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Gennaio - Febbraio 2011, N째 31 Febbraio - Marzo n째 32, 2011


Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale

Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Marzo-Aprile 2011, n° 33. (Numero 34 2 Maggio 2011) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace


I

n d i c e

Le celebrazioni del 150° dell’unità, la guerra libica e il PD di Elio Matassi

Il potere giudiziario in uno stato liberale di Mauro Visentin

La Sinistra in Germania di Paolo Soldini

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I sacerdoti della scienza di Andrea Tagliapietra

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Alcune riflessioni su L’uomo che voleva essere colpevole di Carla Canullo

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Il senso oggi della questione sociale di Andrea Margheri

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Le celebrazioni del 150° dell’Unità, la guerra e il Pd di Elio Matassi

Nei primi mesi del 2011 l’accelerazione della crisi politica italiana, divenuta ormai crisi sistemica, è stata parallela alle celebrazioni del 150º anniversario dell’Unità d’Italia. In questo contesto ha assunto sempre più popolarità e un riconoscimento condiviso la figura del Presidente della Repubblica, quale momento esemplarmente simbolico dell’Unità celebrata. La fronda leghista, la passività dimostrata dal blocco neopopulista oggi al potere hanno dimostrato in maniera inequivoca fino a quale punto venga minacciata l’unità raggiunta nel passato. La stessa scelta federalista con tutte le sue ambiguità sta a dimostrare quanto sia fragile l’equilibrio raggiunto e quanto sia vulnerabile di fronte alle aggressioni crescenti che vengono mosse dal seno stesso della maggioranza governativa. Anche la situazione internazionale è in movimento su tutti i piani; la


crisi libica con la conseguente scelta dell’ONU di proteggere gli insorti anti-Geddafi, che ha provocato crepe consistenti nella maggioranza governativa, ha di fatto rafforzato il ruolo di tutte le opposizioni parlamentari che hanno fatto una scelta molto trasparente a favore degli irrinunciabili diritti umani. Le recentissime elezioni regionali nella Repubblica federale tedesca hanno premiato i Verdi e un’idea di sinistra rinnovata ma altrettanto perentoria nella sua identità, lo stesso è avvenuto nella elezioni cantonali francesi. Interessanti sviluppi sta assumendo anche la nuova leadership, del Partito labourista inglese, con il ripudio radicale di ogni prospettiva di terzietà (alla Blaire), per assumere una fisionomia sempre più marcatamente di sinistra. La catastrofe nucleare giapponese ha contribuito in maniera decisiva a un ripensamento complessivo dello sviluppo europeo (con l’eccezione della Francia) e avrà un’incidenza diretta anche sulle scelte dell’elettorato italiano, in particolare per l’appuntamento dei referendum previsti per la prima parte di giugno. Sono tutte constatazioni di ciò che sta avvenendo a livello internazionale e nel contesto nazionale. Sembra di assistere, sul piano delle tendenze culturali di fondo , a un ritorno dell’etica e della politica, della ‘grande politica’. Dopo che nella filosofia vi era stata, per così dire, una svolta antitetica – nel postkantismo l’etica sembrava essere diventata sempre più una disciplina specialistica, accademica, tra le poche figura del Novecento che avevano toccato questo tema vi erano quelle di Bergson con Le due fonti della morale e della religione, e di Max Scheler, Il formalismo dell’etica e l’etica materiale dei valori –, gli autori più rilevanti del Novecento, tra cui Husserl, Heidegger, Whitehead non si erano interessati direttamente ed esplicitamente di questo tema. Da alcuni decenni il trend culturale sembra essersi capovolto, si assiste a un ritorno sempre più frequente dell’etica, anche se in taluni casi, tale rinascenza assume tratti regressivo-parodistici, basti ricordare il caso recentissimo, nel nostro panorama nazionale, del movimento dei cosiddetti, ‘responsabili’, che sono diventati il terzo punto di riferimento dell’attuale maggioranza governativa. Il ritorno dell’etica nella scena storica contemporanea è stato, in molti casi, parallelo all’esplosione dell’antipolitica, che per la sua genesi, ha avuto molte ragioni: il discredito della politica è stato profondamente influenzato dalla crisi progressiva della rappresentanza, imposta dall’alto da oligarchie percepite sempre più come estranee alla società civile. Una tale spiegazione può essere utile per chiarire gli aspetti salienti della politologia contemporanea e, per esempio, di una personalità complessa come quella di Cornelis Castoriadis, “Abbiamo bisogno di un’etica dell’autonomia che non può che essere intrecciata con una politica dell’autonomia. L’autonomia non è la libertà cartesiana, ancor meno quella sartriana, folgorazione senza spessore e senza affetto. L’autonomia a livello individuale è la nuova fondazione di un rapporto tra se stessi e il proprio inconscio, non si tratta di eliminare quest’ultimo ma di riuscire a filtrare quanto dei desideri passa nei nostri atti e nelle nostre parola”. Il ritorno della grande politica nello scenario contemporaneo non può che essere contrassegnato da un’autonomia individuale, concepita in maniera radicale, e, dunque, privata e liberata dalle soggezioni fuor-


vianti della rappresentanza, e vincolata, invece, a una partecipazione effettiva, una partecipazione che dovrà essere l’esatto controaltare di una vita pubblica, divenuta, come recita uno dei nostri politologi più avvertiti, Carlo Galli, “una scena in cui si recita a soggetto un dramma populistico (con una regia routinaria o carismatica, secondo le circostanze) in cui il cittadino è apparentemente attore e protagonista, e non spettatore, mentre in realtà è una marionetta mossa dai fili invisibili dei poteri opachi (in primo luogo economici, ma non solo) che hanno organizzato quella che Baudrillard definì La società dei simulacri. La dialettica fra astratto e concreto, fra teatro e politica – che fa sì che la politica sia lo spazio in cui la durezza degli interessi , delle crisi, delle catastrofi, tende a presentarsi come narrazione (mito) e come azione (dramma), cioè come forma – diventa aperta menzogna”. Il Partito Democratico dovrà far tesoro di tali riflessioni, del nuovo dinamismo dello scenario internazionale che sta riproponendo l’idea di ‘sinistra’ in tutte le sue implicazioni e per tutte le soluzioni. Un’idea di ‘sinistra che nel panorama nazionale dovrà contemplare un forte respiro unitario, patriottico-risorgimentale, come ricorda saggiamente in tutte le circostanze il nostro Presidente della Repubblica, che sta saldando con la sua figura il momento patriotticounitario e quello etico, da cui la sempre più crescente popolarità quale antidoto ai veleni del blocco populista’. Il Partito Democratico dovrà riuscire a avere contestualmente questo sguardo patriottico-nazionale,oggi sottoposto a più di un rischio, e una vocazione spiccatamente europea; non può esservi contraddizione alcuna tra queste due prospettive, che ricordano non casualmente uno dei nostri periodi più fecondi, il Risorgimento, pur con tutte le ombre che nessuno si sognerebbe di occultare o di negare. Il ritorno allo spirito unitario del Risorgimento da contestualizzare in un’ottica europea è la via obbligata, l’unico percorso credibile che il Partito Democratico potrà darsi. Un percorso su cui dovrà essere commisurata anche la strategia delle alleanze.


Il potere giudiziario in uno stato liberale di Mauro Visentin

Il governo ha varato un disegno di legge costituzionale per la riforma del sistema giudiziario italiano. E’ fin troppo facile prevedere che si andrà ad uno scontro dall’esito incerto, sia per quanto riguarda l’iter parlamentare (più per i tempi che per la tenuta della maggioranza) sia perché la sua eventuale approvazione richiederebbe, verosimilmente, un passaggio referendario (senza il vincolo del quorum). Non è compito né interesse di chi scrive evadere dal campo (ahimè, quanto ristretto!) delle sue specifiche competenze ed entrare nei tecnicismi di un articolato di norme e disposizioni che integrano e modificano in profondità il dispositivo costituzionale relativo all’amministrazione della giustizia, alla definizione del ruolo dei magistrati e alle competenze nonché alle responsabilità degli stessi in materia di istruzione dei procedimenti penali e di irrogazione delle sanzioni riguardanti i


reati. Del resto, una sorta di stanchezza, che credo comune a molti, mi impedisce di tornare per l’ennesima volta a ripetere cose che sono ormai da anni entrate nel circuito del dibattito politico senza che questo sia, in tutto il tempo trascorso, minimamente progredito. E piuttosto di esaminare i diversi punti di questo progetto di riforma, dicendone tutto il male che ritengo si debba dirne (che se ne è detto e se ne dirà) e aggiungendo argomentazioni note e scontate cui si oppongono (si sono opposte e continueranno ad opporsi) obiezioni altrettanto scontate, vorrei tentare di definire (almeno dal punto di vista delle esigenze che devono o dovrebbero essere soddisfatte da un sistema giudiziario di impronta liberale) il profilo teorico di un ordinamento giuridico liberal-democratico. I capisaldi del ruolo che l’amministrazione della giustizia deve assolvere in un sistema politico di questa natura direi che sono i seguenti: deve contribuire al bilanciamento dei poteri; deve garantire l’imparzialità del giudizio; deve assicurare la certezza della pena. Nessuno di questi tre punti irrinunciabili può essere realizzato senza che la sua attuazione dia luogo a problemi e induca a sollevare questioni. Vediamo partitamente. Nel bilanciamento dei poteri, il ruolo del potere giudiziario è essenziale. Qualcuno ha di recente tentato di negarlo, sottolineando come in Locke e in Montesquieu il potere giudiziario o non è menzionato (perché per Locke, ad esempio, il terzo potere pubblico è quello federativo, non quello di giudicare le violazioni delle leggi e di comminare sanzioni al riguardo) o se lo è, lo è con una serie di cautele. L’intento, evidentemente partigiano, di una simile affermazione rende impossibile (e soprattutto inutile) entrare nel merito della questione impostata così, ricordando ciò che è ovvio, ossia che il sistema dei poteri come lo conosciamo noi è tipico degli Stati costituzionali e che le monarchie europee, più o meno assolute, dal contrasto alle quali è nato il liberalismo moderno, ponevano il problema della libertà politica, in primo luogo, in termini di tutela dal potere sovrano (che era il potere del monarca) piuttosto che di tutela del potere sovrano (in questo caso quello del popolo), ossia di salvaguardia delle sue prerogative attraverso un meccanismo di controlli incrociati che renda impossibile l’usurpazione di qualcuno ai danni di tutti. Ma sul fatto che il potere giudiziario è un potere (e un potere fondamentale) non possono correre dubbi (per Locke è addirittura la fonte o l’origine del potere politico, come potere naturale connesso al ruolo paterno), e il potere di giudicare è, infatti, uno degli attributi caratteristici della sovranità, che in alcuni casi si è a tal punto fuso con essa da identificarsi con il potere politico senz’altro (basti pensare ai Giudici della storia ebraica, oppure, sempre su questo piano, ai Giudicati della Sardegna medioevale). Quanto al fatto, che viene abitualmente invocato per sostenere che la nostra Carta Fondamentale non contempla la possibilità di considerare la funzione del giudice come espressiva di un vero e proprio potere costituzionale, ossia che in essa (art. 87) la magistratura viene definita un “ordine”, basta, a smentire una simile, semplicistica e illogica lettura il fatto che, nel suddetto comma dell’art. 87 il testo della costituzione asserisce espressamente che tale ordine è “autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Il riferimento ad “ogni altro potere”, come, appunto, recita testualmente il dettato del comma al quale in questi


