Gennaio - Febbraio 2011, N째 31
Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale
Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).
Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Gennaio-Febbraio 2011, n° 31. (Numero 32, 1 Marzo 2011) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace
I
n d i c e
Democrazia etica e difesa della Costituzione di Elio Matassi
L’assessore Donazzan di Umberto Curi
Come uscire dall’accidia politica di Giorgio Ruffolo Verso il 150° dell’unità d’Italia di Umberto Carpi
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Democrazia, etica e difesa della costituzione di Elio Matassi
La minaccia estrema che nella contemporaneità ipoteca la politica, limitandone potenzialità e sviluppi, sta nella crescita esponenziale di quella che può essere definita, con un neologismo non molto elegante, ‘espertocrazia’. In una società la cui complessità interna aumenta costantemente e lo Stato, parallelamente e specularmente, si frantuma in una molteplicità di istanze politico-amministrative che operano a più livelli, il ruolo dei tecnocrati cresce inesorabilmente. I politici, per parte loro, si trincerano dietro i pareri degli esperti, in modo che, alla fine, nessuno risulta responsabile né tantomeno colpevole di nulla. Andando ancora più a fondo, la depoliticizzazione nasce in questo caso dall’idea che per ogni problema politico o sociale vi sia alla fine un’unica soluzione tecnica possibile che spetta agli ‘esperti’ trovare. La conseguenza sta in un esercizio sempre più razionalizzato e
burocratico del potere e i politici dimenticano che sta a loro decidere le finalità dell’azione pubblica; questo atteggiamento presume che la democrazia sia una cosa troppo fragile per essere affidata al popolo e che, per restare “governabile”, essa debba essere il più possibile sottratta alla partecipazione e alla deliberazione pubblica. Così come l’ideologia economicistica tende a mettere sullo stesso piano il governo degli uomini e l’amministrazione delle cose, nella stessa misura l’‘espertocrazia’ realizza la politica in quanto attività fittizia che scaturisce dalla sola autorità della ragione. L’ideologia economicistica è l’erede di quei teorici che credevano, sul modello delle scienze esatte, di poter trasformare l’azione politica in una scienza applicata fondata sulle norme della fisica o della mathesis. L’obiettivo è quello, sopprimendo la pluralità delle scelte, di eliminare l’indeterminatezza ed anche il conflitto, per definizione fonte di incertezza. La speranza, certamente sempre frustrata, sta nel far coincidere razionale e reale lavorando per un futuro ‘scientificamente’ prevedibile. Ricondurre la politica ad un’attività di valutazione tecnica porta, dunque, a privare il cittadino delle sue prerogative, riducendo il gioco politico all’esercizio di una razionalità universale. Aristotele, quando richiama la nozione di saggezza pratica, mostra bene la differenza che esiste tra razionale e ragionevole, mettendo in discussione con forza l’idea che la politica possa mai coincidere con una scienza; il pensatore greco mette in guardia contro la congettura che si possa applicare allo stesso grado di rigore e di precisione delle scienze matematiche anche l’ordine delle cose umane, variabili e soggette alla scelta. La conclusione che se ne può desumere è che gli esperti possano avere un ruolo che non sia subordinato. La competenza politica non dipende dalla perizia tecnica, perché non è agli esperti che compete determinare le finalità dell’azione pubblica. Il popolo associato, nella sua diversità, riunisce competenze di cui nessun individuo può disporre separatamente. Il cittadino non ha bisogno di essere un esperto per partecipare alla deliberazione ed esprimere le sue preferenze o le sue scelte. In ultima analisi si può plausibilmente affermare che lo sviluppo tecnologico, nell’arco di alcuni decenni, ha trasformato la vita delle società più in profondità di quanto non abbia mai fatto qualsiasi governo. E’ proprio in questo senso che possiamo affermare, con Massimo Cacciari, che “l’imposizione dell’immanenza tecnica significa depoliticizzazione globale”. ‘Governo degli esperti’, così come ‘governo dei giudici’ o ‘governo dei mercati finanziari’, sono solo formule che sottolineano come lo spazio del politico sembri oggi essersi ristretto. La questio sta nel comprendere come questo spazio sappia o possa ritrovare le sue prerogative ed, in modo particolare, essere rimodellato. L’attuale scenario nazionale e internazionale, ipotecato in maniera pregnantemente negativa dalla espertocrazia, in particolare da quella declinata economicamente, appare preoccupante; per quanto concerne la situazione politica nostrana si assiste giorno dopo giorno ad un degrado progressivo del dibattito democratico, ad uno scontro istituzionale senza precedenti (tra la Presidenza del Consiglio e quella della Camera, tra il Governo e la magistratura), ad una concezione – interpretazione della legalità che dovrebbe essere subordinata alla deriva plebiscitario – populistica della democrazia. L’attuale blocco neopopulista alla guida del paese sembra essersi arroccato nella difesa di una maggioranza molto fragile che si regge sul
gruppo dei cosiddetti ‘responsabili’, presumendo di risolvere i gravi problemi del paese con espedienti parlamentari, mutuati da esperienze politiche del passato. L’espertocrazia economico – finanziaria è anche all’origine delle gravi tensioni internazionali che si stanno verificando, in particolare per le vicende che colpiscono alcuni paesi dell’area mediterranea, veramente inquietanti. Regimi nazionalistici che hanno ormai perduto ogni rapporto diretto con la società civile, utilizzano a propria difesa l’esercito. Vi è un allarmante processo di ripudio del confronto democratico cui corrisponde come conseguenza necessaria l’uso della violenza. La conseguenza estrema della espertocrazia economico – finanziaria sta pertanto nell’abbandono della democrazia o, almeno, di un utilizzo solo parziale della democrazia, ossia di una democrazia dimidiata e non integrale. Se si torna all’esperienza nazionale e si riflette in maniera approfondita sulla vicenda Fiat – Marchionne, anche in questo caso l’unico automatismo di rilievo che le elites tecnocratico – finanziarie escogitano consiste nella riduzione dei diritti individuali, sociali e sindacali. La crisi, che non può essere considerata un evento metafisico calato dall’alto sui popoli, è stata determinata in larga misura, come dimostrano gli economisti più lungimiranti, da un processo capitalistico incontrollato che presenta analogie rilevanti con lo stesso processo del secolo precedente. Un processo che presenta come autonomismo necessitante la riduzione progressiva dei diritti fondamentali; caratteristica che investe, per esempio, anche l’esperienza cinese, completamente scissa tra sviluppo economico incontrollato e caduta verticale dei diritti civili e sociali (in particolare degli abitanti delle zone interne e non di quelle costiere, il cui sviluppo e benessere economico comincia ad essere avvertito). Passiamo ora alle soluzioni possibili, ad una linea alternativa a quella prospettata dalla espertocrazia; per quanto concerne il nostro piano nazionale appare molto interessante la proposta avanzata da Massimo D’Alema: si richiedono elezioni anticipate, con l’ausilio delle prerogative, senza forzature istituzionali, della Presidenza della Repubblica per realizzare una sorta di grande ‘compromesso’ tra le forze del ‘terzo polo’ e quelle della sinistra sia riformista sia radicale per riscrivere le regole nel rispetto della costituzione vigente. ‘Compromesso’ necessario, per un periodo circostanziato, atto a realizzare il ripudio dell’esperienza di governo ‘ormai quasi ventennale’ del blocco neopopulista. Un ‘compromesso’, nato dall’emergenza democratica, il cui sbocco dovrebbe essere rappresentato da un confronto, finalmente solo politico, tra i due blocchi che si richiamano al centro - destra e al centro - sinistra. Un Governo di emergenza democratica, che dovrebbe nascere simbolicamente nell’anno delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, per salvare l’unità nazionale, ristabilendo l’etica e la democrazia e la difesa della Costituzione contro ogni tentazione plebiscitaria. Un’esperienza che dovrebbe essere trasferita sul piano europeo, nei
Governi dell’Unione per dirimere e accompagnare possibilmente verso uno sbocco democratico i gravi problemi che stanno affliggendo alcuni paesi dell’area mediterranea, vittime di una classe dirigente del tutto insipiente. Ancora una volta il Partito Democratico, entro un’ottica al contempo risorgimentale ed europea, dovrà presentarsi come il protagonista per la rinascita democratica dell’Italia e del Mediterraneo.
