Aprile- Maggio n째 34, 2011 Maggio-Giugno n째 35 - 2011
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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Maggio-Giugno 2011, n° 35. (Numero 36 1 Luglio 2011) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace
I
n d i c e
Le Amministrative di Milano e Napoli e la costruzione dell’alternativa di Elio Matassi
Crepuscolo della Lega di Umberto Curi
Cosa resta della sinistra nella sinistra di Alfonso M. Iacono
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8
Il caso Strauss-Kahn e il risentimento ideologico di Mauro Visentin
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Appunti sulla Big Society di David Cameron di Vincenzo Magagna
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19
Olocausto spirituale di Graziella Falconi
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Le Amministrative di Milano e Napoli e la costruzione dell’alternativa di Elio Matassi
Le recentissime vittorie elettorali di Milano e Napoli, pur con la loro specificità, segnano un momento decisivo, in coerenza con il trend europeo che ha visto una fortissima ripresa di tutto lo schieramento di sinistra dalla Francia alla Germania, per la costruzione di un’autentica alternativa al blocco neopopulista che costituisce l’attuale maggioranza parlamentare in Italia. Si tratta, nel caso di Milano, di un’autentica inversione di tendenza, dato che la Lombardia e il Veneto da circa un ventennio hanno rappresentato l’asse portante del blocco politico e sociale del neopopulismo e Milano può essere considerata a tutti gli effetti come la
‘capitale’ di tale blocco. Il cosìddetto vento del nord ha capovolto, dopo un lungo periodo, la sua direzione e questo è un dato che deve far riflettere, visto che si tratta della regione più produttiva del nostro scenario nazionale. Sembra essersi interrotta se non addirittura lacerata quella felice sintonia tra le aspirazioni – bisogni dell’elettorato nordista e il blocco neopopulista. Un altro dato che deve far riflettere sta nel bisogno di partecipazione espresso dalla società civile milanese (basti pensare al centro organizzativo dei comitati Pisapia della città, presieduto da un maestro elementare), un bisogno di partecipazione che non può essere confuso in maniera semplificatoria con la formula, che pure è stata utilizzata, di ‘populismo di sinistra’. Il populismo è un fenomeno politico regressivo, un rifiuto pregiudiziale della mediazione politica, che comporta necessariamente come automatismo un bisogno di leadership cesaristica, che si impone sempre e comunque dall’alto. Le elezioni amministrative di Milano hanno dimostrato, invece, esattamente l’esigenza inversa, il bisogno di recuperare un rapporto diretto con la mediazione politica da parte della società civile, ossia il recupero di quella dimensione partecipativa della democrazia che da sempre rappresenta l’istanza centrale per alimentare in maniera costruttiva la dimensione più propriamente rappresentativa della democrazia. Tutto questo dimostra in maniera inequivoca quanto sia stata giusta l’intuizione originaria del Partito Democratico di istituire le primarie per la selezione della propria classe dirigente, ossia partire dal coinvolgimento con la società civile per alimentare una scelta e un rinnovamento che devono costituire la cifra di una democrazia che nutra l’ambizione di essere effettiva. Basti pensare che l’istituto delle primarie, prima deriso dall’attuale blocco neopopulista, dopo la pesante sconfitta delle amministrative, viene considerato dall’attuale maggioranza parlamentare come lo strumento decisivo per dare nuovo impulso al blocco neopopulista. I dubbi che hanno attraversato in più momenti lo stesso Partito Democratico sul ruolo delle primarie devono essere riconsiderati; ovviamente si tratta di un istituto che deve essere costantemente perfezionato ma che non può essere abbandonato, perché rappresenta il punto di partenza di un nuovo impegno politico fondato sulla partecipazione e sulle passioni individuali. Qualcuno ha detto giustamente che la politica è un’arte e non una scienza, cercando di argomentare con questa formula il ruolo svolto dalla flessibilità individuale all’interno delle molteplici forze in campo che concorrono a determinare le linee tendenziali del movimento della storia e della politica. Il risultato delle amministrative di Napoli dato che, nell’ultimo ventennio le amministrazioni erano state tutte di centro sinistra e avevano largamente disatteso il loro compito, dimostra da un’altra angolazione, lo stesso bisogno di partecipazione e di coinvolgimento individuale. La scelta, quasi plebiscitaria, di affidarsi ad un magistrato, celebre per alcune sue inchieste invise al potere costituito, ha dimostrato in maniera inequivoca, contro tutte le demonizzazioni pregiudiziali della Presidenza del Consiglio, quali siano le aspettative e le esigenze della società civile napoletana, di tornare ad essere protagonista nella costruzione e nella rinascita di Napoli. Anche in questo caso, comunque, questo movimento dal basso non può essere confuso con il fenomeno populistico che rappresenta linee
di tendenza politiche completamente diverse. Queste due vittorie, molto rilevanti, costituiscono per il Partito Democratico il punto di partenza decisivo per la costruzione di un’alternativa credibile al blocco neopopulista, ormai in via di logoramento. Gli schemi di cui si è sempre parlato, nella prima metà della legislatura, sulle strategie possibili per la costruzione dell’alternativa, ossia l’alleanza con il cosìddetto terzo polo o, con una formula ancora più esplicita, con il cosìddetto centro, oppure l’alleanza e la riunificazione di tutta la sinistra (il movimento di Vendola, l’Italia dei valori e quello che rimane della federazione della sinistra - Rifondazione comunista, Comunisti italiani e verdi - ) sono schemi sostanzialmente superati dall’attuale fase politica. Sono appunto schemi che si sovrappongono al movimento naturale della società civile, che cercano di indirizzarla dall’alto e di controllarne movimento e finalità. Bisogna rovesciare questa impostazione, per assecondare le aspirazioni e le esigenze che nascono dal basso e che, indipendentemente da formule e schieramenti, impongono un’alternativa al blocco neopopulista. Proprio questo capovolgimento dimostra quanto sia stata corretta l’intuizione che ha portato alla nascita del Partito Democratico, un partito che riassume in sé le esigenze di un centro non statico e di una sinistra effettivamente riformista. Questa nascita può raccogliere e interpretare l’impulso irresistibile che nasce dal basso, fornendogli il naturale sbocco politico - istituzionale. Proprio per questo sono errate e completamente fuori misura quelle considerazioni che tendono a ravvisare analogie e somiglianze con la situazione del 1993 – 1994, quando dopo il trionfale successo alle amministrative della sinistra, vi fu la netta sconfitta del blocco progressista nelle politiche successive, con la situazione attuale. La differenza tra le due situazioni sta nella nascita del Partito Democratico, che costituisce un fattore di stabilità e nel contempo di innovazione che non può essere sottovalutata. Le alleanze vanno costruite a partire dal basso e non con le consuete liturgie oligarchiche, che nell’attuale fase politica stanno dimostrando tutta la loro impraticabilità ed inconsistenza.