casi si è soliti appellarsi, sta ad indicare, inequivocabilmente, che la Costituzione italiana intende la funzione giurisdizionale come emanazione di un potere (quello giudiziario) di cui è titolare un ordine, costituito dall’insieme dei magistrati, che lo esercita attraverso i suoi singoli membri, al riparo da qualsiasi interferenza che un qualunque altro potere (come quello esecutivo o quello legislativo) volesse cercare (o fosse in grado) di realizzare ai suoi danni (e a proprio vantaggio). D’altra parte, il nostro ordinamento costituzionale non ha previsto che questo potere e il suo esercizio venissero assicurati da una fonte di legittimazione sovrana, cioè dal suffragio popolare, come accade, per esempio, negli Stati Uniti. Allo stesso modo, del resto di quanto avviene per il potere esecutivo, che, da noi, dipende dalla maggioranza parlamentare e non direttamente da quella degli elettori. Tuttavia, se quest’ultima scelta può rappresentare, dal punto di vista di un perfetto equilibrio tra poteri, un limite del nostro sistema per quanto riguarda il rapporto fra legislativo ed esecutivo, con riferimento al potere giudiziario essa appare invece opportuna proprio sotto il profilo di una più coerente applicazione del principio liberale, perché dettata dall’esigenza di sciogliere l’esercizio della funzione giudiziaria da ogni possibile vincolo di carattere politico, precisamente ai fini di una miglior tutela della sua indipendenza. L’autonomia del potere giudiziario dal potere politico è garanzia del principio cardine di ogni possibile forma di sistema istituzionale ispirato al liberalismo: l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. E del fatto che essendo la sovranità della legge (della legge, si badi, non del corpo elettorale, che, infatti, esercita la propria sovranità, “nei limiti della legge”) assoluta (nel senso che le regole che istituiscono, garantiscono e definiscono l’orizzonte della legge sovrana, rientrano in tale orizzonte), nessun potere lo è, perché ogni potere (compreso quello giudiziario) è ad essa sottoposto. Ora, l’esercizio di questo terzo potere consiste nell’interpretazione e applicazione della norma giuridica. E qui sorge un primo problema. Un problema che potremmo definire (come gli altri con i quali dovremo tra poco confrontarci) di ordine concettuale. L’interpretazione della legge, infatti, può dare luogo, da parte del potere giudiziario, all’assunzione di un ruolo legislativo vicario, che può giungere a rivestire un peso e un’incidenza di rilievo ancora maggiore là dove (come nella giurisprudenza anglosassone, ad esempio) le sentenze dei giudici assumano il rango di precedenti vincolanti. Un modo per ovviare a questo squilibrio, che sembra alterare il bilanciamento fra i poteri a favore della magistratura, è quello, adottato da noi, di dilatare enormemente il campo della legiferazione, moltiplicando a dismisura il numero delle norme e cercando di individuare anticipatamente tutte le possibili fattispecie alle quali un provvedimento può applicarsi. E’, però, una soluzione, spesso peggiore del male, visto che rende lento, inefficiente e soprattutto elefantiaco il processo legislativo, lasciando il più delle volte senza risposta tempestiva esigenze che attendono da tempo di essere regolate normativamente. Rispetto a questi esiti, la supplenza legislativa o paralegislativa del potere giudiziario appare un male minore, tanto più che non vincola in alcun modo l’autonomia del parlamento, il quale può, ogni qual volta lo voglia, legiferare su una materia, senza tener conto delle sentenza che, in assenza di una normativa specifica, si sono, per analogia, ispi-


randosi a norme concernenti materie affini, accumulate al riguardo. Più complesso e di più difficile definizione ai fini del miglior esito possibile per un corretto bilanciamento fra funzione legislativa e funzione giurisdizionale, il problema dei procedimenti a carico di parlamentari sui quali ricada il motivato sospetto che si siano macchiati di qualche reato. La cosiddetta immunità parlamentare è nata, originariamente, per tutelare i singoli membri del parlamento le cui iniziative risultassero sgradite al monarca (dunque agli albori delle moderne assemblee legislative e in presenza di monarchie non ancora compiutamente costituzionali). E’ giustificata oggi, negli attuali sistemi politici di stampo liberal-democratico? Una risposta cauta, dal punto di vista teorico (in senso filosofico-concettuale e non giuridico), potrebbe essere quella che ciascun magistrato essendo, come uomo e cittadino, inevitabilmente soggetto, suo malgrado, all’influenza di pregiudizi politico-ideologici, un filtro fra l’iniziativa inquirente del pubblico ministero e la libera espressione dell’attività politico-legislativa di ogni singolo esponente del Parlamento può, ancora oggi, essere opportuno e perciò richiesto dalla logica della divisione liberale dei poteri. Ma il problema più grosso è quello del modo in cui si debba garantire l’autonomia e la terzietà di questo filtro. Sembra evidente che una maggioranza parlamentare così come il governo che essa esprime non siano in grado di fornire garanzie adeguate di imparzialità nell’esercizio di una simile funzione di salvaguardia. Ma neppure la corrispondente minoranza lo sarebbe. Pertanto, onde evitare il monstrum giuridico di un potere che sia in causa sui iudex, sarebbe assolutamente sconsigliabile che, come avviene il Italia (per la parte di sua residua competenza dopo l’abolizione dell’autorizzazione a procedere, che potrebbe, su nuove basi e rispettando il criterio che stiamo per definire, essere utilmente reintrodotta, almeno in linea di principio) e nella maggiore parte dei parlamenti moderni, la funzione di filtro fosse affidata ad una commissione parlamentare. D’altra parte, le competenze giuridiche che l’esercizio efficace e non pregiudicato di tale funzione richiede indurrebbero a supporre che i più titolati ad esercitare un simile controllo fossero i magistrati stessi. Ma anche in questo caso l’esito sarebbe quello di una violazione del principio di imparzialità e di equilibrio tra i poteri. Come uscirne? Un soccorso potrebbe venire proprio da uno dei capitoli più contestati del presente disegno di legge costituzionale (che riguarda un tema da sempre oggetto – e soprattutto negli ultimi anni – di furiose polemiche politiche): quello relativo alla separazione delle carriere di giudici togati (magistratura giudicante) e pubblici ministeri (magistratura inquirente). La questione ha altresì un impatto molto significativo riguardo alla seconda esigenza del nostro iniziale elenco che concerneva le tre istanze di fondo cui deve ispirarsi il sistema giuridico di una democrazia liberale, ovvero l’imparzialità del giudizio. La ragione per la quale la divisione o separazione delle carriere (come pure, anche se in misura minore, quella delle funzioni, che della prima è una specie di espressione attenuata) ha sempre suscitato polemiche furenti è legata all’idea che attraverso questo meccanismo si sarebbe, alla fine, giunti al risultato di sottoporre l’ufficio del pubblico ministero all’autorità politica, e in particolare, attraverso il ministero di grazia e giustizia, all’esecutivo. Un esito del genere (che traspare


abbastanza evidentemente come uno degli intenti, neppure troppo dissimulati, della proposta di legge dalla cui presentazione, da parte del governo, queste considerazioni hanno preso le mosse) costituirebbe un pregiudizio esiziale per il principio della separazione dei poteri ai fini di un loro controllo reciproco e incrociato, ossia per il principio basilare dell’ordinamento politico-giuridico che ha di mira la definizione di un potere non assoluto al cui profilo si ispira e deve ispirarsi ogni forma possibile di liberaldemocrazia. Ma è un esito necessario? Ossia, è un esito che discende necessariamente da un simile meccanismo (quello, cioè, che prevede la separazione delle carriere di magistrati giudicanti e magistrati inquirenti)? E’ un esito possibile e assai rischioso, ma non c’è dubbio che esistano, in linea di principio, i modi e le forme per poter evitare il realizzarsi di questa eventualità, disinnescandone così la minaccia. Indubbiamente, l’ipotesi (formulata nella proposta di legge del governo) di due CSM può aprire la strada ad una soluzione del problema. A condizione, però, che i compiti di questi due organismi siano arricchiti e non impoveriti, fino a farne, a tutti gli effetti, due organi di autogoverno di un potere indipendente ed autonomo. La composizione potrebbe essere definita in questo modo per ciascuno dei due organismi: un terzo di giudici togati, un terzo di magistrati inquirenti, un terzo di “laici”. Il Presidente della Repubblica potrebbe presiedere entrambi e il vicepresidente dell’uno e dell’altro essere un giudice togato. I provvedimenti disciplinari a carico dei pubblici ministeri potrebbero essere valutati dal CSM dei togati e, viceversa, quelli a carico dei giudici giudicanti dal CSM degli inquirenti. In un simile quadro l’autonomia del parlamento e dei suoi membri sarebbe pienamente garantita se la commissione per le autorizzazioni a procedere in caso di procedimenti a carico di parlamentari fosse costituita da una commissione mista, composta per metà di giudici giudicanti (per esempio, giudici di cassazione), indicati dal loro CSM, e per l’altra metà di membri “laici” designati dal parlamento secondo una logica di rappresentanza dei diversi gruppi proporzionale alle loro dimensioni. Una separazione così congegnata fra magistrati di un tipo e magistrati dell’altro potrebbe anche assicurare un maggior rispetto del principio di terzietà del giudice togato nei confronti di accusa e difesa e, quindi dell’esigenza di imparzialità del giudizio. Naturalmente, una vera terzietà, e per diversi motivi, è chiaramente impossibile. In primo luogo, perché il magistrato inquirente, nei procedimenti penali, difende, davanti al giudice terzo, il principio del rispetto della legge e quindi l’interesse dello Stato, ossia l’interesse pubblico (ovvero, se si preferisce, quello collettivo o generale). Una funzione analoga (sebbene nei due casi l’obiettivo sia perseguito con strumenti diversi e rivestendo ruoli diversi) a quella che assolve, in linea di principio, il magistrato giudicante. Mentre l’avvocato difensore tutela, direttamente, un interesse privato e soggettivo, e solo indirettamente un interesse generale (quello del diritto di tutti ad un giudizio equo e ad una difesa efficace oltre a quello, fondamentale, che un innocente non venga condannato per errore o a torto). A questo si aggiunga che una perfetta parità fra accusa e difesa deve, per essere tale, consentire alla difesa di svolgere indagini per proprio conto. Una difesa di questo tipo comporterebbe, però, costi molto più elevati per coloro che dovessero avvalersene e introdur-


rebbe una discriminante iniqua fra coloro che, essendo in grado di sostenerli, potrebbero ottenere una difesa migliore e più efficace (e dunque una maggior tutela) e coloro che, non essendo nelle condizioni di far fronte ai costi di una simile difesa, dovrebbero ripiegare su alternative meno onerose (accentuando, così, e aggravando la discriminazione che già esiste tra coloro che possono permettersi il costo di un avvocato privato e coloro che, invece, devono ricorrere all’assistenza di un difensore d’ufficio). Per questo motivo, il nostro ordinamento prevede che il pubblico ministero vada alla ricerca della verità (ovviamente di quella verità, molto limitata e relativa, che è la verità dei fatti, così come il magistrato giudicante andrà alla ricerca della verità processuale), non delle prove di colpevolezza. In altre parole, il giudice inquirente non sposa un partito, quello dell’accusa, da subito: giunge, attraverso il vaglio della documentazione probatoria cui le indagini hanno permesso di mettere capo, ad una specifica imputazione nei confronti del reo presunto e solo a partire da quel momento diviene avvocato dell’accusa. Tuttavia, è innegabile che lo stretto rapporto con la polizia giudiziaria abbia finito con il trasformare, progressivamente, il giudice che conduce le indagini in una specie di poliziotto. Ora, è inevitabile che le polizia, nello svolgere gli accertamenti necessari all’individuazione dell’autore di un reato, si affidi a mezzi e strumenti di indagine che contemplano anche varianti eterodosse, non sempre ineccepibili dal punto di vista formale e tali da orientare le indagini abbastanza precocemente, finendo con il consolidare, talvolta (e di norma piuttosto spesso), atteggiamenti pregiudicati sulla cui base l’inquirente assume in modo graduale la veste di controparte dell’indagato o indiziato, abbandonando quella di funzionario pubblico rivolto solo alla ricerca imparziale tanto delle prove o degli indizi a carico quanto degli elementi a discarico. Fattori di questo genere sono il “fiuto”, l’intuito, l’interrogatorio di testimoni reticenti condotto con metodi volti a farli cadere in contraddizione ecc. (riguardo a quest’ultimo punto, sarebbe da rovesciare la vigente normativa, consentendo interrogatori di polizia – che non potrebbero, però, assumere valore giuridico di testimonianza, e che sarebbero, dunque un puro strumento di indagine – anche senza il legale dell’interrogato, mentre quelli condotti dal giudice inquirente – unici a poter rivestire il carattere di prova testimoniale – dovrebbero prevedere sempre e comunque la presenza di un difensore di fiducia). E’ bene dire innanzitutto che la polizia deve poter condurre le indagini con tutta la libertà consentita ad un’applicazione largamente discrezionale delle direttive impartite dall’autorità giudiziaria. Ma se a fare uso di questa discrezionalità è l’autorità stessa che dovrebbe vigilare sul rispetto delle procedure e dei diritti della difesa, occorre allora riconoscere che il rapporto che si è venuto stringendo nella conduzione delle indagini fra magistratura inquirente e polizia richiede che esso venga ripensato ispirandosi, magari, al modello che contraddistingue i sistemi giuridici cosiddetti di common low, come quello inglese. In altre parole, sarebbe preferibile che il pubblico ministero, assommando in sé le caratteristiche del vecchio giudice istruttore e dell’attuale giudice per le indagini preliminari, rinunciasse alla conduzione diretta dell’inchiesta, delegandola alla polizia giudiziaria, di cui dovrebbe mantenere però il controllo, sia per