L’assessore Donazzan di Umberto Curi
L’iniziativa assunta dall’Assessore regionale all’Istruzione del Veneto, Elena Donazzan, la quale ha invitato i presidi delle scuole della regione a non divulgare nelle classi i libri di coloro che - nel 2004 – avevano sottoscritto un appello in favore di Cesare Battisti (fra essi, il filosofo Giorgio Agamben e il premio Strega Tiziano Scarpa), è molto più grave di quanto non emerga a prima vista. Per una pluralità di motivi. Colpisce, anzitutto, l’inconsistenza logica di questa mossa, totalmente carente sul piano delle motivazioni razionali. Come alcuni fra gli stessi presidi hanno prontamente rilevato, il divieto colpirebbe infatti i libri non a causa del loro contenuto, ma solo per la volontà di “punire” i loro autori. In altre parole, non si tratterebbe di impedire che gli studenti vengano a contatto con idee sbagliate o pericolose (ammesso, e tutt’altro che concesso, che idee di qualunque tipo possano essere considerate in questi termini), ma semplicemente di condannare ad una sorta di damnatio memoriae alcuni scrittori non per ciò che hanno scritto, ma per le loro convinzioni sulla richiesta di estradizione del terrorista italiano. La cosa si presenta dunque col sapore odioso della rappresaglia, della vendetta, senza neppure un appiglio sul piano pedagogico. Se si diffondesse questa mentalità aberrante, non soltanto si dovrebbero mandare al rogo i libri di alcuni fra i massimi protagonisti della cultura del Novecento – da Celine a Martin Heidegger, da Carl Schmitt a Ezra Pound – ma si finirebbe per condizionare la circolazione di film o di cd alla preliminare verifica
di quali appelli registi o cantanti abbiano sottoscritto in passato. Un follia. Un delirio. Un autentica barbarie – questa sì culturalmente non lontana dalla pseudocultura di guerra civile, alla quale si sarebbe ispirato Battisti. Ma l’intervento della Donazzan dovrebbe suscitare unanime indignazione, indipendentemente dalle posizioni politiche personali, per almeno un altro ordine di motivi. Una volta che abbia ricevuto una delega, quale è quella che le è stata conferita, l’Assessore non è, non deve essere, più un esponente di una parte politica, libero di perseguire i propri obbiettivi più o meno nobili e di coltivare le proprie antipatie. Diventa un’esponente delle istituzioni, una rappresentante di tutto intero il popolo della regione, di destra e di sinistra, e in tale veste ella dovrebbe avvertire l’obbligo di corrispondere con rigore ai suoi doveri istituzionali. Ebbene, compito di chi eserciti il referato all’istruzione è quello di operare perché cultura, aggiornamento, istruzione, formazione, si diffondano quanto più ampiamente possibile, e siano anzi rimossi gli intralci che impediscono o limitano la libera circolazione delle idee. Mentre a lei non compete affatto stabilire quali letture debbano essere fatte e quali evitate, quali libri debbano essere letti e quali invece cancellati o proibiti. Non si tratta di una sottigliezza, ma dell’interpretazione corretta di un ruolo in se stesso molto delicato, per il quale non sono possibili sbandamenti, come quello di cui ora si discute. Ma a conferire un carattere ancor più inaccettabile all’iniziativa assunta dalla Donazzan (ed esplicitamente condivisa dal “liberale” Zaia: complimenti!), vi è il ricordo ancor vivo di un episodio di circa un anno fa. Nelle vesti di Assessore all’Istruzione, l’ex esponente di AN aveva fatto stampare e distribuire in tutte le scuole, a spese dei contribuenti veneti, una ricostruzione storica del ventennio successivo al crollo del muro di Berlino redatta da un giovane laureando in storia, per pura casualità militante nell’organizzazione giovanile di AN. Era poi emerso che quel testo era in larga parte frutto di un maldestro taglia-e-incolla da alcune fonti accessibili in internet. Non risulta che l’Assessore abbia mai risposto, quanto meno in sede politica, se non in sede giudiziaria, di un uso così sconsiderato del denaro pubblico.
Come uscire dall’accidia politica di Giorgio Ruffolo
Premessa Anziché esprimere insoddisfazioni e lagnanze abbiamo tentato di indicare le principali questioni di una riflessione ad ampio raggio intesa a riscuotere la sinistra italiana dall’attuale stato di accidiosa confusione. Niente di più che un indice di temi, inteso a pro muovere una discussione. Non una serie di tesi, ma un seguito di impegni, di iniziative, di proposte. Non un manifesto. Piuttosto, un’agenda. Sui valori della sinistra non c’è niente da inventare. Restano anzitutto quelli tradizionali: libertà eguaglianza fraternità. Coniugati nelle forme della prassi democratica. Libertà degli uni condizionata solo da quella degli altri. Eguaglianza non come egualitarismo ma come equità. Fraternità come solidarietà sociale, a partire dalla comunità nazionale. A questa triade classica del diciottesimo secolo si è affiancata quella emersa dalle tormentate esperienze dei due secoli successivi. L’aspirazione alla pace, al benessere individuale e sociale (welfare), al benessere ambientale. Nel loro insieme questi sei valori costituiscono
il nucleo di un umanesimo socialista. Sul governo del mondo constatiamo il declino della supremazia dell’Occidente e in particolare, anche se non imminente, quello dell’egemonia americana. Non consideriamo probabile, e non auspichiamo l’avvento di una nuova egemonia nazionale. Nuove potenze mondiali stanno emergendo. La pluralità dei nuovi protagonisti renderà il governo del mondo al tempo stesso più difficile e più necessario. Il problema fondamentale è costituito dalla fitta interdipendenza di un mondo sempre più globale e sempre più incompatibile con i principi e le pretese della sovranità nazionale assoluta. È improponibile nell’orizzonte visibile la realizzazione di un governo mondiale. È necessario e possibile però battersi per la costituzione di un codice etico universale di diritti mondiali imprescrittibili (esempio, l’abolizione della pena di morte e il bando della tortura) sottratti alle sovranità nazionali e assistiti da impegni e da sanzioni internazionali. È possibile e necessaria altresì l’assunzione di impegni mondiali comuni (dal bando delle armi nucleari al controllo della atmosfera) nell’ambito di un progetto mondiale di sopravvivenza della specie gestito, come sua prerogativa suprema, dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. In una accezione molto più pratica, il problema dell’integrazione politica internazionale è stato affrontato pragmaticamente con l’istituzione di riunioni sistematiche dei governi politicamente più ‘influenti: G7, G8, e, seguendo l’inevitabile coinvolgimento di nuovi soggetti emergenti, negli ultimi tempi, G20. Questa nuova forma di consultazione re c i p roca è ancora affidata a un processo pragmatico e informale, e pertanto per molti aspetti più efficace di quello faticoso e irto di ostacoli delle organizzazioni internazionali e sopranazionali formali (Nazioni Unite). Prima o poi, tuttavia, un raccordo tra i due approcci sarà inevitabile, per la confusione generata dalla loro compresenza. A questo proposito, è opportuno che le forze che si richiamano ai valori e ai principi della sinistra, in tutto il mondo, e quindi anche in Italia, si impegnino nella ricerca di nuove forme di organizzazione mondiale che realizzino un’integrazione politica delle interdipendenze mondiali (una qualche forma preliminare di governo mondiale) su una base democratica. In questo senso si sono già sviluppate ricerche sulla possibilità di fondare una nuova forma di democrazia cosmopolitica. Vi sono in proposito significativi contributi da parte italiana, che potreb bero utilmente essere sviluppati in una proposta di governabilità mondiale. L’ impresa europea dopo una partenza folgorante, l’impresa europea si è accartocciata in una condizione di avvilente sterilità, incapace di evolvere com’è verso il naturale sbocco di un nuovo grande Soggetto politico, in una crisi di identità che condanna l’Unione a una performance politica nettamente inferiore al livello potenziale rappresentato dalle risorse della sua economia e della sua civiltà. In questo stato di sterilità e di disagio l’Unione è stata spinta dal modo sciagurato nel quale sono stati gestiti i due processi paralleli della sua integrazione e del suo allargamento, sotto l’influenza interessata, ai limiti del sabotaggio, dagli Stati Uniti all’ esterno e soprattutto dall’Inghilterra all’interno. Superata alla meno peggio la crisi del Trattato di Lisbona, si pone
