Gennaio - Febbraio 2011, N째 31 Febbraio - Marzo n째 32, 2011
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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Febbraio-Marzo 2011, n° 32. (Numero 33, 2 Aprile 2011) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace
I
n d i c e
Libero mercato, crisi finanziaria, etica, democrazia di Elio Matassi
Il neopaganesimo di Arcore di Eugenio Mazzarella Incipit de La questione morale di Roberta De Monticelli
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La sintesi tra vita e libertĂ , senza dimenticare la giustizia di Antonio Da Re
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Alla ricerca di una nuova identitĂ di Vincenzo Magagna
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Il divenire altro, o della destituzione del racconto Alcune domande a Bruno Moroncini a cura di Bachisio Meloni
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Libero mercato, crisi finanziaria, etica, democrazia di Elio Matassi
Sempre più, nella contemporaneità ci si interroga sulla democrazia liberale e in generale sulla natura stessa della democrazia; basti ricordare, per quanto concerne il nostro panorama nazionale, gli interventi di Massimo L. Salvadori che inquadra il problema nella formula Democrazie senza democrazia e Michele Ciliberto nella sua Democrazia dispotica. Nel primo caso ci si interroga sul “rapporto che corre tra la democrazia come ideale e le sue forme di attuazione, di illustrare le ragioni per cui l’ideale è entrato in rotta di collisione con la realtà”. Slavadori coglie molto bene il processo di progressivo svuotamento cui è stato sottoposto il paradigma democratico nell’era dell’economia globalizzata dove a dominare senza alcun controllo sono le nuove élites economico –tecnocratiche che si sovrappongono alle democrazie parlamentari.
Il caso di Michele Ciliberto è altrettanto interessante e esemplare; l’estenuarsi della democrazia rappresentativa ha come sui naturale pendant l’affermarsi di democrazie dispotiche, autoritarie, che presumono di essere al di sopra/al di fuori di qualsiasi controllo come di fatto avviene in maniera sempre più radicale per l’attuale blocco neopopulista che costituisce la maggioranza parlamentare nel nostro Paese. Queste degenerazioni sono accidentali, congiunturali si esprimono piuttosto una crisi dell’ideale democratico? E questa crisi quali origini presume? In alcune linee di tendenza la filosofia politica contemporanea ha cercato di rispondere mettendo in discussione in particolare il proprio status, il proprio modo di essere; penso soprattutto ad alcuni esponenti francesi quali Miguel Abensour con il suo Hannah Arendt contro la filosofia politica?, proposto di recente all’attenzione della nostra lingua ma anche ad altri interventi, molto incisivi, quali De la compacité. Architecture et régimes totalitaires e Pour une philosophie critique. Entro quest’ottica peculiare l’espressione stessa di ‘filosofia politica’ è ossimorica, in quanto filosofia e politica appartengono a prospettive alternative. La suggestione fondante di una tale linea di ricerca è di Hannah Arendt, del suo sostanziale antiplatonismo; come suggerisce lo stesso Abensour: “la filosofia politica avrebbe innanzitutto il torto di essere il frutto dello spirito corporativo dei filosofi. Oggetto della ricerca non sarebbe più la questione della città, della città buona, ma il rapporto del filosofo alla città. Alla domanda sul regime politico migliore si sostituirebbe la ricerca del regime capace di proteggere il filosofo dalle passioni della moltitudine”. L’autentico punto di svolta sta in una penetrazione ermeneutica alternativa prospettata dalla stessa Arendt del celebre mito platonico della caverna. La ‘caverna’ diventa la grande icona-metafora dell’intrinseca a-politicità dell’essere umano, una condizione in cui sono assenti parole e azioni, che potrebbero solo essere gestite ‘dall’alto’: “…Nella rappresentazione che propone della condizione umana, Platone ignora tutto ciò che è atto a favorire la nascita della politica, ignora le condizioni di possibilità della politica, la parola e l’azione. Dunque Platone edifica il suo progetto di filosofia politica… a partire da una condizione umana apolitica, o anche impolitica. Il filosofo, dopo aver contemplato le idee e la verità suprema o l’idea del bene, ridiscende nella caverna, per codificare il comportamento dei suoi abitanti, per sottometterne la condotta a un insieme di norme che viene a imprimersi dall’esterno”. Il mito della caverna e dei prigionieri si sostenta su un’interpretazione negativa dell’agire politico; per questo Arendt trae ispirazione da un testo, apparentemente distante dalla politica, come la Critica della facoltà del giudizio di Immanuel Kant, nella concezione, argomentata a partire dal paragrafo 21, del ‘senso comune’ come “condizione di possibilità” della “comunicabilità universale”, ossia sul riconoscimento della singolarità, di ogni singolarità nella sua differenza specifica. Con questo inquadramento critico del pensiero politico arendtiano, Abensour si ricongiunge con le origini del giacobinismo rivoluzionario francese di Saint-Just, cui viene dedicato un saggio politico rilevante quale introduzione alle opere complete. Analoga alle argomentazioni critiche di partenza, almeno per quanto concerne la diagnosi generale, è la prospettiva di Jaques Rancière, esposta ne Il disaccordo. Rancière come Abensour si ispira ad Arendt per metter in discussione sin dalle fondamenta l’idea stessa di ‘filosofia politica’, di una filosofia politica che si limiti, anestetizzandolo speculativamente, ad esorcizzare
il conflitto. Anche Rancière si fa promotore di una ‘filosofia politica critica’ che riesca reintrodurre la dimensione politica nello spazio pubblico a partire dal riconoscimento compiuto del conflitto e non sulla sua marginalizzazione. Si tratta, in ultima analisi, di prospettive teoriche che nascono sulla base di un riesame della democrazia rappresentativa, che riduce progressivamente gli spazi del dissenso e del conflitto. Le ‘democrazie senza democrazia’, le ‘democrazie dispotiche’ sono quelle forme di democrazia liberale-rappresentativa che segnalano la deriva involutiva dell’ideale democratico. Per dare una risposta ‘forte’ alle perplessità sollevate dalla politologia e dalla filosofia politica critica contemporanea, è necessario partire dall’equazione libero mercato=democrazia liberale rappresentativa. Un’equazione che sta a monte del libro del politologo di origine nipponica Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, le cui premesse è utile riportare per intero: “Le lontane origini del presente volume vanno ricercate in un mio articolo intitolato, Siamo forse alla fine della storia?, scritto per la rivista ‘The National Interest’ nell’estate del 1989. Io stesso sostenevo come in questi ultimi anni fosse emerso in un gran numero di Paesi un notevole consenso verso la legittimità della democrazia liberale come sistema di governo, vincente nei confronti di ideologie rivali quali la monarchia ereditaria, il fascismo ed ultimamente anche il comunismo. Non solo, ma aggiungevo che la democrazia liberale avrebbe potuto costituire addirittura ‘il punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità’, e ‘la definitiva forma di governo tra gli uomini’, presentandosi come ‘la fine della storia’. Mentre infatti le precedenti forme di governo erano state caratterizzate da vari difetti e irrazionalità che avevano finito per provocare il crollo, la democrazia liberale pareva immune da contraddizioni interne tanto profonde. Con questo non intendevo dire però che in democrazie stabili come sono attualmente quelle degli Stati Uniti, dalla Francia o dalla Svizzera non vi fossero ingiustizie o gravi problemi sociali, ma solo che questi problemi riguardavano l’incompleta attuazione dei due principi della libertà e dell’eguaglianza sui quali si fonda al democrazia moderna, piuttosto che non difetti degli stessi principi. E mentre oggi è possibile che alcuni paesi non riescano a instaurare una democrazia liberale stabili e che altri finiscano per regredire a forme primitive di governo quali la teocrazia, la dittatura militare, non pare invece possibile apportare miglioramenti all’idea della democrazia liberale”. L’attuale crisi finanziaria distrugge alle radici una tale visione; una crisi generata dalla finanziarizzazione estrema del capitalismo che entra in rotta di collisione con i presupposti stessi della democrazia rappresentativa. Sul piano economico come su quello politico (tra i due piani vi è un automatismo), l’attuale crisi finanziaria capovolge il problema nei termini in cui l’aveva prospettato Fukuyama: non solo si è lacerata in via definitiva l’equazione democrazia liberale=capitalismo ma addirittura si può parlare di una flagrante contraddizione fra queste due dimensioni. Il capitalismo, in questa fase storica dimostra, in maniera inequivoca di essere il peggior nemico della democrazia liberale, da cui la trasformazione di quest’ultima in una democrazia autoritaria. L’ipertrofia economicistica ha ormai, di fatto, cancellato la possibi-
lità stessa della distinzione tra essere e dover essere, tra presente e futuro. Una cancellazione, che , come insegnano i grandi classici della modernità (Immanuel Kant) è alla base stessa dell’etica, della comunità e della democrazia. Anche in questo caso, viene per sempre meno una seconda, altrettanto rilevante, equazione, quella fra etica e democrazia. Quando leggiamo in Francis Fukuyama affermazioni come la seguente: “Lo Stato liberale,…è razionale perché riconcilia queste richieste di riconoscimento antagonistico sulla base unica del reciprocamente accettabile, ossia sulla base del’identità dell’individuo quale essere umano. Lo stato liberale deve essere universale, ossia deve concedere il riconoscimento a tutti i cittadini in quanto esseri umani e non perché membri di un qualche gruppo nazionale, etnico o razziale. E dev’essere anche omogeneo, ossia deve creare una società senza classi basata sull’abolizione della distinzione tra padroni e schiavi”, rimaniamo stupiti dell’ingenuità di tale rivendicazione Il supercapitalismo nella sua versione estrema, quella oligarchico-finanziaria crea un meccanismo nefasto per la sussistenza stessa della democrazia. Per rendersi conto di questo non è necessario essere attenti lettori di Marx, è sufficiente prendere in considerazione nella misura dovuta Adam Smith, fra i più citati e i meno letti dei maestri dell’economia del passato. Come hanno autorevolmente osservato Donald Winch e Giovanni Arrighi, l’autore della Ricchezza delle nazioni è sempre stato accompagnato nella sua ricezione da tre fraintendimenti: 1) egli sarebbe stato un sostenitore e un teorico della capacità del mercato di autoregolarsi all’infinito; e ancora 2) egli sarebbe stato un teorico e un sostenitore del capitalismo come motore processuale di uno sviluppo economico illimitato; 3) egli, infine, sarebbe stato il teorico e il sostenitore della tipologia di divisione del lavoro praticata nella “fabbrica di spilli”, descritta nel primo capitolo della Ricchezza delle nazioni. In realtà, nessuna di queste pregiudiziali storiografiche regge un serio confronto con i testi, come suggerisce in maniera molto incisiva Giovanni Arrighi, “Ben lontano dal teorizzare un mercato autoregolantesi che funzionerebbe al meglio con un apparato statuale residuale o inesistente, nella Ricchezza delle nazioni, così come nella Teoria dei sentimenti morali o nelle inedite Lezioni sulla giurisprudenza, Smith presuppone l’esistenza di uno Stato forte, capace di creare e riprodurre le condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso, capace di servirsene come di un efficace strumento di governo e capace di imporgli delle regole intervenendo attivamente per limitarne le conseguenze socialmente o politicamente negative”. Neppure in Smith esiste un’interpretazione del mercato fine a se stessa, un mercato che riesca ad autoregolamentarsi all’infinito senza l’intervento dello Stato che fissi i limiti a tale sviluppo incontrollato. La critica a un liberismo estremo comincia a nascere proprio da uno dei padri fondatori dell’economia politica. Il liberismo estremo, quale si configura nell’attuale fase storica, entra in cortocircuito con l’idea e il principio stesso di una democrazia liberale. Per chi ha una visione integralistica e non minimalistica della democrazia, la democrazia non è ‘il meno peggio dei sistemi politici’ ma di gran lunga il migliore, tale cortocircuito diventa inaccettabile in linea di principio e deve far riflettere sulla minaccia che contiene per l’esistenza e il mantenimento stesso della democrazia.
