismo, il nuovo ‘anti’ della seconda Repubblica, mentre quello della prima era stato l’antifascismo, alla critica del mercatismo ed al richiamo dei valori più tradizionale della tradizione cristiana del super ministro dell’economia Giulio Tremonti, all’invocazione di una stagione costituente ed al rispetto delle regole del presidente della Camera Gianfranco Fini, avviene in Italia proprio nel momento di un capovolgimento di paradigma: ha perfettamente ragione Aldo Schiavone, uno degli intellettuali che fa capo all’esperienza di “Inschibboleth”, nel suo recentissimo, L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale nel sostenere che il nuovo clima internazionale non è incoraggiante per la destra, né in Europa, né negli Stati Uniti: “E’ la sua (della destra) forza di irradiamento ideologica – quella che negli ultimi trent’anni ha sostanzialmente dettato la forma politica del mondo, arrivando a condizionare non poco anche Clinton e Blair – che appare intrinsecamente legata ad un modello non più proponibile e che tutti stanno abbandonando. Il pensiero che fino ad ora lo ha sostenuto non spiega più né dove siamo, né di che cosa abbiamo bisogno. Se all’ordine del giorno c’è la ricerca di una relazione diversa e più adeguata tra ragione e potenza – fra razionalità sociale e potere economico e tecnologico, fra interessi della collettività e quella dei soggetti forti che agiscono sui soggetti globali – ebbene tutto ciò ci immette in un laboratorio di idee e di possibilità che non appartiene al patrimonio della destra mondiale, e tanto meno a quello della sua variante italiana, del berlusconismo come l’abbiamo fin’ora conosciuto” ( pp. 7273). Ed infatti, sotto molti punti di vista la situazione si è completamente rovesciata rispetto agli ultimi decenni quando erano i partiti di sinistra che per restare in sella, erano costretti ad attuare politiche ‘di destra’, sull’onda della trasformazione: liberismo spinto, deregolazione, riduzionismo anti statalista. In questo momento, invece, le destre che gestiscono il potere, si vedono precipitosamente costrette a praticare politiche tutte interne alla tradizione più marcatamente progressista: ‘nazionalizzazioni’, pressione statale sul mercato, sostegno pubblico alla domanda. Anche in Italia, ne stiamo avendo un esempio particolarmente significativo. Questo rovesciamento del trend politico – culturale favorisce la rientrata in gioco della sinistra o, perlomeno, aiuta a creare delle condizioni più favorevoli per la sua rinascita, anche se coltivare l’illusione che basti assecondare la corrente della storia, per tornare ad essere protagonisti, potrebbe risultare ingannevole. La ricetta ‘socialista’ che ha avuto negli anni sessanta il suo punto massimo di consenso presumeva società industriali ‘lente’, nate dal fordismo e taylorismo, con strutture di classe che dipendevano dalla rigidità dell’organizzazione del lavoro. Il “continuismo” rigido con questa tradizione non potrebbe più garantire nulla perché è venuto meno il presupposto fondante di quella stessa ricetta politica. E’ necessario, pertanto, aggiornare quella tradizione con una nuova politica della responsabilità, più flessibile e democratica al contempo. Come è possibile pensare ad un ethos civile condiviso in un tempo contrassegnato dalla fluidità, dall’obsolescenza rapida, dall’incertezza? Sul piano culturale suggestioni importanti possono essere mutuate da E. Morin che afferma la necessità di “passare dall’ossessione di un progetto


che contenga già in sè compiutamente la forma di società da edificare, all’idea che nuove possibilità di libertà e di solidarietà debbano essere fatte emergere dall’azione politica”. Egli ritiene e questo mi sembra un aspetto rilevante che sia necessaria una nuova coscienza planetaria fondata su una visione solidaristica dei rapporti fra gli uomini e fra questi e la natura. Si tratta di sviluppare quella che viene definita ‘etica della relianza’, espressione coniata da M. Bolle de Bal e che rinvia all’unione di relier (legare) ed allianz (alleanza). Quali sono i principi sui quali fondare tali rapporti e che, almeno potenzialmente, siano accettabili in termini universali? Innanzitutto i diritti umani intesi come sfondo di un’idea di cittadinanza non più vincolata ad appartenenze particolari, ma sopranazionale. Tale prospettiva è tanto più attuale in quanto “per la prima volta nella storia umana l’universale è divenuto realtà concreta: è l’inter-solidarietà oggettiva dell’umanità, nella quale il destino globale del pianeta sovra determina i destini singolari delle nazioni e nella quale i destini singolari delle nazioni perturbano o modificano il destino globale”. Esattamente il rovescio del ‘partito degli italiani’ ostentato dal PDL. Sempre sul piano culturale, interessanti sono gli spunti rintracciabili in A. Sen che va nella direzione di una possibile integrazione delle elaborazioni teoriche dell’etica e quelle dell’economia che, per molto tempo, sono state ritenute incompatibili. Fra quanti operano e detengono posizioni decisionali e di responsabilità nel mondo dell’economia, la consapevolezza che non solo è possibile, ma necessario rapportare economia ed etica è solo relativamente diffusa (troppo spesso, manager ed imprenditori ritengono l’etica un ‘lusso’ o una sorta di fiore ‘all’occhiello’ da utilizzare in termini di promozione all’immagine). Come passare dalla teoria alla prassi, quale strategia politica dovrà intraprendere il Partito Democratico, nell’immediato, per resistere e rovesciare le tendenze già in atto? Due sono le possibili alternative: l’alleanza con il ‘centro’, l’UDC di Pierferdinando Casini o il ritorno ad un confronto – accordo con tutte le frange della sinistra più radicale. La prima prospettiva è impraticabile, il partito di Casini sta solo scegliendo l’occasione migliore per rientrare nell’alveo del PDL, un’occasione che potrebbe essergli fornita dalla imminente esplosione di un conflitto identitario tra il PDL e la Lega. Sul piano dei valori più generali, delle scelte economiche il partito di Casini è attratto irresistibilmente da un nuovo rapporto con il PDL. Le opzioni, del resto, che vengono praticate nelle alleanze per le amministrative dimostrano in maniera inequivoca tale vocazione. L’unica via praticabile, sia pur complessa e controversa, è quella di un nuovo rapporto con tutte le anime della sinistra di cui il PD dovrebbe rappresentare il collettore centrale, una via che dovrà aprire lo spazio ad una nuova generazione del PD, dove rivoluzione generazionale non significa necessariamente rivoluzione anagrafica ma ‘apertura’ a nuovi esponenti, espressione della società civile e non dell’oligarchia partitocratica. Solo questa nuova generazione di dirigenti potrà contribuire a superare l’”eccezionalismo” italiano.


Destra e Sinistra: un “vecchio” tema e un nuovo equivoco. di Mauro Visentin

In tempi di crisi (economica, in primo luogo, ma, di seguito a questa e con un effetto “a valanga”, anche sociale, civile, morale intellettuale e via dicendo: una crisi economica dell’entità di quella che stiamo attraversando non lascia nulla di stabile e immutato, perché incide sulle stesse basi psicologiche della “sicurezza” e produce un senso, diffuso e incontenibile, di disorientamento e paura), in tempi come questi, dicevo, è inevitabile che la politica si mostri altrettanto confusa e frastornata della massa dei cittadini che governa e degli elettori ai quali si rivolge. Così come è inevitabile che lo dia a vedere proprio mentre cerca di dissimularlo. Ossia, in primo luogo, attraverso le parole di cui si serve. Queste non sono mai, di norma, particolarmente attente e calibrate: la politica, in una società di massa, deve soprattutto, attrarre, affascinare, soggiogare. E un obiettivo come questo si ottiene tanto più facilmente quanto più le parole sono scelte con il criterio


dell’“effetto” che produrranno piuttosto che con quello del loro contenuto informativo e della loro aderenza alla realtà. Ma quando una società nel suo insieme, anzi un intero sistema sociale, o, più esattamente, addirittura il “mondo” vengono investiti, come adesso, da un turbine devastante e incontrollabile, l’uso politico delle parole si fa, per quanto la cosa possa apparire difficile, ancora più frenetico e insensato. Sia per il motivo che ho appena descritto, ovvero per il disorientamento diffuso che colpisce indifferentemente un po’ tutti, ceto politico dirigente e corpo elettorale, sia perché lo smarrimento della massa degli individui e l’accentuarsi del suo deficit di discernimento critico favorisce la possibilità, per la politica, di propinare all’insieme delle persone che costituiscono il magma amorfo divenuto, nell’uso comune del linguaggio, la “gente” anche le proposte più assurde e sprezzanti nei confronti del buon senso, senza tema di ottenere, da parte di questo “magma”, reazioni indignate (o con il rischio accettabile di provocare una simile conseguenza solo, tutt’al più, in una piccola parte, decisamente minoritaria, della platea degli elettori). In condizioni come le presenti, infatti, accade sempre più spesso che l’oltraggiosa e devastante idiozia di certe affermazioni e proposte del ceto politico (frutto di confusione intellettuale o di istintivo cinismo, poco importa) non lasci alcuna traccia e non venga minimamente rilevata dai più, e questo proprio perché – come la “lettera rubata” dell’archetipo di ogni Sherlock Holmes di questo mondo, ossia il C. Auguste Dupin di Edgar A. Poe – è sotto gli occhi di tutti. Così, negli ultimi mesi (e in particolare nei primissimi di questo 2009) abbiamo assistito ad una vera orgia di parole a commento del caso Englaro, delle elezioni in Sardegna, della crisi del PD e di quella dei mercati finanziari, da un lato, a sostegno di provvedimenti governativi riguardanti le intercettazioni telefoniche, l’assistenza medica a chi è immigrato in Italia clandestinamente, il rilancio delle centrali nucleari e delle infrastrutture, dall’altro. Tanto per dire. Un piccolo florilegio varrà ad esemplificare persuasivamente questo rilievo. A proposito della triste vicenda della famiglia Englaro, non si è avuto nessun ritegno da parte dei politici di destra e, in generale, dei cattolici oltranzisti (alcuni dei quali militano, per imprecisati e sospetti motivi, perfino “a sinistra”) nel lasciarsi andare alle dichiarazioni più assurde e offensive (anche, se non soprattutto, nei confronti del lessico e della logica elementare), come quella consistente nel dichiarare l’attuazione della sentenza definitiva della corte d’appello di Milano un caso di “eutanasia” nell’atto stesso in cui si denunciavano come impressionanti e indescrivibili le sofferenze alle quali Eluana sarebbe andata incontro a causa della sospensione di alimentazione e idratazione artificiali. All’interno del PD si è, negli stessi frangenti, sostenuto, da parte dei suddetti cattolici oltranzisti (intenzionati, forse, a proporre, per questo partito, un’identità confessionale molto simile a quella dei settori più tradizionali della vecchia DC) che si dovesse concedere libertà di coscienza a coloro che intendevano avvalersene per coartare, di comune accordo con la maggioranza di governo e servendosi dello strumento legislativo, la coscienza altrui. Sempre in relazione al tema della convivenza nel PD fra laici e cattolici, in margine al dibattito suscitato dagli eventi appena ricordati, si è confusa la fine del voto identitario con la fine dei partiti identitari. Ora, mentre la prima cosa, che anche l’ennesima sconfitta elettorale della sinistra mostra chiaramente, è, di per sé un fenomeno positivo, perché implica la semplificazione del quadro politico e una maggior maturità democratica del corpo elettorale (in una democrazia ma-


tura non si vota l’ottimo – che il più delle volte non c’è, almeno se si intende per “ottimo”, dal punto di vista del singolo elettore, il partito la cui identità coincide con la propria –, ma il meno peggio, ossia la formazione politica la cui identità si allontana meno dalle proprie preferenze e aspettative), la seconda è una pura e semplice insensatezza – attraverso che cosa si dovrebbe infatti definire l’ottica “di parte” di cui un partito è espressione se non attraverso la sua identità? –, tanto più che essa sembra paradossalmente servire, in realtà, solo alla rassicurante conservazione, entro un nuovo contenitore politico, delle vecchie e non più attuali identità di provenienza. Riguardo alle analisi preoccupate di molti tecnici che si sono espressi con scetticismo circa i tempi di recupero dei mercati nelle condizioni attuali, si è sostenuto, da parte del governo, che l’odierna crisi economica non va drammatizzata, perché il pessimismo peggiora le cose, ignorando che l’ottimismo si rivolge, in ogni caso, al futuro, non al presente, e che questo può essere affrontato in modo ragionevole solo se non si coltivano illusioni a proposito della gravità della situazione che esso prospetta, ossia con realismo. Si è affermato, sempre da parte della maggioranza, che occorre aumentare la sicurezza dei cittadini, messa a dura prova dalla criminalità diffusa, e si è pensato di introdurre una normativa, con riguardo ad uno dei più efficaci strumenti di indagine per reati di questa natura – cioè le intercettazioni telefoniche nonché l’analisi dei tracciati e dei tabulati della telefonia mobile –, che consenta il ricorso ad una misura di questo tipo solo quando si siano già raccolte prove sufficienti all’arresto del sospetto autore del reato (come dire: quando tale strumento sia divenuto ormai inutile). Ultima perla del governo a scartamento leghista: l’abolizione del divieto, per i medici, di denunciare gli extracomunitari clandestini che si recassero, per un’emergenza sanitaria, in qualche postazione o presidio ospedaliero: a prescindere dalla natura moralmente repulsiva di un simile provvedimento (non il primo, non l’unico e, presumibilmente, non l’ultimo di questo genere e tenore imposto alla maggioranza dalla sua componente xenofoba), è del tutto palese (e se n’è accorto più di un esponente dello stesso centrodestra) che la misura, scoraggiando il ricorso dei clandestini alle strutture sanitarie, si tradurrà in un’attenuazione del monitoraggio medico su questa componente non marginale della popolazione presente sul territorio dello Stato, con un conseguente, inevitabile e assurdo aumento dei rischi per la salute pubblica (anche per quella degli abitanti del nord-Italia). Ancora: si è negata, da destra, la presenza del benché minimo rischio di infiltrazioni mafiose nella partecipazione alle gare d’appalto per l’assegnazione dei lotti riguardanti le grandi opere infrastrutturali del mezzogiorno e nella loro gestione, e si è, da sinistra, estremizzato questo rischio fino al punto di non lasciare spazio ad altra conclusione, per chiunque non sia disposto a spezzare il nesso tra premesse e conseguenza, oltre a quella che al sud non si debbano più costruire opere di questo genere. Finalmente, l’opposizione ha enfatizzato il costo di un ritorno al nucleare, dimenticando del tutto quello della bolletta energetica e della nostra dipendenza dal gas della Russia, con le incognite derivanti dalla difficile situazione diplomatica che attraversano i rapporti tra questo paese e l’Ucraina. Come si vede, ce n’è per tutti, e per tutti i gusti. Ma è proprio sulla contrapposizione fra destra e sinistra che vorrei soffermarmi, e in particolare sul significato che possono rivestire oggi due termini come questi, coinvolti anch’essi, quanto e più di altri, nella diffusa iconoclastia semantica che pervade il senso di rottura con il passato inerente alla percezione delle nuove dinamiche sociali e che tende a tradursi