oggi il problema di una revisione radicale delle strutture e delle politiche dell’Unione. È sintomatica della attuale condizione di scollamento politico la totale assenza di una intesa tra le forze democratiche e socialiste europee. Appare sempre più chiara, anzi ovvia, la conclusione che si deve trarre dall’attuale stato dell’Unione: un problema comune – l’integrazione economica europea – esige un potere comune. In sua assenza, il più importante passo sulla via dell’integrazione – la moneta unica – rischia di diventare causa del suo fallimento. Senza un governo, un soggetto politico non esiste. Senza governo l’Europa cesserà di essere un soggetto politico. La prima e decisiva esigenza è quella di trasformare l’attuale Commissione in un governo democratico, a cominciare dell’esecuzione dell’articolo 17.7 del Trattato di Lisbona: «Il Consiglio Europeo propone al Parlamento Europeo un candidato alla carica di Presidente della Commissione». Secondo punto: la piena realizzazione dell’Unione economica, con una politica di bilancio e fiscale che integri la politica monetaria comune, con un bilancio che deve passare dall’attuale 1% del prodotto economico al 2,5% (proposta Mc Dougall del 1977) e con la facoltà di emettere Union Bond europei per finanzia e progetti di sviluppo comuni. Terzo punto: l’adozione di una politica comune di sicurezza. Quarto punto: l’adozione di una politica estera comune, con l’unificazione delle rappresentanze dell’Unione nelle sedi e negli organismi mondiali. Quinto punto (last, not least): l’apertura nel Parlamento europeo di un grande dibattito sulle finalità del progetto europeo. Un patto di nazioni che realizzi in tempi definiti la costruzione della Federazione degli Stati Uniti d’Europa, attraverso la votazione del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali e la sottomissione del testo finale ai cittadini in un referendum europeo. Democrazia e capitalismo Da gran tempo la sinistra riformista ha abbandonato il «programma mssimo» di abolizione del capitalismo. Ma ciò che oggi risulta abbandonato è anche il compromesso socialdemocratico raggiunto tra democrazia e capitalismo negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e battuto successivamente da una cont roffensiva capitalistica che è culminata nella liberalizzazione dei movimenti di capitale e nella globalizzazione dell’economia che ne è seguita. Il trionfo del capitalismo, sanzionato dalla teatrale scomparsa del suo rivale sovietico, è stato salutato come l’avvento di una condizione di crescita costante e immune dalle grandi fluttuazioni del passato. La grande illusione è naufragata nella grande crisi nella quale, malgrado ogni quotidiano annuncio, siamo ancora immersi. La ragione profonda della crisi sta nel fallimento delle pro messe della crescita continua. La crescita ha comportato innegabilmente l’uscita dall’area della povertà di una grande parte della popolazione mondiale, ma è stata accompagnata da (e ha provocato un) crescente aumento delle disuguaglianze economiche e sociali e un aggravamento drammatico
delle condizioni dell’equilibrio ecologico. I conflitti sociali devastanti che avrebbero potuto derivare dalla disuguaglianza sono stati evitati grazie a un ricorso massiccio all’indebitamento. In tal modo, all’uso ecologicamente dissennato delle scarse risorse naturali esistenti, si è aggiunto il ricorso su grande scala a risorse inesistenti: il risparmio delle generazioni future. Il conto della crisi è stato pagato finora dallo Stato, sostituendo il debito privato con il debito pubblico. Il costo della crisi è stato posto sulle spalle dei disoccupati licenziati dalle imprese e dei cittadini utenti della pubblica spesa, soggetta a tagli compensativi dell’indebitamento pubblico. Niente è stato fatto finora per affrontare le cause fondamentali della crisi: la libera circolazione dei movimenti internazionali del capitale e il potere di creazione di moneta da parte del sistema bancario e finanziario. La risposta alla prima esigenza può essere l’introduzione di una « Tobin tax» che penalizzi le speculazioni valutarie a breve e brevissimo termine. Una tassa modesta, dello 0,1% delle transazioni totali, frutterebbe 166 miliardi di dollari l’anno, il doppio della somma annuale necessaria per sradicare entro dieci anni la povertà estrema in tutto il mondo. La risposta alla seconda esigenza comporta una scelta radicale: demercificare la moneta, sottraendola al mercato finanziario per ricondurla alle sua natura di istitu zione che svolge le due funzioni regolatrici, di unità di conto e dimezzo di pagamento. Insomma: moneta come arbitro, non come giocatore. Ciò presuppone un accordo politico del tipo di quello proposto senza successo a Bretton Woods da Keynes, sull’istituzione di una moneta mondiale di conto gestita da una Banca che ne garantirebbe il potere d’acquisto in termini delle altre monete «reali» (tasso di cambio) e in termini di beni futuri (tasso d’interesse). Il nuovo sistema comporta la piena trasparenza dei movimenti di capitale. Qui si pone l’esigenza di un’altra innovazione radicale: la chiusura dei paradisi fiscali, che sono la fonte dell’evasione fiscale e della criminalità internazionale. Si calcola che il Plc (Prodotto lordo criminale) che ha nei paradisi fiscali la sua tana, ammonti a un quinto del prodotto mondiale. (A tale proposito, appare scandaloso, e dovrebbe essere denunciato, che la Chiesa cattolica, da cui giungono ogni giorno messaggi di accorata denuncia dell’avidità materialistica, sia la sede di uno dei più potenti paradisi fiscali del mondo: insomma, caritas senza veritas). Finora, i governi si sono limitati a pubblicare «liste nere» dei paradisi fiscali successivamente e regolarmente ‘imbiancate’. La soluzione del problema è, puramente e semplicemente, la completa abolizione del segreto bancario. I redditi dei lavoratori non sono segreti. Non si vede perché debbano esserlo quelli dei «risparmiatori» (e degli speculatori). Un altro aspetto di una risposta efficace alla crisi finanziaria è costituito dal ristabilimento delle regole di incompatibilità riguardanti i vari comparti dell’attività creditizia, introdotte in America dal New Deal e in Italia dalla legge bancaria del 1936. Il ristabilimento di rapporti funzionali corretti tra finanza ed economia deve inquadrarsi in una più ampia visione dello sviluppo economico che richie-
de un graduale ma decisivo passaggio dall’economia della crescita all’economia dell’equilibrio. Questo passaggio non dovrebbe essere neppure posto in discussione in una civiltà dotata di ragione. La crescita a interessi composti è una pretesa dei conti in banca, non può essere una realtà dell’economia. Ogni processo di crescita comporta un punto di equilibrio. Un indefinito aumento di scala della produzione è inconcepibile. Prima o poi esso entra in conflitto con risorse e con spazi ‘finiti’. Mercati e tecnologie possono risolvere problemi di composizione, non il problema della scala della produzione. Il costo dell’aumento, oltre un certo livello, della scala della produzione è misurato dall’esaurimento (depletion) e dall’inquinamento (pollution) delle risorse. La regola ottimale di un sistema economico vitale dovrebbe essere quella di contenere il flusso delle risorse (produzione) entro i limiti del ricambio energetico e il deflusso dei consumi entro i limiti dell’assorbimento naturale dei rifiuti. Ciò che si dovrebbe massimizzare non è la quantità della produzione, ma la qualità dei servizi che essa rende. Minimizzare il mistico Pil? Ecco uno scandalo, per i dottori dell’economia, di portata non inferiore a quello a suo tempo suscitato dalle ragioni di Copernico e di Galileo nei dottori della Chiesa. Una economia ‘stazionaria’, non ‘statica’, un lago aperto, non uno stagno chiuso, è la visione razionale di un’economia altrimenti votata all’autodistruzione. La conversione di un’economia sfrenata a un’economia ecologicamente regolata comporta formidabili problemi tecnologici, sociali, politici; e, non da ultimo, morali (che sono evocati dalla Chiesa cattolica: giustamente, non fosse per la gigantesca contraddizione già richiamata). Questi problemi, tuttavia,possono essere affrontati e risolti:questa volta, certamente, con l’aiuto della tecnologia; ma soprattutto con quello della persuasione e dell’educazione politica, se solo la politica se ne occupasse. Uno di questi grandi problemi di «conversione» è indubbiamente quello energetico. La sinistra deve riconsiderare la sua posizione riguardo all’impostazione generale del rapporto tra Stato e Mercato. L’evoluzione dell’organizzazione economica comporta un superamento della netta contrapposizione tra i due «massimi sistemi». Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito a una enorme espansione delle transazioni non mercatizzate e non monetizzate che passano attraverso lo scambio gratuito e la produzione associata e cooperativa. Come pure, allo sviluppo del «prosumerismo»: e cioè delle attività di autoproduzione e di autoconsumo. L’enorme importanza di questo «terzo sistema» (giunto ormai a circa la metà delle transazioni economiche complessive) è dovuta alla crescente incidenza della produzione di servizi, della circolazione dell’informazione e allo sviluppo delle tecniche di informazione istantanee. Appare sorprendente l’indifferenza della sinistra cosiddetta riformista per questa riforma spontanea del sistema; e la totale assenza di una politica diretta a facilitarne lo sviluppo e a utilizzarne le immense potenzialità politiche e sociali. Infine. Una riforma essenziale è quella che riguarda il modo di calcolare il reddito e la ricchezza del Paese. Insufficienze e contraddizioni