Il neopaganesimo di Arcore di Eugenio Mazzarella
«Chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda all’articolo 54». Il cardinal Bagnasco ad Ancona, aprendo il consiglio permanente della Cei, non poteva essere più chiaro su ciò che la Chiesa italiana, che si riconosce nei valori di moralità “civile” sottesi alla carta costituzionale del paese in cui vive e opera, chiede a chi s’impegna in politica, e con maggior forza a chi in questo impegno si richiama ai valori cattolici. Con l’invito, sotto questo segno, a lasciarsi alle spalle logiche di confronto istituzionale puramente divisive, Bagnasco riprende il tema del X forum del progetto culturale Cei sul 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia: “L’unità del paese si fa intorno al retto vivere”. Tesi che già faceva eco alla notazione accorata di Benedetto XVI, in udienza generale il
3 novembre scorso, che non c’era «solo spazzatura in diverse strade del mondo ma nelle coscienze» ed è da lì che bisognava toglierla, perché ci fosse una politica degna del suo ufficio di presidio del bene pubblico. E su cui Bagnasco aveva già parlato ad un incontro con parlamentari cattolici («senza una vita retta non c’è politica efficace»), e il cardinal Ruini aveva invitato i cattolici a essere uniti in politica «non da un partito, ma da stili di vita moralmente ineccepibili». D’altro canto, Benedetto XVI e il cardinal Bertone nei giorni scorsi sono intervenuti in modo inequivoco sul bisogno di moralità e di stili di vita degni in politica. Sono indicazioni incubate da tempo, da parte della Chiesa, ed espresse con sempre maggiore chiarezza in presenza di una crisi dell’etica pubblica che ha pochi precedenti, e che la spinge a reiterare la richiesta di cattolici “nuovi” in politica. L’”usato garantito” non appare più sufficiente. Esemplificativa già, nei giorni della prima comparsa del caso Ruby, una posizione di monsignor Mogavero, responsabile giuridico Cei: questa volta il contenzioso non si sarebbe chiuso con un finanziamento riparatore alle scuole cattoliche. Se Dio vuole, è il caso di dire, in sostanza si fa strada la convinzione che – al di là dell’occhio “terreno”, talora un po’ troppo, agli equilibri politici contingenti – in politica non ci può essere una tutela dei “valori cattolici” che non abbia a suo sostegno, in chi se ne fa interprete, le “virtù” che ai cattolici sono richieste, l’irreprensibilità di una vita, pubblica e privata, che non dia scandalo. Senza di che il cattolicesimo si riduce a “cattolicesimo culturale”, ma niente che scaldi i cuori e testimoni di una fede che a quei valori dia sostanza e credibilità, e in definitiva speranza di successo in un mondo dove i valori sono sempre più in competizione di credibilità, e talora in aperto conflitto; si riduce alla brutta copia di quel cristianesimo borghese, conformista e simoniaco, su cui già nell’800 Kierkegaard richiamava l’attenzione per provare a diradare le nebbie morali in Danimarca. È probabile, viste le carte del nuovo caso Ruby, che noi – moralmente, e a prescindere dai dati giudiziari – si stia un po’ peggio. Credo che questa convinzione si faccia strada tra i vescovi italiani, se Bagnasco ad Ancona dice no a «ideali bacati», «a una rappresentazione fasulla dell’esistenza, a un successo basato su artificiosità, scalata furba e mercimonio di sé». È sempre più evidente che accorate analisi – pur serie, quando sincere – sul nichilismo valoriale di cui si farebbe portatore questo o quel provvedimento legislativo su inizio o fine vita, ormai rischino di essere un modo di gettare il pallone alla “viva il parroco” nella decisiva partita dei valori e per i valori che si gioca oggi in Italia. C’è un paganesimo imperante che trasuda da tutti i pori della società italiana, e trova il suo “consenso”. È inutile negarlo. E a lungo il premier, difendendo il suo “stile di vita”, insieme si è affidato a questa sintonia e ha provato, come un incantatore di serpenti, a moltiplicarla. Ma l’incanto pare scemare. E ad ogni modo, ai cattolici, d’ogni fede ed osservanza, pone un problema. Dopo la “cricca” e i suoi pochissimo “gentiluomini” del papa, dopo ripetuti scandali derubricati a vita privata e a indebita intromissione del “moralismo” nella vita pubblica, quanto ancora è tollerabile un’aria morale da cupio dissolvi, dove ormai si fa fatica ad avere fiducia in alcunché? La virtù della prudenza nell’assegnazione ufficiale o ufficiosa della patente di “cattolico”, o nella compiacenza all’auto
assegnazione della patente di cattolico in politica, ormai è un tema che chi fa riferimento a quei valori non può eludere. Forse è giunto il momento che i cattolici, come le donne, non siano più a disposizione, “a prescindere”, di chiunque che non abbia rispetto per i loro valori nella concretezza delle virtù che implicano. Nella crisi nichilistica del presente non possiamo permettercelo. Non se lo può permettere l’etica pubblica di questo paese. Non possiamo assentire all’idea, almeno noi cattolici, che sulla “vita privata” non c’è sindacato morale, e questo tanto più quando aspetti della vita privata rivestano rilevanza pubblica. Il cristianesimo è nato come sindacato sulla vita privata – anche quella privatissima, del mondo delle intenzioni e non solo degli atti – degli uomini al cospetto di Dio, che certo non è esercizio di reprimenda penale, ma di incoraggiamento alla virtù perché si faccia lievito del “pubblico”. E ad ogni modo anche del sindacato su Cesare il cristianesimo si è fatto carico: il Battista ci ha lasciato la testa. I comportamenti pubblici non sono zona franca dal sindacato morale, e non basta invocare il consenso come “giudizio di dio” sostitutivo. Cerchiamo di essere seri: da tempo in Italia, non sta andando in onda il dialogo tragico tra i fratelli Karamazov con a tema: “se dio non c’è tutto è permesso”; ma una debolezza umana che è insostenibilità pubblica. Uscire da questa debolezza con il contributo di tutti, e certamente dei cattolici, è decisivo per rispondere sul serio all’appello di Bagnasco al Forum del progetto culturale della Cei sulla necessità di dover generare, al controverso giro di boa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, «un nuovo innamoramento dell’essere italiani».
Incipit de La questione morale, Cortina, novembre 2010 di Roberta De Monticelli
La profondità di significato della questione morale, che pure in Italia abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, ci sfugge ancora. Questo saggio nasce dalla speranza che si possa articolare in pensieri chiari e forse utili a ciascuno, forse anche a chi voglia contribuire al rinnovamento del pensiero politico, questa profondità di significato che ci sfugge. I dati della questione morale rendono ardua e infuocata – rossa di vergogna o di collera - quella che Hegel chiamava la preghiera mattutina del cittadino, la lettura di giornali. Corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica. La pratica endemica degli scambi di favori, a tutti i livelli: cariche pubbliche a figli e amanti, lo scambio di carriere politiche contro favori privati, i concorsi pubbli-
ci (quelli universitari, ad esempio) decisi sulla base di accordi fra gruppi di pressione o cordate – quando non addirittura di parentele – e non su quella del merito, lo sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati, il familismo, il clientelismo, le caste, la diffusa mafiosità dei comportamenti, la vera e propria penetrazione delle mafie in tutto il tessuto economico e nelle istituzioni, la perdita stessa del senso delle istituzioni da parte dei governanti. La discesa in campo politico dell’interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di “libertà” a indicare il disprezzo di ogni regola che possa frenare o limitare la libido di “un potere enorme” – letteralmente e-norme, sottratto a ogni norma di civiltà e diritto; la legislazione ridotta per troppi anni a fabbrica di decreti fatti per favorire interessi particolari, o addirittura a ritagliare la giustizia penale a misura di impunità dei prepotenti. E infine una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre questa impresa, e collabora passivamente e attivamente a dissipare, insieme, la migliore eredità morale e civile e il patrimonio di bellezza e cultura del nostro Paese. Ciliegina sulla triste torta, l’alleanza delle gerarchie ecclesiastiche romane e di molto associazionismo cattolico con questo programma di disgregazione di ogni minima virtù di cittadinanza, e l’ombra di un attentato alla laicità dello stato che si profila sotto l’ala cupa di una resuscitata Teopolitica, con la minaccia che si protende sulle libertà civili fondamentali, come il diritto di vivere la propria vita e morire la propria morte secondo il proprio ed non l’altrui concetto del bene, del valore o di Dio. Recentemente è stata proposta una formula perfetta per descrivere quei mores così diffusi nell’Italia di oggi da costituire il fondo stesso della “questione morale”: La libertà dei servi, titolo di un piccolo libro prezioso per ricchezza descrittiva e acume diagnostico, da cui abbiamo tratto anche la citazione sull’ “enormità” del potere vigente. Un punto su cui torneremo. Ma sul significato profondo di questi dati, e della questione morale, c’è, dicevamo, ancora molto da meditare. C’è una storia profonda che né le teorie politiche né quelle etiche della modernità hanno saputo decifrare, e che ci conduce alla situazione nella quale ci troviamo oggi. Una ragione per la quale questa storia profonda non è stata forse veramente compresa è che siamo abituati a pensare per comparti separati – etica, diritto, politica e le relative filosofie. Mentre la questione morale li attraversa tutti, proprio perché si genera dalle dipendenze fra mores, politica e diritto, in un circolo vizioso che ci sfida a ripensare invece, al di là di tutte le necessarie distinzioni, l’unità della ragione pratica. E’ questa unità della ragione, o piuttosto questo insieme di dipendenze che legano morale, diritto e politica, ad essere presa di mira dalla nostra domanda, se sia veramente possibile una fondazione razionale del pensiero pratico. C’è a ben vedere un tratto comune a queste tre sfere della nostra vita: nessuna di esse esisterebbe, se non ci fosse il male – il male di cui siamo noi stessi responsabili. E quindi se non ci fossero cose che gridano vendetta al cielo, cose preziose e minacciate, torti, ingiustizie, esigenze….in una parola, disvalori e valori. Chiedersi se è possibile una rifondazione razionale del pensiero
pratico equivale a chiedersi, infine, se c’è verità e falsità nel giudizio di valore. Se la conoscenza nelle questioni di valore è possibile. Se ci può essere ricerca e scoperta, crescita di coscienza e capacità critica, per tutti. La questione morale è – in estensione – la questione del possibile rinnovamento dei nostri mores, delle nostre abitudini quotidiane. Ma è in profondità la questione di cosa questo rinnovamento significhi, di quali siano le condizioni alle quali esso è possibile. Il rinnovamento è possibile solo se, oltre la superficie mediatica in cui prevalgono (e entro certi limiti è inevitabile sempre) disinformazione e distorsione del vero, la nostra esperienza morale è invece fondamentalmente aperta al vero. Non c’è virtù senza conoscenza, e tutte le categorie della conoscenza – ricerca, scoperta, critica, evidenza, dubbio, e soprattutto verità (questa “idea disposta all’infinito”) vanno ricollocate anche nel cuore della nostra esperienza morale. Questa è la tesi che attraversa l’intero saggio. Se i nostri argomenti sono convincenti, dovremo concluderne non solo che il rinnovamento è possibile, ma anzi che non c’è altra vita morale che nel perpetuo rinnovamento, vale a dire nella sempre rinnovata verifica che la persona è disposta a fare del giudizio di valore attraverso l’esperienza e la critica – come negli altri campi di ricerca di verità. E se la ragione pratica connette le sfere pubbliche dei valori e delle norme – etica, diritto, politica – allora senza perpetuo rinnovamento morale non può stare in piedi una civiltà fondata in ragione, una cultura radicata nella coscienza critica delle persone invece che nella tradizione, nella religione, nell’autorità o nella forza. Forse questo intendeva Musil quando scrisse: “Ciò che chiamiamo cultura non è soggetto a un criterio di verità, ma nessuna grande cultura può reggersi su una mancata relazione alla verita”. Espressione utilizzata da Maurizio Viroli, La libertà dei servi, Laterza, Bari 2010 Ringrazio Pascal Engel per averla segnalata nella sua relazione al Convegno Internazionale della Società Italiana per la Filosofia Analitica, Genova 23 settembre 2004. Non è stato purtroppo possibile ritrovare il contesto della citazione.