in un’autentica logoclastia, trasformando il lessico politico tradizionale in una specie di cimitero degli elefanti. Ciò non significa, naturalmente, che certe espressioni del linguaggio politico novecentesco non debbano essere mandate opportunamente in pensione. Ma solo quando il loro significato si sia venuto stemperando perché a dissolversi è stato, innanzitutto, l’oggetto o il contenuto che esso rivestiva (come, ad esempio, nel caso di “socialdemocrazia”). Non quando il valore semantico di una parola è ancora attuale, sebbene abbia mutato i suoi termini di riferimento e si debba applicare, oggi, ad un contenuto parzialmente nuovo, ossia frutto di una evoluzione interna che non corrisponde, però, al completo tramonto del proprio oggetto. E questo è appunto il caso di “destra” e “sinistra”. Tuttavia è opinione diffusa, soprattutto fra coloro che fanno mostra di spirito innovativo, quella che una simile divaricazione fra contrapposte identità, idealità e ideologie politiche sia oggi obsoleta, incomprensibile ai più, sostanzialmente vuota di significato. Eppure, sebbene nessuno se ne accorga, dire una cosa del genere è tanto insensato quanto lo sarebbe affermare che non esiste più alcun motivo di applicare alla politica e all’etica pubblica l’idea di conflitto, contrasto, opposizione. Infatti, finché la politica non si sarà estinta per lasciare il campo interamente alla pura e semplice amministrazione, le ideologie avranno ancora qualcosa da dire. In passato (un passato assai recente) si era preso a parlare di fine o morte delle ideologie, scambiando la fine delle ideologie ottocentesche e la polverizzazione del fattore ideologico nelle società di massa con la morte, senz’altro, dell’ideologia come atteggiamento e disposizione psicologica. Dell’ideologia, cioè, come tale e, quindi, di ogni ideologia. Ma il fenomeno al quale i moderni sistemi democratici di massa ci hanno posto di fronte è tutt’altro: è quello che ho appena chiamato “polverizzazione del fattore ideologico”, ossia, ad un tempo, una estensione potenziale dell’ideologia, o più esattamente del suo modo di accostare le cose e i problemi dell’esistenza, alle forme anche più banali del vivere comune, e una consentanea riduzione dell’elemento assiologico presente in essa alla misura, “minima”, di queste forme elementari di massa, che si nutrono di miti popolari e immediati. Sono oggi ideologia, o possono diventarlo in certi casi, tutt’altro che sporadici: il tifo sportivo; il culto per il divismo di certe figure e personalità del mondo cinematografico, televisivo, musicale; i simboli esteriori di uno stile di vita (una marca di automobili o motociclette, la foggia di certe calzature, la passione per determinati cibi o un’alimentazione particolare, un taglio di capelli inconsueto, tanto per fare qualche esempio); in generale i comportamenti che sanciscono l’appartenenza ad un gruppo. In questo quadro, è comprensibile che i significati ideologici di “destra” e “sinistra” debbano risultare confusi e pressoché annullati nella massa “entropica” e disordinata degli innumerevoli valori in campo. Ciò non toglie che essi – come fattori ideologici, appunto, e non come espressioni di una irrinunciabile verità della storia o dell’uomo – siano ancora necessari per dare senso e orientamento al conflitto politico (finché, beninteso, questo continuerà ad esistere e a manifestarsi). Occorre perciò, se si vuole uscire dalla genericità di maniera delle denunce di morte, cercare di determinare il senso che oggi riveste (ma anche che deve o può rivestire) una contrapposizione “storica” come questa. E’ chiaro che, parlando di “destra” e “sinistra” non si intende, qui, evocare lo spettro delle posizioni estreme che nel corso del 900 (ma in parte ancora adesso) hanno, volta per volta, incarnato questi due orientamenti della topografia politico-ideologica dell’Europa moderna. Non è certo la


destra fascista, da un lato, né la sinistra comunista e sovietica, dall’altro, quello che abbiamo di mira con l’intento di stabilirne il possibile significato al giorno d’oggi. E non perché, al presente, queste posizioni siano assenti o scomparse, né per il fatto che sono ormai divenute residuali. Ma per ciò che giustifica questi esiti, ovvero per la ragione di fondo che esse non hanno più riscontro nella geistige Situation der Zeit, nella “situazione spirituale dell’epoca”. Per lo stesso motivo non ritengo che il termine “sinistra” possa ancora essere interpretato ricorrendo all’idea di “socialdemocrazia”, benché in molti paesi europei esistano ancora oggi partiti di massa che si denominano attingendo a questa nobile tradizione e quantunque ci sia un folto gruppo parlamentare che si richiama ai principi del socialismo europeo nel parlamento di Bruxelles. La socialdemocrazia, anche se mantiene il suo nome storico, si è evoluta, in Europa, sua terra d’origine, divenendo qualcosa di molto diverso da ciò che era inizialmente. Oggi parlare di “classe operaia” nel senso che il socialismo democratico dava a questa espressione in Germania, non solo all’inizio del secolo XX ma anche dopo Bad Godesberg, non è più possibile. Non perché, ancora una volta, non esista una “classe operaia”, ma perché gli interessi di cui è portatrice non sono più (ammesso che lo siano mai strati) configurabili come l’espressione più autentica dell’interesse generale della società nel suo complesso. Inoltre, essa ci appare oggi come una costellazione molto frammentata al suo interno e le conquiste ottenute in suo nome (quel complesso di leggi, disposizioni, provvedimenti, che va sotto il nome di “stato sociale”), appaiono, al presente, gravate da costi non più sostenibili e allo stesso tempo troppo rigide e inadeguate di fronte alla crescita della popolazione e ad un allungamento molto significativo della vita media, alla moltiplicazione delle figure professionali e alle diverse esigenze che caratterizzano, dal punto di vista della flessibilità del lavoro e delle protezioni ad esso accordate, il poliedrico mondo dei “servizi”, settore che da decenni è in continua crescita. Del vecchio “stato sociale”, una moderna sinistra europea deve saper conservare ciò che è irrinunciabile e saper abbandonare quello che, invece, non è più realistico pensare di mantenere. Direi, semplificando, che per una sinistra rinnovata occorre puntare sull’assistenza più che sulla previdenza, sulla formazione e promozione sociale piuttosto che sulla tutela delle posizioni acquisite. Occorre, in altre parole, combinare libertà ed uguaglianza in modo piuttosto equitativo che, come pretendeva le vecchia sinistra “di classe”, egualitario. Ovvero, dando più peso alla redistribuzione delle opportunità che a quella del reddito (anche perché i margini per quest’ultima sono, oggi, imposti dal corso dell’economia globale e le possibilità di intervento di un singolo governo o stato, sia pure solo con riferimento a ciò che avviene entro i confini del proprio territorio, soprattutto in tempi di difficile congiuntura economica, sono piuttosto ridotte). Rispetto al tema dell’assistenza ci sarà sempre una divaricazione, nel governo delle comunità, fra un’impostazione più “solidaristica” ed una meno sensibile al richiamo dell’equità sociale. Lo stesso dicasi per il tema della formazione. Poi, il modo in cui i servizi che riguardano l’erogazione di prestazioni assistenziali e formative vengono forniti può essere deciso in base a criteri tecnici di funzionalità ed efficienza. In altre parole, non è irrinunciabile che l’erogazione sia interamente nelle mani dello Stato, è irrinunciabile, per una sinistra moderna, che gli obiettivi e i criteri per valutarne il conseguimento siano stabiliti nel quadro di un sistema pubblico, integrato o meno che esso sia, volto alla tutela e protezione dei soggetti socialmente più deboli (secondo un criterio di gradualità della prestazione, funzionale


al grado della debolezza sociale da compensare) piuttosto che al profitto. In ultima analisi, potremmo sintetizzare tutto questo dicendo che al giorno d’oggi il divario tra destra e sinistra si misura sul terreno dell’etica pubblica anziché su quello del confronto fra progetti e sistemi sociali alternativi. Esemplificando: su un terreno sul quale il diritto alla vita e alla salute si sposa piuttosto con quello di decidere della propria esistenza, disponendone liberamente (a partire dal suo grado più basso, quello biologico, per salire progressivamente ai più elevati, rispetto ai quali questa libertà non potrà mai essere, per definizione, assoluta) che con quello di godere di un vitalizio pensionistico che consenta di trascorrere più di un terzo della vita in occupazioni liberamente scelte, restando a carico della collettività e prefigurando, così, un sistema sociale in cui l’uomo sia sempre più libero dal bisogno di impegnarsi in un’attività lavorativa ingrata, che abbia l’unico scopo di procurargli un sostentamento di natura materiale. Obiettivo certo non disdicevole, ma che la storia del secolo scorso ha dimostrato poco o per nulla realistico. Una sinistra di questo genere, attenta ai diritti esistenziali della persona e intenzionata ad estenderli al numero progressivamente più alto possibile di coloro che attualmente ne sono esclusi, limiterà il suo impegno ideologico (senza confonderlo con la verità della storia) al terreno di un’etica sociale come quella appena descritta per sommi capi, mantenendo, nei confronti di altri aspetti dell’identità della sinistra tradizionale un atteggiamento pragmatico. Si porrà, per esempio, il problema della tutela dell’ambiente, ma solo allo scopo di preservarlo per le generazioni future ed entro i limiti precisi di quello che questo comporta, non per odio verso un modello industriale di sviluppo visto come l’artefice di tutti i mali e interpretato come espressione di un’avidità sociale nociva e da combattere. Avrà la convinzione che nei rapporti internazionali si devono esplorare tutte le strade ed attivare tutti i canali diplomatici che possono consentire di raggiungere gli obiettivi di politica estera perseguiti, mantenendo la pace tra le nazioni. Ma non riterrà la guerra uno strumento inevitabilmente malvagio e sempre condannabile. Semplicemente, si risolverà ad adottarlo o a sostenerne l’adozione solo in casi estremi, quando gli interessi vitali del Paese o di un intero settore geopolitico fossero irrimediabilmente minacciati e compromessi, e senza ammantare un simile ricorso alle armi (o un simile passaggio dalle “armi della critica alla critica delle armi”) degli orpelli ideologici che costituivano il vecchio equipaggiamento della propaganda sovietica e americana, pretendendo che il fine della guerra sia la liberazione dei popoli o la promozione della democrazia e del progresso. Questo passaggio da un confronto fra destra e sinistra basato su un’alternativa di sistema ad un confronto fondato, invece, su due etiche pubbliche alternative è, dunque, il motivo saliente sul quale occorre far leva per definire un concetto di “sinistra” nuovo ed attuale, con il corredo di una corrispondente identità ideologica, della quale fa organicamente parte l’idea che i sistemi sociali evolvono e mutano, ma seguendo logiche interne, e che i sovvertimenti politici, quando avvengono, sono e, in generale, possono essere, casomai il frutto di quell’evoluzione o di quei mutamenti, non la loro causa. D’accordo, ma un simile “passaggio” può essere utilizzato anche come filo conduttore per giungere a ridefinire, oltre ed insieme all’idea e al concetto di “sinistra”, l’idea e il concetto, altresì, di quella che deve o dovrebbe essere una nuova “destra”? La risposta a questa domanda non può che essere affermativa. E da questo punto di vista occorre dire che, in Italia, una nuova destra si è costituita prima di una nuova sinistra. Cosa che, for-