quanto riguarda l’esercizio dell’azione penale sulla base della notitia criminis, cosa che consentirebbe ad essa di iniziare ad investigare su un reato solo o per impulso o, comunque, con l’autorizzazione del giudice inquirente, sia per quanto riguarda tutte le varie fasi successive, sulle quali dovrebbe conservare il diritto di intervento e sindacato in base alle informazioni che gli dovrebbero essere regolarmente trasmesse dall’autorità di polizia. Sarebbe, in altri termini, fondamentale, ai fini di un corretto rapporto fra poteri e istituzioni e in vista della miglior tutela del principio basilare dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, che l’allentamento del rapporto fra magistratura inquirente e polizia giudiziaria non comportasse in nessun caso e comunque in nessuna forma il passaggio anche solo velato di quest’ultima sotto il controllo dell’autorità politica e, nella fattispecie, dei due ministri competenti, ossia quello degli Interni e quello di Grazia e Giustizia. Ci sono due ultimi aspetti che l’attuale disegno di legge costituzionale con cui la maggioranza intende riformare il sistema giudiziario sollecita a prendere in esame da un punto di vista teorico: l’obbligatorietà dell’azione penale e la responsabilità civile del giudice. L’obbligatorietà dell’azione penale è stata concepita dai padri costituenti per eliminare ogni sospetto di discrezionalità e partigianeria da parte del pubblico ministero nell’esercizio della sua funzione e anche, verosimilmente, per sottrarre al suo ufficio la responsabilità di decidere al riguardo, con il rischio di essere fatto oggetto di pressioni, intimidazioni, ricatti, minacce e quant’altro. Vero è, tuttavia, che con la crescita esponenziale dei reati e delle relative “notizie”, il giudice inquirente si è venuto a trovare nelle oggettive condizioni di dover operare una scelta a sua discrezione, decidendo un ordine di priorità nei reati da perseguire. In questa situazione, stabilire per legge la gerarchia delle violazioni del codice che richiedono l’avvio di un’azione penale può apparire come una conseguenza inevitabile al fine di continuare a garantire ciò che con l’obbligatorietà di tale azione, prevista costituzionalmente, i redigenti la nostra Carta Fondamentale si erano prefissi di garantire, ossia quanto abbiamo appena finito di ricordare. Ma si tratta di un’apparenza destinata a svanire non appena ci si soffermi con qualche attenzione sul carattere che una legge simile dovrebbe avere. Una tale norma, infatti può essere o inutilmente generica, limitandosi a riproporre una scala di gravità dei reati di puro buon senso e che dovrebbe, dunque, essere superfluo definire per via normativa, visto che in questo caso si dovrebbe poi, comunque, affidare la sua applicazione alla discrezionalità del magistrato nell’interpretarne le disposizioni, delegandogli il compito di adattarla alle diverse circostanze concrete in cui egli potrà venirsi a trovare nell’esercizio dei doveri inerenti alle funzioni di cui è investito. Oppure può essere concepita con una tale precisione di dettagli da non lasciare alcun margine alla discrezionalità del giudice inquirente (ammesso che questo sia possibile), e in tal caso rappresenterà una pericolosa violazione dell’autonomia del pubblico ministero nonché, in generale, del potere giudiziario, da parte di quello legislativo, che potrebbe avvalersene per sottrarre se stesso, o meglio le azioni dei propri esponenti al sindacato della legge e di chi è chiamato a farla rispettare. Per quanto riguarda la responsabilità civile del giudice, il pa-


ragone che si è soliti fare con quella cui sono soggetti i medici, gli impiegati e i professionisti che esercitano, a vario titolo, la loro professione in virtù di un’abilitazione pubblica conseguita attraverso il superamento di una prova prevista da una legge dello Stato è del tutto improprio. Come è facile mostrare a chiunque abbia la pazienza di riflettere e la buona fede di volerlo fare con il sufficiente grado di disinteresse e spregiudicatezza. Infatti, la responsabilità civile (che non si applica, com’è evidente ai casi dolosi, già sanzionati dalla legge penale) si fonda su una possibile e dimostrabile imputazione di imperizia, negligenza, incompetenza ecc. Ebbene, non si vede proprio in che modo in un’interpretazione e applicazione della legge, come quella che può, per esempio, desumersi o da un provvedimento di restrizione della libertà personale fondato sul convincimento che l’inquisito possa inquinare le prove o fuggire, oppure da una sentenza che contenga le motivazioni di un dispositivo sanzionatorio, sia possibile ravvisare gli estremi di qualcosa del genere. Si vuole forse togliere al magistrato (inquirente o giudicante) quella libertà e discrezionalità nell’interpretazione a applicazione della norma penale che è naturalmente connessa al suo ruolo e al suo ufficio? Si vuole paragonare un’interpretazione della legge diversa da quella che può essere fornita da un altro giudice a qualcosa come, che so, la dimenticanza di una garza o di un bisturi nell’addome di un paziente operato da parte del chirurgo che ha eseguito l’intervento? Senza contare che, con specifico riferimento al caso dei giudici togati, nell’eventualità di una condanna in primo grado non confermata in appello, il giudice di primo grado sarebbe automaticamente sconfessato dal suo collega di secondo grado e ciò potrebbe sempre essere fatto valere come l’equivalente di un giudizio periziale implicito sulla sentenza precedente pronunciata, che indurrebbe tutti giudici di primo grado a preferire in linea di massima l’assoluzione di un imputato alla sua condanna, tanto più se venisse introdotta la norma prevista dal disegno di riforma costituzionale appena proposto e reso pubblico dall’esecutivo, secondo la quale l’assoluzione in primo grado diventerebbe inappellabile da parte del pubblico ministero. Ma se una simile conseguenza fosse il risultato più di una forma di intimidazione alla quale il giudice si vedesse soggetto che del suo senso di responsabilità di fronte ad un caso privo di elementi di riscontro indubitabili, tutto questo potrebbe finire con l’incidere negativamente sulla certezza della pena e su risarcimento morale dovuto alle vittime del reato. Dalle cose dette, chiunque può valutare quanto o fino a che punto la riforma proposta si riprometta di introdurre principi che avvicinino il sistema giudiziario vigente all’ideale di una funzione giurisdizionale compiutamente rispondente alle esigenze di una vera liberaldemocrazia e quanto, viceversa, i nuovi principi che si intende introdurre lo allontanerebbero di fatto da questo ideale se venissero inseriti nella nostra costituzione. Comunque si giudichi questa proposta, appare, però, chiara una cosa: essa mescola, sagacemente, idee condivisibili, dal punto di vista al quale hanno cercato di attenersi con scrupolo le considerazioni espresse in queste righe, con il tentativo di sottoporre, direttamente o indirettamente, la magistratura inquirente al controllo politico del governo o del parlamento, e respingerla in blocco o più esattamente, respingerla senza contrappor-


le un disegno alternativo articolato in principi, norme e provvedimenti che possano consentire una realizzazione effettiva e completa, nonché più funzionale di quella attualmente prevista, del controllo reciproco fra poteri dello Stato sarebbe, dal punto di vista politico e anche concettuale, l’ultimo degli errori di pressapochismo, dilettantismo e imperizia nei quali un’opposizione apparentemente priva di idee sembra, fin qui, essere stata quasi costretta (dalla sua insufficienza), sistematicamente e con impressionante regolarità, a cadere ogni qual volta si sia venuta a trovare in circostanze analoghe.la


La sinistra in Germania di Paolo Soldini

“C’è, in Germania, una maggioranza a sinistra del centro”. Sono passati più di trent’anni da quando Willy Brandt, in piena era Kohl, incitava la sua Spd a non perdersi d’animo di fronte alla dura evidenza delle miserie in cui era caduto il sogno socialdemocratico. Crisi politica, determinata dalla corrosione del rapporto con le basi tradizionali del consenso e dall’emergere prepotente del nuovo (allora) fenomeno dei Verdi, ma ancor più crisi culturale visto che a vent’anni e più dalla svolta epocale del Programma fondamentale di Bad Godesberg, la Spd sembrava incapace di dare risposte convincenti ai mutamenti della società tedesca: quelli che, pretendendo di dir tutto e forse dicendo troppo poco, venivano definiti come inevitabili connotati della società post-industriale. La crisi di consenso di allora, già ampiamente percepibile, veniva letta da Brandt come il passaggio dal blocco omogeneo del modello socialdemocratico classico, rappresentato dal più classico dei partiti


socialdemocratici d’Europa, a una costellazione assai più nebulosa, in cui i Verdi, ma anche forze ancor più centrifughe, come il movimento pacifista, da un lato mangiavano pezzi di consenso tradizionalmente appannaggio della Spd, ma dall’altro si allargavano verso aree fino ad allora non toccate dalla politica istituzionalizzata. La sinistra, nella visione di Brandt, perdeva in chiarezza e coerenza, ma guadagnava in estensione sullo spettro delle idee. E allora si trattava, secondo il vecchio leader, di trasformare il partito rendendolo capace di dialogare con l’”altra” sinistra; la naturale alleanza che sarebbe scaturita da questo dialogo avrebbe tradotto in politica concreta, di schieramento, una maggioranza che esisteva, per l’appunto, “a sinistra del centro”. Non tutti, nella Spd, la pensavano come lui. Tendeva a prevalere, anzi, l’opinione di chi riteneva che la socialdemocrazia dovesse ritrovarsi in una sua purezza d’intenti e di coerenze, ancorandosi allo schema sperimentato della concorrenza al centro e accettando semmai il dialogo con l’”altra sinistra” solo in termini di contingenti alleanze, temporanee e basate sulla coincidenza momentanea dei programmi. Se si guarda alle vicende politiche degli ultimi trent’anni, si vedrà che in Germania la sostanza del dibattito interno alla socialdemocrazia è rimasto sempre ancorato a quel dualismo. Certo, le condizioni sono profondamente mutate, innanzitutto con l’unificazione e con la conseguente necessità di fare i conti con una sinistra ancora più “altra”: quella dell’est e delle sue interferenze (che vedremo) con la parte più radicale della sinistra dell’ovest. E poi con le necessità nuove di confrontarsi con il tumulto della globalizzazione, con la denazionalizzazione dell’economia e con la confusione dell’assetto internazionale post-bipolare. Ma per molti versi il problema è, ancora oggi, quello che era ai tempi di Brandt e delle sue polemiche con i “realisti”, i “Macher” anti-idealisti impersonati emblematicamente da Helmut Schmidt e in modo forse ancor più forte da Gerhard Schröder, partito da posizioni quasi estremistiche, e comunque molto à la Brandt, e approdato all’iperrealismo della Neue Mitte. Le esitazioni a prenderlo di petto, questo problema, hanno frenato pesantemente l’iniziativa politica della Spd e sono state d’impaccio persino a quella coscienza di sé del partito che dovrebbe esprimersi sul piano dei programmi di lungo respiro. Chi ha seguito un po’ la vicenda del nuovo Grundsatzprogramm che la Spd si è data alla fine del 2007 ha un’idea abbastanza precisa della penosa difficoltà che i socialdemocratici tedeschi incontrano a dare concretezza politica alle astrattezze dei massimi princìpi. Il Grundsatzprogramm del 2007, oltretutto, è il secondo che resta nella storia degli archivi di carta: quello del dicembre ’89, arrivato in sciagurata coincidenza con la caduta del Muro, fu una specie di monumento all’incongruenza dei tempi. Oggi la “maggioranza a sinistra del centro” di brandtiana memoria è composta in un sistema di rapporti di forza che il vecchio leader non avrebbe mai immaginato (e che forse lo fanno rivoltare nella tomba). La Spd ha perso, negli ultimi tre decenni, almeno una decina di punti percentuali di consenso. La crisi è stata pesantissima nei primi anni del nuovo secolo e, secondo le sciagurate tradizioni della sinistra europea, si è accompagnata a lacerazioni interne al gruppo dirigente che hanno toccato il punto più acuto negli ultimi tempi


dell’esperienza della grosse Koalition con la cancelliera Merkel. I sondaggi più recenti testimoniano un debole trend positivo e, fatto forse più importante, alcuni risultati elettorali nei Länder (clamoroso quello di Amburgo in febbraio) segnalano una sensibile ripresa di consensi, almeno a livello locale. Resta il fatto, però, che la Spd fatica addirittura a conservare il posto di partito leader della sinistra, nonché di secondo partito della Germania. Nell’ottobre scorso, il sondaggio di un importante istituto demoscopico mise in luce il fatto, davvero storico, che a livello federale i Verdi, con il 24% delle intenzioni di voto, avevano sorpassato i socialdemocratici (23%) e da allora le rilevazioni periodiche dei grandi istituti segnalano un testa a testa. Il 27 marzo scorso questo trend ha trovato una conferma clamorosa nelle elezioni nel Baden-Württemberg e in Renania Palatinato. A sinistra non c’è più, insomma, la costellazione classica, consolidata dall’inizio degli anni ’80, di un partito maggiore, la Spd, e di un partito minore, i Verdi. Anche se molti socialdemocratici continuano, magari inconsapevolmente, a ragionare con quello schema la situazione è molto diversa. Ora ci sono due partiti più o meno sullo stesso piano e un terzo partito, la Linke, che a livello federale ha un quarto dei consensi degli altri due, ma che in alcune realtà, specie ovviamente all’est, compete ad armi pari con la Spd, surclassa i Verdi e qua e là è addirittura il primo partito. Questa articolazione della sinistra ha modificato in modo prepotente lo schema tradizionale, un tempo (lontano) tripolare, della politica tedesca. Nonostante la legge elettorale e lo sbarramento al 5%, oggi, i partiti rappresentati nel Bundestag sono cinque – sei, calcolando separatamente Cdu e Csu - e quelli presenti nei vari parlamenti dei Länder sono ancora di più, considerate le formazioni di estrema destra nonché partitini episodici e liste civiche. Circostanza, sia detto per inciso, che dovrebbe essere tenuta presente da chi, in Italia, pensa che si possano tenere insieme bipolarismo e modello elettorale tedesco. E’ tutto da vedere se la “maggioranza a sinistra del centro” abbia o no bisogno, per esistere, di includere anche la sinistra-sinistra della Linke. Qui i sondaggi non sono molto d’aiuto: secondo alcuni Spd e Verdi da soli avrebbero, se si votasse oggi, già più del 50%, se noi dei voti almeno dei seggi al Bundestag. Secondo altri, no. Soprattutto perché si dovrebbe mettere nel conto il fatto che da settimane e da mesi l’ottimo stato di salute del centro-sinistra nei sondaggi è certamente un po’ gonfiato dalla circostanza che uno dei partiti del centro-destra, la Fdp, è a un minimo storico (addirittura al di sotto della fatidica soglia del 5% che sbarra la strada alla rappresentanza parlamentare federale) dal quale sarebbe ragionevole aspettarsi, prima o poi un “rimbalzo”, magari favorito dal sottrarsi all’abbraccio soffocante, nel governo, della Cdu-Csu. Siano i suoi consensi determinanti o no, è certo comunque il fatto che la Linke appartiene ormai di diritto, e da più di qualche anno, al panorama istituzionale della sinistra tedesca. Il rapporto con essa è, sia in positivo che in negativo, imprescindibile e si è visto quanto, sia pure tra molte difficoltà e prudenze, abbia finito per trovare sbocchi concreti in esplicite alleanze a livello locale. A cominciare dal caso più clamoroso del governo di Berlino. Tanto più è importante, perciò, che nella sinistra tedesca (e forse non solo tedesca) si