La sintesi tra vita e libertà, senza dimenticare la giustizia di Antonio Da Re
Il dibattito sul fine vita si è improvvisamente riacceso, dopo l’annuncio che nei prossimi giorni il provvedimento sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) verrà discusso dall’aula di Montecitorio. Il testo in esame, costituito dal ddl Di Virgilio, contiene delle novità considerevoli rispetto al disegno di legge Calabrò, presentato al Senato immediatamente dopo il tragico epilogo della vicenda di Eluana Englaro ed approvato in un clima di forte contrapposizione politica e ancor prima etica. La novità maggiormente rilevante è costituita da
un allargamento della platea dei soggetti che potranno avvalersi dello strumento delle DAT: in analogia con quanto previsto dalle normative di molti altri paesi, per esempio Francia e Germania, che recentemente si sono dotate di una legislazione al riguardo, si stabilisce che nelle DAT il dichiarante esprima la sua volontà in merito a trattamenti sanitari futuri, nell’eventualità che egli non sia più in grado d’intendere e volere. Questa futura condizione d’incapacità non viene limitata alla fattispecie dello stato vegetativo permanente, come stabiliva il progetto Calabrò: ci si può infatti trovare nell’impossibilità di far conoscere al medico il proprio orientamento, perché si è in coma a seguito di un evento traumatico o perché si soffre di Alzheimer o per altre patologie. L’aver realisticamente considerato le molteplici situazioni d’incapacità del paziente rappresenta un elemento di ragionevolezza della legge in discussione alla Camera, anche se ciò inevitabilmente ne amplifica i compiti e le finalità, con il rischio che finisca per essere un tentativo di normazione troppo rigido. Sorvoliamo sul fatto che la decisione da parte della maggioranza di porre all’ordine del giorno della discussione politica e parlamentare la questione delle DAT sembra rispondere a una logica biecamente strumentale: meglio affrontare questioni etiche delicate, non tanto per andare alla ricerca di una soluzione equilibrata, quanto per mandare messaggi rassicuranti a un’opinione pubblica disorientata, se non comprensibilmente disgustata, per le performances del Presidente del Consiglio. È facile immaginare che su questo terreno la maggioranza cercherà di recuperare almeno parte del consenso dispersosi negli ultimi mesi presso l’opinione pubblica cattolica. Al di là di queste tristi considerazioni, ed entrando nel merito del problema, la domanda cruciale sembra essere la seguente: quali sono i principi ai quali dovrebbe ispirarsi un provvedimento così delicato, che ha a che vedere con il fine vita e che si carica inevitabilmente di fortissime valenze simboliche per il nostro vivere personale e sociale? Usando un altro linguaggio, quali sono i diritti costituzionalmente stabiliti che dovrebbero essere tenuti in considerazione. E il testo base della legge in discussione alla Camera riesce a valorizzare tali principi, riesce a contemperare e a bilanciare i diversi diritti implicati? Una legge sul fine vita non può che ispirarsi al rispetto e alla tutela sia della vita umana che della libertà personale. È singolare (e deplorevole) che il bipolarismo politico si sia tramutato in diverse occasioni, vuoi per cinismo di alcuni, vuoi per l’ingenuità e l’insipienza di altri, in vero e proprio bipolarismo etico, come se la necessaria difesa della vita dovesse comportare inevitabilmente il tradimento della libertà personale, e viceversa il rispetto della libertà e delle volontà del paziente dovesse tradursi in un attentato alla vita sino a prefigurare l’avallo a scelte quali quelle del suicidio assistito e dell’eutanasia, tra l’altro espressamente – e a mio parere opportunamente – considerati come reati dal nostro ordinamento giuridico. La proposta di legge attuale corregge solo in parte l’iniziale impianto del ddl Calabrò, preoccupato di limitare il più possibile l’espressione delle volontà del paziente e di affidare al medico e di fatto all’intero apparato tecnico-medico un ruolo decisionale esorbitante, che certo non si dà quando il paziente è nel pieno delle sue capacità decisionali. Tutto ciò viene giustificato con la tutela della vita e con il rifiuto
dell’eutanasia, anche se l’esito sembra essere inevitabilmente quello di giustificare interventi terapeutici spropositati, futili se non di vero e proprio accanimento, come tali lesivi della dignità della persona. A questa unilateralità si è contrapposta un’unilateralità contraria nel segno di un’enfatizzazione del principio di autodeterminazione, termine peraltro utilizzato con accezioni radicalmente individualistiche. Richiamandosi al comma 2 dell’art 32 della nostra Costituzione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”), ma dimenticando il comma 1 del medesimo art. (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”), alcuni sostenitori dell’autodeterminazione hanno spesso trasformato il sacrosanto principio di libertà personale (Cost., art. 13) in una concezione proprietaria del proprio corpo e della vita (non a caso si usa l’espressione infelice di “testamento biologico”, come se la vita umana fosse paragonabile a un bene patrimoniale, una casa o un terreno, oggetto di un lascito, o come se la vita umana fosse solo … biologica). Non si può replicare al dirigismo facendo valere un individualismo di stampo proprietario: entrambe sono posizioni riduttive, la prima affida allo Stato e attraverso di esso all’apparato tecnico-medico le decisioni in merito alle cure e alle terapie, espropriando il paziente di effettive possibilità di scelta, la seconda riduce la figura professionale del medico a una funzione meramente esecutrice della volontà del paziente. Una legge equilibrata sulla materia deve saper contemperare il diritto alla vita, per tutti, indistintamente, anche per i più deboli, che non hanno la capacità di far valere le proprie volontà o di stilare delle DAT, con il rispetto della libertà personale, una libertà che normalmente dovrebbe esprimersi attraverso il consenso informato nella scelta, assieme al medico, delle cure e a volte persino nel rifiuto o meglio ancora nella rinuncia ad esse. La valorizzazione della libertà personale può giungere sino all’espressione di quel che Hans Jonas chiamava il “diritto a morire”, formula a suo dire paradossale, che tuttavia nulla ha a che vedere con la scelta eutanasica. Il diritto a morire è la richiesta di essere lasciato andare, possibilmente con il conforto e la vicinanza delle proprie persone care; è la richiesta di evitare inutili interventi straordinari e accanimenti, come tali ingiustificati, e di sospendere le cure: vi è infatti una chiara differenza, riconosciuta dalla più accreditata tradizione del pensiero morale, tra “uccidere” e “lasciar morire”, una tradizione che in ambito cattolico sembra essersi arrestata ad alcuni straordinari discorsi degli anni cinquanta di Pio XII. Vita e libertà dunque. Ma anche giustizia, equità, eguaglianza di rispetto e di cura. È davvero strano che nel dibattito attuale sulle DAT non risuoni mai la parola ‘giustizia’ o quelle similari di ‘equità’ o di ‘eguaglianza’, neppure da parte delle forze di sinistra o di centrosinistra che pure dovrebbero avere a cuore i valori evocati da queste parole. La dimenticanza del lessico della giustizia è segno di un deficit culturale che induce a interpretare le questioni bioetiche attraverso il filtro privilegiato del principio di autonomia/autodeterminazione, quando invece tali questioni sono spesso e in forma prioritaria questioni di giustizia e di equità di opportunità. Una prospettiva di questo genere, con riferimento al fine vita, dovrà mirare a combattere qual-
siasi forma, palese o nascosta, di abbandono terapeutico, se non altro per evitare che quel diritto a morire di cui parlava Jonas si trasformi subdolamente in un dovere di morire. Ancora: dovrà impegnarsi per favorire e diffondere le cure palliative, che - non va dimenticato hanno trovato il loro primo e formale riconoscimento in Italia grazie a una legge promossa dal governo dell’Ulivo, nel 1997. Più in generale andrebbero sostenute le terapie del dolore, e non solo nelle fasi terminali della malattia che oramai annunciano la morte. Poter contrastare per esempio il dolore cronico oncologico, ricorrendo anche a farmaci oppiacei, come espressamente previsto da linee guida internazionali (vd. World Health Organization, Cancer Pain Relief), significa restituire all’ammalato afflitto sul piano fisico, psicologico, sociale, spirituale, una maggiore autonomia e una migliore qualità della vita. Un’autonomia e una qualità di vita che difficilmente possono essere guadagnate prescindendo da una migliore organizzazione dei servizi e da una più equa allocazione di risorse in sanità.