se, a prescindere dalle circostanze che possono averne, contingentemente, favorito il successo, può essere indicata come il fattore di fondo, probabilmente decisivo, delle sue vittorie politiche (non semplicemente elettorali) e della sua prolungata fase di crescita. Al riguardo, però, occorre aggiungere dell’altro, perché questa destra, pur essendo “nuova”, ha in se stessa qualcosa di atipico ed inquietante. Non è, insomma, una destra alla Sarkozy, alla Merkel, all’Aznar. La sua modernità consiste nell’aver, per suo conto, già impostato i temi della propria contrapposizione alla sinistra, e assai prima di questa, essenzialmente sul piano dell’etica pubblica. Non sono più, per esempio, i motivi tradizionali, relativi al confronto tra pubblico e privato, quelli che giocano il ruolo di maggior spicco nell’ambito della definizione ideologica dell’identità del centrodestra italiano. Al contrario, l’attuale maggioranza di governo, che negli ultimi 15 anni ha ottenuto per ben tre volte di essere chiamata dagli elettori alla guida del Paese, ha fatto, sul piano delle privatizzazione e delle liberalizzazioni, assai meno del centrosinistra. Un suo esponente di punta, che riveste il ruolo decisivo di ministro dell’economia, è un convinto fautore dell’intervento pubblico nell’attività economica e nel controllo dei mercati. Anche le riforme fiscali e previdenziali inizialmente avviate dal centrodestra e poi bloccate o riviste dal centrosinistra non sono state, finora, riproposte nella loro versione originaria dopo il ritorno al potere della prima di queste due alleanze politiche. Viceversa, l’attuale governo si è distinto per la sua sorprendete sintonia con una Chiesa cattolica sempre più preconciliare sui temi relativi alla vita, alla morte, alla procreazione. Ha dato prova di non tenere in alcun conto formazione e ricerca (che sono stati due dei settori sui quali i tagli di bilancio hanno inciso di più). Ha mostrato di avere, dell’assistenza, un concetto socialmente asfittico e comunque più caritatevole che equitativo o perequativo (anche in questo caso in perfetta sintonia con gli orientamenti di fondo della gerarchia ecclesiastica). Ma, come ricordavo poco fa, il centrodestra, che è nato, da noi, all’indomani del ciclone giudiziario che ha travolto le vecchie formazioni, sulle quali si era fondato, per oltre cinquant’anni, il nostro sistema politico, presenta, però, rispetto agli altri partiti conservatori del continente europeo, alcune peculiarità, che gettano su di esso una luce ambigua. La prima di queste è il controllo che esso esercita e che, in generale, è in grado di esercitare, sull’informazione e sulla comunicazione televisive. La seconda, l’assoluta spregiudicatezza con la quale mostra di voler cavalcare i peggiori fantasmi e le paure profonde che si annidano nell’animo di un corpo elettorale che solo in misura assai modesta si può dire costituito da soggetti democraticamente maturi, dotati di coscienza pubblica e in grado di rivestire consapevolmente un ruolo di cittadinanza attiva. Una destra, perciò, non semplicemente conservatrice, ma attraversata da un’idea che spesso mostra i suoi tratti illiberali, particolarmente quando espone il proprio concetto del principio di maggioranza, in base al quale un consenso maggioritario dovrebbe consentire l’esercizio di un potere svincolato da ogni contrappeso istituzionale, privo, pertanto di contropoteri che lo bilancino, e sciolto da ogni obbligo di tutela nei confronti dei diritti della minoranza. Tutto questo, insieme al suo già ricordato impegno sui temi etici (e in particolare bioetici) a fianco di una Chiesa tornata intransigente come ai tempi di Pio XII, fa del centrodestra italiano una compagine politica abbastanza atipica in Europa, con somiglianze, analogie e simpatie, piuttosto, al di là dell’Atlantico – penso ovviamente all’esperienza da poco conclusa dell’amministrazione repubblicana di G. W. Bush – e al di là dell’ex cortina di ferro


– dove il riferimento, fatte le debite e opportune differenze, all’autoritarismo di un Putin appare del tutto scontato visti anche i legami personali che questo leader ha stretto con il nostro capo del governo. Rimane però da capire se simili aspetti, un poco torbidi ed inquietanti, si limitino ad essere e a rappresentare semplicemente un tratto arcaico e involutivo del centrodestra italiano, o costituiscano, invece, l’indizio di qualcosa che si va preparando anche nel resto d’Europa. Si potrebbe supporre, ma è un’ipotesi priva di qualsiasi compiacimento, che questa evoluzione della destra moderata (fatti salvi quei motivi che sono più strettamente connessi alla specificità della situazione di casa nostra, ma che potrebbero anche essere destinati ad un rapido tramonto con la conclusione dell’esperienza rappresentata dall’attuale leadership del PDL) sia in una certa misura quella che si va predisponendo, in vista di un futuro delle società democratiche di massa abbastanza prossimo, in tutto l’Occidente. In altre parole, il fatto stesso che questa destra mostri caratteri di modernità strettamente congiunti ad elementi regressivi, può far pensare che questi ultimi siano l’espressione di tratti autoritari in qualche modo legati all’evoluzione (che potrebbe anche essere un’involuzione) delle democrazie moderne, interessate dai processi di massificazione che contraddistinguono la maggior parte delle società dei nostri giorni, democratiche e non. Se questo fosse vero, la contrapposizione fra desta e sinistra che si andrebbe profilando nel futuro ormai prossimo del mondo occidentale sarebbe quella rappresentata da un confronto fra due orientamenti: uno liberale e progressista (due aggettivi che nel mondo anglosassone hanno un unico corrispettivo nella parola “liberal”) ed uno liberale-autoritario, il quale ultimo, senza mettere in discussione le forme classiche dei sistemi parlamentari fondati sul suffragio universale, in tutte le circostanze in cui potesse farlo sfrutterebbe, assecondandoli, gli aspetti illiberali dei sistemi di comunicazione, costituzione, amministrazione, diffusione e controllo dell’opinione pubblica, divenuta al presente, quasi senza eccezione, opinione di massa.


Chiamarsi Partito in Italia di Andrea Margheri Pochi giorni or sono le dimissioni di Veltroni e la decisione eleggere in Assemblea il nuovo segretario avevano scatenato polemiche distruttive, amplificate da un’offensiva mediatica senza precedenti a sostegno di un appello diretto agli elettori. Quelle tensioni esasperate ora sono in parte dissolte per il riemergere dei processi di «lunga durata», che stanno alla base sia del progetto del Pd sia delle sue difficoltà successive. La forza dei fatti si impone al di là dei passaggi tattici più o meno controversi e costringe tutte le varie anime del Pd ad aprire una fase nuova di riflessione e di impegno. Per chi, come noi di «Argomenti umani», può giovarsi di un punto di osservazione e di intervento modestissimo, ma assolutamente autonomo che, quindi, conserva la freddezza necessaria all’analisi dei fatti, appaiono chiare alcune tendenze di fondo che la vicenda ha messo in luce. Vorrei provare a delinearne alcune. La prima richiama il dibattito ancora del tutto aperto sulla forma partito e sul modello di partecipazione. Oggi possiamo vedere con più chiarezza la contraddizione che si è aperta nella società italiana con il tentativo di co- costruire anche nell’area progressista il partito del leader op- struire opponendo l’appello democratico agli elettori nelle cosiddette ponendo primarie all’automatismo gerarchico senza scampo su cui si fonda, invece, l’unità del Popolo della libertà. Quell’appello apparve a taluni una coraggiosa «innovazione», ma era un vicolo cieco. Si scontrava sì con la storia della democrazia italiana e delle culture riformiste sia di origine socialista


sia di origine cattolica, ma anche con le esigenze ‘nuove’ della società complessa. Di fronte all’automatismo della gerarchia della ricchezza e del dominio invasivo dei media, c’è una domanda insopprimibile di continuità e valorizzazione dell’impegno civile. Le reti informatiche sono di svariata natura antropologica e culturale, ma se si ha la pazienza necessaria è facile scorgere anche in esse quella domanda impellente della continuità dell’impegno. Più forte ancora tale domanda si esprime nel tessuto sociale, come reazione ai processi di frantumazione e di disfacimento provocati dalla crisi istituzionale del Paese. E come speranza di un’ascesa sociale alternativa a quella garantita solo dal denaro e dal potere già consolidato. Al populismo di modello autoritario e personalistico del Popolo della libertà, il Pd ha di fatto opposto un populismo democratico e plebiscitario. Il tentativo è valso a impedire una grave, pericolosissima dispersione di forze organizzate, di risorse intellettuali, di riferimenti morali. La democrazia senza partiti non è il ‘nuovo’, ma blocca proprio l’emergere delle spinte progressiste dal tessuto sociale e dai luoghi comunitari del sapere, del pensiero, del lavoro. Il partito nella storia italiana e forse europea deve essere oltre che una macchina elettorale, una comunità di partecipazione fondata sulla responsabilità dei dirigenti verso gli iscritti, sulla continuità dell’impegno sul territorio e nei centri della vita produttiva e sociale, sulla valorizzazione delle risorse intellettuali e culturali, plurali e articolate, che senza il partito restano disperse o marginali. Così possono formarsi, anche attraverso contrasti e polemiche, quel ‘pensiero collettivo’, quelle idee forza che debbono costituire la base necessaria dell’unità nell’azione. Il pluralismo è una ricchezza solo se esistono i meccanismi collettivi della ricerca e dell’elaborazione. Le primarie sono un ottimo strumento per scegliere democraticamente i candidati alle cariche istituzionali. Devono lasciare il campo per quel che riguarda il partito e i suoi organismi dirigenti. Questo leggiamo nella «crisi di febbraio». Ma c’è un punto di ancora maggior rilievo e che ci pare ancor più decisivo. Un partito è prima di tutto una visione del mondo, un progetto, una risposta alle domande della realtà in cui opera e dei conflitti in cui è coinvolto. È, in definitiva, la forma organizzata della funzione storica che i sostenitori si sono dati. Come potrebbe esistere un partito che ha funzioni storiche multiformi e intercambiabili? Ovviamente, rischierebbe costantemente di frantumarsi o resterebbe al palo, scosso e paralizzato dal ‘singhiozzo intellettuale’. Queste sono ovvietà, ma per qualche tempo sono state come oscurate e dimenticate. Si è pensato che il problema dell’identità del Pd potesse essere risolto dalla semplice convivenza delle diverse culture riformiste come permanente proposta elettorale. E questo sarebbe stato il «nuovo»? O non è stato piuttosto un trascinamento nel nuovo secolo del «vecchio»? E non solo delle diverse radici storiche, che è fatto necessario e positivo, ma anche delle rispettive ‘insufficienze’ teoriche e pratiche. Il che riproponeva un paralizzante circolo vizioso. Siamo più che convinti che l’origine profonda delle difficoltà di questo anno di vita del Pd stia nella insufficienza dell’analisi dei cambiamenti del mondo, e in primo luogo della l’analisi crisi globale e dei suoi effetti sulla società europea e italiana.


Anche il Pd, come in generale le forze della sinistra europea, è rimasto immerso in un apparente paradosso culturale. Proprio mentre i fatti segnano il crollo clamoroso del «ciclo» ultraliberista avviato dalla rivoluzione della Thatcher e da Reagan e consolidatosi come frutto e fondamento insieme dell’egemonia del «pensiero unico» e degli Stati Uniti, proprio mentre quel modello finanziario, economico, geopolitico di globalizzazione capitalistica si sfalda sotto i nostri occhi, la sinistra europea sembra cogliere solo gli effetti particolari nella dimensione nazionale, sembra priva di una risposta politica e sociale a dimensione internazionale. È un paradosso solo apparente. Troppo forti sono state le influenze che il liberismo senza regole e con pochi principi ha esercitato sui ‘rinnovatori’ della sinistra, troppo forte l’illusione che ci fosse l’approdo definitivo del capitalismo e la fine dei conflitti. Così, in Italia non c’è stata una liberalizzazione della società delle rendite e dai privilegi corporativi, né una lotta organizzata contro gli effetti del pensiero unico sul rapporto tra politica ed economia, tra Stato e mercato. Mentre Obama, perfettamente consapevole della fase storica, guida un difficile processo di rinnovamento la sociale e culturale della società americana, in Europa la sinistra sembra balbettare. Più grave ancora in Italia dove subisce il successo del populismo e del localismo di Berlusconi e della Lega che costruiscono la loro forza sulla paura sociale delle conseguenze della globalizzazione. Una destra al potere che mal sopporta la Costituzione e la divisione dei poteri istituzionali, porta che finisce per aggravare la crisi del sistema produttivo, la spaccatura tra Nord e Sud, la crisi della democrazia e del sistema politico. Ma un progetto serio di rinnovamento che realizzi insieme le aspirazioni e le speranze sia della cultura socialista, sia del cattolicesimo sociale, non può nascere e svilupparsi senza la consapevolezza della crisi, senza un’analisi del suo significato storico. Da qui si deve partire sia per ricollegarsi al movimento dei lavoratori e alla protesta sociale, sia per sostenere le forze della scienza, della tecnologia, del sapere, dell’imprenditorialità, della creatività a cui è affidata l’imprenditorialità, principalmente nelle strutture produttive e nell’organizzazione sociale la risposta alla crisi. Questo al Pd nei mesi passati è mancato, mentre il teatrino mediatico della politica politicante ci invischiava sempre più nel dramma e nella farsa. Il problema ora non cambia: occorre colmare il vuoto, proporre la forza di un pensiero collettivo sulla crisi, sui suoi effetti sociali e ambientali, sulla qualità e sostenibilità di un nuovo sviluppo. Nel nostro modesto lavoro abbiamo scelto questa via, che riteniamo la via maestra per tutto il Pd. In collaborazione con Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri


Franz Rosenzweig: in esodo dalla filosofia intervista a Adriano Fabris a cura di Bachisio Meloni

i In margine al convegno dal titolo Il futuro del “nuovo pensiero”. In dialogo con Franz Rosenzweig (1886-1929) tenutosi a Chieti il 26-27 aprile 2007 e alla relativa pubblicazione degli Atti dall’omonimo titolo, in Teoria, XXVIII/2008/1 (Terza serie III/1), Ed. ETS, Pisa 2008. Il Convegno di Chieti dedicato a Rosenzweig ha inteso soffermarsi sulla fondamentale svolta nel cuore del pensiero del filosofo ebreo-tedesco segnata dall’opera capitale Der Stern der Erlösung (La Stella della Redenzione, 1921). Una svolta decisiva, reinterpretata o vissuta attraverso il breve ma intenso saggio dal titolo “Das neue Denken…” (1925), tesa a suscitare con forza il sorgere di un “nuovo pensiero” in grado di scomporre l’inte-


ra struttura dell’universo, anzi, dell’“uni-verso” pensabile e conoscibile. Prof. Fabris, che cosa ritiene sia maggiormente emerso, preciso: non solo in merito al Convegno, ma anche al dibattito che ne è scaturito? Qual è secondo Lei lo spirito di fondo presente nei saggi di intervento e nei contributi ora raccolti insieme nel nuovo numero di Teoria? Credo che il punto chiave che è emerso dal convegno, e che ben è testimoniato dai vari contributi apparsi nella rivista, consiste nel fatto che il “nuovo pensiero” rosenzweighiano si caratterizza per la volontà di mettere radicalmente in questione le pretese autofondative e totalizzanti che contrassegnano alcuni filoni della tradizione filosofica occidentale. Come viene ben rilevato anche nella Premessa del fascicolo di “Teoria”, Rosenzweig intende articolare, in positivo, un filosofare spiccatamente responsoriale, aperto costitutivamente a un’alterità che, se può certamente essere definita in varie forme, mette comunque in crisi un modello di soggettività autosufficiente e chiuso. A questo scopo Rosenzweig fa interagire il pensiero filosofico con la riflessione religiosa, concepita sia nel senso dell’ispirazione ebraica che in quello della prospettiva cristiana. Ne risulta la proposta di un pensiero davvero innovativo, che ritengo sia bene riproporre nel contesto del dibattito filosofico attuale, il quale risulta contrassegnato, come forse mai nel passato, da fortissime cadenze interreligiose e interculturali. L’uscita dalla “totalità”, l’incrinazione della stessa, nella considerazione dell’unicità irriducibile del soggetto e della sua esistenza quale fondamentale presupposto nel “nuovo pensiero” di Rosenzweig può essere intesa, a Suo avviso – neanche tanto implicitamente poi – nel senso di un radicale tentativo di rottura con l’idea del dogma, di una vera e propria, direi quasi, “de-istituzionalizzazione” della fede religiosa, ossia, nei termini di un’uscita in direzione di un versante più marcatamente e segnatamente etico e filosofico? Tale uscita, anzi piuttosto, questo vero e proprio “esodo” dalla totalità potremmo dire che riguardi l’ambito della sola filosofia dell’essenza; oppure la tentazione totalitaria, in assenza di un autentico “Sprachdenken”, riguarda il problema stesso della filosofia in quanto tale? Credo che l’istanza di uscita dalla totalità possa essere intesa, nel caso di Rosenzweig, anzitutto nel senso più ampio di un’uscita dal modello oggettivante d’indagine filosofica, quale si era espressa, linguisticamente, nel discorso apofantico e, da un punto di vista semantico, nella concezione corrispondentista della verità. Rispetto a questo modello, primariamente teorizzato da Aristotele, Hegel aveva proposto una radicale alternativa. Ripresa dialettica contro rapporto di oggettivazione; proposizione speculativa di fronte al logos apophantikos; totalizzazione del vero al di là della mera corrispondenza. Ma Hegel, nella prospettiva di Rosenzweig, compie tutto questo presupponendo una ben precisa concezione dell’identità: movendo cioè da quell’idea di identità come identificazione che si attua attraverso il riflettersi di se stesso nell’altro e nel recuperare il sé – un sé, certamente, divenuto più “esperto” – proprio mediante una tale riflessione. La totalità diviene funzionale, dunque, all’affermazione di un uno che assorbe in sé i molti. Proprio rispetto a ciò Rosenzweig propone la sua filosofia della differenza – dove l’altro è certamente salvaguardato nella sua alterità, ma non come un oggetto – e offre gli strumenti per approfondire ed esprimere questo suo “punto di vista”: anzitutto la concezione dello Sprachdenken. Tutto ciò, credo, sia importante


comprendere con chiarezza, se si vuole far interagire produttivamente il pensiero di Rosenzweig con la situazione filosofica contemporanea. Dalla filosofia della “totalità” a quella dei “totalitarismi” – così almeno ci sembra di poter convenire con gran parte del pensiero filosofico e sociale novecentesco o del “millenovecento-pensiero”, quale quello appartenente a personalità del calibro di Horkheimer, della Arendt de Le origini del totalitarismo, del Levinas di Totalité et infini – il passo è breve. Quando ci si riferiva ad una finis philosophiae si intendeva naturalmente porre l’accento sulla fine della “filosofia dell’esperienza” (dell’Erfahrung), quella destinata alla mera scoperta tautologica nella comprensione dell’essere (in grado di rivelare nel mondo il mondano, nell’uomo l’umano, in Dio il divino), un destino già di per sé definito, segnato una volta per tutte ed in sé concluso; ciò che Rosenzweig ricerca è al contrario, come lui stesso suggerisce, una filosofia “esperiente” dedita al mantenimento della pluralità, del “pluriverso”. Oltre all’esperienza entro le singole manifestazioni degli elementi si avverte su tutto l’urgenza di un’esperienza in grado di cogliere il senso proveniente dagli esiti del collegamento dei singoli fenomeni tra loro. Può dirci qualcosa riguardo alla posta in gioco e agli sviluppi di tale “filosofia esperiente”? Qui assistiamo a un gesto che contraddistingue qualunque pensatore davvero originale: il gesto della risemantizzazione. Il significato di una categoria filosofica viene ripensato e sviluppato sulla scia della tradizione, ma in modi diversi da essa. È ciò che accade in Rosenzweig con il concetto di ‘esperienza’. In Aristotele ‘esperienza’ è una tappa del percorso di conoscenza sulla via del raggiungimento di quella scienza che verte sulle realtà eterne (come si vede proprio in Metaph A, 1). In Kant alla concezione aristotelica dell’esperienza, quella che uno fa e che, una volta fatta, possiede come bagaglio personale suo proprio (la concezione che Kant mostra essere di pertinenza dell’antropologia pragmatica), si affianca l’idea di un vero e proprio farsi dell’esperienza stessa, grazie all’attività delle strutture proprie della soggettività trascendentale (la concezione elaborata nella Critica della ragion pura). In Hegel l’esperienza è il processo attraverso il quale lo Spirito diviene consapevole di essere principio costitutivo della realtà, e giunge a conoscersi come tale. In Rosenzweig, appunto, l’esperienza è modalità di relazione che tiene insieme fenomeni originari fra loro differenti: Dio, mondo e uomo. Non si tratta tanto di un Erlebnis, di un’esperienza vissuta (anche se questo è il termine predominante nella Stella della redenzione), perché essa non riguarda in primo luogo un soggetto che la prova. L’esperienza è invece esperienza della relazione e nella relazione: per questo va al di là del soggetto e lo coinvolge; per questo, soprattutto, non solo presuppone la differenza dei termini coinvolti, ma la realizza e la mette in opera, la salvaguarda e la promuove. E tutto questo avviene in un processo il cui esito non è l’unificazione, ma la relazione tra diversi: Erfahrung, appunto. Ma, si badi bene, i differenti sono tali perché risultano pur sempre in relazione. Non sono opposti fra loro in forme conflittuali: non sono concepiti in modo da distruggere, attraverso quest’opposizione, ogni possibilità di reale collegamento. Del resto, così mi è parso, le tre dimensioni della creazione, della rivelazione, della redenzione nell’impianto architettonico del pensiero rosenzweighiano indicano su tutto una “fiducia”, un’apertura all’insegna di una


vera e propria “filosofia della fede” (Glaubensphilosophie) a partire dalla coappartenenza – non confondibile – e dalla relazione fra i tre elementi sopra citati. I tre momenti risultano ineludibili ed inseparabili; aprono una prospettiva redentiva che trova il suo vertice più autentico – come sottolinea nel suo intervento W. Schimied-Kowarzik – nell’inveramento del nostro essere quotidiano, comunitario, storico universale, ossia nell’amore per altri. Da qui, come sottolinea nel suo scritto E. Baccarini citando un’acuta interlocutrice assai cara a Rosenzweig, M. Susman, si squaderna un abissale risvolto: “l’essere umano vivente e agente, la cui azione in altre circostanze sempre frantumava o minacciava di frantumare la creazione divina, qui adatta liberamente se stesso dentro l’opera della creazione e della rivelazione come il perfezionatore e l’esecutore della redenzione” (p. 63). Vorrebbe soffermarsi su questo così importante e affascinante tema di fondo elaborato dal nostro Autore? La relazione, di cui finora abbiamo parlato, si configura effettivamente, in Rosenzweig, come una relazione che si compie insieme da una prospettiva filosofica e su di un piano religioso. La “nuova” filosofia salvaguarda la differenza fra i fenomeni fondamentali che il pensiero dell’identificazione, di cui parlavamo all’inizio, aveva eliminato. E, nel contempo, pone le condizioni affinché nuove relazioni possano essere sperimentate, soprattutto elaborando un’originale concezione del linguaggio: quella di un linguaggio capace di “gettare ponti” fra realtà separate; di un linguaggio sul quale lo Sprachdenken riflette e che è in grado di esprimere. L’esperienza religiosa, dal canto suo, non solo offre immagini emblematiche e modalità concrete di vivere questa relazione fra differenti, ma anche, e soprattutto, esibisce il senso che la anima nel profondo. Ecco, dunque, la funzione della fede: un’esperienza che non dev’essere intesa nell’ottica della tradizionale lotta per il predominio che, nella storia del pensiero ebraico-cristiano, la ha opposta al sapere. Ecco, soprattutto, il motivo per cui la filosofia di Rosenzweig richiede di andare al di là di sé e di aprirsi alla vita, come viene detto esplicitamente nell’ultima pagina della Stella: per realizzare nel quotidiano, nei gesti e negli atti che possiamo compiere, la nostra piccola opera di redenzione. Il che, fuor di metafora, significa la possibilità di vivere le relazioni facendo in modo che non solo io, ma anzitutto l’altro siamo messi in grado di esprimerci pienamente in esse. La relazione – non partecipativa – che lega Dio all’uomo è tanto più forte ed autentica quanto più è forte la relazione che lega l’uomo ad altri. In tal senso, a patto dunque della non confondibilità degli ordini, la rivelazione è tale solo se in essa si dischiude il rapporto redentivo che lega l’uomo all’altro uomo, come dire: Dio non si rivela se manca questa relazione con altri. È corretto interpretare in tali termini il ruolo svolto dalla dinamica di questo rapporto triadico? Sono tendenzialmente d’accordo con questa lettura, anche se non la irrigidirei dicendo che la redenzione è una condizione della rivelazione divina. Mi sembra piuttosto importante sottolineare il fatto che la creazione è apertura di possibilità (e come tale restringimento delle possibilità astratte proprie di Dio “prima” della creazione); che la rivelazione è anch’essa apertura – apertura ulteriore – di possibilità concrete, nell’impegno e nel vincolo che è richiesto dalla relazione tra Dio e uomo; e che la redenzione, dal canto suo, mette in opera tali possibilità nel contesto d’interazione fra essere umano e mondo, nel contempo aprendo ulteriori possibilità concrete, ma anche restringendo il


campo del loro esercizio. Proprio su questo dialogo tra “ontologia della differenza” (Atene) e “ontologia della relazione” (Gerusalemme) degli ordini – su cui ha fatto ampio cenno F. P. Ciglia – dialogo che costituisce, come Lei ha spiegato in altra occasione [cfr. Senso e indifferenza, Ed. ETS, Pisa 2007], una prospettiva ideale in grado di garantire il dinamismo di una struttura dal carattere pluridimensionale costituita da un fitta serie di innumerevoli “relazioni in relazione”, si è da poco soffermato lo stesso Habermas in Tra scienza e fede [tr. it. Laterza, Roma-Bari 2006], dove si afferma quanto le tradizioni religiose posseggano una particolare efficacia di articolazione per le intuizioni morali, “sedimentandosi in reti concettuali normativamente cariche” (Ivi, p. 15), soprattutto per quanto riguarda le forme sensibili di una convivenza civilizzata. Ciò può avvenire oggi a partire dall’auspicio di un vero e proprio processo di riconsiderazione (che è pur sempre una messa in questione) della fede religiosa, ossia dal mai reso adeguatamente esplicito passaggio del ruolo del religioso dalla sfera pubblica a quella del privato. Mi riferisco all’idea di rimeditazione privata la quale, ben inteso, non corrisponde alla chiusura entro i vincoli dell’intimità o del proprio sentire religioso comune, ma all’apertura verso un orizzonte liberale e pluralista in cui diventa quanto meno inammissibile per chiunque rivendicare lo status di verità ufficiale esclusiva. Apertura del privato che diventa, pur nella sua finitudine, libera, spontanea e disinteressata disposizione morale, la quale già proprio in quanto in relazione può essere garanzia per un influsso in senso positivo non solo sull’ordine pubblico, ma anche determinante in funzione di quegli “innumerevoli, disparati, separati ‘vuoti’, uno per ciascun problema”, quel singolare “nulla” che per Rosenzweig “precede la nostra conoscenza”. Ci troviamo, insomma, di fronte ad una forma di pensiero in grado di ripensare l’etica, ma in una doppia accezione: col pensarla di nuovo e col procedere al di là di ciò che da essa e da questo stesso pensare di “nuovo” scaturisce. In ambito religioso credo che il legame tra “pubblico” e “privato” sia difficilmente scindibile. Non solo per quanto riguarda il contesto cattolico, dove vale una prospettiva di salvezza che può essere conseguita anche in relazione alle opere che uno fa, ma pure nella dimensione ebraica, come proprio l’impegno pubblico di Rosenzweig ha adeguatamente mostrato. Certo, un tale legame deve venire correttamente pensato e adeguatamente vissuto. Ma – questa è la mia opinione – ciò non può accadere né riducendo una manifestazione religiosa pubblica alla semplice espressione esterna di un’intima convinzione personale, né trasformando l’esperienza religiosa in qualcosa di semplicemente esteriore, magari funzionale a un qualche disegno politico. Né la prospettiva del “dire Dio in segreto”, né quella degli “atei devoti” mi sembrano infatti modi di realizzare pienamente, in modi conformi alla complessità della sua storia, una relazione religiosa che è, anche etimologicamente, sia relazione tra uomo e Dio nell’istante della conversione, sia, insieme, relazione fra uomo e uomo nella storia. Forse allora, in questa prospettiva, ciò a cui lei accennava – il richiamo a una maniera etica di vivere la propria vocazione religiosa – può essere una via possibile per realizzare, in ambito religioso, un corretto equilibrio fra pubblico e privato. Solo sulla base di un duplice movimento, dalla complementarità fra autonomia ed eteronomia, ossia in virtù dell’azione filtrante della soggettività