approfondisca l’analisi su quel che rappresenta il fenomeno Linke, ancora relativamente giovane e soprattutto non del tutto definito e non privo di contraddizioni. L’ambiguità fondamentale della Linke è, ovviamente, nella sua genealogia: il partito è erede della vecchia Pds, figlia dirazzata, a sua volta, della Sed, il partito egemone della fu Ddr. E’ evidente che questa connotazione tende a sfumare con il trascorrere del tempo. Ma si illuderebbe chi pensasse che il legame con il passato, con quel passato, sia diventato o tenda facilmente a diventare ininfluente. In realtà nel consenso elettorale della Linke pesa ancora moltissimo la componente “orientale”. Non tanto in termini di nostalgia per un regime che pochi davvero rimpiangono, quanto come espressione di quella Ostalgie che non è, o almeno non è solo, passatismo, ma anche critica, magari implicita, ai modi in cui l’unificazione ha cambiato la vita della nazione, ricerca, sincera, di stili di vita meno alienati di quelli imposti dal capitalismo rampante. E’ così, d’altronde, che si spiega il gap, ancora fortissimo, tra i consensi della Linke all’est e quelli all’ovest, pur se questi ultimi sono in evidente e sensibile crescita. L’aver saputo coniugare questa “Östlichkeit”, questa “orientalità” con le istanze della sinistra socialista e laburista critica verso la Spd, minoritaria ma da sempre presente all’ovest specialmente negli ambienti più influenzati dai sindacati, fondendole in una federazione prima e in un vero e proprio partito, è stato il miracolo compiuto da due personaggi dotati di un forte carisma politico: Oskar Lafontaine, all’ovest, e Lothar Bisky, all’est. Il progetto è riuscito perché ambedue i personaggi avevano una “storia”. Il primo era stato il dirigente socialdemocratico che più di ogni altro, nelle dure crisi degli anni ’80 e ‘90, aveva còlto la necessità che la Spd rinnovasse il suo armamentario ideologico e cercasse un rapporto con gli strati che andavano emergendo nella società postindustriale della Repubblica federale. Il secondo era il rappresentante di quella comunità di dissidenti che si era ribellata alla dittatura del “socialismo reale” in nome di una trasformazione democratica illuminata dai valori del “socialismo vero”. Lafontaine e Bisky, comunque si giudichino le loro idee (e anche le ambizioni da “Napoleone della Saar” e le asprezze di carattere del primo), erano degli innovatori, avevano capito che cosa si doveva muovere nella morta gora della politica tedesca e questa caratteristica permise loro di collocare a pieno titolo la Linke nel campo della sinistra. Lafontaine e Bisky, però, non ci sono più e i loro successori non possiedono certo il loro carisma. La Linke continua a progredire, ma certo non è più il fenomeno dirompente degli anni passati. Il che, forse, potrebbe favorire il dialogo con una Spd un po’ tranquillizzata sul fronte della concorrenza e ammorbidita dal venir meno dei furori antisocialdemocratici dell’”ex” di lusso che era il vecchio Oskar. Il problema è che non solo la Linke, ma tutta la sinistra tedesca, massimamente la Spd, soffre di una crisi di leadership che rende ancor più difficile la definizione di un quadro politico coerente e di un programma di lungo termine davvero convincente. Difetti da correggere rapidamente perché il tempo corre e se dalle urne nel 2013 dovesse uscire la conferma della profezia di Brandt sulla “maggioranza a sinistra del centro” si dovrebbe arrivare preparati all’appuntamento con il governo.


I sacerdoti della scienza Riflessioni a margine del dibattito sul nucleare, sull’educazione e sul futuro della democrazia di Andrea Tagliapietra

1. Retorica del sacerdote della scienza. Un esempio «È vero - ed è scientificamente vero - che senza l’energia nucleare il nostro pianeta, con tutti i suoi abitanti, non sopravviverà». La citazione è tratta dalla riflessione, anzi dal “ripensamento” che Umberto Veronesi, dopo il disastro di Fukushima e quando siamo ben lungi da averne chiara l’intera portata, affida alle pagine di “Repubblica” di sabato 19 marzo 2011. Veronesi ci tiene a ribadire che parla come «scienziato e presidente dell’Agenzia per la sicurezza del nucleare» italiana. La sua proposta è quella di una moratoria, di una pausa di riflessione da impiegare per trarre insegnamento dalla catastrofe giapponese. Per il famoso oncologo si tratta di progettare impianti nucleari di nuova concezione, anche rivedendo i principi tecnologici che fin qui ne hanno guidato la costruzione. Per esempio sostituendo ai grandi reattori, evidentemente più rischiosi, una rete di “mini” reattori e, insieme, mettendo in campo studi e ricerche per garantire una sicurezza anche


in caso di «errori di progettazione», così da ideare una nuova generazione di «impianti super sicuri». Veronesi, infatti, distingue, a proposito dei principali incidenti nucleari di cui si ha notizia (in realtà, nella storia del nucleare civile, c’è documentazione di almeno 150 incidenti rilevanti con rilascio importante di radiazioni), quelli dipendenti da «errori umani», come Chernobyl e Three Miles Island, da quello, mentre scrivo ancora in corso, del Giappone. «A Fukushima», scrive Veronesi, «non c’è stato nessun errore riconducibile al personale addetto, ma un errore di progettazione: le centrali non erano programmate per resistere a uno tsunami della portata di quello scatenatosi la scorsa settimana. Le fonti tecniche dicono che la progettazione teneva conto di tsunami di intensità minore. Ma questa è comunque una mancanza perché nel costruire una centrale nucleare sul Pacifico non si può non tenere conto della massima potenza delle forze del mare e della terra». Ho riportato alcuni stralci dell’articolo di Veronesi perché coloro che non avessero avuto modo di leggerlo possano tenerne presenti le parole precise e la posizione, per altro ribadita con la seguente frase, che ha il pregio di riassumere il succo dell’intero pezzo: «La scelta dell’energia nucleare è dunque inevitabile e il nostro compito è ora quello di garantirne al massimo la sicurezza per l’uomo e l’ambiente». Umberto Veronesi è un medico di chiara fama e, nel suo campo, senza dubbio un autorevole esponente del sapere scientifico della medicina e dell’esperienza clinica prodotta nella cura dei tumori. Mi chiedo, tuttavia, quali siano le idee di “scienza” e di “verità scientifica” che possono sostenere affermazioni come quelle per cui: 1) senza l’energia nucleare il nostro pianeta con tutti i suoi abitanti non sopravviverà; 2) bisogna progettare centrali in grado di tener conto della massima potenza delle forze del mare e della terra. L’affermazione 1) mi pare degna del peggior catastrofismo che, in genere, viene attribuito al campo avverso degli antinuclearisti e degli ecologisti. Verrebbe da chiedersi quali siano i dati e quale disciplina scientifica consenta a Veronesi di formulare una profezia così drastica e inappellabile su uno scenario così complesso e multifattoriale come il futuro che ci attende. Può darsi che una crisi energetica su vasta scala porti a grandi mutamenti sociali e politici, a guerre e distruzioni, a cambiamenti del tenore di vita e del benessere di molti degli esseri umani che abitano il pianeta, ma arrivare a disegnare il quadro di un’umanità che non sopravvive perché non può contare sul nucleare da fissione mi sembra un ragionamento assai poco scientifico. Semplicemente, qualora non ci siano modificazioni del quadro attuale e l’energia prodotta dall’uomo mediante gli strumenti del “sistema terra” non sia indefinitamente incrementabile (facciamo questo sforzo almeno teoricamente, in memoria di Ivan Illich e del suo Energie et équité (1973), tradotto in italiano col simpatico titolo di Elogio della bicicletta (Bollati Boringhieri 2006)), l’umanità dovrà adattarsi alle nuove condizioni, magari affrontando seriamente il problema della regolazione demografica, modificando


le forme di produzione e di consumo, ecc. Il buon senso, prima del sapere scientifico, si augura che ciò avverrà in modo razionale e pacifico, ma non si può escludere anche un esito conflittuale, che rientrerebbe comunque nella capacità evolutiva e di adattamento della specie, già mostrata in altre congiunture storiche, meno munite, fra l’altro, della panoplia di saperi scientifici e strumentali di cui disponiamo. Invece, Veronesi sembra identificare tout court l’attuale sistema energetico e produttivo, basato sul postulato, tutt’altro che razionale, dell’incremento indefinito della produzione di energia e di manufatti, come “il pianeta, con tutti i suoi abitanti”, decretandone l’inevitabile estinzione. Ecco allora che da questa inevitabilità della catastrofe si deduce, per simmetria logica inversa, l’inevitabilità del nucleare. Veronesi è qui più catastrofista dell’astrofisico britannico Stephen Hawking che, qualche tempo fa e, quindi, non in relazione al disastro di Fukushima, formulava a sua volta la profezia di una migrazione di massa dell’umanità su altri pianeti, da datarsi fra circa duecento anni. Per Hawking, infatti, che parlava, come Veronesi, da scienziato di chiara fama, gli esseri umani, intorno a quella data e anche con il concorso di tutta l’energia nucleare disponibile, dovranno comunque lasciare una Terra «dove non ci sarà più spazio per tutti e dove le risorse saranno sempre più scarse per via dell’aumento della popolazione». Hawking, poi, aggiungeva un’affermazione che non posso leggere se non ironicamente: «La razza umana non deve mettere tutte le sue uova in un unico paniere, né su un solo pianeta». In effetti, l’idea che la razionalità umana non sia in grado di adattarsi alle risorse di un pianeta e l’umanità si sviluppi esponenzialmente in modo inerziale fa pensare ad animali che colonizzano con le loro uova ambienti diversi, l’uno dopo l’altro, portandoli progressivamente a saturazione distruttiva: insomma, più fameliche locuste o pidocchi del cuoio capelluto che placide galline. Eppure, dai discorsi di Hawking e di Veronesi è questa l’idea di umanità e di razionalità umana che si ricava, lontana anni luce dalla razionalità di un sapere scientifico che può imparare dagli errori solo se è in grado di mettere realmente e radicalmente in discussione i suoi pregiudizi e soprattutto basarsi sui fatti, sugli eventi storici, distinguendoli dalle opinioni e dalle aspirazioni personali, che pur essendo proferite da uno scienziato, non sono scientifiche. Ecco allora che l’affermazione 1) di Veronesi dev’essere riscritta “scientificamente” e non dogmaticamente in questa forma: 1) senza l’energia nucleare il nostro pianeta con tutti i suoi abitanti sopravviverà diversamente. Detto questo, si vorrà concedere che le speranze che Veronesi ripone nella costruzione di centrali nucleari composte da una rete di “mini” reattori (di concezione, per altro, tutta da ripensare e per ora solo ipotizzate) sono altrettanto legittime e figlie di congetture delle speranze riposte dagli antinuclearisti nel miglioramento tecnologico delle fonti alternative solari, geotermiche ed eoliche e, di conseguenza, appare altrettanto non scientifico escludere le seconde per indicare soltanto nelle prime la via d’uscita collettiva al problema energetico.