Alla ricerca di una nuova identità La sinistra inglese tra Old Labour, New Labour e “good society” di Vincenzo Magagna
Da qualche tempo nella riflessione politica inglese c’è una rinnovata attenzione per i concetti di società e comunità, intesi in contrapposizione (o perlomeno in giustapposizione) a quelli di stato e mercato. Diversi pensatori, in entrambi i maggiori partiti, sostengono che uno stato sempre più interventista e accentratore da un lato, e un mercato lasciato a se stesso dall’altro, hanno allargato la propria sfera di influenza a scapito della società. Questo avrebbe portato a un’erosione del potere della gente (the people), sia a livello individuale sia a livello di famiglie, associazioni, ecc., di decidere autonomamente del proprio destino. E’ il momento, secondo questi pensatori, di riequilibrare la situazione dando alla gente maggiore potere. Non sono idee nuove, sono anzi idee che hanno una storia illustre nelle tradizioni politiche di entrambi i partiti. Quello che è nuovo è la preminenza che queste idee hanno assunto nel dibattito corrente e nell’elaborazione politica ai vertici dei maggiori partiti inglesi. Da queste idee nasce il
programma della Big Society, la “grande società”, che David Cameron ha voluto al cuore del manifesto elettorale dei Conservatori nel 2010, e che lui stesso continua a promuovere come elemento “forte” della proposta politica del suo partito e dell’azione del governo di coalizione da lui guidato. Ma a quelle idee guardano con attenzione anche i Laburisti, che sotto la guida del nuovo leader Ed Miliband hanno iniziato un lungo processo di ridefinizione dell’identità politica del partito. E’ difficile identificare queste idee con una sigla o un’etichetta unica, proprio perché mettono in discussione le abituali linee di demarcazione del dibattito politico. Phillip Blond, l’intellettuale che forse maggiormente ha contribuito alla loro affermazione nel Partito Conservatore, si è definito “conservatore rosso” (Red Tory). E Maurice Glasman, che difende posizioni analoghe fra i laburisti ed è un influente consigliere di Ed Miliband, viene presentato come l’alfiere di un nuovo “laburismo blu” (il blu e’ il colore tradizionale dei Conservatori). Queste etichette colgono bene la natura ibrida di ciò che si vuole definire. Comunque la si voglia chiamare, questa corrente di pensiero è interessante appunto perché sembra offrire un’alternativa a proposte politiche consolidate e secondo molti ormai screditate. Da un lato un’impostazione neoliberista, che vedeva nel mercato lo strumento migliore per garantire prosperità e benessere, e puntava ad estenderlo ad ambiti nuovi (per esempio i servizi pubblici) lasciando al tempo stesso il più possibile liberi i suoi operatori da regolazione e interferenza dello stato. Dall’altro lato il modello del welfare state, che rivendicava un ruolo attivo per lo stato nel correggere gli effetti indesiderati degli scambi di mercato, attraverso l’elaborazione di dettagliate politiche sociali la cui attuazione veniva poi controllata dal centro. Tutti i governi britannici dalla fine degli anni ’70 ad oggi hanno proposto combinazioni diverse di questi due elementi. I Conservatori dell’era Thatcher ebbero un approccio notoriamente laissez-faire, ma rafforzarono al tempo stesso il potere del governo centrale rispetto ad esempio agli enti locali; il New Labour di Tony Blair abbracciò il modello neoliberista dei predecessori, compensandolo però con un imponente programma di investimenti nei servizi pubblici finanziato con la tassazione. Secondo “conservatori rossi” e “laburisti blu” questi approcci hanno prodotto conseguenze pericolose al livello appunto degli individui e della società. Il mercato lasciato a se stesso crea differenze permanenti e inique nella distribuzione delle risorse, e politiche di redistribuzione del reddito e di assistenza pubblica non bastano a rimediare al problema. Un interventismo eccessivo da parte dello stato può anzi aggravarlo, quando sottrae agli individui e agli altri attori sociali la possibilità, e quindi a lungo andare anche la capacità, di elaborare autonomamente le risposte ai propri bisogni. Il problema è proprio quello di garantire che ciascuno abbia la possibilità concreta di realizzare il proprio progetto di vita nell’ambito delle varie aggregazioni sociali di cui fa parte (e qui si rivela l’elemento comunitarista di queste idee, per cui vedi sotto). Poiché la minaccia viene da due parti, stato e mercato, la soluzione al problema si deve sviluppare su due fronti. Da un lato, una devoluzione di poteri dallo stato al livello più vicino possibile agli individui. Dall’altro, un attacco alle posizioni di potere consolidate nel mercato. Si noti che in entrambe queste linee di intervento lo stato ha un ruolo di primo piano – e difatti queste teorie non sostengono tanto una riduzione quanto un ripensamento del ruolo dello stato. C’è in queste idee anche un elemento comunitarista. Che cosa si può contrapporre allo strapotere di stato e mercato? Non solo l’individuo preso
separatamente, privo dei suoi legami di appartenenza familiare, culturale, religiosa ecc., perché questi legami sono essenziali per definire la sua identità, per dare un senso ai suoi progetti di vita e fornirgli gli strumenti per realizzarli in un contesto di cooperazione con altri. Anzi uno dei problemi più gravi delle teorie politiche di stampo liberale oggi dominanti sarebbe che hanno lasciato troppo poco spazio a queste appartenenze, e lo strapotere di stato e mercato le ha indebolite se non addirittura soffocate. Il primato riconosciuto ai diritti e alle libertà individuali ha generato una mentalità individualista, rafforzata dalla logica di scambio del mercato ma paradossalmente anche dall’invadente autoritarismo con cui le burocrazie statali cercano di mediare i conflitti fra diritti individuali. Questo individualismo indebolisce la solidarietà e il rispetto reciproco che accompagnano normalmente i legami di appartenenza di cui si è detto: così le istanze di giustizia sociale sono minate alla radice, e inefficace diventa qualunque programma statale che cerchi di rappresentarle. Teorie come quelle di Blond e di Glasman mirano a contrastare queste tendenze, affiancando a radicali proposte di giustizia sociale (eg sul livello del salario minimo, sull’accesso al credito dei più svantaggiati) la difesa e il rafforzamento delle relazioni sociali che si manifestano nelle famiglie, nelle associazioni, nelle comunità nazionali, religiose, ecc. Le idee di questi pensatori sono particolarmente interessanti per la Sinistra inglese, e forse per la Sinistra in generale, perché le offrono stimoli a ripensare il proprio ruolo in termini nuovi, o meglio secondo alcuni in termini vecchi, ma troppo a lungo ingiustamente trascurati. Si fa notare infatti che queste idee fanno parte da sempre del patrimonio culturale della Sinistra inglese: il ruolo delle associazioni e delle comunità locali nell’avanzare dal basso istanze di giustizia sociale fu infatti centrale sia per il movimento operaio da cui è nato il Partito Laburista, sia per quei liberali di sinistra che insieme ai socialisti ebbero un ruolo di primo piano nel disegnare lo stato sociale che sorse dalle rovine della Seconda Guerra Mondiale. Da parte loro i “conservatori rossi” fanno appello a una tradizione di conservatorismo radicale che risale al pensiero di Edmund Burke e più tardi ispirò l’azione riformatrice dei governi di Benjamin Disraeli. Molti Laburisti però guardano con sospetto al modo in cui Cameron ha “riscoperto” questa tradizione sotto lo slogan della “grande società”, perché pensano si tratti di un’operazione di facciata: un tentativo di accreditare i conservatori sul terreno della giustizia sociale attraverso la pura evocazione di una solidarietà civica diffusa, lasciando però intatta una politica economica di stampo neoliberista. Secondo i Laburisti quella tradizione di solidarietà civica appartiene invece in primo luogo alla Sinistra, e l’interesse a rispolverarla nasce anche in reazione all’”appropriazione indebita” da parte di Cameron. Sta di fatto che anche per i Laburisti si tratta di una riscoperta, che richiede di mettere seriamente in discussione punti fondamentali dei modelli seguiti in quasi quindici anni di governi New Labour. I Laburisti sembrano seriamente intenzionati a questa elaborazione politica che sembra, almeno a giudicare dalla profondità dei suoi contenuti, possa costituire uno stimolo interessante per una riflessione più ampia, più Europea e certamente interessante per il futuro della Sinistra nel suo complesso. In altre parole, le idee del cosiddetto “laburismo blu”, o “conservatorismo rosso” che dir si voglia, offrono un terreno promettente su cui edificare un nuovo futuro della e per la Sinistra? Lo scopo di questa ricerca nasce da qui.
Alcuni dubbi sono immediati: Supponiamo che lo stato riesca ad affrontare con successo gli squilibri di potere generati dal mercato (ad esempio attraverso la riconfigurazione dei modelli di proprietà aziendale, un’aggressiva politica antitrust, misure per l’accesso al credito ecc.). Supponiamo anche che lo stato riesca a devolvere poteri e risorse al livello volta per volta più appropriato, massimizzando l’opportunità di individui e comunità di elaborare risposte autonome ai propri bisogni. Questo riequilibrio dei poteri a vantaggio di individui e comunità dovrebbe avere effetti positivi più ampi in termini di giustizia distributiva, ma non esclude comunque il sorgere di disuguaglianze anche significative. Non si tratta solo delle disuguaglianze fra ambiti locali/comunità diverse, ma anche delle disuguaglianze all’interno di singole comunità locali (ad esempio fra chi ha il potere di decidere sull’uso delle risorse devolute dallo stato e chi di questo potere è privo). La Sinistra si deve chiedere quali, e quanto grandi, sono le disuguaglianze che sarebbe disposta ad accettare in questo contesto. Si deve chiedere anche quale dovrebbe essere il ruolo dello stato nell’eliminare o ridurre le disuguaglianze che si considerano inaccettabili. Sarebbe in ogni caso un errore ritenere che le “comunità” siano, in sé e per sé, meno soggette dello stato al sorgere di disuguaglianze ingiustificate al proprio interno, e meglio in grado rispetto allo stato di rispondervi. Una questione collegata alla precedente, di cui rappresenta forse un’applicazione particolare, è questa: nel dare un ruolo di primo piano ai riferimenti etici e culturali propri della nazione, della religione, dell’etnia di appartenenza degli individui, non si rischia di legittimare disuguaglianze e/o relazioni di oppressione che si fondano almeno in parte su quegli stessi riferimenti? (ad esempio fra maggioranza e minoranze etniche, fra popolazione “autoctona” e stranieri, fra uomini e donne, ecc.). Rispondere a questo rischio deve rimanere un ruolo essenziale dello stato? Quali altri strumenti, al di fuori dell’azione dello stato, esistono per mitigarlo? Negli ambiti in cui si ritiene necessaria l’azione collettiva, la devoluzione di poteri e risorse a vari attori sociali (ad esempio associazioni di volontariato a cui si affida la gestione di un servizio pubblico) presuppone la volontà e la capacità da parte loro di assumersi il relativo impegno. E’ realistico pensare che questa condizione si verifichi? In altre parole, la teoria alla base della devoluzione non è troppo “esigente”? (si vedano per l’Inghilterra le obiezioni al programma della “grande società” dove immagina scuole gestite da cooperative di genitori, uffici postali gestiti da gente del quartiere, ecc.) I vincoli alla politica economica nazionale – nonché all’azione dei singoli operatori economici – derivanti dall’appartenenza all’economia globale pongono limiti specifici all’attuabilità del programma di rafforzamento di individui e comunità nei confronti del mercato? Se sì, quali? Attraverso analisi, riflessioni e dialoghi con i partecipanti al dibattito, questa ricerca in più puntate si offre come spazio di elaborazione per chi voglia contaminare il proprio orizzonte di riferimento o, più semplicemente, guardare oltre-Manica per semplice curiosità.