Crepuscolo della Lega di Umberto Curi
Per certi aspetti, quanto sta accadendo, in particolare nel Nord-est del paese, ha l’aspetto emblematico di una nemesi storica. Sul tema dell’immigrazione, la Lega Nord aveva costruito la sua identità politica e le sue fortune elettorali. Alimentando la paura, inevitabilmente conseguente all’incontro con lo straniero - come insegna ampiamente tutta la tradizione culturale dell’Occidente - il Carroccio era riuscito a scavalcare perfino il PDL nelle preferenze dell’elettorato di centrodestra. Speculando spregiudicatamente sull’impatto emotivo derivante dalle grandi ondate migratorie, i seguaci veneti di Bossi si erano imposti come la forza di riferimento per quanti temevano di essere in qualche modo penalizzati dai nuovi arrivati, perdendo il lavoro o la casa, e magari subendo rischi per l’incolumità propria o dei propri familiari. Insomma, a differenza di altri soggetti politici, impegnati a delineare una proposta articolata su più fronti della politica interna e della politica internazionale, per anni la Lega aveva goduto di un privilegio speciale. Quello di non essere tenuta a dire quali fossero le sue opzioni sui temi all’ordine del giorno dell’agenda politica, essendo essa invece totalmente assorbita da un’unica que-
stione dominante – e cioè l’immigrazione. Come è testimoniato dall’esito delle recenti consultazioni amministrative (sempre che lo si sappia interpretare adeguatamente), questo regime speciale, questa sorta di esenzione privilegiata, non soltanto è saltato, ma si è perfino capovolto. La Lega sta ora pagando in termini di perdita di consensi proprio sul piano dei problemi connessi con l’immigrazione. Anzitutto, è risultato evidente che – a dispetto di tante tonanti affermazioni – il Carroccio non ha affatto una propria proposta autonoma su questo terreno. L’unico discorso che è stato finora ripetuto in maniera perfino ossessiva ha riguardato e riguarda soltanto un aspetto, e non il più importante, della complessa problematica relativa ai migranti, vale a dire la questione degli accessi. Come se la decisione di quanti possano legittimamente accedere al territorio e in esso risiedere esaurisse ogni e qualunque difficoltà. Come se – esattamente al contrario – le vere questioni di fondo non cominciassero (anziché finire) proprio dopo l’accesso. Se ne vuole una prova? Sono ormai, sulla base di stime prudenti, più di 5 milioni le persone straniere stabilmente presenti sul nostro territorio, dunque quasi il 10 % della popolazione. La loro presenza pone problemi sul piano del mercato del lavoro, dell’abitazione, dell’assistenza sanitaria, della formazione scolastica, della coesistenza religiosa, della convivenza culturale. Su tutte queste materie la Lega non ha una proposta politica che possa essere assunta come riferimento almeno relativamente coerente. Di più: sul modello di società che consegue dall’ormai inesorabile e comunque irreversibile massiccia presenza di stranieri il Carroccio è letteralmente afasico, non dice e non saprebbe dire nulla. Ne consegue un esito che potrebbe sembrare perfino paradossale, e che invece è estremamente realistico, e cioè che la forza politica che da anni si è totalmente immedesimata con un’unica tematica – quella dell’immigrazione – in realtà non ha affatto una proposta politica organica, capace di offrire risposte adeguate su quel terreno. La battuta di arresto fatta registrare dai seguaci di Bossi nel recente turno elettorale si spiega essenzialmente proprio in questi termini, con la scoperta da parte dell’elettorato del carattere del tutto retorico e ineffettuale delle posizioni leghiste in tema di immigrazione. Con l’aver capito che, sotto il vestito delle frasi ad effetto, davvero non c’era nulla. Con l’inizio dei bombardamenti sulla Libia, nel momento in cui si è concretamente verificato che anche Maroni e Zaia finivano per assumere decisioni e atteggiamenti simili a quelli di esponenti di altri partiti, il velo è stato squarciato. Si è visto che, dietro il ruggito bossiano “foera da i ball”, non c’era affatto una strategia degna di questo nome. Insomma, la Lega perisce (o, almeno, patisce) di ciò di cui finora ha ferito. Il privilegio è cessato. D’ora innanzi, anch’essa dovrà far vedere che cosa sa fare veramente come forza di governo.