riconosciuta pienamente autonoma nella propria responsabilità per altri – questo mi sembra il grande messaggio di Rosenzweig –, diventa possibile scongiurare al contempo individualismo egolatrico (filosofia dell’esistenza) e universalismo teologico inglobante. Se si è d’accordo su ciò, occorrerà insistere allora su questa fondamentale prospettiva tenendo conto delle aperture che si dispiegano in virtù di questo “nuovo pensiero”, contestualmente alla testimonianza di una fede illuminata, in grado di tradurre concettualmente, come è affermato nello stesso esempio di H. Cohen – a dir poco seminale per un discepolo quale Rosenzweig, così come per tutta una tradizione del pensiero filosofico novecentesco –, ciò che discende dalle stesse fonti letterarie dei profeti. Pensando ad un nostro più immediato “futuro” mi sembra sia opportuno cioè, ben al di là dalle rigide imposizioni emergenti nel “dialogo” (contesa?) tra laicismo e riflusso clericale, ridestare e salvaguardare nell’intimo ed incessante lavorio del pensiero e delle sue inesauribili “tessiture” la sensibilità verso un più profondo ordine di moralità e giustizia sempre di là da venire (e che tuttavia sembra non bastare). A proposito di tale singolare modalità di reciproca compenetrazione del pensare e dell’agire storico individuale entro l’ambito di una cultura sempre più da declinare nel senso della pluralità e del dialogo – se non ho interpretato male, questo mi pare sia in sostanza il senso di tale “nuovo pensiero” –, ritiene di poter condividere appieno questa prospettiva “teoretica” come inedita ed auspicabile via reticolare da percorrere in grado di rivelare ancora il senso e tutta la dignità dell’umanità dell’uomo cui fa riferimento Rosenzweig? Credo che quello che Lei giustamente sottolinea sia l’aspetto utopico del pensiero di Rosenzweig. Si tratta però di un’utopia che è riletta attraverso il filtro dell’escatologia. E con ciò viene tagliata fuori ogni possibile declinazione ideologica di questo pensiero. Perché il valore aggiunto dell’uomo religioso di tradizione ebraico-cristiana, secondo Rosenzweig, è appunto quello di rapportarsi con fede a un Regno che verrà, anche se questa venuta, per essere “affrettata”, richiede la sua collaborazione. In un momento in cui, come quello odierno, siamo fin troppo ancorati al presente, credo che la prospettiva di Rosenzweig possa richiamarci alla necessità di guardare alle cose, potremmo dire, con uno sguardo lungo. Prof. Fabris, mi permetta quest’ultima mia domanda, forse un po’ insolita, perché frutto di una percezione che mi sovviene in base alle considerazioni che stiamo qui portando avanti, ma che riguarda comunque l’eredità e la presenza del pensiero rosenzweighiano nel cuore di chi gli è stato forse più intellettualmente, e non solo, vicino (penso a Levinas): Lei non ritiene forse che nel rapporto fondamentale che lega Levinas a Rosenzweig come a uno dei suoi più illustri modelli ispiratori (penso ovviamente al ruolo di costui in un’opera capitale quale Totalité et infini, ma anche in Difficile Liberté, come sommamente presente, a tal punto da non poter di volta in volta essere quasi affatto menzionato), non ritiene non vi sia da parte del filosofo francese una sorta di operazione tesa ad assorbire lo spirito di questo pensiero, facendolo proprio ovviamente, ma filtrandolo, specie nella relazione fra uomo-mondo-alterità-Dio, quasi a “de-teologizzare”, se così mi posso esprimere, la proposta speculativa e spirituale del proprio maestro? Più che il verbo “de-teologizzare” userei l’espressione “eticizzare”. Levinas,


rispetto a Rosenzweig, non solo pone la relazione con l’alterità al centro della sua riflessione, ma la reinterpreta, unilateralmente, in chiave etica. Il risultato è solo all’apparenza una laicizzazione del pensiero rosenzweighiano. Certo: in Levinas di Dio si parla poco, e quando se ne parla lo si fa per mostrare in che modo viene all’idea, rompendo la presunta autosufficienza della soggettività umana. Ma la laicizzazione compiuta da Levinas mi pare, ripeto, solo apparente. In Levinas, infatti, l’etica sta o cade sulla base dell’assunzione o meno di precisi presupposti teologici. Impliciti, certo, ma non per questo meno decisivi per lo sviluppo del suo pensiero. Almeno Rosenzweig gioca la sua partita filosofica, per dir così, a carte scoperte.


Il surrealismo fenomenologico di Giancarlo Rota di Gianfranco Dalmasso

La mancanza di sensibilità e di cultura epistemologica, che per lo più affligge oggi gli scienziati, costituisce un inconveniente sia per la pratica scientifica sia per il ruolo della scienza nei contesti dell’attuale società. Gian-Carlo Rota, noto matematico e fenomenologo scomparso dieci anni fa, ha incarnato invece, al massimo grado, tale sensibilità e tale cultura. Italiano di nascita, ma trasferito negli Stati Uniti in giovane età, ha ricoperto prestigiosi incarichi, tra i quali ricordiamo quelli di Professor of Applied Mathematics and Philosophy al MIT, di consulente del Los National Laboratory e di membro del comitato scientifico della Scuola Normale di Pisa. Alla sua memoria è stato dedicato il convegno internazionale tenutosi tra 16 e il 18 Febbraio presso l’Università degli Studi di Milano nel decennale della sua scomparsa. L’iniziativa è stata promossa dai dipartimenti di Informatica e Comunicazione e di Tecnologie Informatiche, dell’Università di Milano, e dal Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria


ed è stata patrocinata da numerose istituzioni tra le quali ricordiamo le Facoltà di Lettere e Filosofia delle Università di Milano e della Calabria e dalla Scuola Normale Superiore di Pisa. Il convegno è stato organizzato da un comitato scientifico composto da Ernesto Damiani, Ottavio D’Antona, Vincenzo Marra, matematici dell’Università di Milano, e Fabrizio Palombi, filosofo dell’Università della Calabria. Il titolo scelto per la conferenza, L’impronta digitale di Gian-Carlo Rota: biglie, scatole e filosofia, allude a un celebre aforisma dello studioso statunitense che definiva la combinatoria come una ricerca sulle differenti modalità di disporre delle biglie in alcune scatole. Questa metafora descrive una metà del convegno dedicata alla sua ricerca matematica che ha visto impegnati studiosi del calibro di John Horton Conway, docente dell’Università di Princeton, famoso per le sue ricerche nelle teorie dei gruppi, dei giochi, dei nodi, dei numeri e noto al grande pubblico per i suoi testi di divulgazione scientifica. Conway ha tenuto un interessante relazione nella quale ha esaminato alcuni aspetti della teoria del libero arbitrio alla luce della meccanica quantistica proponendo alcune suggestive conseguenze filosofiche. Tra i matematici presenti ricordiamo inoltre Henry Crapo, docente della EHESS di Parigi, che si è occupato della valorizzazione di specifici aspetti della geometria sintetica e della ricerca matematica del diciannovesimo secolo proposta in alcuni scritti di Rota. Altri interventi che hanno esaminato diversi aspetti dell’attività di ricerca e della formazione matematica dello studioso statunitense sono stati quelli di Andrea Brini, dell’Università di Bologna, Joseph Kohn , dell’Università di Princeton, e Daniele Mundici, dell’Università di Firenze. La seconda sezione del convegno è stata dedicata alla filosofia con un ricco dibattito che si potrebbe ricondurre, in grande approssimazione, a due filoni. Il primo è stato animato da Carlo Cellucci, dell’Università di Roma “La Sapienza” e da Massimo Mugnai, della Scuola Normale Superiore di Pisa, che hanno proposto una sorta di bilancio complessivo della riflessione filosofica di Rota. Il secondo è stato interpretato da Francesca Bonicalzi, dell’Università di Bergamo, da Elio Franzini, dell’Università Statale di Milano, e da Palombi che hanno valorizzato la funzione antiscientista e antiriduzionista della ricerca fenomenologica dello studioso statunitense. Cellucci ha esaminato quattro questioni riguardanti la matematica: esistenza dei suoi oggetti, il valore delle sue definizioni, la nozione di dimostrazione e la questione più generale della sua relazione con la filosofia. Il contributo di Cellucci si è avvalso di un’interpretazione euristica degli oggetti matematici secondo la quale essi devono essere intesi come ipotesi specificamente formulate “per risolvere problemi”. In questo modo sono state affrontate tutte le controverse questioni riguardanti lo statuto ontologico degli oggetti matematici e, in particolare, è stato dissolto il problema riguardante la loro esistenza. Il confronto con Rota si è sviluppato selezionando le argomentazioni utili a criticare l’opinione standard presentata dalla filosofia della matematica di stampo logicista e analitico da lungo tempo egemone. Cellucci, in particolare, ha mostrato di condividere le tesi di Rota che interpretano la dimostrazione come collegamento tra differenti campi della matematica e apprezzato quelle inerenti il valore descrittivo della filosofia della matematica. Cellucci ha criticato alcuni aspetti della riflessione di Rota, che reputa incongruenti, riguardanti l’interpretazione aprioristica e analitica (in senso


kantiano) delle leggi scientifiche, la sua incapacità di scegliere tra il carattere fisico o mentale del fenomeno dell’identità e la sua insufficiente autonomia nei confronti del metodo assiomatico. Cellucci, al fine d’individuare il posto che Rota occupa nella filosofia della matematica, ha richiamato una recente classificazione degli studiosi di questo campo in relazione alle due categorie contrapposte del “mainstream” e del “maverick”. La prima interpreta la matematica come un “corpo di conoscenze statico” ed è principalmente interessata al problema della sua giustificazione mentre, la seconda, la legge in termini dinamici e si occupa dei problemi riguardanti sua crescita. Cellucci non ha avuto dubbi nel collocare Rota nella seconda categoria per la sua capacità d’illuminare importanti aspetti della pratica matematica con osservazioni penetranti. Anche Mugnai ha presentato Rota come un irregolare della filosofia in grado di segnalare problemi e investigare prospettive che sfuggono agli studiosi interni al suo campo disciplinare. In particolare egli ha giudicato le sue critiche alla filosofia analitica come una legittima reazione alla deriva scolastica subita da una parte significativa di questa corrente. A suo parere, esistono una serie di limiti e difficoltà contenuti negli scritti di Rota che si manifestano qualora siano esaminati da una prospettiva storiografica rigorosa. Tra questi i più evidenti sono costituiti dalla particolare accezione che Rota attribuisce a due importanti concetti: il riduzionismo e lo psicologismo. L’interpretazione che Rota propone del riduzionismo sarebbe, a suo parere, inadeguata perché lo identifica con il meccanicismo ottocentesco. Si tratta di un’osservazione pertinente che è stata approfondita e rettificata dal secondo filone d’interventi. Agli occhi di Mugnai è insoddisfacente anche l’accezione di psicologismo proposta dal filosofo statunitense che si richiama all’interpretazione del pensiero in termini strettamente neurofisiologici. Mugnai ha contestualizzato storiograficamente lo psicologismo per mostrare che il bersaglio polemico di Husserl fosse rappresentato dall’introspezionismo, che assumeva il punto di vista del soggetto empirico come accesso “privilegiato accesso” ai fenomeni mentali, e non da un riduzionismo neurologico. Infine, secondo Mugnai l’insufficienza della logica per la fondazione delle nuove scienze, denunciata da Rota, è condizionata dalla sua eccessiva attenzione alla logica classica e trascura completamente le importanti e recenti conquiste di altre branche di questa disciplina. Il concetto di verità e la sua articolazione in due distinte accezioni, filosofica e matematica, è l’impegnativa questione che è stata esaminata dalla Bonicalzi. Il suo percorso è partito da alcuni noti articoli di Rota, nei quali si denuncia il tentativo di ridurre la verità filosofica a quella matematica, per individuare le condizioni di possibilità storiche e teoriche di tale riduzione. In questo modo viene evidenziata l’importanza della “torsione nel pensiero” operata da Descartes e Leibniz che trasforma la verità da “disvelamento” a “dispositivo proposizionale”. Un approccio implicito nel dibattito gnoseologico sul metodo che, nei secoli successivi, viene progressivamente rinchiuso in un perimetro tecnico, logico e linguistico. Il risultato è la confusione tra le due accezioni di verità denunciata da Rota e l’identificazione della riflessione filosofica con una sorta di sofisticata analisi logica e linguistica. La nota etimologia greca della parola ‘metodo’ è stata richiamata dalla Bonicalzi per esortare la filosofia a ritrovare la propria strada costituita dalla ricchezza del senso e non dall’esattezza del calcolo.


Franzini ha evidenziato il valore antiriduzionista degli scritti di Rota e la loro importanza per criticare le recenti interpretazioni filosofiche delle neuroscienze e del cognitivismo. In questo modo ha ribadito l’impossibilità di ridurre la coscienza ai suoi sostrati materiali soggiacenti senza incorrere nell’errore naturalista già denunciato da Husserl. Le argomentazioni di Franzini si sono avvalse di uno dei principali contributi teorici di Rota rappresentato dalla rilettura della teoria husserliana della Fundierung ed esaminato da Palombi nel libro La stella e l’intero (Bollati Boringhieri, 2003). Questo volume è stato spesso richiamato nel convegno e costituisce un interessante punto di riferimento per affrontare la ricca ma eterogenea produzione filosofica dello studioso statunitense. L’elaborazione di una mereologia antiriduzionista, che trovi il suo nucleo nella Fundierung, è stata giudicata da Franzini un utile strumento per criticare gli esiti scientisti di una parte della riflessione filosofica contemporanea che, a nostro avviso, talvolta arrivano a lambire anche studiosi di formazione fenomenologica. L’intervento di Palombi, allievo di Rota e curatore dei suoi scritti filosofici, si è soffermato sul peculiare realismo fenomenologico che caratterizza la riflessione dello studioso statunitense. Affermare che la fenomenologia sia una forma di realismo equivale, per lo studioso statunitense, a rivendicare il suo valore e la sua concretezza in opposizione allo scientismo, al riduzionismo e al naturalismo. Il realismo fenomenologico viene usato da Palombi per esaminare i diversi campi d’interesse di Rota riguardanti i fenomeni dell’orlo e la situazione emotiva. Trasversale a questi temi è l’analisi del fenomeno della comprensione e dei due versi, opposti e complementari, che la caratterizzano. Nel primo la condizione di possibilità della comprensione umana è rappresentata dal nostro corpo e dal suo sistema nervoso che, attualmente, sono studiati dalle neuroscienze. Nel secondo è la comprensione umana che, in senso logico e storico, rende possibile la scoperta del neurone. È questa seconda prospettiva, autenticamente filosofica, che permette di valutare la cellula nervosa come un concetto derivato che appartiene alla scienza e non all’originario esserenel-mondo indagato dalla fenomenologia. Secondo Palombi, Rota attualizza la critica fenomenologica al naturalismo e allo psicologismo per dimostrare che l’analisi filosofica del fenomeno della comprensione umana non possa essere ridotta, sostituita o confusa con quella scientifica. In questo modo lo psicologismo assume un significato assai diverso da quello che possedeva nel secolo scorso e il valore di uno strumento teorico che Rota impiega per decostruire alcune tesi filosofiche proposte dai sostenitori dell’Intelligenza Artificiale. Questo approccio si può applicare anche all’attuale confronto filosofico che coinvolge il patrimonio genetico, i moduli mentali o le moderne tecniche d’indagine diagnostica. La grande importanza attribuita da Rota alla tonalità affettiva e il suo rifiuto di redigere delle gerarchie ontologiche, che affermino la priorità della dimensione fisica rispetto alle altre, è stata utilizzata da Palombi per definire la filosofia dello studioso statunitense come una forma di surrealismo fenomenologico. Tutti gli interventi del convegno saranno raccolti in un volume di atti, pubblicato in lingua inglese e intitolato From Combinatorics to Philosophy, arricchito dai contributi di altri studiosi sia di formazione filosofica sia matematica che hanno partecipato al dibattito. Il testo sarà prossimamente pubblicato da Springer, a cura del comitato scientifico, secondo le modalità indicate sul sito web del convegno http://ra.crema.unimi.it/Rota2009.