Ma veniamo all’affermazione 2) di Veronesi riguardante la categoria dell’«errore di progettazione». Per il presidente dell’Agenzia italiana per la sicurezza del nucleare - si diceva -, l’errore di progettazione che starebbe a monte della catastrofe di Fukushima si distingue dall’errore umano inteso come semplice sbaglio e imperizia degli operatori della centrale. È una precisazione importante, perché in un certo senso anche un errore di progettazione può essere un errore umano. Per esempio, se un ingegnere sbaglia un calcolo o imposta erroneamente una delle soluzioni tecniche della struttura, questi errori umani incidono evidentemente sul risultato del progetto e possono persino portarlo al fallimento. Qui, invece, si tratta di altro, ovvero di una carenza cognitiva. Veronesi sostiene che nel concepire la centrale e i sei reattori di Fukushima i progettisti, con la scusante ovviamente dell’epoca – gli anni ’70 - in cui l’impianto è stato costruito, avrebbero dovuto tener conto «della massima potenza delle forze del mare e della terra». Evidentemente, infatti, la crisi nucleare che stiamo vivendo è figlia del terremoto e del conseguente tsunami, e la struttura giapponese, pur progettata per resistere ai terremoti e agli tsunami, non è stata all’altezza di “questo” terremoto e di “questo” tsunami. Si tratta, allora, di rimboccarsi le maniche e di costruire impianti «super sicuri», che sappiano sopportare lo scatenarsi di immani sismi e maremoti, anzi di quelli, come dice Veronesi, della «massima potenza». Anche in questo caso verrebbe da chiedersi quale geologo e quale ingegnere specializzato in costruzioni antisismiche sarebbe in grado di fornire i dati di partenza per queste nuove progettazioni. Quale scienza prognostica può stabilire la forza massima raggiungibile da un fenomeno naturale distruttivo e complesso come un terremoto con successivo tsunami in una delle zone più sismiche della terra? In assenza dei dati profetici, gli ingegneri giapponesi e gli scienziati degli anni ’70 avevano costruito la struttura di Fukushima basandosi sui dati storici disponibili – di solito si fa così – e, infatti, questa struttura è stata travolta da un evento imprevedibile e Veronesi stesso riconosce che ciò è stato causato da una «mancanza» conoscitiva, non da un errore procedurale. Tuttavia, questa conoscenza ha una caratteristica storica, ossia è basata su ciò che è avvenuto, ma non può plausibilmente prevedere ciò che avverrà. Il sisma di venerdì 11 marzo ci ha fornito una prova della forza del mare e della terra superiore alle aspettative degli ingegneri giapponesi, ma non ha escluso, per il futuro, che tali forze possano esercitare una forza ancora maggiore. La forza di un terremoto è ipotizzabile per importanza (a seconda della disposizione e delle dinamiche delle placche continentali, delle faglie, dei conseguenti punti caldi, ecc.), ma è, allo stato delle conoscenze attuali, imprevedibile. Insomma, la scienza, come dovrebbe sapere Veronesi, ci può dire che in un’area ci sarà molto probabilmente un sisma e che, altrettanto molto probabilmente, sarà violento, ma non è in grado di dire né quando, né quanto. Ecco allora che, escludendo che l’oncologo intendesse dire che bisogna progettare centrali con sistemi di sicurezza in grado di prevedere l’imprevedibile, l’affermazione 2) di Veronesi suona, riscritta scientificamente, così: 2) bisogna progettare centrali in grado di tener conto della massima


potenza delle forze del mare e della terra che fino ad ora si è registrata nei siti presi in esame per la loro costruzione. Si tratta, evidentemente, di una rassicurazione importante, ma che non aggiunge niente di nuovo se pensiamo in buona fede che i costruttori di centrali nucleari intendano fare tutto il possibile per scongiurare l’evenienza di un incidente catastrofico. Tuttavia, le parole di Veronesi e l’implicito elemento autocritico evocato dalla categoria dell’«errore di progettazione» ci fanno ritenere che per l’oncologo a capo dell’Agenzia italiana per la sicurezza del nucleare questo non sia ancora patrimonio tecnico, intellettuale e valoriale condiviso da coloro che intendono oggi costruire centrali nucleari, al punto da motivare proprio con questo argomento l’appello a una moratoria o pausa di riflessione che dir si voglia. 2. La figura del sacerdote della scienza e la sua “favola” Mi sono soffermato con questo articolo sull’intervento di Umberto Veronesi su “Repubblica”, personalità che gode di indubbia stima collettiva per la sua professionale lotta contro il cancro e che ha dato vita in vita (scusate il bisticcio) ad un’importante fondazione scientifica che porta il suo stesso nome, per segnalare un reale pericolo del dibattito pubblico nelle democrazie contemporanee, in cui sempre più spesso emerge come protagonista la figura di quello che potremmo chiamare il “sacerdote della scienza”. I “sacerdoti della scienza” sono scienziati che parlano “in nome della scienza” ma che, molto spesso – e credo, per quanto concerne l’intervento di Veronesi, di averlo dimostrato a sufficienza – in realtà esprimono opinioni personali, prospettive ideologiche legittimamente discutibili, se non persino veri e propri pregiudizi tutt’altro che scientifici. Inoltre, una delle caratteristiche del “sacerdote della scienza” è l’uso essenzialmente dogmatico, manifestamente religioso, della cosiddetta “scienza”. Un impiego che, nella sua assertività strategica, zittisce ogni dibattito. Se, senza l’energia nucleare, il nostro pianeta con tutti i suoi abitanti non sopravviverà, di cosa stiamo parlando? Perché discutiamo? È evidente che chi sostiene l’opinione contraria ed è contro il nucleare vuole l’estinzione del pianeta con tutti i suoi abitanti ed è un pericolo pubblico. Affrettiamoci, quindi, a costruire le nostre centrali e che, anzi, la pausa di riflessione non duri troppo, per carità! Non solo, ma se la convinzione intellettuale del capo dell’Agenzia italiana per la sicurezza del nucleare è la seguente, ovvero che senza il nucleare l’umanità e il pianeta non sopravviveranno, è ragionevole pensare che, per il principio di scelta del “male minore”, anche una qualche contaminazione, anche un qualche incremento delle radiazioni, anche un qualche migliaio, o milione, o persino centinaio di milioni di morti, di bambini deformi, di feti abortiti e di malattie tumorali e degenerative, siano comunque accettabili rispetto alla prospettiva apocalittica della fine della specie umana. Non c’è che dire, certo: una splendida garanzia per i cittadini che dovessero confidare nell’opera di vigilanza di un’Agenzia il cui responsabile capo la pensa in questi termini. È come dare il compito di frenare una macchina a qualcuno che ritiene che la macchina esploderà se mai dovesse fermarsi. Non


ci andrà certo giù duro sul freno, quand’anche servisse! Del resto i “sacerdoti della scienza” non ci espongono idee o opinioni, ma pretendono di presentarci il “ragionamento scientifico” così come deve essere, la razionalità scevra da tutte quelle emozioni e passioni che invece caratterizzano ogni decisione umana e il senso stesso di ciò che è soggetto a decisione. La democrazia contemporanea, quando si libera delle ipoteche confessionali, cresce all’ombra di questi “tutori” che non partecipano a una discussione, perché non opinano: semplicemente sentenziano e indicano il metodo e il risultato. Il “sacerdote della scienza” parla dal pulpito senza tempo del così è e così dev’essere (e solo a bassa voce sussurra, a beneficio degli epistemologi, “fino a prova contraria”). Grazie ai “sacerdoti della scienza” dei nostri tempi possiamo aggiungere una versione aggiornata alla casistica di quell’uso politico del mito di cui ci parlava Ernst Cassirer ne Il mito dello Stato (1945), là dove, in riferimento al totalitarismo nazista, il filosofo scriveva: «la profezia è un elemento essenziale della nuova tecnica di governo. Vengono fatte promesse più improbabili, o addirittura impossibili; l’età dell’oro viene annunciata di continuo». Oggi, nella versione postmoderna e scientista del mito politico – che pure, in altre occasioni, alimenta anch’esso aspettative immaginifiche per la soluzione di tutti i problemi dell’umanità piuttosto simili a quelle di cui parlava Cassirer -, l’elemento della promessa dell’età dell’oro, come abbiamo visto nelle parole di Veronesi, lascia sempre più spesso il posto alla paura (passione che non hanno in appannaggio i soli antinuclearisti) e alla conseguente minaccia della catastrofe. Ecco allora che se non ci si adeguerà alle parole del “sacerdote della scienza” di turno, che parla, come afferma Edorardo Boncinelli in un articolo comparso sul “Corriere della sera” mercoledì 16 marzo 2011, «in nome del futuro e della razionalità», il nostro avvenire «cementati al presente» non sarà roseo, anche se lo studioso fiorentino, nello stesso pezzo, si lascia sfuggire che «nessuno sa che cosa il futuro ci potrà riservare». Nel corso della stessa argomentazione il “sacerdote della scienza” sa, tuttavia, che questo futuro sarà nucleare e non delle energie alternative, le quali, aggiunge il nostro profeta, sono «un’alternativa inesistente», ma anche fossero praticabili, non sarebbero esenti da rischi (certo, un pannello solare mi potrebbe cadere in testa dal tetto!). Un tòpos della retorica del “sacerdote della scienza” è l’accusa all’avversario di emotività e di irrazionalità. Nell’articolo di Boncinelli questa figura retorica scatta in maniera talmente automatica che la paura e la partecipazione emotiva, assolutamente legittime nei confronti del disastro giapponese, divengono, sin dall’inizio del pezzo, «inopinate» - cosa dovrebbe fare un essere umano degno di questo nome, correre con la cazzuola a costruire subito un nuovo impianto nucleare? – e, sentenzia il “sacerdote”, con il solito cenno di arrogante disprezzo per le opinioni altrui, si traducono, nel nostro Paese, in «una tremenda, paralizzante paura delle novità tecnico-scientifiche». Caro il mio “sacerdote” Boncinelli, il nucleare da fissione non è certo un’avanguardia della ricerca scientifica contemporanea, né i tecnici che vi lavorano sono questi gran scienziati se il genio del cartoonist statunitense Matt Groenig ha potuto far lavorare nella centrale atomica di Springfield quel simpatico ar-


chetipo della stupidità umana che è Homer Simpson! Le ragioni per cui il nucleare è temuto da così tante persone non hanno nulla a che fare con la paura delle novità della scienza e della tecnica, ma con la modalità assolutamente particolare di ciò che accade in seguito ad un disastro a una centrale, con la segretezza che circonda, certo anche per motivi di sicurezza, un impianto rendendolo opaco alla pubblica opinione almeno quanto l’invisibilità delle radiazioni e la loro duratura capacità di produrre danni nell’arco del tempo. Infine è innegabile che le paure degli effetti negativi del nucleare siano collegate, per usare un’espressione di Susan Sontag, alla stessa malattia come metafora dell’età contemporanea, vale a dire al cancro, collegamento esplicitamente confermato anche dalla scelta dell’oncologo Veronesi come presidente dell’Agenzia italiana per la sicurezza del nucleare. Ecco, se mi fosse concessa una distinzione prettamente filosofica, che Boncinelli dovrebbe apprezzare visto che, quando non fa il “sacerdote della scienza”, filosofeggia sul bene e sul male e traduce Eschilo e i lirici greci, quella che genera il nucleare non è definibile in termini di paura di qualcosa, ma di angoscia. L’angoscia è peggio della paura perché ciò che essa teme non può essere ricondotto alla prevedibilità ragionevole e determinata dell’oggetto della paura. Se il nucleare genera angoscia è perché, proprio in base alle conoscenze scientifiche, possiamo affermare che, al di là del problema plurisecolare delle scorie e della dismissione delle centrali (che hanno costi di gran lunga superiori alla loro costruzione), molti degli effetti e delle conseguenze di un disastro nucleare rimangono imprevedibili finché esso non accade, condizionano le biografie degli esseri viventi che ne venissero coinvolti ben oltre la durata temporale accettabile psicologicamente ed esistenzialmente, e, infine, non sono facilmente circoscrivibili persino molto tempo dopo l’accadimento. Lo mostra in modo emblematico il caso di Chernobyl, dove il sarcofago di cemento che imbriglia il reattore radioattivo si sta riempiendo di fessure e contemporaneamente, per il peso, l’intera struttura sta sprofondando nel terreno. Un analogo trattamento, ossia quello del sarcofago di cemento, potrebbe essere necessario per i reattori di Fukushima… per poi stare a vedere che cosa accadrà al prossimo terremoto. Quando la filosofia della scienza era la disciplina con cui si faceva filosofia e critica della scienza e non era ancora diventata, come ormai è nella maggior parte dei casi, testimonianza ancillare di un genitivo soggettivo, Paul Feyerabend scriveva che «i fatti da soli non sono abbastanza forti da farci accettare, o rifiutare teorie scientifiche, e il campo che essi lasciano al pensiero è troppo vasto; la logica e la metodologia eliminano troppo, sono troppo ristrette. Fra questi due estremi è compreso l’ambito sempre mutevole delle idee e dei desideri umani. E un’analisi più particolareggiata delle mosse che hanno successo nella partita della scienza (che “hanno successo” dal punto di vista degli scienziati stessi) dimostra in effetti l’esistenza di un ampio ambito di libertà che esige una molteplicità di idee e permette l’applicazione di procedimenti democratici (discussione democratica e voto), ma che di fatto è chiuso dal potere politico e dalla propaganda. Proprio a questo punto la favola di un metodo speciale assume la sua funzione decisiva. Esso occulta, me-