Cosa resta della sinistra nella sinistra di Alfonso M. Iacono
Cosa resta di sinistra nei partiti della sinistra? A vedere le cose astraendo dalla quotidianità di uno scontro politico che spesso, dietro l’emergenza, nasconde limiti e rimozioni, direi purtroppo niente o quasi niente. A me sembra che si sia persa l’abitudine a una riflessione critica e collettiva, spregiudicata e di lungo periodo, e si sia dissolta la capacità e forse la volontà di visione generale della società e della storia. Dietro l’apparente realismo politico, che dovrebbe essere rassicurante e invece non lo è, si cela la paura di pensare e di agire. Temo che si sia affermato ovunque ciò che Leonardo Sciascia attribuiva allo scetticismo dei siciliani, il non credere alle idee. Da tempo la sinistra non ha più l’egemonia culturale e subisce fondamentalmente la visione del mondo di destra che oscilla tra un plebeismo plebiscitario e mediatico e un giustizialismo conservatore. Avendo quasi del tutto abbandonato la presenza territoriale, la si-
nistra italiana si è illusa e si illude di poter contrastare il regime da terzo millennio, espresso attualmente dal Berlusconi, che stiamo subendo e che opera all’interno di regole democratiche, opponendovi una lotta mediatica del tutto perdente perché contraddittoria con l’essenza stessa della sinistra. Si è lasciato libero terreno o alla tentazione mediatica di sostituire la politica con la giustizia, oppure, al Nord, a una forza come la Lega che, nell’epoca del dominio dei mass media, non ha perso affatto territorialità, avendola paradossalmente ereditato, rovescandola, dalla tradizione di sinistra. Temo che per riaprire un discorso di sinistra occorra azzerare molte cose dell’attuale sinistra. Temo che non ci sia molto ormai da salvare. Temo che assumere la finzione di una continuità con il passato, con una tradizione, con una cultura sia soltanto, appunto, assumere una finzione che forse ci rassicura nell’immediato sulla nostra identità politica, ma che ci lascia nello sconforto e nella depressione dopo che ci si rende conto di essere caduti nel peggiore dei conformismi e nella più disastrosa assenza di fantasia e di visione ampia. Non si può né si deve delegare la propria partecipazione a quelle trasmissioni che oppongono al potere mediatico di Berlusconi un altro potere mediatico. Non si può e non si deve esaurire la propria conoscenza e cultura nella lettura dei giornali che allo svilimento della politica operato da quelli berlusconiani contrappongono una politica scandalistica, moralistica, padronale. E’ un segno di debolezza il dovere sperare in una giustizia che di fatto si sostituisce alla politica. E’ sconvolgente come si chiuda troppo facilmente un occhio, anzi tutt’e due gli occhi, sulle connivenze, i piccoli e grandi privilegi, le ipocrisie che hanno certamente favorito l’egemonia e il potere di Berlusconi. La voglia grande sarebbe quella di ritirarsi a vita privata, ma la politica, si sa, contiene una legge alla quale non si può sfuggire: se non vi partecipi tu direttamente, gli altri la faranno per te. Ma oggi è la politica, supervisibile e superpresente nei mass media, che tiene lontano, spinge nell’isolamento della vita privata, perché a dispetto di un senso comune fin troppo stolidamente radicato, non è vero che la scarsa o mancata partecipazione sia considerata un male. È vero purtroppo il contrario. Più spettatori ci sono, i quali rimangono inchiodati davanti allo schermo, meno cittadini sono disposti a muoversi e a occupare le piazze, meglio è per una politica fatta da professionisti che possono così decidere senza vincoli; professionisti in gran parte più o meno incapaci, perché, a differenza di un tempo, spesso, troppo spesso, si avvicina alla politica come professione chi la pensa come una carriera, talvolta purtroppo perché incapace di fare altro. Sto esagerando? Non nego naturalmente che vi siano per fortuna donne e uomini che lo fanno perché ci credono, ma sono loro a caratterizzare e a determinare oggi la politica dei partiti di sinistra? Credo che dovremmo avere il coraggio di farci questa domanda. Vi sono due modi di concepire la politica: o come amministrazione del potere oppure come attività di partecipazione al potere. Nel primo caso la politica è dei pochi, coloro che i molti hanno delegato ad amministrare, nel secondo caso è dei molti, i quali delegano sì ai pochi, ma senza una delega in bianco e invece con dei vincoli e a tempo determinato. In entrambi i casi, come detto, vige una legge non scritta che è senza eccezioni. Alla politica non si sfugge. O te
ne interessi tu direttamente oppure sono gli altri che la fanno per te, anche se non sono stati delegati da nessuno a farlo. O sei tu a farla oppure sono gli altri che la fanno per te. Per questo il consenso non può essere il solo e dominante metro di misura di una democrazia. O meglio non è il metro di misura che distingue la democrazia da un regime totalitario. Sono le modalità con cui si ottiene il consenso a creare la distinzione. E una modalità decisiva è costituita dal senso della partecipazione. Come ebbe a osservare Primo Levi: “A contrasto con una certa stilizzazione agiografica e retorica, quanto più è dura l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere”. Egli fa un elenco delle forme di disponibilità: terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi potere, anche assai circoscritto, viltà, calcolo finalizzato a eludere gli ordini. In modo variegato e sfumato la vittima si identifica con il carnefice, il suddito con il re. L’oppressione stimola il potere mimetico che è in noi. La domanda è: tutto questo è scomparso in democrazia? Seguendo la lezione di Primo Levi che analizzava i Lager anche come momento di riflessione più generale sul potere e le sue forme, mi devo chiedere, ci dobbiamo chiedere, cosa in un sistema democratico può portare (sta portando) a una nuova forma di regime dove al gioco del consenso non corrisponde la partecipazione? Allora, è necessario indagare su ciò che ci ha portati a un regime che, pur mantenendo le forme e le pratiche della democrazia, è diventato appunto un regime. Il potere sui mass media. D’accordo. Ma vi è anche, a mio parere, dell’altro. Per esempio, la