Il divenire altro, o della destituzione del racconto Alcune domande a Bruno Moroncini a cura di Bachisio Meloni
D.: Immediatamente accanto alla riflessione sull’ontologia quale fondamentale apertura di prospettive, giungiamo oltre che alla possibilità stessa del pensiero e dell’immaginazione, all’universo dell’arte quale, almeno così come enunciato da Heidegger, radicale apertura all’essere e dischiusura di un mondo. Tutto ciò per dire, come non tutta la sfera dell’essere coincida con la realtà; l’arte dunque come il luogo ideale in grado di far accedere ad una dimensione più profonda, oscura e insondabile del reale. Eppure, nell’ambito di tale carattere simultaneo, luminoso ed umbratile, dell’essere si è come di fronte a una possibilità in cui niente diventa più possibile,
dove il soggetto non ha più potere e prospettive: l’immagine artistica come segnale di una fondamentale assenza di fughe, in qualità, diremmo, non tanto di appello discreto ad un fondamento insondabile, quanto di un formidabile correttivo di richiamo alla fragilità e all’impossibilità stessa del soggetto. È quanto emerge dalla riflessione filosofica di E. Levinas su Blanchot e sui possibili scenari dischiusi dalla proiezione heideggeriana della “differenza ontologica”. In questa metafisica descrittiva, laddove ci si aspettava fondamentali e straordinarie aperture di senso sul piano estensivo e riproducibile dell’essere, ci si ritrova nel pieno di uno sfondo indistinto e magmatico, quello del “neutro”, del “fuori”, la cui natura genera contrassegni di instabilità e di disorientamento, e ciò a discapito di una soggettività smarrita, nomade, costitutivamente alle prese con gli indefiniti richiami di senso che l’arte, per quanto in forte contrasto con possibili derive nichiliste, ma ancora in assenza di una più esplicita disposizione ad una prospettiva etica, è in grado di suscitare. R.: Per rispondere vorrei incominciare da un ricordo di gioventù: sono stato un precoce lettore di poesia e di letteratura, più di poesia che di letteratura – forse un destino familiare. Fra le prime scoperte la racccolta Una volta per sempre di Franco Fortini edita nella vecchia collana dello Specchio e in particolare la serie di poesie intitolata La poesia delle rose, più propriamente ancora l’ultima, appunto quella che si chiamava Ultima sulle rose: «Quando da qui si guarda l’età del passato/veramente diventa possibile l’amore./Mai così belli i visi e veri i pensieri/come quando stiamo per separarci, amici./Esercizio della ragione e sentimento/sono due cose e vivacemente si legano/come la rosa è forma di mente e stupore». Da allora mi si dischiuse una verità – o la verità? – cui ho tentato di restare fedele. Non spetta a me decidere se vi sia riuscito, so che questo è ciò che ho perseguito: tenere insieme nel pensiero e nella scrittura esercizio della ragione e sentimento, rigore e immaginazione, il lato del logos e, per usare un termine caro al mio maestro Aldo Masullo, quello del patico, realizzare cioè la forma della rosa, l’unità impossibile di mente e di stupore. E ciò non per vaghe e stolide velleità artistiche – con Benjamin non ho mai amato l’estetismo –, bensì perché nello stupore, che dal suo canto per non scadere nell’ottuso obnubilamento di fronte al reale ha bisogno del sostegno del pensiero razionale, resta incriptato e protetto dalla devastazione della storia l’amore omesso che attende di potersi riscattare, il desiderio di felicità calpestato, l’esigenza di giustizia rimasta inevasa. Che è quanto indicano i primi quattro versi della poesia di Franco Fortini: la possibilità dell’amore viene dopo, quando ogni rapporto è spezzato, a separazione avvenuta. L’unico vero amore, per noi moderni, diceva Kierkegaard, è l’amorericordo, l’unico modo per cantarlo è quello elegiaco. Il pensiero è in lutto se non malinconico. Nella prefazione al mio primo libro su Benjamin citavo in chiusura un verso di Brecht non a caso nella traduzione di Fortini: «Oh, noi/ che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,/noi non si potè essere gentili». Per me c’è stata sempre assoluta continuità
fra questo retroterra poetico e le scelte filosofiche fatte molto dopo, il pathos e lo stupore che innervavano anche ciò che si presentava per quanto in posizione defilata e marginale come il risultato di un esercizio razionale e di un’argomentazione rigorosa, sono stati le mie vie d’accesso, per dirla con Heidegger, alla filosofia: per la mia generazione ha contato l’impatto con delle scritture filosofiche in cui il pathos soggettivo depurato da ogni arroganza egoica andava di pari passo con la severità dell’esposizione e la profondità del pensiero. Bataille prima di tutto, e poi Levinas, Blanchot, Derrida, Lacan e il Foucault degli scritti letterari. Ma non solo francesi, anche tedeschi: Nietzsche, Heidegger e a correttivo Benjamin. Di quest’ultimo due cose vorrei qui ricordare a prova della continuità fra la voce poetica e quella filosofica: il quasi aforisma che chiude il saggio sulle Affinità elettive di Goethe «Solo per chi non ha più speranza è data la speranza» che mi è sempre sembrato perfettamente in linea con il dettato di Fortini e di Brecht e la teorizzazione, contenuta nella premessa gnoseologica dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, del rapporto fra il fare filosofico e quello artistico. Come è noto per Benjamin la filosofia solo subordinatamente è lavoro del concetto, è principalmente esposizione della verità – una verità che come per tutto il pensiero filosofico contemporaneo è rigorosamente distinta dal sapere e dal conoscere. Il concetto serve solo a smontare pezzo per pezzo la veste ideologica e ingannevole – l’apparenza – con cui il fenomeno si offre primariamente al soggetto conoscente. Ma il vero lavoro viene dopo, quando si tratta di ricomporre secondo un altro ordine i pezzi, le tessere del mosaico o del puzzle, ottenuti dallo smembramento del reale: l’esposizione della verità dei fenomeni in tal modo raggiunta nella costellazione ideale è compito dell’arte, vale a dire solo l’arte salva i fenomeni – il pathos, lo stupore della vita –, proiettandoli nella luce della verità. Una luce, in verità, sobria, smorzata, simile a quella che s’intravede nelle radure che si aprono improvvisamente all’interruzione dei sentieri. Ciò per rispondere alla sua evocazione dell’ermenuetica heideggeriana sebbene abbia sempre preferito la sua variante di ‘sinistra’, e cioè la decostruzione secondo il dettato di Derrida, imparentata per me, e non alla lontana, con la critica nell’accezione che ne dava Benjamin. Più che la Lichtung heideggeriana vale, infatti, per me la concezione benjaminiana della critica come mortificazione delle opere, la ricerca nella potenza espressiva della percezione estetica del privo di espressione, della macchia scura che sporca la patina lucente della bellezza artistica. Lo splendore del bello ha diritto all’esistenza solo a patto che si spenga in modo che sulla scia di una luce che scompare si affermi la potenza del vero, di quella verità ideale che sola può rendere giustizia alla vita. L’apporto che nella filosofia contemporanea l’arte ha dato al pensiero filosofico, inteso senza alcun cedimento a mode effimere e a tentazioni letterarie come pensiero razionale e rigoroso, erede legittimo della più classica apodissi, non consiste tanto nel tematizzare, alla maniera heideggeriana, un pensiero poetante o una poesia pensante – ogni poesia è pensante anche se non segue la concatenazione logica – , quanto nel destituire la posizione arcontica del logos o, per venire alla modernità, del cogito, del soggetto-io, e nel produrre una dimensione soggettiva che si lasci invadere dalla
passività, termine questo polisenso e che evoca differenti campi d’esperienza, dal passato immemoriale che insiste nel presente alla passione che invade la ragione, dal patico che destabilizza e fa uscire il soggetto da se stesso all’inoperosità che da Blanchot a Foucault è il segno distintivo delle forme estreme della vita e del pensiero, anzi del pensiero perché prima di tutto della vita – valgano per tutti i nomi di Artaud, di Roussel, di Sade. Se si volesse cogliere, come Lei sembra suggerire, un filo, che pur nella differenza, leghi l’ontologia fondamentale heideggeriana agli esiti lévinassiani e blanchottiani lo individerei nella radicalizzazione del concetto di esistenza che, ancora adesso, mi sembra più vicino alla verità di quello della vita, ultimo baluardo, nonostante tutto, dei trionfi di un cogito duro a morire. L’esistenza è il costante star fuori da ogni stabilità, il passare – da qui la passività costitutiva dell’esperienza – da un fuori a un altro fuori senza stare mai in un dentro. Fine dell’io come insieme di abiti, qualità, poteri, fine dell’io posso che è la vera base, il fondamento autentico, dell’io penso. Un soggetto impotente forse: e se l’impotenza, invece, non fosse un’altra forma, inaudita e non ancora sperimentata, di potenza? D.: Viene da pensare perciò stesso a quanto si celi nell’antinomia dell’“umiltà di potenza”. Al pari del procedimento artistico – non meno interessante a questo punto sarebbe poter riflettere sulle possibilità tecnico-espressive della scrittura filosofica considerata al di là dei meri contenuti teoretici – è come se la ricerca filosofica ricalcasse i contorni di una propria verità, ma nei termini di una realtà “virtuale”, aperta. Come nella prospettiva deleuziana, lo spazio su cui ci si avventura non è l’espressione di un mondo che ci risulta estraneo, da rappresentare o da significare nella sua complessa problematicità e in quanto altro; è ciò che si materializza a partire dalle nostre singole esperienze di vita, da quanto si determina in virtù delle possibili “pieghe” in rapporto al caos, all’abissalità sorgiva propria dell’universalità indeterminata. R.: Anche qui, prima di rispondere, mi si permetta un’osservazione apparentemente incongrua con la Sua domanda e che potrebbe dipendere esclusivamente dall’avanzare dell’età che rende ipercritici verso il proprio presente – il tempo del tramonto e della vecchiaia – e particolarmente remissivi, invece, nei confronti del passato – l’epoca dell’inizio e della giovinezza. Comunque sia, provo sconcerto di fronte alla ripresa tutta positiva che oggi si tenta dell’istanza della narrazione: scomodando addirittura Benjamin e il saggio su Nicolaj Leskov, da più parti e in ambiti diversi – il teatro ad esempio, e la letteratura, il cinema, le arti in generale – si promuove il ritorno del racconto contro un passato recente che sarebbe stato disgraziatamente dominato dalla scienza letteraria di ispirazione strutturale e da pratiche artistiche elitarie ed urticanti. Addirittura un politico, esponente di quel che resta della sinistra comunista, fonda le sue poche speranze di vittoria sul fascino che su un elettorato sfiduciato potrebbe esercitare il ricorso ad un lessico per così dire ‘romanzesco’: raccontando una storia con un inizio e una fine, ovviamente lieta, egli donerebbe di nuovo unità e senso a vite che la globalizzazione neoliberista parcellizza e liquida (nel