diante l’esposizione di criteri “oggettivi”, la libertà di decisione che gli scienziati creativi e il pubblico in generale hanno anche all’interno delle parti più rigide e più avanzate della scienza, proteggendo così i grossi calibri (premi Nobel, direttori di laboratori, di ogranizzazioni come l’Ordine Americano dei Medici, di scuole speciali; “educatori”, ecc.) dalle masse (profani; esperti in campi non scientifici; esperti in altri settori scientifici): contano solo quei cittadini che si sono sottoposti alle pressioni di istituzioni scientifiche (che si sono assoggettati a un lungo processo di apprendimento), che hanno ceduto a queste pressioni (hanno superato i loro esami) e che ora sono fermamente convinti della verità della favola scientifica. In questo modo gli scienziati hanno ingannato se stessi e tutti gli altri sulla loro attività, ma senza alcun vero svantaggio: essi hanno più denaro, più autorità, più sex appeal di quanto non meritino e anche i procedimenti più stupidi e i risultati più risibili nel loro campo sono circondati da un’aura di eccellenza. È ormai tempo», concludeva Feyerabend, «di ridimensionarli e di assegnar loro una posizione più modesta nella società». In realtà il processo che Feyerabend descriveva nelle pagine di Contro il metodo, del 1975, nella fase storica attuale si è fatto più stringente ed è stato tutt’altro che ridimensionato. Gli ingenti finanziamenti di cui ha bisogno la “ricerca scientifica” fanno del “sacerdote della scienza” un catalizzatore ideale di risorse. Così il modello di una scienza “singolare plurale”, contraddistinta da un general generico “metodo unico” di cui già l’epistemologo austroamericano denunciava il carattere di “favola”, è divenuto, con l’affievolirsi della presa delle religioni tradizionali e con il permanere di bisogni di senso insoddisfatti nelle masse laicizzate ma non demitizzate della società dello spettacolo, funzionale alla costruzione dei dispositivi di potere e di controllo. La finta neutralità dei “sacerdoti della scienza” serve al potere politico per perpetuare modelli sociali basati sullo sfruttamento indefinito di uomini e risorse e su una visione del mondo sostanzialmente conservatrice. In cambio, come si diceva, le lobbies finanziarie e industriali e gli Stati si orientano a fornire fondi quasi esclusivamente quella “scienza” che restituisce loro capacità di controllo e continuità nel dominio economico delle popolazioni. Assistiamo così al circuito di consenso per cui, innanzi ad ogni problema del mondo contemporaneo, si può rimodernare il vecchio adagio per cui “qualche santo provvederà!” in “qualche scienziato provvederà!” e gli Stati attribuiscono alla non meglio precisata “ricerca scientifica” il carattere escatologico di investimento per l’avvenire e di panacea per tutti i problemi politici, sociali e persino morali. A patto, s’intende, che questo futuro sia il più possibile identico, dal punto di vista dell’identità dei centri del potere e sulla sua forma d’esercizio, al presente che stiamo vivendo. 3. Mitologia della scienza, educazione e democrazia La grande riconfigurazione strutturale dell’educazione e della formazione occidentale, di cui le varie riforme subite dalla scuola e dall’università italiane sono, in buona parte e al di là dei finti moralismi meritocratici ministeriali, la proiezione provinciale italiana, mira ad una irreggimentazione dei saperi e delle critiche all’interno


del principio di prestazione di questa specifica “ricerca” orientata alla pura riproduzione della forma attuale del potere. Si tratta di uno spostamento mirato, che smantella i potenziali focolai del sapere critico, trasferendo tutte quelle discipline che li ospitano fuori della “favola” del “metodo unico” della scienza “singolare plurale”. Ecco il taglio massiccio di finanziamenti e, parallelamente, la progressiva marginalizzazione dei discorsi e delle forme di sapere di queste discipline dall’ambito mediatico, in cui, invece, sempre più spesso prendono parola, spendendo la loro autorevolezza, i “sacerdoti della scienza”. Uno dei temi chiave di questo processo di riconfigurazione strutturale dell’educazione e della formazione occidentale è la cosiddetta “internazionalizzazione”. Chi non è favorevole all’internazionalizzazione? È ovvio, il sapere non ha e non deve avere confini e si nutre del confronto e dello scambio come la sua materia prima. Eppure l’internazionalizzazione è sempre a senso unico, unidirezionale e, nella pratica, si traduce nel filtro più efficace per il trasferimento di interi settori del sapere fuori dalla “favola” del metodo di cui si diceva. Infatti, non si tratta solo di tradurre in inglese saggi, articoli e produzioni intellettuali varie o di impiegare l’inglese come lingua di mediazione, ma questa operazione costringe contemporaneamente anche ad adeguarsi a strutture burocratiche modellate su determinati criteri – prevalentemente applicativi e pragmatistici - e non contempla preventivamente e pregiudizialmente l’amissione di altri. Il primo risultato, che si può vedere, sia nella riforma Gelmini (da buon ultima, ma in piena coerenza con le riforme universitarie italiane degli ultimi vent’anni) che nell’orientamento dei finanziamenti europei, è una forte riduzione dello spazio e delle risorse per le cosidette Humanities e un loro trattamento, per così dire, decorativo e accessorio. Questo processo di marginalizzazione e definanziamento viene accettato con fatalistica rassegnazione e senza nessuna reale trasparenza, in proposito, dei conti dello Stato, rubricato nella categoria indefinitamente estensibile del taglio agli sprechi, e recitato come un “mantra” anche da molti esponenti della cosiddetta opposizione. Faccio ora un esempio tratto da un quotidiano che, nel panorama della stampa italiana, passa come schierato a sinistra e fortemente critico nei confronti delle politiche del governo, anche in materia di educazione e scuola. A difesa preventiva del pezzo e dell’autore è la volontà redazionale di costruire una recensione “contro”, dichiarata dall’occhiello (“s-correzioni”) e che, purtroppo, spesso si conclude presentando ovvietà conformistiche perfettamente allineate - il verbo confindustriale della “professionalizzazione” dell’istruzione pubblica me lo sento rimbombare nelle orecchie da quando andavo in quarta ginnasio –, ma propalate come coraggioso anticonformismo. Leggo da “Saturno”, l’inserto culturale de “Il fatto quotidiano” di venerdì 18 marzo 2011, una critica piuttosto feroce all’ultimo volume tradotto in italiano di Martha Nussbaum Non per profitto (Il Mulino 2011) dal titolo inequivocabile: «Cara Martha, basta col piagnisteo!» La tesi sostenuta dall’autore del pezzo, Claudio Giunta, è che la difesa delle Humanities, che nel libro della filosofa americana viene condotta, con argomenti piuttosto convenzionali, nei confron-


ti del processo di riduzione e traduzione di cui stiamo parlando sia, per l’appunto, “un piagnisteo”. Il Giunta afferma lapidario: «nello spazio di un secolo, la tecnologia ha rivoluzionato il modo in cui viviamo; e la vita è diventata così complessa da sollecitare sempre di più le competenze non di intellettuali capaci di interpretare il mondo (filosofi, storici) ma di tecnici capaci di farlo funzionare (economisti, giuristi, medici)». Come ad un aumento di complessità del mondo sia adeguata risposta la rinuncia a interpretarlo (e magari a criticarlo e a smascherarne i presupposti), sì che il pianeta e la società siano abbandonati ai tecnici che li “fanno funzionare” come un meccanismo (automatico?) rimane un’argomentazione piuttosto oscura (e siamo generosi). Vi leggo forse un’eco, mal digerita, di quell’undicesima tesi su Feuerbach di Marx che ai tiepidi filosofi ottocenteschi che si erano limitati a comprendere il mondo contrapponeva il compito rivoluzionario di trasformarlo. Qui si tratta, però, di qualcosa di meno, ovvero solo di farlo funzionare, lasciando intendere che sia la comprensione che la trasformazione del mondo sono in qualche modo finite, concluse. L’impressione di oscurità è alimentata dagli esempi di tecnici che fanno funzionare il mondo prodotti tra parentesi dall’articolista. Si tratta di giuristi, economisti e medici, che non sono certo le prime categorie che vengono in mente con la parola “tecnici” e le cui conoscenze, senza dubbio nei primi due casi, sono innervate, almeno fino ad oggi, da consistenti apporti dei saperi storici e filosofici. Ma forse si provvederà in un secondo momento (e contro i pii desideri della Nussbaum), con lo sfoltimento dei piani di studio e l’espulsione di storici e filosofi dai dipartimenti universitari, perché, si sa, per far ben funzionare il mondo così come si deve (e soprattutto per non pensare assolutamente di cambiarlo – forse l’evocazione dell’undicesima tesi ha lo statuto psicanalitico di un lapsus?) è meglio non porsi troppe domande. Certo, un economista digiuno di storia economica e di economia politica potrà meglio prevedere le crisi mondiali e indicare rimedi innovativi, mentre un giurista senza memoria né prospettiva storica è perfetto per “limitare” il potere esecutivo, dal momento che potrà, all’occorrenza, attualizzare e adattare al meglio gli articoli della Costituzione e le leggi dello Stato, senza il fardello del diritto romano o della lettura di Montesquieu, affinché, certo, in questo modo, non si disturbi il ben oliato funzionamento del mondo. Ah già, lo Stato! Per Claudio Giunta, che concede alla Nussbaum il valore delle buone letture che la formazione umanistica prevede, lo Stato non ha i fondi per accollarsi l’educazione dei cittadini: «il problema è che la formazione dei cittadini compete e interessa agli Stati. In un’epoca nella quale gli Stati diventano sempre più poveri, è difficile immaginare chi potrebbe accollarsi questo investimento a fondo perduto in cultura disinteressata». Ecco un bel de profundis per l’intero sistema educativo dello Stato democratico che non avrebbe neppure le risorse, né l’interesse (secondo Giunta, ma non secondo il principio di non contraddizione) per riprodurre e garantire la coscienza civica che lo istituisce, mentre i cittadini continuano a pagare le tasse – e tranne i grandi ricchi statunitensi defiscalizzati da Bush jr. e anche da Obama, in tutto l’Occidente ne pagano sempre di più. Che cosa impoverisce gli Stati? Per il sistema educativo modellato sulle applicazioni tecniche che ha in


mente l’articolista di “Saturno” sembra che la domanda non debba neppure porsi. È la crisi, bellezza! È la crisi che va accolta, vista la complessità del mondo moderno, più o meno con lo stesso fatalismo naturalistico con cui si accettavano le carestie dell’antichità e del medioevo, ossia senza porre in questione la “naturalità” del famoso funzionamento del mondo, allora retto da divinità capricciose o da un Dio geloso, oggi da non si sa bene cosa, ma è meglio non chiederselo se vogliamo che funzioni. Giunta ha buon gioco a ironizzare sulla Nussbaum “filosofa da copertina” e sulla sua “political correctness”, così tipica di quella tradizione filosofica anglosassone che ha rinunciato allo stile insieme alla sostanza per essere accolta ai margini di un dibattito pubblico preventivamente anestetizzato. Un dibattito che consente solo di porsi problemi formali e procedurali, per non distrarre il macchinista e disturbare il funzionamento di cui sopra. Il fastidio - condiviso da chi scrive - per lo stucchevole pedagogismo puritano della Nussbaum fa dire a Giunta una verità che tuttavia subito si rimangia: «forse per smetterla con il piagnisteo bisognerebbe ridescrivere le cose in modo diverso. Negli ultimi due secoli gli artisti e i filosofi hanno ben lavorato. Non è solo la tecnologia ad aver cambiato il nostro modo di vivere: sono anche le loro idee, diventate col tempo sentimenti comuni, nozioni comuni. Le loro opere sono state studiate nelle nostre scuole e hanno contribuito a formare quelli che chiamiamo “umanisti”. Anche loro hanno ben lavorato. Ora le cose sono cambiate. È probabile che il curriculum umanistico continuerà ad esistere, ma un po’ ai margini rispetto a quella che si chiama “formazione professionalizzante”. Ma è sempre stato così». È sempre imbarazzante dover mettere qualcuno in accordo con se stesso. Ma allora, Giunta, le cose sono cambiate o sono sempre state così? Anche qui il principio di non contraddizione scricchiola. Inoltre, se le idee degli artisti e dei filosofi sono diventate patrimonio comune e si sono studiate nelle scuole, quelli che ne sono usciti, alla fine dei rispettivi cicli scolastici ed educativi, non sono gli “umanisti”, ma tutti i cittadini, fra i quali ci sono anche quelli che con la loro intelligenza e con la loro creatività individuale hanno prodotto le innovazioni tecniche. Innovazioni che costituiscono a pieno titolo l’insieme simbolico di ciò che chiamiamo cultura. Di cui fanno parte, cioè, sia la matematica che la retorica, sia la tecnologia che la letteratura per scegliere degli estremi ritenuti erroneamente, a mio avviso, antitetici. Infine, ciò che Giunta concede al lavoro delle idee e degli artisti degli ultimi due secoli, ovvero il grande mutamento nei modi di vita e nell’organizzazione stessa della società, improvvisamente dovrebbe funzionare, ora, motu proprio, grazie alla tecnologia. Questa idea, spesso presente nei cantori del mondo delle tecnologie avanzate in cui stiamo vivendo, si accompagna con la percezione per l’appunto di una novità inaudita, di una cesura senza precedenti nello statuto del mondo presente che consente di liquidare la vecchia cultura delle lettere e delle arti. In realtà, si tatta di un tema abbondantemente già visto e che, fra l’altro, assume un particolare significato ideologico nel milieu culturale da cui presero le mosse i totalitarismi della prima metà del Novecento, dove si contrappone spesso il vecchio sapere umanistico, connesso con le