dell’attuale sistema di contabilità nazionale sono ormai generalmente riconosciute,ma il sistema continua a essere adoperato quotidianamente dal discorso politico, che in tal modo travisa la realtà e altera la sua funzione. Perché proprio di un problema politico, non tecnico, si tratta. E sembra opportuno che la riforma della contabilità nazionale sia ‘politicamente’ orientata, nel senso di tener conto degli obiettivi economici e sociali, per verificarne la coerenza e il grado di realizzazione. Abbiamo più che mai bisogno di un ritratto fedele del nostro Paese. E di una chiara idea degli obiettivi e dei risultati dell’azione dei suoi governi. L’Italia a un secolo e mezzo dalla sua unificazione si parla con insistenza,ma con superficialità, del cosiddetto declino italiano. In realtà il quadro italiano è più complesso di quanto possa essere descritto con una formula così perentoria . L’economia italiana presenta, accanto a indubbi problemi di tradizionali arretratezze e di nuovi e preoccupanti arretramenti, condizioni di normale sviluppo e situazioni di eccellente performance in settori importanti dell’industria e dell’organizzazione sociale. Il giudizio del declino rivela, più che una condizione oggettiva, che non corrisponde che in parte alla realtà, un malumore diffuso per l’incapacità della classe politica, di destra e di sinistra, al governo e all’opposizione, di trasmettere al paese idee chiare sui suoi progetti e, soprattutto, consapevole fiducia nelle rispettive leadership. Non è consapevole fiducia il fanatismo populista che una parte del Paese esprime ancora per un personaggio a dire il meno singolare (si dovrebbe dire plurale, in ragione del suo spigliato eclettismo) e non è ragionata sfiducia il dileggio sistematico per una classe politica talvolta ingiustamente screditata . Il fatto è che a distanza di un trentennio dalla devastante crisi di quella che si usa definire come la Prima Repubblica e dal naufragio dei grandi partiti che l’avevano fondata, non si è mai più profilata l’immagine di una repubblica seconda. I partiti storici sono stati avvicendati da aggregazioni politiche del tutto prive di tradizioni, frutto di suggestioni pubblicitarie o di disegni freddi e opportunistici. Senza storia e senza progetti. Dunque, senza politica. Non c’è alle spalle (e per fortuna!) una guerra che abbia sconvolto il formicaio del Paese, provocando il brulicare di energie sommerse; ma solo il naufragio di una classe politica stanca. E quanto al contributo che in tempi di crisi politica avrebbe potuto provenire dalle altre élite, sindacali e imprenditoriali, anch’esso si è rivelato carente per non dire inesistente, nel primo caso per degenerazione burocratica, nel secondo per la tradizionale irresponsabilità politica di una classe imprenditoriale non priva di «spiriti animaleschi», ma, disperatamente, di immaginazione. Di qui un senso generale di accidia. E di qui i due pericoli reali che il Paese corre, a pochi anni dalla celebrazione della sua unità. In questi centocinquant’anni questo Paese non si è mai riconosciuto in un vero sentimento dello Stato. Ma piuttosto, questo sì, in una passione politica che animava i partiti in una misura ignota ad altri Paesi con cui si confrontasse. I partiti, non lo Stato, hanno costituito la vera anima della politica italiana. Questa passione si è spenta. I partiti si sono isteriliti. Toccherà allo storico spiegare le ragioni di questo degrado. Il fatto è che alla passione politica è subentrata una privatizzazione populistica della società italiana. Privatizzazione, nel
senso del suo sbriciolamento in un mucchio di granelli di sabbia privi di capacità coesive che non andassero al di là della sempiterna famiglia italiana. Populismo, nel senso in cui il mucchio di sabbia è esposto a venti emotivi e a suggestioni demagogiche. Non più, come nel fascismo, quelle della potenza guerriera. Ma quelle del facile arricchimento, del gioco, del tifo, del gallismo, dello spettacolo. Il pericolo che da questo processo incombe sul Paese è la disgregazione della sua già malcerta identità. Questa minaccia di disgregazione si manifesta anzitutto lungo la crepa della debole saldatura territoriale: la minaccia della separazione tra il Nord e il Sud, ingigantita dalla crisi della Repubblica. Questi sembrano dunque i due pericoli che la sinistra, una volta che li abbia seriamente riconosciuti, distogliendosi dalle sue beghe, dovrebbe fronteggia re. La sinistra italiana porta nella sua storia, insieme a molti errori funesti, il retaggio di un passato autentico e glorioso di solidarietà. La sinistra può investire quella sua storia identificandosi nella forza più rappresentativa dell’unità nazionale. Non retoricamente, però. L’occasione concreta è rappresentata dall’istanza federalista rinata, fuori della sinistra, nel solo movimento che, sia pure in modo rozzamente campanilistico e a volte culturalmente grottesco, presenta oggi i segni di una passione politica. Il federalismo leghista si è identificato nella proposta del federalismo fiscale, ispirato, è vero,molto più da intenti separatistici che solidali. Senza re s p i n g e re pregiudizialmente le esigenze reali di questa proposta, che pure esistono, si tratta di travasarla in un grande disegno che riprenda i messaggi federalisti risorgimentali (Cattaneo, Salvemini, Dorso) per rifondare l’unità nazionale sulla base di un patto costituzionale tra il Sud e il Nord del Paese. Ciò comporta la ricomposizione delle Regioni, un istituto che nell’insieme è mancato gravemente alle aspettative in due grandi soggetti il Nord e il Sud, federati sulla base del patto, del quale un Presidente della Repubblica eletto dal popolo sarebbe il garante, e la Capitale romana, come scriveva Cattaneo, il maestoso luogo di incontro. La privatizzazione ha investito in pieno la politica, con la conseguenza di una dilagante proliferazione del malaffare. La corruzione di Tangentopoli aveva un pretesto, per quanto in larga misura ipocrita: il finanziamento, illegale, ma apparentemente inevitabile, dell’attività politica. L’attuale dilagante corruzione non ha neppure questo pretesto. Ieri l malaffare tentava di giustificarsi con la politica. Oggi la plitica è apertamente utilizzata per finanziare il mlaffare. Il discorso è diverso per le forze di governo e per quelle di opposizione. Non che le prime siano tutte coinvolte. Nella grande maggioranza il personale politico della destra è tanto ‘onesto’ (meglio:anto incolpevole di grandi disonestà) quanto quello della sinistra. Ma la destra ha la responsabilità culturale del fenomeno. Quando non un qualunque esponente, ma il Capo della destra escrive la funzione fiscale dello Stato come un furto («mettere le mani nelle tasche degli italiani») si capisce che l’evasione fiscale sia giustificata come comprensibile difesa dal furto e non come «ilmettere le ani nelle tasche dello Stato»: ciò che puntualmente avviene da quelle parti . Come nei riguardi delle tasse, anche nei riguardi della Giustizia il messaggio è quello di riconoscerla solo a patto che non tocchi i propri interessi, e di sottrarsene in caso contrario. E anche qui l’esempio viene dall’alto.
Quanto all’opposizione. Essa si limita a lasciare il compito di combattere la degradazione criminosa della politica alla magistratura, senza sospettare che il compito di contrastarla è un dov e re primario della politica. Questa abdicazione di responsabilità ha anche effetti pratici devastanti. La infinita lunghezza dei processi fa ristagnare situazioni di dubbio e confusione, aggravando il discredito della politica nella pubblica opinione. Il principio sacrosanto per cui l’innocenza deve valere fino a prova contraria è utilizzato dalla consorteria degli azzeccagarbugli, particolarmente fiorente in questo paese, per eterna re le condizioni di sottrazione ai giudizi. L’aumento del numero dei sospettati aumenta il peso del sospetto, riducendo la credibilità della giustizia, che è la base della politica, e aumentando l’impunità degli imbroglioni, a cominciare dai più eminenti. I quali sono spinti dalla pretesa di impunità assoluta a esigere dai loro ‘burattini’ nelle aule parlamentari leggi di re p ressione della lib e rtà d’informazione sui crimini dei quali sono accusati. Non è possibile porre un qualche rimedio a questo stato di cose? E a che serve un’opposizione se non fa di tutto per opporsi a questa deriva della democrazia? Un modo concreto può essere quello di pro m u o v e re una riforma del costume politico.Non si tratta di prediche inutilima della istituzione di una Commissione parlamentare bicamerale che indaghi, non sulla fondatezza o no delle accuse, che resta ovviamente compito dellamagistratura,ma sul loro grado di credibilità, che per un rappresentante del popolo deve essere misura sufficiente della sua degnità politica. Vi sono tutte le possibilità di stabilire condizioni di ammissibilità delle indagini che ne evitino gli abusi; e misure di riparazione dei danni sofferti per chi fosse oggetto di giudizi di credibilità poi smentiti dalle sentenze della magistratura. Non si deve pretendere da un uomo di governo e da un onore v ole deputato che si ponga all’altezza di ‘onorabilità’ della moglie di Cesare, ma neppure che scada a quello di una ‘escort’ politica!