condizione del precariato, quando diventa una condizione esistenziale permanente, finisce con lo svuotare la persona fino a renderla psicologicamente disponibile ai voleri del padrone. Qualche anno fa fu esaltata la precarietà, chiamata però, soprattutto a sinistra, con un nome ipocrita e allettante, flessibilità. La critica al posto fisso ha fatto perdere di vista la necessità e il diritto di tutti a un posto sicuro, a partire dal quale sarebbe bello pensare alla flessibilità, la quale ha senso se è scelta da chi lavora, là dove la precarietà è invece imposta da chi comanda. Di certo non auguro a nessuno di essere tutta la vita un precario. La precarietà non rende flessibili; al contrario irrigidisce il corpo e la mente e fa diventare gli uomini più disponibili al consenso senza partecipazione. Un tempo la sinistra aveva la capacità di unire riflessione, ricerca e azione collettiva. Oggi non è più così. La sinistra, negli ultimi anni, è stata connivente sia con l’idea di politica come amministrazione, sia con l’angoscia mediatica del consenso, sia con la condizione sociale della precarietà. Nella patetica ansia di non sembrare passatista e arretrata, si è data una pallida visione della società, osservata con occhi da miope, senza uno sguardo lontano. L’impallidimento degli ideali e l’offuscarsi di una visione egualitaria ha spinto fin quasi a idolatrare i manager e gli imprenditori, e ad accettare o subire del tatcherismo l’idea che una divaricazione fra dirigenti e diretti, economica e culturale, avrebbe aiutato l’organizzazione sociale e invece ha favorito purtroppo soltanto la sperequazione e la corruzione. A proposito di imprenditori, lo scorso anno è stata ricordata dal Comune di Pisa e dall’Università, la figura di Adriano Olivetti del
quale Luciano Gallino recentemente ha sottolineato quel senso di responsabilità sociale che ormai gli imprenditori hanno deliberatamente perso. Gli utili, che la Olivetti sapeva ben realizzare, erano ripartiti fra i dipendenti e nel territorio. L’organizzazione del lavoro fece epoca. Adriano seguì sempre il suggerimento del padre Camillo: “tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia”. Strana e meravigliosa affermazione da parte di un imprenditore che sembrava avere letto le considerazioni di Marx sugli effetti devastanti per gli operai e le loro famiglie delle rivoluzioni tecnologiche del capitalismo. Ma non c’era bisogno di essere marxisti. Bastava avere quel senso etico-sociale, laico o religioso che sia, oggi dissolto. Stride la contrapposizione fra questo modo di pensare la produzione e le teorie attualmente dominanti le quali affermano che lo scopo dell’impresa è unicamente quella di fare buoni affari. Oggi tutti o quasi, chi per cinismo, chi per ignavia, accettano la fine della responsabilità sociale. Si obietta che il mondo è cambiato, che siamo nell’epoca della globalizzazione. Una buona scusa per tutti i filistei. La parola sociale un tempo, ora non più, qualificava il termine responsabilità. Una parola che nessuno vorrebbe più fra i piedi, visto che viviamo in un mondo dove le relazioni sociali sono tornate ad essere sempre più e quasi esclusivamente dei mezzi per i fini privati degli individui. Sì, il mondo è cambiato, ma da questo punto di vista, in peggio. Non dovremmo riprendere, a sinistra, il discorso sulla responsabilità sociale delle imprese? Recentemente è stato pubblicato un libro di due sociologi britannici, Richard Wilkinson e Kate Pickett, il cui titolo italiano è a dir poco improprio, La misura dell’anima (Feltrinelli 2009). In realtà il titolo originale fa riferimento alla livelletta, quella dei muratori e di Totò, ed è un’interessante analisi delle società occidentali che dimostra come nei paesi ricchi ma caratterizzati da un maggiore livello delle diseguaglianze, aumentano i malesseri sociali, crescono la violenza, il disagio psichico, lo sfruttamento del lavoro, le malattie, dipendenze. Essi sfatano il pregiudizio diffuso e più o meno condiviso secondo cui la crescita economica rende automaticamente una nazione più sana e più soddisfatta di sé. “Nelle società moderne, essi scrivono, si osserva uno straordinario paradosso: pur avendo raggiunto l’apice del progresso tecnico e materiale dell’umanità, siamo affetti da ansia, portati alla depressione, preoccupati di come ci vedono gli altri, insicuri delle nostre amicizie, spinti a consumare in continuazione e privi di una vita di comunità degna di questo nome. In assenza del contatto sociale rilassato e della gratificazione emotiva di cui abbiamo bisogno, cerchiamo conforto negli eccessi alimentari, nello shopping e negli acquisti ossessivi, oppure ci lasciamo andare all’abuso di alcol, psicofarmaci e sostanze stupefacenti. Com’è possibile che abbiamo creato tanta sofferenza mentale ed emotiva, nonostante livelli di ricchezza e di agio che non hanno precedenti nella storia umana?”. Wilkinson e Pickett sostengono, dati comparativi alla mano, che questa situazione paradossale è causata dal divaricarsi delle diseguaglianze che, tra l’altro ha spinto gli individui a ridurre i risparmi, ad aumentare gli scoperti bancari, i saldi delle carte di credito e ad
accendere un secondo mutuo per finanziare i consumi. Gli autori in sostanza anticipavano (il libro è del 2009) le conclusioni a cui è giunto Obama nel valutarte l’attuale crisi economica. “Sappiamo anche, scrivono gli autori, che la crescita economica non è il metro con cui si misura tutto il resto….. Non dobbiamo neppure lasciarci convincere che i ricchi sono la rara e preziosa espressione di una razza superiore di individui più intelligenti, dai quali dipende la vita di tutti noi. Questa è una semplice illusione creata dalla ricchezza. Piuttosto che assumere un atteggiamento di gratitudine verso i ricchi, dobbiamo riconoscere gli effetti dannosi che essi hanno sul tessuto sociale”. Forse, perché vi sia qualcosa di sinistra nella sinistra, dovremmo ripartire da qui, dal problema dell’eguaglianza, che ben lungi dall’essere un eguagliamento plebeo da sudditi verso un capo, deve caratterizzarsi come un’aspirazione legittima di cittadini, nella consapevolezza che non vi può mai essere libertà piena per tutti nello stato di diseguaglianza.