decadenti democrazie borghesi, ai bagliori d’acciaio della tecnologia, foriera del “mondo nuovo” del potere vincente. Valga per tutti questo famoso brano, tratto dall’Introduzione del Tramonto dell’Occidente (1918) di Oswald Spengler: «L’uomo euro-occidentale non dovrà più attendersi una grande pittura e una grande musica. […] A lui sono rimaste possibilità nel dominio dell’estensione. […] Finora una massa enorme di spirito e di energia è stata sciupata su false vie. […] Se per effetto di questo libro uomini della nuova generazione si dedicheranno alla tecnica invece che alla lirica, alla marina invece che alla pittura, alla politica invece che alla critica della conoscenza, essi faranno proprio ciò che io desidero, né si potrebbe desiderare per essi nulla di meglio». L’opinione di Giunta, in assoluta buona fede, suppongo, ma in piena sintonia con i confindustriali di tutto il mondo, - i quali tendenzialmente non vorrebbero pagare le tasse e, se le pagano, vogliono pagarle per ottenere in cambio un servizio privato -, è di trasformare il sistema educativo degli Stati in un sistema addestrativo “professionalizzante”, finalizzato a quel famoso funzionamento ben oliato del mondo di cui si è detto e che ha come principio generale il dogma economico della produzione per la produzione. Ecco, quindi, la marginalizzazione di tutte quelle discipline e di quei saperi che la parola curriculum umanistico condanna al portafogli vuoto, e l’appello abbastanza stereotipato all’eldorado immaginario della rete e della società dello spettacolo, improvvisamente restituite alla passione per le humanae litterae (non appena, s’intenda, siano esclusi gli oneri per lo Stato): «forse quello su cui bisogna scommettere», concede Giunta, improvvisamente riguadagnato alla causa delle Humanities, «è l’umanesimo diffuso, la trasmissione dell’arte e delle idee al di fuori delle aule scolastiche. Se uno si guarda bene attorno – e vede i film, ascolta le canzoni, legge i blog – qualche tenue segno di speranza lo trova». Questo pensiero finale è estremamente significativo dei risultati già avanzati del processo di marginalizzazione della cultura simbolico-storica e del suo pericoloso potenziale critico rispetto alla formazione dei cittadini, di cui Giunta stesso è vittima. L’articolista di “Saturno”, infatti, vede e apprezza i prodotti di una società in cui la formazione civile della scuola e dell’università, con tutti i suoi difetti e le sue criticità, continua a perseguire, pur definanziata e ostacolata, l’ideale statale della formazione del cittadino e non del funzionario produttore-consumatore e, facendo una chiara omissione storica, li attribuisce al futuro che vagheggia. La marginalizzazione della cultura, il suo definanziamento, non producono nuovi spazi per la cultura. Semplicemente confinano i prodotti culturali in un ruolo dopolavoristico e di intrattenimento, perfettamente congruente a quell’industria culturale che dà agli spettatori solo ciò che vuole che essi desiderino e comprino. Inoltre, in seguito alla marginalizzazione e all’isolamento tecnico dei percorsi formativi, si può già intravedere il risultato dell’impoverimento culturale e simbolico dello scienziato, che sarà sempre più assimilato ad un tecnico di laboratorio iperspecializzato, la cui preparazione esclusiva e intensiva finirà per compromettere sia la capacità strategica di salti paradigmatici nel sapere scientifico che la partecipazione attiva al dibattito pubblico con posizioni che non siano sostanzialmente


conformistiche nei confronti dei poteri vigenti.mE qui torniamo per chiudere da dove abbiamo iniziato – sono passato al noi perché se un lettore è giunto fin qui, seguendo il dipanarsi di questo lungo pezzo, merita di essere coinvolto con la prima persona plurale -, ossia torniamo al “ripensamento” di Umberto Veronesi sul nucleare che, come abbiamo visto, tanto ripensamento poi non sembra. Al termine del suo intervento su “Repubblica” del 19 marzo l’oncologo a capo dell’Agenzia italiana per la sicurezza del nucleare propone, oltre alla moratoria e alla ridiscussione dei criteri di progettazione delle centrali, l’internazionalizzazione della gestione dei piani energetici. «La tragedia giapponese», scrive Veronesi, «ci impone inoltre di pensare fuori dalle logiche nazionali. È evidente ora che i piani energetici devono essere discussi a livello internazionale. In Italia ci troviamo nella circostanza favorevole di partire da zero e quindi di poter scegliere, senza fretta, il modello strategico migliore». Qualche giorno dopo, alle parole dell’oncologo sembrano accodarsi tutti i principali sostenitori nazionali del nucleare, a cominciare dal governo italiano, lasciando ancora una volta il sospetto che l’internazionalizzazione sia tutt’altro che neutrale rispetto allo sviluppo delle posizioni in campo. Del resto, se i piani verranno discussi a livello internazionale, dall’ennesima fantomatica commissione pilotata dalle multinazionali dell’atomo, come potremmo scegliere noi il modello strategico migliore? Se continuiamo a non volere il nucleare, con buona pace di Veronesi e della sua “scientifica” previsione apocalittica, e una qualche commissione europea o internazionale decidesse diversamente, cosa accadrà? Forse ci verrà imposto, come già avviene per gran parte della politica economica, sottratta alla sovranità dello Stato e affidata a nebulosi organismi europei e internazionali - commissioni, summit, vertici, “G-e qualcosa” -, in cui quel controllo e quel dissenso/ consenso dei cittadini su cui si basa il meccanismo democratico dello Stato moderno è per lo meno “rarefatto”, rinviato ad elezioni statali che decidono solo l’identità senza mandato di alcuni individui che si siederanno a quei tavoli e che potranno, a loro volta, scusarsi di fronte agli elettori adducendo ragioni di forza maggiore. Come già osservava Giuseppe Mazzini di contro all’internazionalismo del movimento operaio dei suoi giorni (è un mio personalissimo omaggio al centocinquantenario dell’unità d’Italia), fra la singolarità concreta dell’individuo e l’astratta umanità a cui tutti apparteniamo la funzione dello Stato nazionale è una mediazione indispensabile, pena l’irrilevanza se non la schiavitù del singolo cittadino e, quindi, la fine della democrazia stessa. Coloro che rappresentano le grandi lobbies industriali e finanziarie, infatti, sono già seduti sin dall’inizio al tavolo degli organismi internazionali e aspettano i rappresentanti degli Stati per dettare loro le condizioni. Se non, come talvolta ci è lecito sospettare, per chiedere loro il prezzo. Nel frattempo, una quantità ogni volta maggiore della ricchezza prodotta elude le fiscalità nazionali, rendendo gli Stati sempre più poveri e indebitati e i fondi speculativi sempre più potenti. Così una certa idea di “internazionalizzazione” come delega di sovranità senza democrazia né rappresentanza possibile, assieme ad un uso politico della “scienza” che, nello scenario del XXI secolo, svolge quella funzione di “mito” tecnicizzato che già era apparsa nei totalitarismi antidemocratici del XX secolo, non sono che il volto postmoderno e,


certo, molto “complessoâ€? e, se volete, ben truccato e imbellettato di civili considerazioni, di ciò che nel Novecento prendeva il nome di fascismo.


Alcune riflessioni su

L’uomo che voleva essere colpevole di Henrik Stangerup di Carla Canullo

Scritto nel 1973, il romanzo di Henrik Stangerup1 narra del faticoso cammino verso la società perfetta e verso l’Uomo Nuovo, la cui creazione – come dichiara uno dei personaggi genericamente chiamati “assistenti” – «non è facile» (127). Torben, scrittore che ha smarrito la sua vena narrativa e lavora presso l’Istituto Nazionale per la Razionalizzazione della Lingua (il cui compito è semplificare il linguaggio per la riforma progressiva della lingua, togliendo alle parole ogni tratto di umanità e vita) uccide la moglie Edith (montatrice di film) davanti al figlio Jesper. Immediatamente questi gli viene sottratto e dato in affido. Al contempo, Torben è obbligato a iniziare il difficile percorso di reinserimento e rieducazione che lo porterà al Parco della felicità, enclave per malati di mente. Enclave nella quale 1 H. Stangerup, L’uomo che voleva essere colpevole, trad. it. di A. Cambieri, Iperborea, Milano 1990. I numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine del libro.


giungerà attraversando una serie di situazioni dalla doppia faccia e nelle quali incontra “personaggi” che non sono mai chi dicono o vogliono mostrare di essere. Una storia semplice, molto più banale dei capolavori dello stesso genere, quali 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley. La sua attualità non sta, tuttavia, nella denuncia di un mondo che è tanto più perfetto nella misura in cui è capace di controllare e tacitare ogni espressione di libertà ma nella forma in cui tale libertà è negata, ossia la negazione della colpevolezza. Storia semplice che ruota attorno a un motivo semplice: la richiesta di Torben di essere dichiarato e giudicato colpevole per l’omicidio della moglie. Omicidio negato dalle autorità perché compiuto sotto gli effetti dell’alcol, dunque non per una “colpa” di fatto inesistente ma in un momento d’ira provocato da una dipendenza che avrebbe potuto essere evitata. Omicidio, ancora, che è piuttosto ricondotto alla casualità e all’accidentalità, non alla colpevolezza. Omicidio, infine, ascrivibile a uno stato di momentanea follia. Queste tre motivazioni fanno di Torben un “non colpevole” ma anche un “non adatto” a educare il figlio, preso in carico dagli assistenti subito dopo l’accaduto e affidato a una famiglia equilibrata e degna della tessera “Mammapapà” con la quale lo Stato ufficialmente riconosce a una coppia lo status di educatori. In un mondo perfetto non c’è posto per la colpa, residuo del vecchio mondo e dell’uomo vecchio faticosamente rimovibile. La colpa è un’onta che la società perfetta deve cancellare, una macchia insopportabile che psichiatri, assistenti (nuovo nome, meno invasivo, per indicare corpi di controlli e “polizia”), conduttori televisivi, insomma, la società cosiddetta civile si affanna a estinguere, sopportando con ostinata benevolenza ogni rigurgito di colpevolezza di Torben. Lo fanno con benevolenza e compiacimento, con bontà, addirittura, offrendo trasmissioni televisive e riunioni per produrne una metamorfosi insolitamente lenta. Cancellare il male diventa l’imperativo sociale primo che tutti seguono, in un balletto neppure troppo originale. Cancellare il male è possibile riconducendone la causa ad atti di “assenza da sé” e “dipendenza da”. L’aggressività è ammessa, certo, e riconosciuta come forma espressiva dell’uomo, ma deve essere sfogata in luoghi debiti e appropriati; nel libro, in riunioni (sorta di talk show) in cui gli assistenti ne controllano il tasso e ne vigilano le espressioni. Un mondo perfetto dove persino l’ira può e deve trovare il suo posto. Così come Torben dovrebbe ritrovarvi il suo posto e la sua vita quotidiana, anche grazie all’ausilio di tranquillanti e altri farmaci opportunamente somministrati. Introducendo il volume nel 1982, Antony Burgess, a commento della situazione delineata da Stangerup, parla di pelagianesimo dello stato danese in opposizione ad Agostino ed evoca Søren Kierkegaard, pensatore della colpa agli antipodi dalla nuova “filosofia” del proprio stato. Riferimenti che troviamo e cogliamo nel testo. Insieme ad altri, tuttavia, e in primo luogo insieme alla cancellazione di ogni imputabilità, che riguarda, certo, la cattiva azione ma anche la buona. È Kant, allora, a scrivere che «l’idea trascendentale della libertà […] forma […] il contenuto della spontaneità assoluta dell’azione, inteso come vero e proprio fondamento dell’imputabili-


tà dell’azione»2. E in Della coesistenza del principio cattivo accanto a quello buono e del male radicale nella natura umana scrive: «La tendenza al male che, riferendosi alla moralità del soggetto, viene per conseguenza attribuita a lui come ad un essere libero dei suoi atti, bisogna che gli possa essere imputata come ciò di cui egli stesso si è reso colpevole»3. Negando la colpevolezza, è quest’imputabilità dell’azione che viene negata, e ciò insieme all’idea trascendentale della libertà suddetta. Ed è proprio contro questa negazione che Torben vuole essere colpevole. Dal misconoscimento della colpevolezza segue, inoltre, la perdita di legami. Un legame – affettivo – Torben lo ha perduto uccidendo la moglie. Se però vuole essere dichiarato colpevole, ciò è per poter scontare la propria pena, per sottomettersi alla giustizia e, poi, tornare alla sua vita con il figlio; detto altrimenti, la possibilità di ricominciare a vivere una volta scontata la pena. La colpevolezza deve essere assunta per ricominciare a vivere, dunque, contro l’assoluzione non domandata in questa sorta di processo kafkiano alla rovescia, dove negare la colpevolezza coincide con il negare la possibilità di rialzarsi e ricominciare. Il divieto di ricominciare a vivere non è mai esplicito o esplicitato chiaramente ma è implicato dallo sfaldamento stesso dei legami e dell’identità del protagonista, della realtà circostante, nella scoperta che nessuno è più degno di fiducia e capace di dire qualcosa di vero, ché tutti i personaggi si legano a Torben in una sorta di tacito intento rieducativo, esito della società pura e nuova costituita da personaggi solo in apparenza incontrati per caso; personaggi che si susseguono quasi sempre senza nome, identificati piuttosto dalla loro professione e dal ruolo rieducativo svolto. Riconoscere di essere colpevole, invece, vuol dire poter ancora avere legami. Con il proprio gesto e con le proprie azioni, con sé. Vuol dire affermare il proprio sé, anche colpevole. Di fatto, lo stesso omicidio di Edith matura per la negazione dei legami che il mondo perfetto domanda all’Uomo Nuovo, costringendolo a quell’auspicata purezza per la quale punizione e colpa sono concetti da non utilizzare più (cfr. 86 ss.). La resa di Edith al nuovo sistema educativo che bandisce la lettura delle fiabe di Andersen ai bambini, che regolamenta e disciplina ogni dimensione della vita della coppia, l’accettazione degli esercizi per il controllo della collera e delle passioni, l’accettazione del costante monitoraggio della famiglia da parte di psichiatri e pedagogisti che sanno orientare, l’incapacità di Edith di ribellarsi a questo ordine, a differenza di quanto in passato aveva fatto, arrivando addirittura a chiedere il divorzio soltanto perché non accetta la libertà di Torben di dire “no” alla perfezione imposta che, a sua volta, s’impone anche come rottura di legami, come sterilizzazione degli stessi col pretesto di generare purezza: sono questi i tratti della perdita di legami che l’uomo nuovo e la sua perfezione esigono. Il testo di Stangerup è superato, forse, e la narrazione del mondo perfetto è ormai in disuso. Ma rimane attuale l’urgenza della li-