Verso il 150° dell’unità d’Italia di Umberto Carpi
1. Dal primo al secondo Risorgimento ovvero il seguente problema, storiografico e politico insieme, come si pose subito dopo il ’45: la Resistenza era stata davvero il compimento di una rivoluzione risorgimentale incompleta, realizzata solo istituzionalmente con un’unità politica e amministrativa accentrata in Roma capitale, ma non strutturalmente, né come integrazione sociale né come equilibrio dei tempi e modi di sviluppo? Interrogativo, questo, che a sua volta ne comportava altri due, essi pure di natura sia storiografica sia politica: era stato davvero il Risorgimento quella rivoluzione mancata, nel senso di mancata riforma agraria, di estraneità delle masse popolari e in particolare delle masse contadine, di irrisolta, anzi tendenzialmente accentuata divaricazione fra Nord e Sud? E la Resistenza non era stata anch’essa, piuttosto che compimento rivoluzionario, una rivoluzione alla fine abortita o, come si preferì dire, tradita? Tradita nelle sue istanze di defascistizzazione delle strutture statali e dell’apparato burocratico, di radicalità laica, di rinnovamento dei rapporti sociali e democratici come lo si era embrionalmente vissuto nei Cln settentrionali. Erano davvero rimaste solo le ceneri di Gramsci, come a metà degli anni Cinquanta provocatoriamente sintetizzò in
versi un irregolare di genio? Certo c’era stato anche, nell’accezione di ‘secondo Risorgimento’ spontaneamente attribuita alla guerra di resistenza dalle denominazioni stesse assunte da molte bande partigiane, il richiamo alla tradizionale lotta contro l’invasore tedesco; e c’era stato implicito quel tanto di ‘guerra civile’ che accomunava la lotta dei patrioti di oggi contro i fascisti asserviti al Terzo Reich alla lotta dei patrioti giacobini contro i sanfedisti, poi dei patrioti mazziniani e garibaldini contro borbonici, austriacanti, filopapalini. Patriota era nato di sinistra alla fine del Settecento, lo fu con Garibaldi nel Risorgimento, lo rimase nelle stesse origini dell’irredentismo scaturito dal caso Oberdan sullo scorcio dell’Ottocento, di destra non era stato mai: averlo abbandonato al reazionario uso nazionalista per un lungo tratto primonovecentesco, quando non venne compreso quale contributo decisivo i movimenti di liberazione nazionale avevano e avrebbero dato al progresso internazionalista, fu errore micidiale. Gran merito della Resistenza aver rifatto nostra, pratica e concetto, la tradizione patriottica. Comunque, quel che prevalse nell’interpretazione storica della Resistenza come ‘secondo Risorgimento’ fu la sua istanza di un profondo rinnovamento sociale e politico, della fondazione di una patria intrinsecamente rinnovata nei rapporti sociali e nelle istituzioni. E dunque, per riprendere gli interrogativi iniziali, istanze realizzate oppure rimaste inespresse? In altri termini, se il Risorgimento – come da diversi punti di vista avevano denunciato il comunista Gramsci, i liberali Gobetti e Dorso, lo stesso liberal-socialista Rosselli degli studi su Pisacane Mazzini Bakunin – era stato intimamente antigiacobino e a salda direzione moderata, non aveva avuto anche la Resistenza (dalla svolta cosiddetta ‘badogliana’ di Togliatti ai primi governi di coalizione e poi alla rottura democristiana dell’unità Cln) un esito decisamente antigiacobino e moderato rispetto alle aspettative dei settori partigiani più avanzati? Con un ulteriore interrogativo sotteso a tutti questi, inseparabile da ogni problematica resistenziale esistendo la Resistenza in quanto movimento di opposizione al Fascismo: cosa cioè avesse significato il Fascismo al potere nel segmento storico fra quel primo e quel secondo Risorgimento, se una malattia irrazionalmente sopravvenuta in un corpo sano come voleva la storiografia liberale, Croce in testa, ovvero l’inevitabile destino delle fallimentari classi dirigenti prefasciste cosiddette liberali, ovvero ancora l’espressione di un sovversivismo intrinseco alle classi dirigenti italiane, come l’aveva definito Gramsci e come a noi qui e oggi pare pericolosamente confermarsi. Oltretutto il fascismo, per suo conto, aveva politicamente e storiograficamente cercato di accreditarsi lui, nella sua componente nazionalista da Gentile a Volpe a Rocco, come il vero realizzatore rivoluzionario dei destini risorgimentali, e questo – fra apologia crociana del Risorgimento liberale, sua opposta revisione critica da parte dei Gramsci e dei Gobetti, nuovo protagonismo nazionale dei cattolici e della Chiesa dopo Partito popolare e Patti lateranensi – complicava ulteriormente lo scioglimento di tutti questi nodi. La discussione fu asperrima subito dal 1945 almeno fino al 1960, e condotta senza esclusione di colpi, perché c’era la coscienza che con la risposta a quelle domande si giocava una partita decisiva nella battaglia per l’egemonia culturale: basti pensare che nel 1955 il comitato dei ministri incaricati di organizzare le celebrazioni del decennale patrocinò un corposo volume ufficiale intitolato
appunto Il secondo Risorgimento. Nel decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia, escludendone tutti i protagonisti o gli studiosi non aderenti ai partiti di governo, in particolare socialisti e comunisti in quanto estranei alle ideologie della democrazia. E pochi anni dopo, nel 1959, un fortunato saggio di Claudio Pavone su antifascismo e fascismo di fronte alla tradizione del Risorgimento suscitò discussioni furibonde incentrate su un punto che allora pareva cruciale per il riconoscimento o no del Partito comunista come partito della tradizione nazionale: era stato il suo risorgimentalismo durante la Resistenza, nei termini precipui del garibaldinismo, espressione di una cultura e visione storica autentiche, oppure era stato di mera natura pratica, strumentalmente rispondente alle nuove esigenze unitarie della politica dei fronti popolari? Pavone giudicava dal punto di vista dell’azionista che era stato, il suo risorgimentalismo resistenziale era nel solco del Risorgimento di Giustizia e Libertà (Gobetti e Carlo Rosselli), dunque critico dei comunisti (in particolare del Togliatti che nelle polemiche anni Venti con Rosselli e «Quarto Stato» aveva liquidato il cosiddetto Risorgimento, con il che Pavone isolava il risorgimentalismo di Gramsci come fatto intellettuale a sé, non espressivo di un’intrinseca cultura del Partito); ma critico anche dei liberali crociani che, tipico Omodeo, avevano duramente polemizzato contro la revisione gobettiana del Risorgimento. Così accadde che Pavone venisse contestato sia dai comunisti come Battaglia e Spriano, sia dai liberali crociani come De Caprariis. Non erano, lo ribadisco, puntigli accademici. Per capire la rilevanza eminentemente politica di contrasti che oggi possono sembrare di astratta schematizzazione quando non di pura ritorsione ideologica o nel migliore dei casi di accanimento filologico, ricordiamo come allora negli anni Cinquanta, anche facendo perno sull’impatto formidabile dei Quaderni di un Gramsci sostanzialmente sostituito a Croce (sostituito, più che contrapposto), il Pci puntasse ad accreditare se stesso e la classe operaia quali eredi della grande tradizione liberale del Risorgimento, dagli Spaventa a De Sanctis fino all’approdo di quella tradizione – con Antonio Labriola – nel marxismo e nel socialismo. Su questa linea, è noto, Togliatti era giunto a esprimere un giudizio storicamente positivo sulla stessa politica di apertura ai socialisti praticata nel primo Novecento da quel Giolitti che era sempre stato la tradizionale bestia nera della cultura salveminiana, gobettiana e ordinovista; e ciò Togliatti aveva fatto non solo in polemica politica contro l’ostracismo democristiano alle sinistre, ma anche con l’obiettivo storiografico di sottrarre Giolitti all’apologia e in sostanza appropriazione neoliberale operatane da Croce. Le polemiche su Resistenza e Risorgimento si intrecciavano, insomma, con le concomitanti querelles sull’interpretazione gramsciana del medesimo Risorgimento (ricordo il memorabile scontro fra lo storico liberale Rosario Romeo e gli storici marxisti da Sereni a Zangheri a Cafagna) e, a questa strettamente connessa, sulla questione del Mezzogiorno e sulla prospettiva dell’alleanza nazionale fra operai del Nord e contadini del Sud. Perché, era stata davvero la Resistenza il compimento del Risorgimento nazionale? E se sì, erano state davvero le avanguardie della classe operaia forza propulsiva e trainante della Resistenza come la borghesia più avanzata lo era stata del Risorgimento? Era questa una condizione essenziale