Brevissime riflessioni sulle cose ultime di Sebastiano Ghisu

La vita è strumento a se stessa. Non è un valore in sé, perché in sé non è niente: tutto dipende dagli eventi che la riempiono. E qui domina il caso. Se non si ottiene un soddisfacente stato di benessere non vi è niente che possa salvarla. Può cessare. Può venir spenta, per scelta volontaria di chi la vive. Non bisogna vivere per forza. D’altra parte, sarebbe sbagliato ritenere il suicidio una liberazione. È solo una cessazione del male che soffoca la vita. Ma in quanto cessazione di vita, non può essere liberazione. Ci si libera quando si passa da una condizione ad un’altra. La morte è tuttavia una non-condizione. È una condizione soltanto per gli altri che continuano a vivere. Solo chi crede in una vita dopo la morte può pensare il suicidio come liberazione: ammesso che il Dio in cui si crede non consideri questo atto fatale un peccato o, se dovesse considerarlo tale, sia sufficientemente misericordioso da perdonare. Perché non anticipare la morte, se si crede in una vita ultraterrena? Perché


continuare a soffrire? Quale Dio può accettare di vederci piangere? La religione, o per lo meno la credenza in una vita dopo la morte (che costituisce una parte importante di qualsiasi religione), rappresenta paradossalmente un invito al suicidio. Solo il considerarlo un peccato, corregge questa tendenza. La vita, si dice, ci viene donata. Ma se la vita è vissuta in uno stato di malessere, se ne dovrebbe concludere che il dono è cattivo: perché tenercelo? È poi giusto affermare che la vita ci viene donata? A chi verrebbe donata? Il dono presuppone che esista il ricevente. Ma in questo caso il ricevente e il dono sono assolutamente la stessa cosa. Forse, però, si considera la vita un dono perché la si pensa come un qualcosa che, in quanto tale, ci rallegra. Tuttavia, come già si diceva, non è la vita in sé a rallegrarci o rattristarci quanto l’esistenza che la riempie. Se poi ci darà serenità o dolore lo si saprà sempre troppo tardi. Può darsi, invece, che sia la paura della morte a indurci a considerare la vita un dono. Se così fosse, si tratterebbe di un errore. La morte infatti non preesiste alla vita, dato che è la vita a renderla possibile. L’alternativa reale alla vita non è la morte quanto il non esser mai nati. Vi è tuttavia qualcos’altro che dovrebbe mantenerci in vita, comunque la vita sia vissuta: la responsabilità verso gli altri. E non parlo dell’umanità in generale, che sa badare e non badare a se stessa. Parlo di coloro che, figli, amici, parenti o altro, hanno bisogno effettivamente di noi. Per loro, a volte, bisogna vivere per forza. Per i viventi, quei pochi che ci son cari, non per la vita o l’umanità. Possiamo allora ben dire che solo la vita degli altri è un valore in sé. Non ho il diritto di violarla in alcun modo. Ciascuno, dal punto di vista degli altri, possiede il diritto inviolabile di vivere (e dunque di morire). L’altro non può impedirmi di vivere né costringermi a farlo. Io, da parte mia, ho per lo meno il dovere di non impedire che l’altro viva meglio. La vita, insomma, non è un dono, ma un diritto. È tale, tuttavia, solo quando è presente. Vale a dire quando già si vive. È quindi la possibilità della sua assenza, una volta data, a renderla un diritto. Ma è un diritto la possibilità della sua assenza non meno della realtà della sua presenza. Solo garantendo tale diritto la vita diviene una scelta e chi vive riacquista quella libertà originariamente negata – come già notava Kant nella Metafisica dei costumi – dall’esser stato messo al mondo senza il proprio consenso.


La morte televisiva di Jade Goody di Carmelo Meazza

Jade Goody è morta qualche giorno fa nella sua casa londinese, dolcemente, nel sonno, fuori dalla luce dei riflettori. Così hanno scritto le agenzie di stampa. Questa drammatica storia di una giovane del nostro tempo non accade casualmente. Essa rientra tra quel genere di eventi che hanno la forza di farsi emblema e indicare qualcosa di irreversibile per la loro epoca. La grande stampa internazionale, particolarmente attratta dalla biografia di Jade, ha dato molta enfasi, a questa morte notturna, silenziosa, in solitudine, in un sonno profondo, dentro gli abissi misteriosi di un sogno. In fondo è ciò che molti di noi augurano a se stessi: se proprio si deve lasciare questo mondo e questa vita la porta di un sogno sembra la più benvenuta e qualche volta anche la più opportuna. E, tuttavia, se c’è qualcosa di cui questa biografia è l’emblema è esattamente il contrario di quanto le agenzie hanno preferito mettere in evidenza. Da tempo Jade aveva convocato il grande circo mediatico per dare notizia della sua terribile malattia, inaugurando un reality nel quale, come in presa diretta, si trasmetteva il suo progressivo e inesorabile decorso verso la morte. Sapeva bene dunque che il momento del trapasso, persino l’istante notturno del suo morire, sarebbe stato inondato dalla luce televisiva e avrebbe preso parte a una scena pubblica ormai sempre accesa, nella pura superficie, senza notte e senza giorno.


Forse non c’impegniamo in una domanda semplice se ci chiediamo che cosa vuol dire offrire alla luce mediatica, quasi nella diretta di un reality, ciò che in fondo rappresenta l’intimità per eccellenza: una malattia, una sofferenza, un patimento, una lunga agonia; che cosa può voler dire cioè esporre tutto questo in una luce pubblica, senza riservarsi nulla. Senza far riserva di nulla. Forse non è una domanda troppo scontata se ci chiediamo cosa cambia, se cambia, nella natura del morire, se persino la morte sembra perdere ogni intimità e ogni segreto. Jade non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze quanto accade ormai quasi normalmente, quotidianamente, nel mondo multimediale: una pulsione, un desiderio, un’inclinazione, è difficile dirlo, spinge tantissimi uomini e donne a svuotare il proprio spazio e tempo interiore, la propria privacy, dinanzi a tutti. La rete ha amplificato questo desiderio, fino al punto che tutto ciò che ci capita, in particolare quanto accade nelle sfere della nostra privatezza, una passeggiata sulle rive di un lago, in montagna, nella penombra di un bosco, ma anche un gesto affettuoso, una carezza, un abbraccio, ha come ambizione suprema di finire nella circolazione mediatica. Questo accade sempre più diffusamente e non siamo ancora in grado di capire pienamente come stia cambiando la natura del confine tra le sfere del pubblico e le sfere del privato. Del resto, questa vocazione all’esposizione di sé nella rete a sua volta è coerente con una nuova possibilità con la quale tutti dobbiamo fare i conti, la possibilità costante cioè di trovarci sotto scorta, sotto sorveglianza, nella vigilanza di un occhio elettronico, tracciabili ad ogni passaggio , impossibilitati a nasconderci dall’occhio divino di un satellite, da Google, e dalla rete, o più semplicemente da una videocamera. Non basteranno le legislazione di tutela per impedire tutto questo. Anzi dovremo abituarci all’idea che la rete sarà sempre più il luogo nel quale il mondo delle privacy saranno violate e soprattutto vorranno essere violate. Dovremo convincerci che il telos più profondo della rete prima o poi si esprimerà nel tentativo di mettere in circolo i pensieri e i vissuti degli utenti connessi. Di connettersi alla loro connessione. Il che vorrebbe dire: connettersi in una condizione nella quale non si potrebbe fare un passo indietro rispetto a ciò che si rappresenta. Senza la maschera in cui celarsi in un certo segreto. Tutto ciò è ancora molto lontano ma non sarebbe una inutile fatica per la stessa filosofia tentare di orientarsi in un universo che perde sempre di più alcuni dei tratti che hanno segnato una lunga tradizione. Forse non è una fatica vana chiedersi che ne sarà di un soggetto a cui verrebbe impedito di esporsi dietro la sua maschera, un soggetto che avrebbe una nudità ma non avrebbe pudore, potrebbe mentire solo esponendo la sua menzogna. Ora, se tutto questo è ancora nell’ordine dell’inverosimile e quindi è bene restare cauti e prudenti, una solida realtà è la progressiva decomposizione delle sfere della privatezza di cui innumerevoli reality televisivi sono testimonianza. Jade ha partecipato da protagonista a uno di questi; proprio il più invasivo di tutti. La formula come si sa prevede che si viva insieme, in uno spazio relativamente ristretto, con la certezza che tutto ciò che si fa, che si dice e si esprime sia esposto alla curiosità più o meno morbosa di innumerevoli altri. Di giorno e di notte. Quindi senza una vera e propria notte e in qualche modo senza possibilità di dormire. Levinas forse direbbe nell’insonnia ossessiva dell’il ya. Forse non siamo ancora in grado di orientarci nel giusto modo in questa realtà del contemporaneo. Siamo in difficoltà a capire sia le spinte di fondo che


conducono verso un’esposizione di sé in cui si rivelano o si svelano i propri recessi con la stessa tranquillità con cui i corpi si denudano e si tolgono i veli (certe performances di corpi nudi a cui alcuni artisti hanno affidato di recente il loro messaggio rientrerebbero in questa spinta), sia le conseguenze che questo ha nelle forme delle soggettività che si vanno affermando. Quello che sappiamo con una certa sicurezza è che le sfere della privatezza, della privacy, la possibilità di esporsi nel cono d’ombra di una certa ritrazione accompagnano lo sviluppo della modernità è concorrono insieme a tutte le profondità (profondità dello spazio e profondità dei tempi) a definire i tratti di una civiltà il cui declino incomincia lentamente dentro controspinte formidabile agli inizi del XX° secolo. Stiamo ora attenti. Se una madre fosse il modello del sacrificio eroico nel momento in cui offre la propria vita per suo figlio, se questo fosse la misura per un giudizio su Jade, dovremmo mettere nel conto un contro effetto a suo modo inevitabile per ogni sacrificio in nome di colui che amiamo in modo esclusivo: tutto ciò che si è donato per lui non potrebbe colmare tutto ciò che non si è donato a chi non è stato nostro figlio, nostro fratello, nostro amico esclusivo. Basterebbe questo esempio per restare prudenti nel momento in cui si parla di offerta o di sacrificio, e non precipitare in un giudizio affrettato su Jade o di una certa esperienza di cui può essere l’emblema. Prudentemente possiamo dire però che non si può donare davvero se in qualche modo non si compie un atto di disappropriazione verso di sé. Una parte della filosofia morale del nostro tempo in vario modo, per strade diverse, insiste giustamente su questo aspetto. Anche se non è molto chiaro che cosa significhi in fondo una disappropriazione, si parla diffusamente e con impegno di ospitalità, di un’intenzionalità aperta che non escluda l’altro dal luogo che io stesso occupo, e che si occupa inevitabilmente e fatalmente a partire da ciò che innanzitutto ci è più proprio. Quindi è naturale lavorare sul proprio, chiedersi che cosa effettivamente esso sia, come ci riguardi e per quali vincoli si imponga. Non è un caso che una ricerca così serrata abbia portato alcune filosofie ad interrogare in modo nuovo la grande questione dell’essere-per-la morte di Martin Heidegger. In fondo è a partire da una certa proprietà del morire che il Dasein è richiamato e in qualche modo eletto in una certa destinazione. Poiché nessuno muore al mio posto, poiché morire mi riguarda più di ogni altra cosa, dal mio morire ricavo un’inespropriabile proprietà di me. Come se il pronome possessivo che il se stesso pronuncia, proprio nel limite della sua finitudine, fosse uno strano dono di una morte impossibile da condividere. Uno strano dono perché nel suo movimento, nel segreto che stabilisce, nel limite di un segreto inappropriabile, rende impossibile proprio ciò che una parte della ricerca filosofica ritiene indispensabile per un gesto di donalità e cioè una qualche disappropriazione di sé. Come se nell’angoscia della propria morte, nello stesso momento in cui diventa chiaro che non si tratta di una paura, l’ospitalità di un altro, per un altro, diventasse impossibile. Se c’è qualcosa di emblematico nella vicenda di Jade riguarda un certo morire dell’angoscia del morire in una società nella quale ogni cosa tende a sottrarsi dalla copertura di un qualche velo. Certo è difficile dirlo, e siamo nell’azzardo, tuttavia Jade Goody nel momento in cui mette in scena l’anticipazione della sua morte e la espone denudandola di ogni privatezza, può aver avuto molta paura di morire ma non angoscia. L’angoscia avrebbe reso impossibile la pubblicità della sua morte o viceversa la pubblicità della


sua morte avrebbe reso impossibile l’angoscia. Dobbiamo convincerci che da tempo l’esperienza del morire, almeno quel morire che tanto bene Heidegger nella sua prima grande opera ha documentato, sta cambiando, e se incominciamo a sapere qualcosa di più sui rischi di una finitudine che può esaltarsi nel privilegio di un’elezione siamo ancora lontanissimi dal capire che cosa accadrebbe in un soggetto disappropriato del suo stesso morire. Possiamo supporre dei pericoli nuovi e di altra natura rispetto a quelli che conosciamo. Ma bisogna stare attenti anche a non lasciarsi travolgere dal pessimismo, spesso presuntuoso e inutile. Che la nostra società possa alleggerire il senso del morire, che possa persino vivere senza doversi destare nella sua finitudine, non necessariamente conduce al cinismo di una vita onnipotente. Questo è possibile, e infatti accade con una frequenza che impressiona, ma si dà forse anche un’altra possibilità. Al tramonto di una certa angoscia del morire la nostra intenzionalità può essere più ospitale, e diventiamo forse anche forse più capaci di separare alla radice il male di sofferenza dal male morale. Come ci ha spiegato Ricoeur questa è la condizione per abbandonare deifnitivamente ogni teodicea e ogni ontometafisica e pensare altrimenti.