senso appunto della modernità liquida). Per me, al contrario, ha funzionato quasi come un’ingiunzione la frase che chiude La follia del giorno di Maurice Blanchot: «Un racconto? No, nessun racconto. Mai più». Si ricorderà il plot di questo testo breve di Blanchot: le istanze della legge – medici, poliziotti, giudici – chiedono, anzi impongono, al protagonista di dire tutto quello che ha fatto e che gli è successo, dall’inizio alla fine, senza omettere nulla e in ordine. Ma il narratore si confonde, non ricorda, non sa nemmeno se era presente a quello che accadeva. Il racconto è impossibile e la pretesa della legge risibile. Ecco cos’è per me scrittura: l’esperienza dello spossessamento, dello scivolamento nell’anonimato e nell’impersonale, del passaggio dalla legge del giorno in cui tutto deve essere chiaro, univoco e sensato a quella della notte in cui al contrario il senso slitta, si contraddice, si perde. La scrittura è l’unico modo insieme alla follia di accedere al fuori, posto che il fuori sia ancora un luogo al quale si può accedere e non il non luogo, l’assenza di dimora, l’impossibilità dell’abitare. Di nuovo, perdita dell’abito e perdita dell’io. Secondo la lettura cui Foucault sottopone il pensiero del di fuori di Blanchot la scrittura è l’esperienza attrraverso la quale si entra nel territorio immenso del linguaggio inteso come quel brulichio incessante che precede e oltrepassa il locutore che dicendo ‘io’ crede di poterlo governare e sottoporre al suo dominio. È solo a partire da qui che come un prolungamento o come un’eco si aggiunge e si raggiunge per me la nozione filosofica di scrittura elaborata da Derrida e il dispositivo della decostruzione che ne discende interamente. È noto che la scrittura in Derrida si pone in opposizione al primato della phoné, della voce che, in quanto tramite invisibile ed aereo, supporto immateriale e trasparente, permette all’anima di illudersi sul fatto che, pur subendo un inevitabile processo di esteriorizzazione, essa resti sempre presso di sé, presente a se stessa, una presenza viva rispetto alla quale la morte non è nulla più di un accidente. Se la scrittura è il miglior esempio della differenza è perché essa è il differimento della presenza, il rinvio di ogni archè, il ritardo patito inevitabilmente dall’origine. Se la scrittura costituisce il dispositivo che assicura in linea di diritto alla traccia la possibilità della sua iterabilità, vale a dire la sua ripetibilità ideale, ciò è possibile perchè allo stesso tempo essa scava nella traccia una spaziatura che vi introduce la separazione e la distanza: la traccia è sempre al posto di un’altra taccia differita o assente, è sempre un’altra traccia, differente da sé, senza origine né destinazione. Da ciò deriva che nella scrittura, vale a dire nella tessitura di un testo, sia esso indifferentemente filosofico, letterario, scientifico, politico o economico, di un testo che può essere formalizzato o no, di un testo che non necessariamente deve essere scritto in linguaggio alfabetico, di un testo che può essere un’immagine, un’archittetura, addirittura una musica, sia sempre possibile individuare la smagliatura, la stonatura che dimostra quanto esso non sia in grado di contenere in sé l’origine da cui prende le mosse, il fondamento su cui poggia, l’assiomatica secondo cui si articola. Se la decostruzione nasce dall’interno della filosofia e finisce per privilegiare i testi cosidetti filosofici è solo perché la filosofia è nella tradizione occidentale quella forma del discorso cui è devoluto
il compito di tematizzare la sfera delle categorie e dei concetti generali con cui si cerca di organizzare l’esperienza; ragion per cui, come Derrida non si è mai stancato di notare, anche il testo più intenzionalmente lontano dallo stile filosofico poggia volente o no su un numero finito di metafore influenti, di opposizioni concettuali e di procedure argomentative che sono l’oggetto specifico della filosofia e la cui produzione è il compito peculiare dell’istituzione filosofica. Al di là di questo la decostruzione è il processo in atto in ogni discorso e in ogni pratica, in ogni campo d’esperienza e in qualunque situazione: non implica un soggetto e può essere anonima e impersonale, operazione di un collettivo senza nome o di una singolarità qualunque. Terza e ultima fonte per me della nozione di scrittura: il Benjamin della premessa gnoseologica dell’Ursprung per il quale l’esposizione della verità va pensata e praticata secondo il modello della scrittura e non della parola orale. Mentre quest’ultima presuppone un flusso continuo del pensiero in cui l’intenzione soggettiva non possa subire alcun arresto e sia posta al riparo dal rischio di potersi perdere, la scrittura richiede un‘andar sempre da capo, un procedere discontinuo, delle pause e degli spazi bianchi che implicano il passo falso, l’inciampo e la morte del soggetto conoscente. Poiché per Benjamin la verità è un essere aintenzionale di idee e il soggetto, posto di fronte ad essa, deve, come il discepolo di Sais, bruciare e divenire cenere, è evidente perché sia la scrittura il medium, l’unico, che si adatti ad essa e ne permetta l’esponibilità. Per giungere alla Sua domanda di cui non mi sono dimenticato anche se ho fatto un giro lungo per arrivare a una risposta, del pensiero di Deleuze, di cui pure riconosco l’importanza e la potenza, ciò che mi ha interessato non è stato tanto il vitalismo cui molti interpreti hanno voluto ridurlo, quanto le tesi sul compito della filosofia e sulle condizioni che rendono possibile l’invenzione sia essa del pensiero filosofico o dell’arte, le condizioni insomma dell’invenzione in generale. È quanto si potrebbe etichettare come la questione dell’idiota: l’idiozia che significa sia la condizione privata contrapposta alla dimensione pubblica, sia l’assenza di sapere, lo stato d’ignoranza, in opposizione all’esistenza del dotto, dell’intellettuale come depositario e custode del sapere tramandato, è la condizione della creazione, cioè dell’innovazione. Bisogna essere idioti come Bartebly, lo scrivano di Melville, o come Miskyn, l’epilettico di Dostoevskji, per poter costruire dei concetti inconsueti, per inventare delle nuove forme percettive e per adottare inedite abitudini etiche. Bisogna dismettere la natura umana e sottoporsi a un divenire altro: donna, animale, cosa, per produrre un concetto, una forma, una condotta. L’invenzione quindi non deriva dal sapere posseduto, non è né un privilegio né un diritto; viene bataglianamente dal non sapere, è appannaggio dell’idiota, vala a dire di chiunque la cui avventura singolare e la piega che ha preso la sua vita, lo spingano lungo le strade della deformazione e della perdita. D.: Su quanto avviene nel piano immanente di questa vicenda sempre in divenire, interpretabile al pari di un viaggio limite o di transito in un valico di confine (Benjamin), la testimonianza che Lei
raccoglie della teoria ermeneutica della verità, o meglio, a partire dall’attività o dal movimento della differenza e della “diffrazione” dell’interpretazione, è lo stupefacente riscontro di una verità esprimibile come altra da sé; alludo in particolare alla lettura del Simposio platonico da parte di Lacan e a ciò che diviene possibile ricavare in virtù di un’esperienza in grado di suscitare l’idea di un duplice movimento, di un’eco (penso alla singolare inclinazione teorica se non alla vera e propria articolazione di un pensiero “neutro”, o terra di nessuno, la cui origine è data dalla proiezione di quelle “differenze parallele” messe a punto da J.-L. Nancy sulla base del rapporto di stretta con-divisione fra la riflessione di Deleuze e quella di Derrida), o di un controcanto in virtù del quale la lettura lacaniana di Platone apre di continuo alla possibilità di “leggere” lo stesso Lacan alla luce dell’interpretazione dell’Eros platonico. R.: Quello di Lacan è un capitolo a parte: se si può dire che da sempre la filosofia ha assunto nei confronti della psicoanalisi un certo tono di superiorità come se soltanto attraverso l’esame filosofico questa strana tecnica inaugurata da Freud potesse sperare di assurgere al rango di un sapere legittimo perché fondato trascendentalmente, per me è accaduto il contrario. Forse per il fatto di aver avuto accesso alla filosofia in un momento storico – oggi già le cose sono un po’ cambiate – in cui massimo era il bisogno di sottoporre la tradizione del pensiero filosofico ad una radicale e ultimativa decostruzione dei suoi presupposti metafisici e dei suoi esiti politicamente conservatori se non del tutto reazionari, ho da subito pensato che la psicoanalisi facesse parte di diritto di questo movimento di sovversione della posizione filosofica fino al punto di considerarla forse la sua leva principale. In ciò mi è stato complice, forse suo malgrado, Derrida: in una nota introduttiva al saggio su Freud e la scena della scrittura, Derrida infatti nega recisamente che la decostruzione sia declinabile come una psicoanalisi della filosofia. E ciò ‘malgrado le apparenze’. Apparenze, d’altro canto, consistenti e pesanti: il dispositivo o il destino cui la scrittura si è trovata sottoposta da Platone in poi, lungo tutto il corso della metafisica occidentale, è stato proprio quello della rimozione e non si è trattato né di dimenticanza né di esclusione. Dal momento però che una rimozione riuscita è una rimozione mancata o che in altri termini la rimozione coincide concettualmente e effettualmente con il ritorno del rimosso, la riemergenza costante della scrittura proprio nei contesti da cui essa sembrava bandita, espulsa e del tutto eliminata, dimostra di fatto che la decostruzione è in corso. E che la metafisica è in via di ‘decomposizione storica’. La scrittura, insomma, è un sintomo. Se tutto questo è vero, il prosieguo della nota però rovescia il primo assunto: i concetti freudiani, infatti, «appartengono tutti, senza alcuna eccezione, alla storia della metafisica, cioè al sistema di repressione logocentrico che si è organizzato per escludere o abbassare, mettere fuori e in basso, come metafora didattica e tecnica, come materia servile o escremento, il corpo della traccia scritta». Come si è visto prima, un discorso intenzionalmente contrario o estraneo alla filosofia si scopre ad un esame più avvertito tramato da quegli stessi presupposti che denunciava nell’oppositore. Il
dispositivo della decostruzione è, se così si può dire, autoriflessivo, si applica a se stesso: ciò che serve a decostruire va decostruito a propria volta. Stesso destino con Lacan cui Derrida rimprovera la rilegatura filosofica dell’incoscio freudiano letto, infatti, a partire dalla linguistica saussuriana in cui di nuovo si assiste ad un trionfo simultaneo della voce e della spirito – il segno, infatti, è formato dall’immagine acustica e dalla rappresentazione mentale. Il risultato alla fine è il seguente: la decostruzione della metafisica non può essere considerata una psicoanalisi della filosofia perché la psicoanalisi stessa, se non integralmente almeno per un tratto, partecipa della tradizione della filosofia, si iscrive nello spazio di una metafisica della presenza. Tutto vero; e però anche – nel pieno rispetto del dispositivo della decostruzione – tutto rovesciabile su di un’altra scena, sulla scena, ad esempio, del discorso inconscio. Vale a dire: se in nessun caso si tratta di sdraiare sul lettino la filosofia e di conseguenza di pretendere di ‘psicoanalizzarla’, quella che invece è sostenibile è la tesi per cui, inserendo la psicoanalisi in una teoria generale dei discorsi alla cui origine si situa il discorso filosofico, quello analitico, che di questa processione discorsiva occupa la fine, se appare agli antipodi del primo non è perchè ne sia la diretta contestazione bensì perché deriva da una sua sovversione già avvenuta. Non è di conseguenza la psicoanalisi a decostruire la filosofia, ma una serie di pratiche da cui la stessa psicoanalisi discende e rispetto alle quali può però, alle volte, anche agire in un senso reazionario, come un agente della restaurazione. Non tuttavia nel caso di Lacan, e in ciò mi distinguo, dopo averlo utilizzato a piene mani, da Derrida: giacché quello che ho provato a compendiare in un modo – me ne rendo conto – quasi incomprensibile è stata la teoria lacaniana dei quattro discorsi che per me sostituisce la teoria generale dell’interpretazione di ascendenza gadameriana anche perché, a differenza di quest’ultima e d’accordo, invece, con la decostruzione, tematizza appunto la sovversione della filosofia, la sua critica radicale e definitiva. La teoria dei quattro discorsi – Maïtre, coniato sul modello del Menone platonico, Universitario, esemplato sulla filosofia hegeliana, isterico e analitico – ha molti aspetti, ma in particolare due che qui mi sembrano essenziali per capire ciò che cerco di dire: 1) la psiconalisi non nasce come un fungo, essa si iscrive in una storia complessa e discontinua che la precede e da cui prende senso e che è la storia del pensiero occidentale, cioè la storia delle forme del sapere scientifico, del suo statuto e dei suoi modi di produzione; 2) questa storia non viene messa in crisi dalla psiconalisi che ne è anzi un sintomo e un tentativo di teorizzazione, ma da una serie di eventi, processi, pratiche e dispositivi che Lacan compendia sotto il nome di discorso isterico. Con questo nome si intende in primo luogo il fatto che la psicoanalisi freudiana si costituisce a partire dall’ascolto delle isteriche, sia di quelle che Freud aveva visto da Charcot a Parigi sia soprattutto di quelle che incominciano a frequentare il suo studio di Vienna. Ma attraverso l’emergenza di questo disturbo psichico prevalentemente femminile si vuole indicare la crisi generale che a fine ottocento colpisce la cultura in generale e la società che su quella cultura era edificata. Di questa crisi le donne nella declinazione che il femminile assume nell’isteria