per interpretare storicamente il fallimento e la caduta del fascismo come sconfitta storica delle tradizionali classi dirigenti borghesi e come fine dell’egemonia borghese, e per accreditare di conseguenza la classe operaia come nuova classe trainante ed egemone, come la nuova classe nazionalmente dirigente. Tanto che Togliatti – più culturalmente sensibile al momento risorgimentale – ispirava una storiografia molto attenta alle analogie e alla continuità Risorgimento-Resistenza; Longo invece – più militantemente radicato nel momento resistenziale e autore dell’ancora oggi essenziale Un popolo alla macchia – preferì richiamare gli storici a una decisa distinzione fra i due Risorgimenti proprio per riaffermare il primo a direzione borghese, il secondo a direzione popolare, operaia e contadina (la Resistenza, anzi, come innovativa esperienza storica di partecipazione contadina a un moto di liberazione nazionale, con il rovesciamento almeno nel Nord di quella tradizione di sanfedismo antigiacobino, antirisorgimentale, in sostanza antinazionale da cui le masse agrarie non si erano in precedenza mai emancipate). Temi brucianti, e non è un caso che anche nel 1960, nno preparatorio del centenario dell’Unità ma anche anno critico del governo Tambroni, si dovettero registrare non poche resistenze alla celebrazione ovvero inclinazioni a una celebrazione debole e distorta, sia pur – va detto – imparagonabili per gravità di motivi e per ostentata impudenza a quelle odierne in vista del 150° dell’Unità: allora, piuttosto che la negazione e il rifiuto, c’era il tentativo – chiamiamolo così – di delaicizzazione e clericalizzazione del Risorgimento per sottrarlo all’egemonia interpretativa e marxista e liberale, così come nel 1955 – decennale della Liberazione – c’era stato un notevole e non banale sforzo (ricordo politicamente Malvestiti sul «Popolo» e storiograficamente Passerin d’Entrèves su «Civitas» di Taviani) di cattolicizzare la Resistenza, enfatizzandone la dimensione religiosa. Ricordo che a denunciare il tentativo del governo di mettere la sordina sui grandi eventi del triennio 1859-’61 intervenne, con una lucida polemica dal titolo inequivocabile Antirisorgimento, Alessandro Natta (un dirigente di partito a sua volta acuto storico del pensiero risorgimentale, lui studioso del Cuoco e del Colletta, il cui nome mi piace ricordare anche per rimpiangere insieme a voi quella specie di intellettuali-politici e di politici-intellettuali, comunisti, socialisti, azionisti, cattolici, liberali di cui si erano innervate la resistenza al fascismo e poi la rinascita nazionale nella Repubblica e nella Costituzione – una specie della quale, non ultimo segno del nostro declino democratico e culturale, pare smarrito lo stampo). D’altronde, perché quello del Risorgimento primo e secondo non potesse non diventare, anzi restare terreno di confronto ideologico e di implicazioni politiche al calor bianco lo aveva spiegato bene un grande intellettuale e martire antifascista, Leone Ginzburg, in certe sue pagine del 1943 su La tradizione del Risorgimento rimaste inedite ed esemplarmente stampate, quasi un messaggio, subito nell’aprile del 1945 da un’indimenticabile rivista napoletana, «Aretusa»: L’Italia in cui viviamo non è pensabile – ammoniva Ginzburg – senza il Risorgimento. Sorto da un impellente bisogno di adeguare il nostro paese … alla moderna cultura e vita politica europea,
mentre gli Stati italiani erano tanti cadaveri dissepolti che al contatto dell’aria sarebbero andati in polvere … Per gli italiani, l’atteggiamento da assumere nei riguardi del Risorgimento implica ancora, e forse continuerà ad implicare per parecchio tempo, una scelta inequivocabile che precede ogni valutazione storiografica … Risorgimento non è dunque, per gli italiani di oggi, la semplice designazione di un periodo storico, un recipiente in cui si possa versare qualunque liquido: è, invece, una tradizione tuttora viva e gelosamente custodita, a cui ci si richiama di continuo per ricavarne norme di giudizio e incentivi all’azione. Su uno dei primi numeri della medesima rivista «Aretusa» un grande liberale oggi rimosso come Gobetti dai sedicenti liberali da cui siamo infestati (tutti inverecondamente liberali e riformisti i tristi attori di questa fase illiberale e restauratrice), dico il liberale Guido Dorso, in certe sue straordinarie pagine del 1944 sulla Teoria politica dei “partigiani” dalle quali farei aprire un’auspicabile antologia del pensiero resistenziale, aveva a sua volta avvertito: Un nuovo incontro di Teano non appare probabile, poiché questo tipo di eventi storici presuppone l’assenza delle masse e la tendenza delle élites rivoluzionarie a transigere. Oggi, invece, il movimento partigiano si sviluppa attraverso il popolo, e ciò dovrebbe essere sufficiente a preservarlo da adulterazioni. Tutto il processo storico, iniziatosi col Risorgimento e limitatosi finora all’indipendenza nazionale, pare voglia concludersi con un nuovo Risorgimento, che artificiosamente si vorrebbe limitare al riacquisto dell’indipendenza, ma che in effetti … deve espandersi all’affermazione dell’autogoverno come unico mezzo per l’effettivo acquisto e garanzia della libertà. Mettiamo insieme le parole del torinese Ginzburg e del meridionale Dorso, il Risorgimento di quello con il nuovo Risorgimento di questo, e sarà chiaro quale destino di scontro politico dovesse attendere – repubblica, costituzione, strategie economico-sociali – il tema storiografico voluto qui oggi in discussione dall’Anpi. 2. Grande sarebbe dunque la tentazione di sostare analiticamente sul dibattito intorno alla Resistenza come secondo Risorgimento dipanatosi in quella fase storica così decisiva e drammatica per tutte le forze politiche che avevano costituito il Cln: prima e dopo lo snodo del ’48, nella tempesta del ’56, alle soglie contrastatissime del centro-sinistra, quando dall’opposizione di popolo al torbido tentativo Tambroni di riportare i neofascisti nell’area di governo e di bloccare la nascita del centro-sinistra venne per un momento rilanciato lo spirito militante della Resistenza (che poi del centro-sinistra non siano state capite e sviluppate tutte le potenzialità sarebbe altro discorso, non estraneo alla comprensione della nostra deriva nei decenni successivi). Una tentazione storiografica tanto più forte oggi, ripeto, che sulla nostra storia, sulla storia delle nostre idee, si preferisce stendere un’opportunistica cortina di occultamenti, rimozioni, edulcorazioni, distorsioni, negazioni, palinodie, quando al contrario un intelligente esercizio della ragione storica compiuto a schiena dritta sarebbe
vitale per uscire dal gorgo di subalternità in cui ci dibattiamo anche nel campo storiografico, Risorgimento e Resistenza in primis: deprecato o affidato a letture deboli e fin caricaturali il Risorgimento, ridotta troppo spesso la Resistenza ad un’ormai univoca misura di guerra civile, oltretutto sempre più strumentalmente fraintesa al fine surrettizio di attribuire pari dignità storica alla pars fascista di Salò (come in modo analogo, nel Risorgimento, alla pars sanfedista delle insorgenze), ovvero – in qualche caso particolarmente repulsivo – di ridurre la Resistenza ad equivalente se non peggiore storica indegnità. Neppure nel buio della guerra fredda si era osato tanto. Una brutta china lungo la quale, comunque, cominciammo a scivolare vent’anni fa, nel disastroso bicentenario dell’Ottantanove: perché alla fine, lasciatemelo confessare, di questo sono sempre più convinto, ‘dimmi cosa pensi dell’Ottantanove e ti dirò chi sei’. Tentazione storiografica grande, anzi di storia della storiografia, ma altro preme qui e oggi, quando – con martellante insistenza – vengono messi in discussione i due cardini dell’assetto statuale uscito dalla Resistenza, l’unità repubblicana e la carta costituzionale. Quando, cioè, all’ordine del giorno non è il movimento progressivo di rinascenza insito nel concetto di risorgimento, bensì un movimento regressivo di corruzione e restaurazione: ricordo che risorgimento, prima di venir a designare il processo di unificazione nazionale, periodizzava quello che ora si nomina rinascimento, ‘rinascimento’ dalle tenebre medievali affondante le sue primi radici nazionali nei liberi comuni di popolo; poi ‘risorgimento’ dal sistema di antico regime e dalla sua reviviscenza nella restaurazione; poi ancora ‘liberazione’ dal fascismo. Rinascimento, Risorgimento, Resistenza. Un filo rosso di sviluppo storico sulla linea della rivoluzione razionalista rinascimentale e poi illuministica (il calle dal risorto pensier segnato innanti come lo sintetizzò Leopardi), dipanatosi nella modernità lungo le direttrici rivoluzionarie e fra loro variamente conflittuali del liberalismo borghese, del socialismo proletario, dei filoni democratici e laici cresciuti dentro il cattolicesimo. Non si intende, nella sua forza propulsiva ma anche nelle sue contraddizioni, il complesso della resistenza al fascismo e poi l’esito repubblicano e costituzionale senza tener conto di questa spinta storica radicata nelle forze sociali e nel loro patrimonio culturale, la spinta storica che reagì ai movimenti regressivi saldatisi nella monarchia fascista. Non è un caso che i critici più radicali e conseguenti dello Stato repubblicano e della Costituzione antifascista, come i cattolici integralisti di Baget Bozzo dagli anni Cinquanta e Sessanta di «Terza generazione» e di «Ordine civile» fino al supporto ideologico per Forza Italia, abbiano contestato in radice la legittimità medesima di quello Stato repubblicano e di quella Costituzione antifascista, legittimità declassata sottilmente a «quasi legittimità» proprio per i cardini rivoluzionari e dell’uno e dell’altra; appunto –a ritroso – la Resistenza, il Risorgimento, e a risalire l’Ottantanove e il Rinascimento stesso antimedievale. Rileggiamo, ci serve a capire come vengano da lontano, a riflettere dove siano andati via via incubando e serpeggiando e a cosa si ispirino certo attuale sovversivismo anticostituzionale (la Costituzione catto-comunista quando non bolscevica tout court denigrata giornalmente dal Presidente del Consiglio)