Recensioni G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, introd. di Giuseppe Cantillo, 2. voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008. In uno dei frammenti dedicati all’Introductio in philosophiam (18011802), Hegel scrive: “Ciò che in generale riguarda il bisogno della filosofia vogliamo chiarirlo nella forma di una risposta alla domanda: che relazione ha la filosofia con la vita? Una domanda che fa tutt’uno con un’altra domanda: in che senso la filosofia è pratica? Infatti il vero bisogno della filosofia consiste in nient’altro che nell’imparare a vivere da essa e attraverso di essa” (Gesammelte Werke, Bd. 5, p. 261). In queste poche righe, redatte in occasione del suo primo semestre di lezioni a Jena, si delinea non solo l’orizzonte di senso delle giovanili ricerche hegeliane, caratterizzate dalla riflessione su problemi pratici e concreti del mondo storico, passato e contemporaneo, ma anche la direzione verso cui muove la speculazione degli anni jenesi: quella di produrre una totalità del sapere, un “sistema della scienza”, che non si ponga al di là dell’esperienza umana, ma che attraverso di essa proceda e si sostanzi. La tensione ideale e teorica che anima questo frammento hegeliano si esprimerà in tutta la sua forza nel 1807 con la pubblicazione della Fenomenologia dello spirito. L’obiettivo dell’opera è noto: elevare la coscienza comune al punto di vista della vera filosofia. Pur ammettendo la necessità di una “scala” che innalzi l’uomo al sapere assoluto e, quindi, la necessità di un’introduzione al sistema, Hegel non intende proporre una scienza propedeutica che sia solo uno strumento del sapere prima del sape-


re stesso. Infatti, una scienza del genere, tipica della prospettiva filosofica kantiano-fichtiana, presuppone “un conoscere separato dall’Assoluto” e “un Assoluto separato dal conoscere” (Fenomenologia dello spirito, trad. it., p. 68) e pretende che “il conoscere, il quale fuori dell’Assoluto è indubbiamente anche fuori della verità sia poi tuttavia veridico” (ivi, p. 67). Allo stesso tempo, però, Hegel rifiuta anche la prospettiva di chi, come Schelling, teorizzava un accesso immediato all’Assoluto attraverso l’intuizione trascendentale, propria dell’uomo di genio. In questo modo la natura del legame tra sapere fenomenico e sapere assoluto resta misteriosa e il passaggio dall’uno all’altro appare arbitrario e incomprensibile. Hegel ritiene, invece, che la filosofia, in quanto scienza, debba essere innanzitutto chiara e accessibile a tutti, perché “La via della scienza è la sua forma intelligibile, via aperta a tutti e per tutti eguale” (ivi, p. 10). La rivendicazione della universale possibilità di accedere alla scienza si pone certamente più in consonanza con l’Öffentlichkeitscharakter tipico dell’Aufklärung che con il misticismo romantico. Ma se per i filosofi illuministi il problema era stato quello di capire se e in che modo la filosofia potesse divenire “popolare” ed essere così patrimonio della coscienza comune, per Hegel, già dai primi anni jenesi, il problema è quello di elevare ciò che è popolare, cioè la coscienza comune, al punto di vista della vera filosofia: “l’Assoluto deve essere costruito per la coscienza, questo è il compito della filosofia” (Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, trad. it. p. 18). Di conseguenza, la questione dell’introduzione e fondazione del sistema si intreccia profondamente con quella dell’esperienza della coscienza: è dal sapere limitato della coscienza comune che bisogna partire per mostrare il passaggio a quello assoluto della coscienza universale. Ma ciò non deve avvenire attraverso una riflessione filosofica sulla coscienza che dall’esterno ne indirizzi l’esperienza, bensì mediante la descrizione del cammino che la coscienza comune e, con essa, l’Assoluto stesso, compie spontaneamente. Tale cammino si rivela segnato dalla negatività, dalla rinuncia da parte della coscienza alle sue certezze e ai suoi valori iniziali, e dal conseguente dissolversi del suo mondo. Perciò Hegel lo definisce “la via del dubbio” e della “disperazione”, ma sottolinea anche che esso rappresenta “la storia particolareggiata della formazione della coscienza stessa a scienza” (Fenomenologia dello spirito, p. 70), perché la coscienza, ogni volta, va oltre e allo stesso tempo conserva ciò che è stato negato, trasfigurandolo in una nuova forma dello spirito. La straordinaria descrizione hegeliana dello sforzo che l’uomo compie quando tenta di organizzare e di comprendere il suo mondo ha esercitato sui lettori un fascino e una suggestione pari, forse, solo alle difficoltà che la caratterizzano. Se, come sosteneva Ernst Bloch, la filosofia hegeliana “rende possibile un arrivederci continuo” (Soggetto-oggetto, trad. it. p. 543), questo appare tanto più vero per la Fenomenologia: la sua ric-


chezza di temi e la sua profondità speculativa sembrano non lasciarsi mai afferrare definitivamente dal lavoro ermeneutico. Ma se c’è un secolo che si è particolarmente soffermato su quest’opera valorizzandone il significato e il ruolo tanto all’interno della filosofia hegeliana quanto della storia della filosofia in generale quello è stato il Novecento. Descrivendo una realtà umana e spirituale intimamente segnata dalla scissione e dall’incontro con il negativo, la Fenomenologia si è offerta alla sensibilità novecentesca, propensa a privilegiare le tematiche esistenziali, come lo scritto hegeliano che meglio parla all’uomo moderno e al suo vivere lacerato da tante drammatiche contraddizioni. Basti pensare all’interpretazione in chiave esistenzialistico-umanistica datane in Francia da Jean Wahl, da Alexander Kojève e da Jean Hyppolite. Significativa in questo senso è anche la posizione espressa da Nicolai Hartmann in un saggio del 1931 intitolato Hegel et le problème de la dialectique du réel. Convinto del fatto che la vera grandezza del pensiero hegeliano non andasse cercata nelle costruzioni speculative astratte, bensì nella sua capacità di analizzare la vita concreta dello spirito, Hartmann considera la Fenomenologia il contributo più prezioso offerto da Hegel alla filosofia e in generale al sapere umano. La tesi hartmanniana incarna esemplarmente l’atteggiamento con cui il pensiero novecentesco si è avvicinato alla speculazione hegeliana: messa da parte, se non rifiutata, la complessa struttura sistematica ed enciclopedica, l’attenzione degli studiosi si è concentrata sugli aspetti più frammentari, “inquieti” e “irrisolti” della sua speculazione. Così la Fenomenologia dello spirito è divenuta, come sottolinea Martin Heidegger, il luogo a partire dal quale fare emergere “lo «spirito vivente» della filosofia hegeliana, che ci si è finora celato” (La fenomenologia dello spirito di Hegel, trad. it. p. 64). Ed è proprio in questo clima di rinnovato interesse per la filosofia hegeliana e soprattutto per la Fenomenologia che Enrico De Negri, tra il 1933 e il 1936, offre per la prima volta agli studiosi italiani la possibilità di leggere la Fenomenologia dello spirito nella loro lingua. La sua traduzione, rivista negli anni ‘60 alla luce dell’edizione curata da Hoffmeister, ha avuto grandissima quanto meritata fortuna, costituendo un importante punto di riferimento non solo in ambito italiano. Oltre agli apprezzamenti che essa ebbe da Benedetto Croce, bisogna ricordare che anche Jean Hyppolite, nel lavorare alla traduzione francese della Fenomenologia, pubblicata nel 1941, tenne in gran conto la traduzione di De Negri, segnalandone poi il contributo agli studi hegeliani anche in Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito (1946). Nonostante le numerosissime ristampe, la traduzione di De Negri da tempo non era più disponibile sul mercato editoriale. Appare, perciò, particolarmente meritoria e importante l’iniziativa delle Edizioni di Storia e Letteratura di ripubblicare, all’interno della collana “Testi filosofici” di-


retta da Claudio Cesa, la Fenomenologia dello spirito nella traduzione del 1963, accompagnandola con un’Introduzione e una Nota bibliografica di Giuseppe Cantillo e con una Nota biografica di Stefania Pietroforte, dedicata proprio alla figura di Enrico De Negri. Attraverso l’Introduzione il lettore può impadronirsi di alcune chiavi di lettura decisive non solo per la comprensione di un’opera complicata e geniale come la Fenomenologia ma anche per quella dell’intera filosofia hegeliana. In particolare Cantillo si sofferma su un’idea, quella di triplicità, che rappresenta uno snodo concettuale indispensabile per cogliere l’essenza stessa del pensiero hegeliano. Di questa idea, che Hegel pone a fondamento del movimento fenomenologico, Cantillo mostra tanto le ascendenze neo-platoniche e cristiane, quanto la molteplice valenza teorica. La triplicità, infatti, è per Hegel l’“autentico metodo della filosofia, anzi la filosofia stessa” (Introduzione, p. VI), poiché caratterizza la “struttura dinamica dell’idea” (ivi, p. VIII) ed è il “movimento del dirimersi in sé dell’unità e del suo riprendersi dalla scissione in una restaurata unità che mantiene in sé il molteplice” (ivi, p. VII). In quanto relazione soggetto-oggetto, la coscienza appare sempre impigliata nell’opposizione, nella contraddizione tra le sue certezze e la verità oggettiva. Tale dualismo, però, può venir superato e non irrigidirsi in un’opposizione assoluta proprio perchè “la triplicità è sempre all’opera” (ivi, p. X), ovvero è sempre in atto un processo di mediazione che è insieme processo di formazione della stessa coscienza. Dunque, la triplicità struttura l’intera esperienza della coscienza che Cantillo ripercorre soffermandosi su alcune delle figure più significative dell’itinerario fenomenologico: la lotta per il riconoscimento, la coscienza infelice, la religione, il sapere assoluto. Nel ricostruire i passaggi fondamentali del cammino fenomenologico e la logica che li anima, Cantillo intesse un fecondo e serrato dialogo con De Negri e con la sua interpretazione del pensiero hegeliano. Emerge così, in vivida evidenza, grazie anche al profilo stilato dalla Pietroforte, la notevole statura filosofica di De Negri, il quale intraprende la traduzione della Fenomenologia avendo già alle spalle un intenso e proficuo confronto con la speculazione del filosofo di Stoccarda. Sollecitato dalla pubblicazione degli inediti scritti giovanili hegeliani, De Negri ne approfondisce lo studio pubblicando nel 1930 La nascita della dialettica hegeliana. In questo libro, oltre alla traduzione del Systemfragment del 1800, egli propone un’articolata analisi critica degli altri testi giovanili, sottolineandone il valore e l’importanza per l’evoluzione del pensiero del filosofo tedesco. Nella riflessione sul mondo greco e su quello giudaico-cristiano De Negri rintraccia l’operare, a volte ancora sotterraneo, del pensiero dialettico. Questa prospettiva ermeneutica trova sviluppo e


completamento in altri due libri, Il sistema di Hegel nella sua formazione (1935) e Interpretazione di Hegel (1942), in cui De Negri teorizza ed esamina i caratteri e i momenti della ideale linea di continuità che unisce gli anni della formazione hegeliana a quelli della maturità. Come sottolinea Cantillo, De Negri, attraverso uno studio che non tralascia mai di porre in evidenza le fonti più o meno nascoste del pensiero di Hegel, è riuscito a penetrare “nel cuore della filosofia hegeliana, nel ritmo stesso del suo pensiero e del suo linguaggio” (Introduzione, p. XLIII). Proprio questa capacità di avvicinarsi sia alla speculazione che alla stessa soggettività di Hegel e “la profonda intenzione ermeneutica” di De Negri, “nutrita da una ricca conoscenza delle fonti filosofiche, teologiche, letterarie” costituiscono secondo Cantillo “l’unicità” e “l’ineguagliabilità della sua traduzione della Fenomenologia” (ivi, p. XLVII). Con maestria ancora oggi insuperata, De Negri ha saputo restituire al lettore tutta l’intensità della pagina hegeliana, complessa e talvolta sovrabbondante, espressione di una tensione teorica paragonabile, secondo lo stesso De Negri, ad “una selvaggia fontana di pensiero” (I principî di Hegel, p. XVI). L’inconfutabile valore della traduzione della Fenomenologia di De Negri rinvia in primo luogo alla sua notevole e raffinata abilità tecnica e ad una precisa scelta metodologica: quella di tradurre il testo “letteralmente”. Essere “letterali” significa per De Negri non stravolgere l’intenzione teorica del testo ma offrirla intatta al lettore, anche lì dove essa si presenta velata da una qualche ambiguità. Tutto ciò presuppone, però, non solo una grande dimestichezza con l’impianto concettuale della filosofia hegeliana, ma anche la capacità di coglierne gli elementi più originali e profondi. Pur non risparmiando a Hegel valutazioni critiche e non mancando di rilevare gli aspetti aporetici del suo pensiero, De Negri ha avuto, come sottolinea Cantillo, la piena consapevolezza del “poderoso tentativo hegeliano di pensare la vita, di abbracciare nell’atto mediatore dello spirito la ricchezza del reale” (Introduzione, p. XLVII). Ed è proprio a questo tentativo che De Negri rende pienamente giustizia con la sua traduzione della Fenomenologia, restituendo il senso e lo spirito dell’opera hegeliana che, mediando tra ontologia ed esperienza storica, parla alla vita umana e della vita umana. Mariafilomena Anzalone