sono la testimonianza ma soprattutto la causa. La sovversione della filosofia di cui la psicoanalisi è un effetto e insieme un tentativo di presa in carico è il risultato di un’isterizzazione generale della società occidentale, cioè di una destituzione radicale del primato del sapere razionale e conscio su cui quella società aveva fondato il suo dominio. Se la decostruzione certamente non è una psicoanalisi della filosofia, la psicoanalisi però partecipa e con pieno diritto ai processi complessivi di decostruzione della filosofia. È questo il senso della mia ricostruzione della lettura da parte di Lacan del Simposio platonico contenuta nel seminario VIII dedicato alla questione del transfert: l’intento non era solamente di far vedere quanto la psiconalisi dovesse ad un testo principe della tradizione filosofica riguardo ad un concetto per essa essenziale come quello di desiderio (Wunsch in Freud, désir in Lacan) declinato come mancanza ad essere e per converso quanto l’interpretazione psicoanalitica avesse da insegnare alla storia della filosofia antica, oltre che alle sfere teoretiche e morali, nella comprensione anche filologica di un testo del passato. L’ambizione era più alta e consisteva nel mostrare come nella decisione di leggere il Simposio a partire dal punto di vista di Alcibiade, togliendo contestualmente centralità alla figura di Diotima e puntando piuttosto sul conflitto fra l’uomo della scienza (Socrate) e quello del désir (Alcibiade), Lacan raggiungesse il medesimo obiettivo di Derrida rispetto al testo filosofico: far vedere come esso si autodecostruisse da solo, cogliendo nell’irruzione di Alcibiade e nel cambiamento che nell’ordine discorsivo sul soggetto erotico tale irruzione produceva, l’isterizzazione del discorso filosofico tenuto fino a quel momento da Socrate per il lato più propriamente scientifico e da Diotima per quello onto-teologico. Dentro il testo filosofico del passato, nelle sue pieghe più nascoste, già era all’opera la contestazione del primato del sapere sul desiderio, della temperanza sulla spinta erotica, dell’anima immortale sul dispendio corporeo, già si consumava cioè la storica decomposizione della metafisica. D.: È come se ciò che emerge in termini di senso, sia esso di provenienza da un fondo indistinto e cedevole, e sia esso – ed è ciò su cui ci stiamo maggiormente soffermando – dalla stessa fermezza di un piano o fondamento stabile e veritativo, iniziasse a significare, o a risuonare del tutto nella sua essenza più autentica, solo sulla base di quanto si determina in virtù di ogni singola esperienza critica individuale; in questo rapporto conoscitivo e generativo del senso, Lei lo sottolinea, emerge quanto ben al di là dell’acquietarsi alla fonte di una verità astratta nella sua categorica assolutezza il ruolo dell’individuo, alla luce dell’effetto mobile e pratico della differenza, sia di primaria importanza. R.: Penso che Lei si riferisca all’importanza che nel mio lavoro ho fin dall’inizio attributo a quella che con Blanchot si potrebbe definire ‘la voce interrogante della verità’, il lato soggettivo e singolare di quella strana pratica pensante che è la filosofia. Nell’Infinito intrattenimento, abissale parodia del dialogo filosofico, del platonico sfregamento dei discorsi da cui può scaturire la scintilla della verità, Blanchot tematizza le due forme, alternantesi nel tempo, che può assumere la
parola filosofica, il logos che si rivolge a tutti nello stesso momento in cui sbarca clandestinamente nelle isole protette e sorvegliate dei saperi: da un lato l’esposizione continua della verità che si afferma nelle modalità del trattato e della dissertazione scolastica e universitaria, dall’altro la parola discontinua e frammentaria, la parola intermittente di chi cerca la verità a tentoni, e che si manifesta attraverso il dialogo, il saggio, la meditazione, l’aforisma e finanche il racconto licenzioso. Per fare qualche nome: da una parte Aristotele, san Tommaso, Hegel, dall’altra Cartesio, Pascal, Sade, Nietzsche. Non si tratta tuttavia di una separazione netta: in base al dispositivo della decostruzione illustrato prima si scoprirà la presenza di una smagliatura irricucibile nella trama più fittamente intrecciata di un ordito filosofico e una coerenza inaspettata dentro la più scombussolata raccolta di frammenti. Lei parla, giustamente d’altronde, di individuo; sulla scia di Kierkegaard, prima ancora che di Nancy o Agamben, preferirei usare il termine e il concetto di singolarità. L’individuo nella filosofia moderna non contraddice infatti il carattere universale dell’essenza, esso è al contrario una variante, una declinzione particolare, un punto di vista originale e irriducibile dell’essenza universale. A quest’ultima infatti appartiene, in modo strutturale e non accidentale, l’essere plurale, la natura intersoggettiva, essa è, per dirla come Hegel, ‘un io che è noi e un noi che è io’. Se nella modernità l’individuo è l’io, vale a dire un centro di pensieri, volizioni e desideri autonomo e originale che nella determinazione della sua identità non sembra dipendere quindi né dagli altri né da altro in generale, tuttavia l’io non sono soltanto io, questo io empirico diverso da ogni altro, ma anche l’Io, ovverosia la forma universale della libertà e dell’autonomia. Il singolo invece o, come anche si potrebbe definire, la singolarità qualunque, l’uomo senza qualità, l’entità generica, si oppongono all’essenza, rifiutano di riconoscersi nella definizione universale, prendono una linea di fuga da ogni gerarchia che tenti di distinguere fra caratteri essenziali e tratti accidentali quando in gioco sia la decisione intorno a ciò che è umano. Per evitare confusioni sarebbe forse preferibile, come avevano fatto prima Kant e poi Kierkegaard, distinguere fra l’universale e il generale in modo da liberare il primo termine da qualunque compromesso con la tentazione essenzialista – stabilita la qualità essenziale per identificare una classe di individui, per esempio gli esseri umani, tutti quelli che ne saranno sprovvisti si troveranno inevitabilmente ad essere espulsi dal consorzio umano con le conseguenze che il Novecento ci ha insegnato – , e poterlo collegare senza alcuna mediazione con la realtà esistenziale delle singolarità. Ma perché l’universale possa darsi sempre come un universale singolare, è necessario una trasformazione radicale dell’essenza della verità quale ci è trasmessa dalla tradizione della filosofia occidentale. Qui l’ontologia fondamentale heideggeriana mostra tutta la sua importanza e non tanto e non solo per aver spostato la nozione della verità dalla dimensione dell’esattezza a quella dell’illatenza, quanto per averla determinata come un evento espropriante-appropriante, per averla ancorata in altri termini alla differenza. Ad una nozione della verità come adeguazione e/o come correttezza proposizionale, la filosofia contemporanea, attraversata da un generale processo di isterizzazione, ha progressivamente
contrapposto una dimensione della verità come evento, differenza, accadimento dell’alterità del volto, cenere. Lacan avrebbe detto che la verità è causa della soggettività: più in generale si potrebbe dire che se la verità singolarizza, essa deve essere a sua volta singolare, accadere qui e ora, patire il tempo, avendo dismesso ogni pretesa generalizzante. La verità è l’evento che mi riguarda, che mi chiama, che, espropriandomi di tutte le proprietà essenziali, di tutte le certezze del sapere, di tutti gli abiti individualizzanti, allo stesso tempo si appropria di me, mi rapisce e mi obbliga ad esserle fedele. Mi è capitato, prima attraverso lo studio dell’opera di Benjamin e poi nella raccolta di saggi intitolata L’autobiografia della vita malata, di verificare tutto questo discorso teorico sulla singolarità in ciò che ho chiamato il tradursi del corpo vivente nel corpo messo in scrittura. ‘Corpo testuale’ è per me ben più di una metafora, la scrittura, quando è veramente tale, ha come supporto d’iscrizione carne viva, sanguinante come nel caso dell’erpice della parabola kafkiana. Così quando la critica si pone il compito dell’interpretazione del testo del passato – passato nel senso appunto della passività e non della cronologia – essa tende a farsi carico più che dei significati generali, socialmente condivisi, di cui l’opera è composta più o meno consapevolmente – il contenuto reale secondo l’apparato terminologico-concettuale approntato da Benjamin – , del desiderio singolare – ciò che Benjamin chiama non a caso il contenuto di verità – che per non essere distrutto o andare a vuoto si era affidato alla sopravvivenza offerta dallo scritto per conservare la speranza di una chance avvenire di soddisfazione e godimento. Perché ciò accada – avevo sostenuto – è necessario tuttavia che in quel nuovo corpo scritto che è l’opera critica si iscriva a propria volta il corpo vivente dell’interprete in modo tale che vista a ritroso la scelta di esercitare l’interpretazione proprio su quel testo del passato mostri tutta la sua necessità e urgenza per il fatto di fondarsi non su motivi ideologici e intellettualistici se non addirittura su esigenze accademiche, ma su una parentela – non una identità – pulsionale e desiderante. È ciò che – mi sembrava – era accaduto a Benjamin quando aveva dedicato il suo primo saggio critico al romanzo goethiano Le affinità elettive; c’è una corrispondenza, dimostrabile dalle lettere e dalle testimonianze degli amici, primo fra tutti Scholem, fra la situazione descritta nel romanzo e alcuni episodi della vita di Benjamim risalenti all’epoca in cui sta scrivendo il saggio. In entrambi i casi si tratta di un matrimonio in crisi, di una passione adulterina, della riproposizione dell’utopia roussoviana di un ménage a tre o addirittura a quattro, dell’inevitabile rinuncia dell’amore ed infine della speranza, che si ha proprio per i disperati, che un giorno quest’amore sia redento e agli amanti ora separati sia concesso di risvegliarsi nell’eternità beatamente insieme. È questo il nucleo incandescente, il patico, lo stupore – quello che doveva avere preso gli sposi adulteri delle Affinità elettive quando dovettero accettare il fatto che il frutto del loro legittimo scambio di effusioni erotiche portava nel volto i tratti dei loro rispettivi amanti – cui si deve dar forma, che si deve alla lettera pensare. E per farlo bisogna sgombrare il campo da forme di sapere superate ma tuttora potenti, attivarne di nuove, prendere posizione rischiando il posto, la reputazione e la carriera. Per restare fedele alla verità di Goethe, divenuta frattanto la sua verità, Benjamin ha dovuto liquidare la