e insieme certo neoclericalismo sanfedista anche di marca laica; rileggiamo quel che in tema di Stato e Rivoluzione scriveva il futuro consigliere dell’on. Berlusconi nel 1960, proprio – guarda caso – in piena crisi ‘tambroniana’: lo Stato liberale uscito dal Risorgimento essere «esempio classico del regime “quasi legittimo”, ossia del regime che copre sotto una legittimità apparente una illegittimità sostanziale, del regime che nasconde la rivoluzione nelle pieghe dello Stato»; essere analogamente illegittimo – dopo la Resistenza/secondo Risorgimento, lo Stato repubblicano con la Costituzione del 1948, proprio in quanto «costituzione antifascista: e anche in essa, l’antica “quasi legittimità”, il connubio tra Stato e rivoluzione»; in mezzo invece la parentesi del regime fascista e, suggeriva puntualmente Baget Bozzo, «il fantasma di un vero Stato non venne mai come allora evocato: e i cuori semplici del popolo italiano ne furono commossi e sedotti». Attacco all’Italia repubblicana e alla sua Carta? Esso non sarebbe dunque una sovversione, ma anzi il ristabilimento di una piena e superiore legalità: siamo alle radici, come si vede, del populismo postfascista attuale e delle sue telecomandate commozioni e seduzioni. Ma, quando andremo a ricostruire le matrici culturali dell’attuale pensiero reazionario – revisionismo storiografico, individualismo antiegualitario e antistatuale, subalternità del politico all’economico – le sorprese e gli incroci saranno molti e talvolta dolorosi, per esempio anche a carico del Sessantotto e dei suoi miti neoromantici e neovitalistici, di una tal sua idea minoritaria e ribellistica della Resistenza, soprattutto del suo disprezzo per quel nazional-popolare che, dal primo al secondo Risorgimento, in politica e in cultura – attraverso il complesso costituirsi dei partiti nuovi e via via rinnovati e articolati nel corso del Novecento e della stessa esperienza resistenziale, il comunista, il popolare, il socialista, l’azionista … – aveva cominciato a formare un’identità popolare, appunto, della nazione e nazionale del popolo. Comprendere le basi sociali e le componenti culturali di questa nuova destra; ma comprendere anche le ragioni del declino della sinistra, a sua volta da ricercare – oltre che nelle profonde trasformazioni dei suoi tradizionali ceti di riferimento (e nel fallimento, diciamolo, della classe operaia come nuova classe dirigente, cioè del presupposto essenziale della politica di via italiana al socialismo) – in un molecolare assorbimento nella sua cultura di essenziali ragioni della destra: è una riflessione storica e politica insieme, da svolgere intorno al recente passato con gli occhi volti al prossimo futuro, cui io credo l’Anpi dovrebbe dare molto impulso attraverso l’offerta di se stessa come luogo di incontro e di iniziativa e la sistematica promozione di discussioni e di ricerche su temi, come usa ora dire, particolarmente ‘sensibili’. Ricordiamo come, durante e dopo la Resistenza, le grandi correnti ideali di pensiero e i loro partiti si impegnassero – molti politici in prima fila – nella ricerca storica e documentaria non solo su primo e secondo Risorgimento ma anche sulle origini del fascismo e sulle origini e vicende proprie e dei propri gruppi dirigenti. Del resto, la differenza fra piccola e grande politica l’aveva spiegata in una pagina famosa dei Quaderni Antonio Gramsci, appunto riflettendo – radicalmente e però tutto fuor che settariamente – con lo sguardo al futuro sulle cause storiche della propria sconfitta e della vittoria fascista. Altrimenti il destino di subalternità è sicuro: già ve-
diamo come accada che ai rumori della destra, alla predicazione del mercato quale suprema deità regolatrice, all’invocazione di un esecutivo rafforzato rispetto al Parlamento anzi svincolato affatto dalle sue pastoie, alla quotidiana esecrazione della Carta come infernale camicia di forza burocratico-statalista, al feroce perseguimento di un federalismo dai palesi intenti separatisti, le nostre proteste suonino – come dire? – accorata raccomandazione di minor invasività e di più sobrio stile piuttosto che strategica opposizione di una prospettiva riformatrice davvero culturalmente altra in quanto pensata e perseguita in nome di soggetti, di bisogni, di obiettivi a loro volta altri socialmente e politicamente. Lasciamo pur stare le sceneggiate televisive, ma i convegni ‘culturali’ bi- quando non tripartisan oggi di moda fra i politici e anche fra gli intellettuali vanno in direzione opposta, servono solo a tattiche di schieramento trasformistico o a semplici ammiccamenti nel chiuso di un ceto politico autoreferenziale: il fatto è che, quanto a pensiero, quello multipartisan non potrà mai avere altri destini che la confusione o la connivenza. 3. Cominciamo allora – per alcuni pensieri conclusivi di questa nostra odierna riflessione monopartigiana – col dire prima di tutto, e seccamente anche in risposta agli antichi interrogativi di metodo richiamati in apertura, che il Risorgimento non fu rivoluzione mancata, fu rivoluzione vera, certo non sociale e solo istituzionale, ma autentica: come chiamare altrimenti l’unificazione in un nuovo Stato indipendente di un coacervo di Stati (non regioni) variamente e secolarmente ‘dipendenti’? Quando Croce affermò che storia d’Italia in quanto tale si poteva fare solo ora, come storia dell’Italia unita, forse eccedette in un poco di paradosso, però aveva nella sostanza ragione e voleva dire a modo suo proprio questo, essersi trattato di una rivoluzione nazionale in un contesto europeo che ne veniva – come dall’analoga tedesca – profondamente mutato (e infatti le sue storie d’Italia e d’Europa furono e vanno lette complementari). Rivoluzione unitaria, dunque, il primo Risorgimento. Dico in secondo luogo, altrettanto seccamente, che la Resistenza non fu tradita, diede a sua volta – oltre al contributo alla liberazione da nazisti e fascisti – esiti rivoluzionari come la Repubblica democratica a suffragio autenticamente universale e la Costituzione fondata sul lavoro. Certo la rivoluzione sociale, o diciamo pure socialista, nei voti di una parte della Resistenza non ci fu né ci poteva essere; altrettanto certamente fra laici e cattolici furono indispensabili compromessi insidiosi, proverbiale quello sull’articolo 7, che solo in parte sanavano – e in realtà sancivano cercando di regolarla – una sofferenza intrinseca ab origine al nostro Stato, dal tempo della questione romana, ma alla fine Repubblica e Costituzione (fondata peraltro sul lavoro, non lo si dimentichi, come non lo dimenticano gli attuali picconatori della sua stessa parte prima) furono acquisizioni assolutamente rivoluzionarie, rispondenti fra l’altro alle aspirazioni a suo tempo sconfitte delle ali più avanzate del movimento risorgimentale, diciamo per intenderci la mazziniana e la garibaldina. Esiti rivoluzionari, dunque, anche quelli del secondo Risorgimento. Dal primo al secondo Risorgimento, unità nazionale e Costituzione repubblicana fondata sul lavoro: proprio le ossessioni polemiche dell’integralismo cattolico alla Baget Bozzo e del complottismo laico
siglato P2, ed era nella logica delle cose – diciamo nella convergenza degli obiettivi – che queste due linee di attacco alla Costituzione fossero destinate a incontrarsi e allearsi per un lungo percorso comune iniziato già negli anni Ottanta. Pure nell’ordine delle cose che il revisionismo della Costituzione (del quale il revisionismo storiografico di Risorgimento e Resistenza costituisce un’essenziale espressione ideologica) potesse incrociare, traendone e a vicenda conferendole ulteriore linfa, la patologia dello Stato unitario da sempre più acuta, la piena integrazione cioè fra Nord e Sud. Postasi subito come ‘questione napoletana’ per Cavour, indusse alla scelta del centralismo di Ricasoli e all’abbandono del federalismo ‘regionalista’ di Minghetti (quello più radicale, repubblicano, di Cattaneo con la sua Italia delle cento città non fu mai realmente in gioco). Fu poi la ‘questione meridionale’, in realtà – sempre – la primaria questione nazionale, alla cui storia secolare qui non è possibile neppure far cenno. Se non per dire che nel nuovo contesto europeo, monetariamente integrato ma politicamente privo di costituzione e di effettivi organismi di governo, viene dovunque acutizzata una sorta di polarità fra macroarea continentale e microaree regionali a danno e pericolo dei depotenziati Stati nazionali, soprattutto di quelli a più fragile equilibrio dei sistemi produttivi, delle tradizioni culturali, linguistiche, in qualche caso religiose; in Italia, la ‘questione settentrionale’ posta soprattutto dalla Lega nei termini brutali di un federalismo ad alto tasso separatista: separatista e dal Mezzogiorno e da Roma capitale eminentemente accentratrice. Non sottovalutiamo Pontida, gli insulti alla bandiera, all’inno, al Risorgimento: i minacciosi protagonisti di questa via celticopadana alla secessione sono ministri dello Stato. Il capo del governo contro la Costituzione, il ministro dell’Interno contro l’Unità. Vale la pena di ricordare, a proposito di Unità e del la questione del rapporto Nord-Sud, come essa fosse ben presente, nei termini specifici della Resistenza e delle divaricazioni che nel suo diverso svolgimento si accentuavano fra Settentrione e Meridione, dentro la stessa direzione del Clnai. Rodolfo Morandi, un altro intellettuale-politico di quella specie estinta, si preoccupava, in un intervento del 1945 dal significativo titolo Unire per costruire, della divisione latente che minacciava di acuirsi: Ci sono degli sfasamenti nell’ordine politico che conseguono ad una esperienza particolare del Nord, e noi ci disponiamo a risolverli con una unificazione … di metodi e di sistemi, nel consolidamento della neonata democrazia italiana, da qui alla Costituente. Ma in più ci sono dissonanze nella vita nazionale e lacerazioni che urge eliminare e sanare, e il farlo dipende soltanto dalla nostra volontà di uomini del Nord e del Sud, che si sentono in verità soltanto italiani. Perché poi Morandi sapeva bene (e il futuro avrebbe confermato tanti suoi timori) come l’Italia non si potesse governare che da Roma, ma che in quella grande palude della burocrazia ministeriale le nuove energie rischiassero di perdersi e sia per il Nord sia per il Sud fosse vitale che lo Stato italiano non si rifacesse sulla Babele fascista. E sapeva altrettanto bene che la saldatura del Sud col Nord era resa difficile anche dal fatto che del Nord c’era da