Il caso StraussKahn e il risentimento ideologico Tra “correttezza” e “scorrettezza politica” di Mauro Visentin
Non sono, normalmente, attratto dalle vicende di cronaca. E anche se, come a tutti, mi capita di leggerne sui giornali, il mio interesse al riguardo è nel complesso modesto, disposto tutt’ al più a risvegliarsi solo nel caso che esse abbiano qualche rilevante riflesso sulla vita pubblica. Tuttavia, per quanto la Francia sia un Paese che apprezzo (soprattutto per il suo sistema politico-istituzionale) e in qualche
caso ammiro (ad esempio per la sua capacità di evocare quel senso di appartenenza ad un destino comune che è il principale tra i fattori atti a promuovere il passaggio di una collettività dalla configurazione amorfa di “popolo” a quella definita di “nazione”, senso del quale noi, tra i latini, siamo probabilmente i più sprovvisti), e per quanto i riflessi che il caso DSK (Dominique Strauss-Kahn) ha, sta per avere e certamente avrà sulla vita pubblica francese siano senza dubbio molto rilevanti, la mia scarsa attitudine per l’immedesimazione esterofila li ha resi comunque insufficienti a suscitare in me una qualche forma di “coinvolgimento”. Almeno fino a questa mattina (21 maggio), quando un articolo di Alessandro Piperno sul Corriere della Sera, mi ha indotto a riflettere su alcuni aspetti legati a questa vicenda. Piperno, infatti, ha evocato un tema al quale sono molto sensibile, parlando di “correttezza politica elevata a metafisica”. Cosa che mi ha tanto più colpito in quanto non potevo non apprezzare la proprietà, dal mio punto di vista, del rilievo. Fare del “politicamente corretto” una metafisica significa, infatti, farne una visione totalitaria e totalizzante della realtà (almeno di quella politica o, in senso lato, pubblica, e in qualche caso non solo di questa), un canone universale ed autentico per leggere e interpretare i fatti della vita (sociale e istituzionale, ma anche soggettiva e privata), un criterio infallibile di giudizio. E non mi sembra contestabile il dato che in America e, progressivamente in maniera sempre più accentuata anche da noi in Europa, il “politicamente corretto”, assurto al rango di ideologia dominante, abbia finito per assumere questi caratteri e queste pretese. D’accordo con una simile premessa, mi sono però accorto che non riuscivo ad esserlo con la conseguenza per la quale DSK veniva dipinto come una “vittima” di questa ideologia furente e “risentita”. Non perché, beninteso, mi sentissi toto corde con i fautori della gogna pubblica e della condanna esemplare da infliggere all’arroganza di un uomo potente e verosimilmente convinto della propria intoccabilità, ma perché percepivo come una forma uguale e contraria di “risentimento” l’attacco dello scrittore italiano e la sua evidente simpatia “simbolica” per DSK (una simpatia, in altri termini, rivolta non, sia chiaro, a quello che DSK avrebbe fatto, posto che lo abbia realmente fatto, ma a quello che egli rappresenta o meglio che è venuto a rappresentare nelle circostanze attuali). Non essendo io una personalità pubblica, quello che penso è logicamente privo di rilievo per chiunque, eccetto forse per i pochi con i quali mi intrattengo abitualmente, e colloco tra questi gli eventuali lettori dei miei interventi su InSchibboleth. A loro e mio beneficio esclusivo, cerco, perciò di chiarire (e chiarirmi) la sensazione di cui ho appena parlato. Faccio una premessa: per me, laico di spiriti liberali, il sesso fra adulti consenzienti, a qualsiasi estremo si spinga (fatta eccezione per la morte di uno dei due partner o per lesioni gravi arrecate ad uno dei due dall’altro) è e deve o dovrebbe essere considerato lecito sia giuridicamente che moralmente. L’eccezione parentetica rappresentata dalla morte di uno dei due o dalle lesioni gravi arrecate da un partner all’altro si spiega, evidentemente, non con un’eccezione al principio generale invocato, ma con il fatto che in questi casi il
consenso non può essere considerato fino in fondo reciproco (per definizione, e quindi anche quando, in ipotesi, da parte del soccombente prevalga un’esplicita volontà suicida o autolesionistica, situazione alla quale ho già avuto modo, sulle colonne di questa rivista, di dedicare un esame dettagliato – vedi il n° 2 di InSchibboleth, ottobre-novembre 2007). Ciò apre un delicato problema, perché nei rapporti erotici – come, più in generale, in quelli sentimentali – tra gli estremi dell’assoluta non reciprocità o non corrispondenza (dove il consenso manca completamente) e dell’assoluta reciprocità e corrispondenza (dove invece è totale e perfettamente simmetrico) intercorre una gamma vasta e assai varia di sfumature diverse e combinazioni possibili. E stabilire dove finisce il lecito e inizia l’illecito, il deprecabile, l’imputabile, il punibile (in senso morale, da un lato, giuridico dall’altro, tenuto conto anche del fatto che tra i due può, in taluni casi, esserci solo una parziale sovrapposizione o addirittura nessuna) è cosa tutt’altro che semplice. Ora, una prima risposta alla mia impossibilità di aderire ad uno dei due fronti che in questi casi sempre più spesso si contrappongono con pretese ugualmente totalitarie (metafisiche) quando la questione viene affrontata in termini di “correttezza politica”, per un verso, o di irrilevanza dei comportamenti privati ai fini del giudizio sull’attività politica e istituzionale di un uomo pubblico, per l’altro, sta proprio qui, ossia nel fatto che entrambi questi atteggiamenti sembrano non considerare adeguatamente la questione che a me pare più importante (e, come ho detto, più difficile a dirimersi non solo nei riguardi del singolo evento, ma in generale; sul piano, cioè, dei principi) ossia quella dell’effettiva reciprocità del consenso. Una seconda risposta riguarda, poi, il fatto