filosofia della vita nelle declinazioni sia di Dilthey che di Bergson, schierarsi contro Stefan George, ripensare la nozione d’esperienza, chiamare in causa Freud, elaborare una interamente nuova teoria della critica scomodando Kant, Fichte, Novalis e Schlegel. E infine mettere Goethe contro Goethe, abbatterne l’immagine olimpica e serena e farne emergere quella angosciata e tragica. Se ho potuto sostenere che ogni testo è da questo punto di vista un’autobiografia, ciò non va inteso nel senso diltheyano: non si tratta di porre il genere dell’autobiografia o della biografia a fondamento delle scienze dello spirito per dare nuova linfa vitale a sistemi della cultura e dell’organizzazione societaria che tendono nella modernità a meccanizzarsi e a naturalizzarsi e non si tratta neppure di innalzare una barriera di Erlebnisse per proteggere la cittadella interiore e il foro coscienziale dalla crescente disumanizzazione delle forme di vita metropolitane. Il testo è autobiografico perché è forma della sopravvivenza del corpo vivente: non si dovrebbe neppure chiamarlo auto-bio-grafico quanto piuttosto alio-tanato-grafico, e non solo perché come diceva Rimbaud, io è un altro, ma soprattutto perché il soggetto di scrittura è un sopravvissuto, non alla vita, ma alla morte stessa che come sappiamo può essere anche produttiva, operosa, può trasformare il nulla in essere. La scrittura è sopravvivenza anche a questa morte e la condizione del corpo scritto non è quella del morto, ma quella del morente, di chi o cosa non muore ma continua a morire. Altrimenti per chi sperare ancora? D.: A proposito di questo particolare ambito “spettrale” dell’indagine filosofica, e a partire da questa disposizione, non onirica, ben inteso, ma di “veglia” alla trascendenza in virtù del pensare, potremmo articolare la questione nel modo seguente: da una parte si estende lo sfondo indeterminato dell’esistenza, o degli elementi, dall’altra ciò che la determinazione dell’esistente è in grado di suscitare. Si tratta a ben vedere di una filosofia esperiente attuata da un soggetto la cui volontà è quella di porsi quantomeno in un dialogo spasmodico ed inquieto con ciò che lo circonda, o il cui tentativo – quando maggiore è lo sforzo – è quello di risalire al senso di un principio ultimo e radicale. Su tutto permane il desiderio di perseguire una traiettoria, un disegno in rapporto agli infiniti percorsi e alla possibilità delle “diffrazioni” che di volta in volta la presenza, la parola, l’opera, il testo è in grado di suggerire in ognuno di noi; magari per constatare e affermare poi ognuno a partire dalla propria esperienza di sé con altri, per un verso la propria insofferente estraneità all’essere, per un altro il proprio costitutivo disorientamento (se non addirittura, come Lei suggerisce, l’“inconsuetudine” della “malattia”, lo scacco) nell’infinita concatenazione dei riferimenti e delle inesauribili relazioni in rete. Condivide il fatto che il duplice esito in questo possibile scenario sia di per sé il tratto tipico ed imprescindibile del pensiero tragico rispetto al quale Lei si è più volte accostato? R.: Quello della tragedia, o per essere più precisi del ‘tragico’, è uno fra gli esempi più vistosi della necessità per un pensiero che voglia afferrare il proprio tempo di essere anacronico o, per dirla con Nietzsche, ‘inattuale’. L’autocomprensione del moderno ha pronunciato subito il verdetto: la tragedia come fenomeno poietico-
politico era cosa del passato, la scena moderna non avrebbe mai più visto qualcosa di simile ad una tragedia antica. Anzi, stando a Hegel, la tragedia segna la fine della bella eticità della polis antica e inaugura il lungo periodo storico dominato dalla ‘potenza della scissione’ la cui conciliazione, se mai sarà possibile, spetterà forse al pensiero e non certo all’arte drammatica o all’arte in generale. Come è noto Peter Szondi ha compendiato questa situazione nella tesi secondo cui, se a partire da Aristotele fino ad arrivare sulle soglie della modernità si era avuto a che fare con una poetica della tragedia – una teoria della tragedia certo, ma anche un manuale d’istruzione su come scrivere tragedie che fossero poi rappresentate su di una scena reale – , a partire da Schelling, invece, al posto della tragedia subentra una filosofia del tragico, non più tragedie ma un’idea del tragico, vale a dire il tragico come idea. Ho provato a radicalizzare questo movimento duplice – dialettico se si vuole – per cui, mentre non si può fare altro che dichiararne la morte, la tragedia viene ritenuta talmente necessaria all’autocomprensione del moderno da spingere i suoi interpreti più acuti a farla sopravvivere a qualunque costo, fosse anche quello spettrale del pensiero filosofico, sostenendo che lo sforzo di assicurarle un avvenire non si era accontentato della sola forma del concetto ma aveva provato a utilizzare i generi più diversi e alle volte anche più lontani dalla forma tragica, e cioè il romanzo (il caso delle Affinità elettive di Goethe di cui si è già parlato), la traduzione (l’esperienza di Hölderlin che di fronte al fallimento dell’Empedocle decide di tradurre, si sa con quale stravolgimento della lingua tedesca, l’Antigone e l’Edipo Re di Sofocle aggiungendo delle ‘note di traduzione’ che collocano il tragico nel punto di disgiunzione dell’antico e del moderno), il commento (le pagine hegeliane della Fenomenologia dedicate ad Antigone), il rifacimento-ripetizione (la riscrittura parodica dell’Antigone da parte di Kierkegaard in EntenEller), il saggio e l’aforisma (dalla Nascita della tragedia e l’esperienza wagneriana di Bayreuth ai frammenti tardi sull’età tragica nell’opera di Nietzsche). Se si aggiungono le opere drammatiche di Kleist, le pagine di Schopenhauer nel Mondo, quelle di Lukàcs dell’Anima e le forme, ma soprattutto l’interpretazione intrecciata della tragedia antica e del Trauerspiel barocco nell’omonima opera di Benjamin e la lettura dell’Antigone sofoclea offerta da Lacan nel seminario dedicato al tema dell’etica della psicoanalisi, si avrà il quadro pressoché completo del materiale che ho chiamato in causa per provare a dipanare uno dei paradossi più persistenti della modernità: il bisogno spasmodico del tragico in un’epoca il cui atto di nascita coincide con l’abbandono della tragedia come dispositivo reale per la soluzione dei conflitti. Impossibile qui ripercorrere uno per uno e punto per punto tutti questi momenti che hanno scandito la storia del tragico moderno. Ma per rispondere alla Sua domanda vorrei soffermarmi su un tema sollevato da Lacan verso la fine del seminario sull’etica della psicoanalisi e che potrebbe gettar luce sullo statuto della soggettività moderna. Nell’ultima lezione Lacan riassume in tre tesi il percorso compiuto intorno all’etica: 1) la sola cosa di cui si possa esser colpevoli è di aver ceduto sul proprio desiderio; 2) l’eroe è colui che può impunemente essere tradito; 3) ciò che differenzia l’uomo
comune dall’eroe tragico è il tradimento che il primo commette quasi sempre. Il tema in questione è appunto quello del tradimento ed è sintomatico notare come esso era apparso ai primordi della riflessione sul tragico moderno: nelle Note sull’Edipo Hölderlin colloca il culmine dell’esperienza tragica nel punto in cui «affinchè il corso del mondo non abbia lacune e la memoria dei celesti non si esaurisca», è necessario che «il Dio e l’uomo si comunichino nella forma dell’infedeltà che tutto dimentica». In questo momento «l’uomo dimentica se stesso e il dio e si ribella a se stesso, seppure in modo sacro, come un traditore». Se il moderno è l’epoca dell’assenza degli dei, cioè dello sfaldamento di ogni fondamento certo, la risposta di Hölderlin è che l’unico modo per continuare ad avere memoria degli dei è quello dell’oblio, l’unica fedeltà possibile il tradimento. Si resterà fedeli divenendo infedeli. In altri termini, per non tradire il proprio desiderio di cui si è ormai scoperto il carattere di ‘mancanza ad essere’, di assenza di fondamento e quindi il suo essere privo sia di un oggetto che di uno scopo che non sia un godimento in pura perdita, si dovranno tradire sia gli dei della città sia quelli familiari e si resterà fedeli a quelle leggi che, per essere ‘non scritte’, non hanno ‘forza di legge’ e poggiano soltanto su una fedeltà singolare, talmente singolare da richiedere la morte. Con queste ultime osservazioni ho di fatto introdotto gli elementi essenziali della lettura lacaniana della tragedia sofoclea. Antigone è in primo luogo il desiderio reso visibile, condotto cioè nella figura della fanciulla vergine al massimo fulgore attraverso la potenza dell’arte, ma anche esposto in tutta la sua tragicità. Le etiche della modernità, infatti, quella libertina e quella di Kant, solo apparentemente contraria alla precedente, hanno messo l’accento sul carattere contradditorio del desiderio umano, sul fatto cioè che, se esso è la trasgressione della legge, è però proprio la legge a comandarlo. La legge – divina, umana, non importa –, ossia ciò che dovrebbe fare da garante dell’agire umano, è al contrario fonte di sconforto: i suoi enunciati sono doppi, hanno la forma di un double bind, di un doppio vincolo, ordinano la loro stessa violazione. La tragedia, l’esperienza tragica della vita, dal suo canto, altro non è che la messa in scena nella carne dell’eroe di quell’impossibile che è la contraddizione: più cerco di sfuggire alla legge familiare che mi vuole parricida e incestuoso, più sprofondo mio malgrado nel delitto abominevole. Più mi sforzo di rispettare la legge più divento criminale, ma all’inverso più cerco di evitarne gli effetti, più cerco di sospenderla, più sono colpevole. Non è un caso allora che per Benjamin il culmine dell’esperienza tragica fosse rappresentato dal momento in cui l’eroe si rendeva conto di essere migliore dei suoi dei, una acquisizione così terribile da togliere all’istante la parola: in che lingua dire il tradimento degli dei? Nella tragedia antica la contraddizione si scioglieva: in Eschilo e in Sofocle (con Euripide, come si sa, incomincia un’altra storia) è presente un dispositivo, politico nel primo, religioso nel secondo, che permette di saltare al di là dell’impossibile. La catarsi funziona. Ma nel moderno? Nel moderno la religione è una moneta fuori corso e il politico è lo stato leviatano: essi reprimono, tutt’al più rimuovono, in nessun caso sciolgono la contraddizione tragica. Al loro posto è subentrato quello che Lacan chiama il servizio dei
beni, l’illusione cioè che la società possa produrre un tale ammasso di oggetti che il desiderio a forza di goderne sarà alla fine più che soddisfatto. Basta girarsi intorno per sapere che non è così: l’impasse del desiderio continua a disturbare i soggetti umani, il tragico ritorna sotto smentite spoglie. All’altezza del seminario sull’etica Lacan attribuisce alla sublimazione artistica la capacità di forzare i confini dell’etica moderna attestata sul rinvio infinito fra la legge e la trasgressione, l’imperativo e il desiderio. Gli esempi sono due: l’amor cortese e la tragedia antica, in particolare l’Antigone. Tralascio il primo. Ma per la seconda la domanda è: quale torsione si dovrà imprimere alla tragedia perché realizzi nel moderno la sua peculiarità? Poiché non c’è conciliazione di nessun tipo, né religiosa né politica, la contraddizione verrà sciolta prendendo sul serio l’imperativo etico: se esso comanda il desiderio la cui realizzazione nel caso di Antigone comporta la prosecuzione del delitto – la maledizione che incombe sulla casa di Labdaco e che si trasmette di generazione in generazione attraverso i rapporti sessuali intempestivi e/o incestuosi – l’eroina non tenterà in nessun modo di tradirlo, ma caparbiamente si interstardirà nella sventura perché solo così potrà condurlo ad esaustione. Il desiderio non si concilia, si consuma. Nella decisione di seppellire costi quel che costi Polinice, Antigone seppellisce il traditore della patria e così resta fedele al desiderio che l’ha resa sorella di suo padre, incestuosa come sua madre, complice, in nome della sorellanza familiare, dei nemici dei suoi fraterni cittadini. Con buona pace di Calamandrei e di tutti i suoi seguaci, Antigone è una criminale, tradisce i suoi ma lo fa per non tradire il desiderio, per restare fedele. Ed è per questo che tutti la tradiscono: Ismene, Creonte, il coro. Solo Emone non l’abbandona, e per questo muore. L’uomo comune, conclude Lacan, non fa che tradire, svende il desiderio per un piatto di lenticchie senza guadagnarne però neppure la primogenitura: l’eredità, come diceva Benjamin, l’abbiamo già portata al monte di pietà. Ma basta che un nonnulla gli rinfreschi la ferita che sarà costretto suo malgrado a perseguire il desiderio: allora per non tradire tradirà e sarà tradito. Che ad aiutarlo ci sia, in mancanza di meglio, almeno un lettino su cui stendersi e una presenza silenziosa alle sue spalle pronta a raccoglierne il dolore.