valorizzare una esperienza più avanzata e più matura a pro di tutta la Nazione, come diceva nel giugno dello stesso 1945, rivolgendosi ai Cln regionali dell’Alta Italia. Una questione, una latente insoddisfazione settentrionale nei confronti della centralità romana e del ritardo meridionale, presto confermata dai rispettivi esiti del referendum istituzionale, acuta in questo 1945 del Cnai in polemica con Roma nel momento stesso che dall’Italia ‘divisa in due’ bisogna tornare all’Italia una, ma già insorta nel Cavour e nei settentrionali e toscani subito angosciati dalla ‘questione napoletana’, borbonica. Questioni antiche di patologia statuale, della cui storia è politicamente indispensabile aver precisa coscienza: e sul problema tipicamente postrisorgimentale del rapporto Nord-Sud come si pose nella cultura e nella politica della Resistenza, in particolare nel Nord, e come non è stato risolto nei decenni successivi sarà necessario che noi torniamo. A partire forse da un dato bibliografico che fu come la sanzione fissata dalla storiografia che quel problema era ben chiaro, ma appunto irrisolto e come acquisito da una divaricante lettura della storia nazionale diventata acquisito senso comune: quando attorno al 1960, come a consuntivo delle discussioni postresistenziali, da Cafagna e da Villari furono messe assieme le due grandi antologie rispettivamente dedicate al Nord e al Sud nella storia d’Italia, la prima venne sottotitolata antologia politica dell’Italia industriale, la seconda antologia della questione meridionale. Il Nord nella storia nazionale come luogo dello sviluppo produttivo, il Sud come questione, come luogo cioè della questione del sottosviluppo. Duplice oggi, comunque, il progetto revisionista della Carta da parte della Destra: per un verso, più libertà di mercato e più potere dell’esecutivo a detrimento della centralità del lavoro e del Parlamento; per altro verso, introduzione di un sistema federalistico entro uno Stato senza più strutturazione sovraordinamentale, dunque – nella nostra realtà economica, sociale, amministrativa – ad alto rischio di un esito disgregativo fra le regioni, non già di piena attuazione dell’autonomia prevista dalla Carta stessa. Che poi si tratti di due disegni eversivi della Costituzione non necessariamente fraterni fra loro, anzi passibili di qualche reciproca conflittualità, è altro discorso: se mai preoccupa ancor più che si siano invece potuti saldare in un’alleanza micidiale e in un unico disegno fra iperliberismo economico, egoismo sociale, autoritarismo politico. In un tale contesto un federalista democratico (vogliamo dire di cultura catteneana e perfino minghettiana?) di fronte alla deriva ‘padana’ non si astiene, si oppone; così come un sincero liberista vota contro, senza apertura alcuna, la strutturale deregolamentazione implicita nella sovversione dell’articolo 41 magari in combinato disposto con quella dell’articolo 1. E attenzione: prima ancora dell’eversione formale della Carta, abbiamo già in atto una sua strisciante eversione materiale. Il depotenziamento del sistema scolastico e universitario pubblico e la sua regionalizzazione, lo svuotamento dei pubblici istituti di ricerca e di cultura, la sottomissione del dettato costituzionale e legislativo sulla tutela del lavoro alla contrattazione locale, le cosiddette semplificazioni e sburocratizzazioni di iniziativa privata, l’ossessionante tentativo giornaliero di imporre lacci e vincoli alla magistratura, la costrizione stessa del presidente della Repubblica a un continuo interventismo in difesa della Costituzione quasi per
supplenza di un Parlamento infiacchito e quasi inebetito dalla natura medesima del sistema elettorale attraverso cui si forma, tutto questo converge in modo univoco a configurare un Paese squilibrato, diviso, privatizzato, presidenzializzato (ieri Scalfaro, Ciampi, oggi Napolitano, tutte coscienze del secondo Risorgimento, ma domani?). Accettare un contratto con certe clausole a Pomigliano in Campania ma non mai a Mirafiori in Piemonte? Già nella logica del disgregante federalismo leghista. Tagliare indiscriminatamente le risorse di scuole e atenei? Stessa strada di ulteriore divaricazione fra le regioni luogo dello sviluppo e le regioni luogo del sottosviluppo. Così procedendo, rischiamo di avere, uno strappo qua e altre ricuciture e rattoppi là, una Carta e un Paese devastati e sformati alla stregua d’un Frankenstein costituzionale; né possiamo illuderci che, alla fine, di un’Unità e di una Costituzione quantunque così deturpate, anzi della storia nazionale dal primo al secondo Risorgimento, resti tuttavia l’anima, nella presunzione che simili chirurghi all’anima non possano giungere e che poi anche il viso, a maggioranza parlamentare riconquistata, possa venir restaurato con qualche tocco di chirurgia plastica: no, non è così. Questi non sono processi transeunti o semplici parentesi, la lunga storia della crisi dello Stato liberale e poi lo sbocco nel fascismo insegnino: Frankenstein del resto un’anima ce l’ha, ma brutta, perversa, con una brutale intelligenza capace di distorcere a propria immagine e servizio la storia stessa e i principî fondanti. Ricordate il Machiavelli di Mussolini? Non illudiamoci: è ben vero anche in questo caso che la storia non si ripete mai uguale, tuttavia essa è magistra proprio perché le sue sequenze sono regolate da una logica implacabile. È sotto questa luce che dobbiamo guardare al 150° anniversario dell’Unità: dunque con un’intelligenza affatto aliena da spiriti celebrativi che non hanno alcune ragion d’essere, ma con la consapevolezza che siamo a uno snodo storico di crisi della Repubblica postresistenziale analogo per intensità – e sia pur diversissimo per culture e problematiche e contesti e soggetti sia sociali che politici – a quello vissuto nei primi anni Venti dallo Stato postrisorgimentale. 4. Noi oggi, qui, parliamo di storia, di politica toccando solo nel senso che l’intelligenza storica deve tenere i piedi saldi nel presente e lo sguardo volto al futuro. Parliamo di storia, qui all’Anpi voi vecchi militanti partigiani e tanti come me ormai a nostra volta vecchi militanti democratici, non per autogratificante nostalgia bensì per partecipare all’oggi nell’unico modo che ci compete: parlare ai più giovani, collaborare alla ricostruzione di un dialogo fra le generazioni, la cui perdita costituisce una delle lacerazioni più pericolose e intimamente regressive del tessuto democratico. Ma parlare ai giovani di che? Forse della nostra recente storia breve, delle complicate, acrimoniose, inestricabili se non per noi stessi e solo per noi stessi pronunciabili vicende di appartenenze personali e correntizie in un quadro di modernariato politico che ha passato gli ultimi venti o trent’anni a sgranarsi, a stingersi, spesso a far macchia in puntigliose sopravvivenze senza più vita? No, i giovani non ci ascolterebbero, da queste querimonie nulla hanno da trarre ora: forse domani, quando da stanca cronaca recriminatoria esse, selezionate criticate ragionate, diventeranno a loro volta storia. Ma fatta,
vivaddio, da altri. Oggi, rifuggendo dalla storia (quella lunga che abbiamo alle spalle, scomoda e non rimuovibile, da cui ci sottraiamo quanto più essa ci impone conti oggettivi e forti), tendiamo a consolarci con la memoria, con la sua plasmabile soggettività debole. Un diluvio memorialistico: se materia di studio per i posteri, passi (decideranno loro quel che varrà la pena di leggere); ma se memoria magistra vitae, allora no: spesso noiosa, infida sempre. Come la pratica delle interviste: facile discorsività evasiva, un pensiero ‘di rimessa’ spezzettato e stuzzicato dall’esterno, nessuna traccia di visione complessiva, di quella che si chiamava e resta la fatica del concetto. Allora la storia, non quella breve delle nostre vite e carriere, bensì quella lunga – poiché di primo e secondo Risorgimento si tratta – della difficile, contraddittoria e insieme lineare storia della formazione della nostra Repubblica e della nostra Carta costituzionale, delle sue forze e ragioni promotrici, economiche, sociali, culturali, politiche. Questa dobbiamo ripensare e riproporre, ritrovarne l’orientamento e il destino dopo le difficoltà, le sconfitte, le perdite stesse di senso accumulatesi in questi anni: la scomparsa dei Partiti del Cln, il quadro internazionale sconvolto, il declino della classe operaia… Ridare un senso a questa storia, ha invocato un intelligente slogan lanciato di recente da Pierluigi Bersani: ma che non resti uno slogan d’occasione, che non sia lasciato cadere né da noi né dall’elaborazione culturale collettiva che tutte le forze democratiche dovranno pur affrontare se vorranno darsi un respiro, se non vorranno soffocare nelle memoriette correntizie di strumentale e corta veduta. Difendere l’Unità conquistata dal primo Risorgimento e la Costituzione repubblicana conquistata dal secondo: il farlo impone oggi una cosciente, attiva, propositiva resistenza politica e culturale. Perché essa non si risolva in resistenza pur nobilmente conservatrice e anzi diventi propulsiva di efficaci riforme progressive da opporre al processo restauratore in atto, cioè di una nuova capacità di indirizzo culturale e di governo politico, non possiamo aggrapparci ai rami vecchi e spezzati o intestardirci a raccattar mucchietti di foglie marce: dobbiamo riandare alle radici vitali delle correnti ideali e dei grandi movimenti riformatori che cominciarono a trasformare in senso democratico lo Stato classista uscito dal Risorgimento, idealità e movimenti che il fascismo non riuscì a stroncare e che si rinnovarono e fra loro si confrontarono e poi collaborarono nella Resistenza e nella Costituente. E che, ancora, pur in una conflittualità esasperata dalla situazione internazionale e dalla crescita stessa della nostra società, procurarono lo sviluppo del Paese in un quadro di sostanziale tenuta democratica e laica. È a loro e a quelle loro storie di vocazione nazionale che dobbiamo impegnarci a ridare un senso oggi, un nuovo senso storico, nuove forme politiche, nuove declinazioni culturali: d’altronde, se del Risorgimento e della Resistenza, di minimizzarne e denigrarne l’immagine tanto si preoccupa revisionisticamente la destra, ciò accade perché essa ne avverte e teme il peso storico e la pregnanza politica nella difficoltà medesima di smantellarne le realizzazioni istituzionali e sociali; badiamo a nostra volta di non rinunciare a quel peso e a quella pregnanza, di ribadirne con fiducia le ragioni storiche e di ridar loro ragione e accelerazione attuale. Le idee per un terzo Risorgimento? Nessuna enfasi e nessuna presunzione, anzi la consapevolezza del disorienta-
mento con cui ci si avvia all’imminente 150° dell’Unità. Certo è però che una prospettiva politica senza forte battaglia delle idee resta una prospettiva politica debole, priva di futuro: e di questa battaglia io credo che l’Anpi, per la sua storia e per il suo intatto prestigio in un momento di difficoltà e distrazione dei partiti, possa costituire un prezioso, cruciale luogo di aggregazione e di rilancio.