che, in un contesto di democrazia di massa, in cui l’elettore (come ho anche cercato di spiegare su InSchibboleth di luglio-agosto del 2009) non vota tanto dei programmi quanto delle parole d’ordine e dei leader e questi ultimi soprattutto in virtù della loro immagine, per il corretto funzionamento del sistema (non di quello ideale, ovvero come dovrebbe essere, ma di quello reale, com’è) e quindi perché il voto espresso corrisponda il più possibile agli intenti e alla volontà dell’elettore (a prescindere dalla sua reale capacità di esprimere un consenso criticamente consapevole) è giusto che nel caso di un uomo in vista che aspira ad una carica istituzionale elettiva o comunque di alto prestigio la sua immagine privata e quella pubblica siano il più possibile sovrapponibili. Cosa che non comporta la pretesa (che sarebbe anch’essa metafisica) che venga messa a nudo la verità profonda dei comportamenti privati e delle affermazioni politiche, ma piuttosto quella di una doverosa cautela e di una collaudata abilità da parte di un uomo che riveste responsabilità istituzionali, nel dissimulare o tenere nascoste le proprie inclinazioni quando contrastano con le esigenze che lo spingono ad operare, sulla scena pubblica, in modo poco coerente e compatibile con queste. Un elogio dell’ipocrisia? Direi, piuttosto, una presa d’atto obbligata della vulnerabilità cui un’esposizione mediatica rilevante sottopone chiunque ne goda, con il corollario della auspicabile, realistica consapevolezza, da parte di chi possiede ed esibisce un’immagine pubblica, di un fatto inoppugnabile, ossia del fatto che quando le sue cautele si dimostrassero
insufficienti o per un malaugurato caso inutili, la difesa del proprio diritto alla privacy non potrebbe che apparire (e dovrebbe apparire anche a lui) cosa alquanto patetica. Questa considerazione ci porta ad una conseguenza ulteriore, che riguarda il paragone implicitamente stabilito da Piperno fra il caso di DSK e quello di Philip Roth, al quale l’assegnazione recente di un premio letterario è costata l’invettiva di un membro della giuria del premio stesso, che ne contestava l’assegnazione a Roth giudicando la sua letteratura e la sua vita politicamente scorrette. Benché il paragone sia, per esplicito riconoscimento dello stesso Piperno, improprio, le sue considerazioni al riguardo sono più pertinenti (e lo sarebbero anche senza l’invocata autorità di Harold Bloom). E’ vero, infatti, che uno scrittore di successo (come un artista di successo, un intellettuale di successo ecc.) è un personaggio pubblico, inevitabilmente soggetto a quella restrizione del diritto alla privacy che deriva dall’esserlo e dal combinato disposto della curiosità della gente e del diritto di cronaca che sono il naturale portato della società di massa e dell’industria culturale. Ma questo, se toglie legittimità alla sua eventuale pretesa di non veder giudicata pubblicamente la propria vita, prerogativa, questa, che, del resto, in una società della comunicazione onnilaterale, è garantita al privato cittadino solo dal suo vivere nell’ombra, non toglie di certo ad uno scrittore, non può togliergli, il diritto imprescrittibile di esigere che la propria opera sia giudicata esclusivamente sulla base del suo valore estetico, del suo rilievo letterario e del suo significato culturale. Naturalmente, anche nel caso di un uomo politico o di un tecnico che ricopre un alto incarico di nomina politica, la qualità del suo lavoro può e deve essere valutata indipendentemente dalle sue predilezioni private, ma dal momento che la carica che ricopre deriva, in modo diretto o indiretto, dal consenso elettorale, il giudizio sulla sua vita non può non coinvolgere, almeno in via presuntiva, il grado di questo consenso. Di modo che, il diritto che il soggetto in questione detiene a ricoprire l’incarico che ricopre, non è riconducibile soltanto ai risultati e alla qualità dei suo impegno. D’altra parte, è vero che anche la giuria di un premio letterario può considerarsi un piccolo “corpo elettorale” e che decide anch’essa secondo il criterio della maggioranza dei suffragi, ma il punto è che una tale decisione concerne solo (deveriguardare esclusivamente) il valore intrinseco di un’opera, che, non potendo essere stabilito a maggioranza, non nascedal consenso della giuria, la quale deve limitarsi a riconoscerlo, se è in grado di farlo (cosa che rende la sua valutazione sempre sindacabile), come, invece, nascedal consenso del corpo elettorale la legittimità (che per questo è insindacabile) a ricoprire una carica o a rivestire un ruolo rappresentativi. Torniamo al caso DSK. Non c’è dubbio che anche se l’episodio di cui è stato protagonista risultasse, alla fine, meno grave di quanto non appaia in base alla notizie giornalistiche che ne sono state date (e alla denuncia della presunta vittima), ossia se invece della totale assenza di consenso da parte della donna, una verifica più attenta dei fatti facesse emergere un suo parziale o iniziale consenso, la carriera politica di Strauss-Kahn ne sarebbe, in ogni caso, più che compromessa, distrutta. E questo perché sarebbe comunque emerso, alla fine, che il soggetto in questione ha un comportamento