2 I. Kant, Critica della ragion pura, ed. it. a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1999, p. 596. 3 In I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, ed. it. a cura di M. M. Olivetti, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 35.


bertà nei termini di imputabilità, di responsabilità personale, anche di colpevolezza. Togliere la colpa e il suo scandalo, pretendere di annullarne progressivamente l’effetto è anche voler annullare quella dimensione dell’umano che sbaglia affermando la propria libertà; che disobbedisce liberamente sbagliando, peccando, ma rispondendo in prima persona. L’uomo che vuole essere colpevole, dunque, è anche l’uomo che vuole esserlo perché gli si riconosca la sua libertà, il suo essere libero. Libero di continuare a vivere, amare, progettare in prima persona, sapendo di essere colui che è libero; ancora, perché la vita possa riprendere e ricominciare non nello sforzo imposto dalla società ma nell’umanità accolta e amata anche nella sua colpa. È per ricominciare a vivere, per riprendersi la propria libertà che il protagonista domanda che la sua azione gli sia imputata, che domanda che la colpa gli sia riconosciuta perché, anche, il bene gli sia ancora possibile e non negato. Quel bene che per lui è il legame rimasto con un figlio che invece, rieducato, lo sfugge; bene che è la “voce” di Edith che continua a sentire come appello che incoraggia la sua libertà di essere, anche, colpevole. Colpevole ma, ancora e di nuovo, amabile.


Il senso oggi della questione sociale di Andrea Margheri

Il crepuscolo di Berlusconi e del suo schieramento sempre più variegato sembra non aver termine e si trascina verso zone d’ombra minacciose. I metodi sbrigativi di «asservimento» delle istituzioni democratiche stanno già provocando degenerazioni e fratture sempre più evidenti: qualche segnale di allarme dovrebbe risuonare anche nelle tifoserie fanatizzate dell’«unto del Signore» e del suo governo. La condizione del Parlamento, dopo il successo della campagna acquisti della maggioranza e il trionfo del trasformismo contrattato alla luce del sole, è caduta al punto zero di autorevolezza e di autonomia. Il Parlamento è ora capace di votare a maggioranza qualsiasi grottesca pretesa di impunità e qualsiasi rivendicazione di potere personale del premier: la rottura di ogni vincolo di fermezza costituzionale e di dignità culturale c’è già stata con il voto a maggioranza che riconosce al presidente del Consiglio di aver lavorato in buona fede nel


losco affaire delle telefonate alla Questura di Milano per evitare addirittura un incidente diplomatico con l’Egitto. E le tifoserie fanatizzate sembrano aver ingoiato e digerito anche questa ennesima caduta della funzione parlamentare. Tra le più esplicite e determinate intenzioni del premier c’è quella di usare questo Parlamento come uno squadrone di cavalleria polacca contro la magistratura colpevole di non riconoscere la sua presunta condizione di impunità votata dal popolo sovrano, e contro la Costituzione, da lui condannata per un presunto vincolo illiberale all’articolo 41 con un rovesciamento semantico degno di un mago della ‘pubblicità ingannevole’ quale si è già dimostrato più volte. E manda a dire alla Corte che le sue deliberazioni sono viziate da un ‘pregiudizio comunista’. Si prefigura, dunque, l’aggravamento del conflitto istituzionale ormai cronico che chiama in causa sempre più spesso la prudente equanimità del presidente della Repubblica. Dove ci sta portando, dunque, il trascinamento della crisi e l’intreccio inestricabile tra l’azione del governo e le vicende giudiziarie del premier? Dove arriverà la resistenza del blocco berlusconiano totalmente prono alle pulsioni autoritarie che ormai sono sin troppo evidenti? La Repubblica democratica dovrà cimentarsi con una riedizione berlusconiana del «Muoia Sansone e tutti i filistei»? Questa mascherata finale dopo le tante che abbiamo subito rappresenterebbe non solo una minaccia drammatica contro la democrazia italiana, ma una rottura definitiva con l’Europa che ci guarda già con sospetto e sfiducia, come spesso possiamo leggere sui giornali degli altri Paesi. Nella dimensione nazionale ci sovrasta proprio questa emergenza: la Repubblica è trascinata verso una condizione di pericolo e di impotenza. Potrebbe pagare un prezzo altissimo per il conflitto istituzionale e le fratture che esso sta determinando non solo nel sistema politico ma nel tessuto sociale. Sarebbe un grave errore di analisi se non si percepissero i segnali della sempre più nefasta influenza dell’emergenza democratica sul funzionamento dell’economia e sugli orientamenti delle forze sociali. Ovviamente, sarebbe grottesco e infantile cercare un rapporto meccanico, negando la vitalità autonoma di molte imprese e di quanti ci lavorano, di vaste aree dell’amministrazione pubblica, di gran parte della società civile. Anzi, è proprio da questa vitalità autonoma che nascono le più forti e interessanti risposte politiche all’emergenza democratica, come la protesta del mondo della scuola e della ricerca contro l’ottusa rigidità della Gelmini, o la rivendicazione di dignità delle donne, o l’iniziativa dei lavoratori e della Cgil per il ristabilimento di una prospettiva di concertazione e di ‘patto sociale’. E nel mondo imprenditoriale le inquietudini e le critiche che già da tempo si esprimevano apertamente, sono sempre più marcate e argomentate. Tutto questo conferma che la partita è ancora aperta, che l’autoritarismo non ha piegato irrimediabilmente la democrazia italiana. Ma sarebbe sciocco chiudere gli occhi di fronte ai processi che vanno in una direzione opposta. L’egoismo privatista, individualista, antisolidaristico, che è il corollario inevitabile della visione del mondo e della politica imposta dal berlusconismo a tutto lo schieramento composito del centrodestra, penetra in vaste aree della società e condizio-


na le relazioni industriali e i rapporti tra i sindacati. Le fratture in atto scontano l’influenza dei rapporti travagliati delle Confederazioni con il governo in carica e la pressione dei vari ministeri oltre alla pressione culturale e mediatica del centrodestra. Così la ‘questione sociale’ viene condizionata e vincolata in una concezione dell’economia e dei mercati rigidamente neoliberista. Concezione che sconta, come fosse un nuovo dogma indiscusso, il carattere radicale e irreversibile dell’abbandono del modello di relazioni sociali e di democrazia economica che ha segnato la civilizzazione dell’Europa continentale e che ha influenzato anche l’evoluzione della società italiana. Di quel modello non ci sarebbe niente da salvare di fronte ai mercati globali e all’avvento di nuovi protagonisti economici. Bisogna tornare alla vecchia subalternità del lavoro, al potere senza regole di chi oggi dirige l’economia e che non è più l’imprenditore-innovatore di Schumpeter, ma ciascun centro di controllo finanziario che non riconosce né frontiere, né regole. Questo veleno liberista così evidente nella grande crisi del 2008 non si vince, è evidente, con il ritorno al passato, ma adeguando la concezione democratica e progressista del modello economico al mondo attuale, alle sue nuove tecnologie produttive, alle sue nuove ‘reti’ di comunicazione, al suo nuovo modo di organizzare il rapporto con il contesto sociale e ambientale. Senza lasciarci ipnotizzare dai falsi dogmi ideologici, ma restando ben consapevoli che la trasformazione tecnologica e organizzativa della produzione e dell’economia su scala mondiale, non è una legge naturale indiscutibile, ma una costruzione umana. Essa non postula la precarietà della condizione dei lavoratori e la disuguaglianza crescente come sinonimi di competitività e di efficienza; non postula il dominio senza regole della finanza sulla vita degli individui e dei popoli magari usando i soldi degli Stati nel momento di crisi; non postula la separazione dell’impresa e di chi ci lavora dal contesto sociale, culturale, antropologico della loro storia: tutti questi sono solo effetti collaterali dell’assenza di regole e di intervento politico, sono effetti collaterali del vuoto di democrazia, della resa della politica alla potenza del capitale finanziario sia nella dimensione nazionale, sia nella dimensione mondiale. Potenza che dopo la crisi del 2008 ha ricostituito i meccanismi del suo dominio con i soldi degli Stati nazionali e ora invoca i principi del mercato autoregolato per contrastare la richiesta di correzioni e riforme. Sì, è in gioco la questione essenziale: il modello di sviluppo e il rapporto tra politica ed economia. Questo è oggi il senso della questione sociale anche in Italia, dove la precarietà ha trionfato come modello di vita imposto alle nuove generazioni, dove la disuguaglianza continua a crescere, dove gli effetti della crisi mondiale sono riconoscibili in una disoccupazione giovanile intollerabile, in una crescita della disuguaglianza e in una ulteriore compressione dei margini di mobilità sociale. Ora, se questa è la partita fondamentale che si gioca in Italia, è del tutto evidente un corollario politico: che una correzione rapida e coraggiosa del modello di sviluppo non è neppure pensabile in una condizione di crisi democratica e istituzionale. Viceversa: una rifondazione democratica del Paese è possibile se essa procede di pari passo con la riaffermazione del bene pubblico sull’egoismo privato, nella prospettiva di un impegno generale contro la disuguaglianza, la


precarietà del lavoro e della vita dei giovani, le rigidità delle gerarchie sociali. Questa è la via per mobilitare le risorse intellettuali e professionali del Paese, per far funzionare meglio l’economia e garantirne la crescita. Da un punto di vista culturale, il pensiero dei costituzionalisti democratici che invocano la riforma elettorale, il ristabilimento della dignità e dell’autorevolezza del Parlamento, il confronto equilibrato e sereno tra la politica e la magistratura nel rispetto dei rispettivi ruoli costituzionali, si congiunge inevitabilmente al risveglio della coscienza dei giovani e delle donne testimoniato dai recenti movimenti spontanei. È il nesso inscindibile tra questione democratica e questione sociale. Del resto, questa relazione sempre più stringente non riguarda solo le condizioni storiche del nostro Paese. È facile vedere quanto questo collegamento appaia decisivo anche nei movimenti di rivolta che hanno attraversato e attraversano il mondo arabo dove vecchi regimi autoritari, sclerotizzati e corrotti, stanno saltando sotto una spinta popolare di cui parte importante e talvolta decisiva sono i giovani privati del lavoro e delle speranze di vita dall’immobilismo economico e dalla rigidità sociale. Altro che rivolta del pane! Se si ascoltano i giovani si avverte subito la nuova cultura che li anima: essi criticano tanto le condizioni di disuguaglianza e di paralisi economica quanto gli effetti di precarietà, di frustrazione, di emarginazione che esse producono, soprattutto per le giovani donne. Così, mentre fissavamo ipnotizzati il conflitto tra i vecchi regimi e le diverse tendenze islamiche, la storia ci ha riservato una ennesima sorpresa: sono scesi in campo i giovani educati e sospinti dalle ‘reti’ di informazione che si battono insieme per la democrazia e la dignità del lavoro. Molti governanti (come Obama) lo hanno capito subito e non hanno avuto esitazioni nel giudizio e nell’iniziativa. Questo è stato un buon segnale, pur in una situazione ancora incandescente e drammatica. L’Italia non si è risparmiata qualche figuraccia, ma i fatti per fortuna hanno la testa dura e hanno costretto anche il governo italiano ad allinearsi. Ma il significato degli avvenimenti va molto oltre la cronaca drammatica di questi giorni e l’emergenza umanitaria. È una nuova evoluzione nella lotta per la giustizia e la libertà che mette alla prova anche noi, anche la capacità di analisi e di proposta della sinistra.


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