Stefano Rodotà, Perché laico, Laterza, 2009. Laicismo! A chi non è capitato, in tempi recenti, di sentire pronunciare questo termine quasi fosse un insulto? Laicismo come degenerazione di laicità, come anticlericalismo preconcetto, scientismo riduttivo; e laicità stessa come sinonimo di relativismo, se non addirittura di nichilismo. L’accettazione di questa indebita sequenza contribuisce oggi, nel nostro Paese,


a smorzare qualsiasi richiamo all’opportunità che, in una democrazia degna di questo nome, il legislatore assuma di tenere separati l’ambito delle personali convinzioni di fede dalla responsabilità e dall’equilibrio richiesti per operare nello spirito del dettato costituzionale. Un principio semplice ed elementare, si dirà; eppure, a volerlo ricordare, si corre oggi il rischio di apparire retrò, di essere visti come inguaribilmente affetti da uno dei vari ismi che così tanti danni hanno prodotto nel secolo scorso. Ci aiuta fortunatamente a uscire da questa trappola ideologica, che tanti laici vorrebbe mettere “in ginocchio”, per usare una bella e provocatoria espressione di Carlo Augusto Viano, il recente volume di Stefano Rodotà intitolato Perché laico (Laterza, 2009). L’autore affronta con estrema chiarezza molte questioni al confine tra etica pubblica e bioetica, e lo fa prendendo spunto anche da controversi e drammatici casi suggeriti dalla cronaca recente (Welby, Englaro ecc.). Casi che hanno “lacerato le coscienze”, come si usa dire. Ma soprattutto, casi che hanno visto i pronunciamenti più disparati, spesso sull’onda emotiva del momento, e di certo al di fuori di una corretta informazione scientifica e giuridica. Gli stessi politici si sono sforzati di fornire la sensazione che si fosse di fronte a casi rispetto ai quali nessuna indicazione poteva provenire dal nostro ordinamento costituzionale. I pronunciamenti dei giudici sono stati considerati ingerenze arbitrarie, costruite sul nulla, e ad essi si è preferito anteporre le indicazioni provenienti dalle gerarchie vaticane, magari da tradurre frettolosamente in nuovi decreti legge. Indicazioni non negoziabili, perché corrispondenti a valori supremi, addirittura insiti nella stessa natura umana;dunque inappellabili. E’ facendo riferimento anche a un tale quadro che si possono apprezzare le lucide riflessioni contenute nel libro di Rodotà sopra indicato. Egli mostra come, contrariamente alla sensazione di affanno e di vuoto legislativo che questi episodi ci trasmettono, la nostra Costituzione contenga in realtà molte linee guida – le stesse cui si sono rifatti i giudici nei casi specifici – che sarebbe opportuno continuare a seguire. La delegittimazione dell’operato dei giudici in nome di un appello a presunti valori cristiani giudicati inderogabili diventa così per Rodotà semplicemente uno dei sintomi più evidenti dell’odierno tentativo di attaccare il principio di laicità che ispira la nostra Costituzione. I percorsi attraverso i quali si cerca oggi di sminuire la valenza del discorso laico sono invero diversi. A cominciare dal tentativo di voler fare della tradizione cattolica l’unica religione civile, un patrimonio non solo di fede ma anche culturale, da riconoscere in tutto il suo peso specifico nella discussione pubblica. Eppure, obietta Rodotà, se è vero che oggi risulterebbe sicuramente anacronistico il voler confinare il discorso religioso alla pura dimensione privata, e in ciò – potremmo aggiungere – si distingue la nuova dalla vecchia laicità, è vero anche che, in una democrazia, l’accesso alla sfera pubblica richiede di essere comunque disciplinato. Esso dovrebbe avvenire in punta di piedi, per così dire. In altre parole, l’ingresso della dimensione religiosa nella sfera pubblica è certamente lecito, ma dovrebbe passare in ogni caso attraverso l’accettazione di precise regole del gioco valide per tutti, e non attraverso l’avocazione a sé di una serie di privilegi. Ecco, secondo l’autore, “il senso profondo della laicità”. Una sfera pubblica democratica non può essere modellata in funzione di una specifica religione o convinzione filosofica, ma secondo un principio che le trascende e le disciplina. Così, il diritto di rivendicare il proprio essere cattolici in sede pubblica non deve equivalere


alla pretesa di sottrarsi a tale azione di disciplinamento. Almeno nell’ambito delle idee, occorre che libertà ed eguaglianza seguano ad andare a braccetto. Perché se è vero che il dettato della propria coscienza è manifestazione di autentica libertà solo nel momento in cui riesce a trovare una pubblica espressione, è vero anche che tale libertà, se non la si vuole confondere col privilegio di pochi, deve esercitarsi in maniera da assicurare analogo esercizio da parte degli altri. Puro buon senso, si dirà. Sarebbe certo così, se non fosse che siamo in realtà assai lontano da quanto si verifica oggi sotto i nostri occhi. Gli sviluppi della scienza e le sue ricadute in ambito medico ridisegnano di continuo i confini di momenti come il nascere, il morire ecc. Peraltro, pressioni come quelle dei gay per il riconoscimento dei propri diritti, incluso quello al matrimonio, contribuiscono a ridisegnare, unitamente ad altre situazioni derivanti da contatti fra persone appartenenti a culture diverse, l’immagine di quest’ultimo istituto. Potrebbe essere questa una formidabile occasione per riconoscere ciò che l’antropologia culturale ha da sempre cercato di insegnare, ovvero che nascita, matrimonio e morte, lungi dall’essere puri momenti naturali, sono al contrario passaggi che gli uomini hanno sempre cercato di controllare culturalmente. Ma in Italia siamo purtroppo ben lontani da Paesi come la Francia, dove – ricorda Rodotà – l’Assemblea nazionale sente il dovere di ascoltare un grande antropologo esperto di sistemi di parentela (Godelier) in vista della revisione della legge sulle unioni di fatto. Sembra invece che anche intorno a queste questioni la Chiesa non manchi di certezze, con richiami a una non meglio definita natura umana. La battaglia contro il vituperato relativismo rischia di trasformarsi così in una battaglia contro il pluralismo e le più elementari regole procedurali della democrazia. Di tutto questo Rodotà si mostra ben consapevole, non trovando antidoto migliore al problema di quello racchiuso nel principio della laicità. Una laicità dunque che, lungi dal provare vergogna, deve al contrario venire orgogliosamente allo scoperto. Perché, precisa Rodotà, “non è tempo di laicità flebile, timida, devota”, ma di laicità “senza aggettivi”. Non v’è attacco alla laicità che non sia attacco alla democrazia, tanto le due cose sono, a parere dell’autore, inestricabilmente collegate. L’accostamento proposto si traduce così in un vero e proprio grido di allarme. L’insofferenza rispetto alla laicità è vista come insofferenza tout court alle regole della democrazia. “Non si tratta di difendere un punto di vista di parte, bensì la democrazia nella sua essenza”, precisa Rodotà nelle pagine iniziali del suo libro. Ne deriva che, così intesa, la laicità corrisponde a un metodo più che a un contenuto. Si potrebbe dire che essa è un valore forte non in quanto superiore ad altri valori, ma in quanto funge da principio di disciplinamento nel difficile confronto tra i valori stessi. Così concepita, la laicità non si fa più astratta ma, esattamente al contrario, cresce in concretezza. Prova ne sia che essa è alla portata del credente come del non credente. Si potrebbe anzi, a voler seguire fino in fondo questa impostazione di Rodotà volta a collegare strettamente laicità a democrazia, provare a immaginare una situazione in cui un credente si trovi paradossalmente a dover rimproverare un non credente di scarsa laicità, significando un tale rimprovero null’altro che l’accusa di voler prevaricare con le proprie idee – non necessariamente di matrice religiosa – rispetto al libero gioco del confronto democratico. Basti pensare, per farci un’idea, agli estremismi in voga nel secolo scorso. Una certa mistica dell’Ordine da una parte e la pre-


tesa di possedere il senso della Storia dall’altra hanno a lungo rappresentato, su fronti opposti, una tentazione a sfuggire al confronto democratico, una scorciatoia da percorrere per veder trionfare la propria “fede”. Intendere il richiamo alla laicità come richiamo al rispetto delle regole democratiche potrebbe aiutarci a comprendere che la laicità stessa costituisce un patrimonio trasversale, da non confondersi con una divisione tra credenti e non credenti, come il più delle volte riduttivamente si afferma. Eppure, è indubbio che la situazione attuale non faccia altro che facilitare una tale confusione. Il tentativo di ridurre la laicità a laicismo equivale in generale a una delegittimazione dell’interlocutore, ed è a sua volta indice di un disprezzo per le regole democratiche. Le novità storiche degli ultimi anni vanno purtroppo in tale direzione. Tramontate le ideologie palingenetiche di tipo secolare, la pretesa di possedere una verità assoluta da tradursi anche in un certo indirizzo legislativo, tentazione questa che risale a Platone, è rimasta appannaggio delle sfere ecclesiastiche. Il risultato è che vi è forse qualcosa di vero nell’asserzione che il tema della laicità è ciò che distingue il credente dal non credente. Il libro di Rodotà ci aiuta a capire come questo non sia necessariamente vero, ma rappresenti semplicemente il frutto di uno svilimento del carattere vincolante del dettato costituzionale. Vi è stato anche un periodo in cui le cose non andavano così. Sono significative le pagine in cui l’autore rammenta come il senso dello Stato ispirasse tanti leader politici democristiani portandoli a distinguere “tra compito del legislatore e testimonianza del cattolico”. “Vi era una politica - prosegue Rodotà – che, pur quando s’era larghissimi di concessioni alle richieste della Chiesa, sapeva di dover salvaguardare la propria autonomia”. Ma quella sensibilità e quella stagione sembrano allo stato attuale tramontate. Il cattolico democratico si percepisce oggi come cattolico tout court; non nel senso che non si interessa di politica, ma nel senso che vive quell’aggettivo democratico come se fosse una diminuzione del proprio essere cattolico. Democraticità come malattia infantile del cattolicesimo, si sarebbe tentati di commentare echeggiando un vecchio pamphlet di Lenin. L’epoca è decisamente cambiata. Ormai “è tempo di ‘atei devoti’ e di ‘teodem’”, chiosa Rodotà. Così, similmente a quanto siamo soliti lamentare per altri contesti culturali e religiosi, in primis quelli in cui dominano forme radicali di islamismo, assistiamo anche noi a una religione che vorrebbe inglobare la politica. E non si tratta solo di un attacco esterno, ma anche di una repressione del dissenso interno, come dimostrano alcuni richiami ufficiali a esponenti pur autorevoli del clero, quale ed esempio il cardinale Carlo Maria Martini, relativamente ad alcune sue posizioni in materia di etica. Le visite in Vaticano da parte dei governanti, rileva Rodotà, assumono ormai sempre meno il carattere di incontri tra capi di Stato e somigliano sempre più a dei pellegrinaggi in luogo sacro. Si fa a gara a presentarsi come esecutori fedeli delle indicazioni provenienti da San Pietro, mentre i riferimenti a questa o quell’altra enciclica papale sostituiscono o comunque oscurano quelli ai diversi articoli della Costituzione. Per questo, non ci si trova più di fronte a una generica ingerenza della Chiesa, ma quasi a “un mutamento radicale dell’antropologia politica”. Almeno due ordini di processi, lo si è già accennato, accentuano e favoriscono questa mutazione: da un lato la crisi di tradizionali agenzie rappresentative come i partiti, talvolta ispirati a ideologie visibilmente in declino; dall’altro il moltiplicarsi di questioni inedite rispetto al tradizionale campo decisionale della politica stessa, in quanto scaturite dalle possibilità


manipolatrici offerte dagli sviluppi della ricerca medica più recente. Rodotà si limita ad accennare al primo punto, mentre sviluppa in maniera più articolata il secondo. Gli esempi offerti sono numerosi, ripresi dai tanti spunti forniti dalla cronaca. Essi vengono affrontati tutti nella seconda parte del volume, significativamente intitolata “Cronaca di una laicità difficile”. Si tratta degli interventi che l’autore ha pubblicato negli ultimi anni sul noto quotidiano La Repubblica, tesi a commentare vicende più o meno riconducibili al problema della laicità nel nostro Paese. Si spazia così dalla Giornata mondiale della gioventù dell’estate del duemila alle polemiche seguite al mancato intervento del Papa alla cerimonia inaugurale dell’anno accademico alla Sapienza di Roma; dai tentativi di screditare le tradizionali Carte dei diritti in nome di “costituzioni parallele” all’estensione dell’esercizio di obiezione di coscienza per i cattolici; dal riproporre continuo della polemica contro il relativismo al tema della dignità umana; dal “turismo procreativo” come risposta a restrizioni legislative all’inevitabile rischio di derive autoritarie della legge stessa laddove dovrebbe prevalere l’autodeterminazione del cittadino; dall’uso strumentale del tema della sicurezza da parte del governo alla questione dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica; dalle terapie per alleviare il dolore alle questioni come l’aborto e l’eutanasia; dal tema dei diritti degli omosessuali a quello della solidarietà tra le persone; dall’approccio ai problemi di bioetica in Paesi come la Spagna o l’Inghilterra alla più generale questione del controllo della ricerca biomedica a livello europeo; dal più generale problema di una possibile “Europa dei diritti” (da affiancare a quella dei mercati) a quello del rischio, per l’Europa medesima, di abdicare al proprio ruolo di artefice della storia preferendo i più rassicuranti “lidi della religione e della natura”. Una rassicurazione, conclude perentorio Rodotà, che equivarrebbe piuttosto a una “regressione culturale”. Gaetano Riccardo



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