molto disinvolto nei confronti delle donne, un comportamento che difficilmente la maggioranza dei francesi, a torto o a ragione, sarebbe disposta a perdonare ad un possibile Presidente della Repubblica. Ma si potrebbe forse ritenere meno grave la sua colpa, sia dal punto di vista etico sia da quello giuridico. E lo si potrebbe, quindi, forse, considerare una “vittima” almeno in parte, dell’oltranzismo “metafisico” di cui parla Piperno, cosa che senza dubbio autorizzerebbe quegli amici che da subito si sono schierati al suo fianco (non solo in Francia) ad accentuare le loro denunce risentite del puritanesimo americano. Sarebbe, tuttavia, legittimo, da un punto di vista logicoconcettuale, concludere per una “parzialità della colpa” nel caso di una “parzialità del consenso”? Per quanto la cosa possa sembrare ovvia al senso comune, lo è molto di meno se viene sottoposta ad un esame non così sommario o basato sulle “assonanze” (consenso parziale – colpa parziale) come quello degli schieramenti contrapposti dei “risentiti” di ambo le parti. Facciamo un semplice esempio, supponendo che il consenso parziale corrisponda ad una promessa di dazione (danaro, favori) che un uomo ricco e potente può certo fare, risultando persuasivo e credibile, ad una femme de chambre, e supponiamo poi che qualcosa (un elevarsi delle richieste prestazionali a lei rivolte o il dubbio, da parte della donna, di essere stata raggirata) abbia successivamente indotto quest’ultima a ritirare il suo consenso; ebbene, averla costretta, ciò nonostante, ad un rapporto intimo rappresenta una violenza minore, da parte dell’inquisito? Dal punto di vista giuridico potranno essere forse invocate, in questo caso, delle “circostanze attenuanti”, ma in una prospettiva morale? Ebbene, mi sembra che sotto questo profilo non ci sia spazio per molti distinguo: una violenza è una violenza e ha inizio nell’istante stesso in cui viene a mancare il consenso di uno dei due partner se l’altro, ciò nonostante, pretende di imporsi. Ugualmente, è violenza se il consenso di uno dei due è estorto con il ricatto o con la minaccia (nel caso, in particolare, che chi si piega all’estorsione lo faccia come unica possibilità di ottener qualcosa alla quale avrebbe comunque diritto, perché se ciò che si vuole ottenere fosse invece qualcosa di illecito, piegarsi al ricatto di chi è disposto a concederlo solo in cambio di favori sessuali, somiglierebbe molto di più ad un patto scellerato fra persone di pochi scrupoli che ad una violenza subita dall’uno ed esercitata dall’altro). Viceversa, non si configura moralmente (e neppure giuridicamente) come violenza un rapporto dichiarato (e magari denunciato) come non consensuale quando il negato consenso sia solo il frutto di un pentimento retrodatato, intervenuto successivamente, a cose fatte. E’ evidente che ciascuna di queste situazioni ipotetiche ne contempla molte altre sotto di sé con sfumature senza dubbio apprezzabili e rilevanti dal punto di vista giuridico, ma sotto l’angolo prospettico in cui si pone la valutazione morale di un episodio di questo genere sembra (anche senza le oltranze della metafisica) che non si possa fare nulla di più che tagliare con il coltello il nodo intricatissimo delle dinamiche psicologiche che qui sono coinvolte, anche perché queste restano, in definitiva, consegnate ad un vissuto interiore, che per definizione è inaccessibile non solo a soggetti terzi, ma anche a quello che, per ciascuna delle due persone coinvolte, è il “partner”. Ora, per la ragione appena esposta, il giudizio morale, in que-
ste circostanze, resta sempre appeso ad una valutazione dell’accaduto necessariamente approssimativa e molto spesso tributaria, per l’accertamento dei fatti, di una sentenza penale che, del resto, ne garantisce lo svolgimento effettivo solo in virtù di una convenzione socialmente riconosciuta. Una simile considerazione dovrebbe, pertanto, indurre tutti, accusatori e difensori (eccetto quelli che rivestono i due ruoli per ragioni istituzionali), ad una maggior cautela. Anche perché, in base a quanto abbiamo appena detto, un giudizio etico adeguato dovrebbe potersi esprimere solo dopo una sentenza giudiziaria definitiva in grado di fornire ad esso la ricostruzione relativamente più veritiera dello svolgimento dei fatti su cui fondarsi. Mentre di norma accade l’opposto: il giudizio morale precede quello giuridico. Se non si rispetta quest’ordine di successione, dichiararsi, come fa Piperno, profondamente “turbato” dalla vicenda di DSK, spingendosi fino a dire che questo turbamento resterebbe intatto anche nel caso in cui venisse dimostrato in tribunale che l’odioso crimine attribuitogli presuntivamente è stato da lui davvero commesso significa solo rovesciare il segno del risentimento degli accusatori in forza di un risentimento, come ho già detto, uguale e contrario, nonché altrettanto pregiudicato (cosa che sembrerebbe confermata dalla lettura dell’ultimo romanzo dello scrittore, che investe proprio questo problema). La scarsa imparzialità del suo ragionamento, infatti, mi sembra emerga con nettezza là dove giudica “un gesto di pudicizia” il divieto imposto in certi ordinamenti alle telecamere di riprendere imputati e testimoni; attestazione, a suo dire, di una civiltà “misericordiosa”. Per quanto la cosa possa apparire equa, sembra che una riflessione la meriterebbe anche il fatto che ove questo sistema venisse generalizzato e adottato universalmente esso rischierebbe di introdurre e istituzionalizzare un ingiustificato discrimine fra il pubblico che assiste allo svolgersi del procedimento in tribunale e quello che lo segue attraverso i mezzi di informazione. A meno di non voler tenere tutti i processi di questo tipo (o tutti i processi senz’altro?), come si dice nel linguaggio dei tribunali e delle corti di giustizia, “a porte chiuse”. Ma abbracciare una tesi del genere sarebbe alquanto pericoloso, tenendo conto del fatto che la pubblicità del processo è uno dei pilastri del diritto penale europeo e del garantismo giuridico. Limitare questa pubblicità può essere, perciò, un’arma a doppio taglio, rispetto alla quale una certezza come quella dichiarata nell’articolo di Piperno sembra espressione di una “metafisica” non molto diversa, benché di segno opposto, a quella che lui stesso denuncia come imperante negli Stati Uniti a causa del loro puritanesimo, e forse anche più nociva o pericolosa di questa.
Appunti sulla Big Society di David Cameron di Vincenzo Magagna
Nel luglio 2010 il leader dei Conservatori inglesi David Cameron era da pochi mesi alla guida di un governo di coalizione con i Liberal Democratici. I primi provvedimenti del nuovo governo erano stati all’insegna dell’austerità, e misure drastiche per ridurre l’enorme deficit nel bilancio dello stato venivano annunciate quasi quotidianamente. L’attività di governo, rifletteva Cameron in un discorso di quel periodo, si può dividere in due categorie, quello che si fa perché è un dovere e quello che si fa per passione. Il taglio del deficit apparteneva alla categoria dei doveri, ma la “grande passione” di Cameron, era un’altra: costruire la Big Society. Questo termine, che tradotto letteralmente significa “grande società”, vuole evocare una società forte, autonoma, coesa. Implicitamente si pone in contrap-
posizione con il big government, una situazione in cui è forte il potere delle autorità pubbliche, e dello stato in particolare. L’argomento di Cameron è semplice. Il big government ha fallito nei suoi obiettivi di giustizia sociale, la lotta alla povertà e la riduzione delle disuguaglianze. Il problema è l’impostazione eccessivamente tecnocratica e dirigista delle politiche sociali, la pretesa di elaborare dal ministero una risposta a tutti i problemi della società e di imporla poi attraverso la redistribuzione fiscale e la gestione diretta dei servizi pubblici. Questo approccio ha ridotto la sfera di autonomia degli individui e delle cosiddette società intermedie (famiglie, associazioni, ecc.), e indebolito la loro capacità di trovare autonomamente una risposta ai propri bisogni. Con la deresponsabilizzazione degli individui e delle società intermedie si arriva a una conseguenza paradossale: l’azione sociale dello stato, animata in origine da principi di solidarietà, finisce per generare egoismo ed individualismo diffusi. Secondo Cameron, quindi, la grande espansione della sfera di influenza dello stato iniziata negli anni ’40, e culminata con i governi laburisti dal 1997 al 2010, è avvenuta a scapito della società, e ha pregiudicato la capacità dello stato sociale di perseguire efficacemente i suoi obiettivi originari. Per risolvere questo problema non basta che lo stato faccia un passo indietro. Lo stato deve impegnarsi attivamente per promuovere una società più forte. L’abbandono dell’approccio del big government passa quindi innanzitutto dal decentramento, da una forte devoluzione di poteri e risorse dal governo centrale verso il basso, ma richiede anche di creare le condizioni perché individui e altri attori sociali possano esercitare efficacemente il loro ruolo. In questo lo stato può e deve aiutare, ad esempio migliorando la trasparenza della spesa pubblica, o introducendo meccanismi di sostegno finanziario agli operatori del terzo settore. L’intenzione di Cameron, per usare le sue parole, è di “utilizzare lo stato per ricreare la società”. Questo, essenzialmente, è il programma della Big Society (BS). Nel primo anno del governo, il programma ha mantenuto un elevato profilo, grazie soprattutto al forte sostegno dello stesso Cameron e dei suoi strateghi. Le numerose iniziative di riforma dei servizi pubblici messe in cantiere dalla coalizione sono state quasi tutte presentate come un contributo alla costruzione della BS. Tuttavia, in ampi settori del Partito Conservatore la BS ha avuto un’accoglienza tiepida, i Liberal Democratici ne parlano appena, e anche l’elettorato sembra non esserne stato particolarmente entusiasmato. Forse anche per questo gli aspetti più specifici del programma, cioè l’aumento della trasparenza e gli interventi a sostegno del terzo settore, sono rimasti più in ombra e hanno subito in certi casi forti ritardi nell’attuazione. Per volontà di Cameron comunque la BS è rimasta come un filo conduttore dell’azione di governo. Questo contributo intende offrire qualche spunto di riflessione sul programma della BS alla luce di una delle grandi iniziative di riforma dei servizi pubblici promosse sotto la sua bandiera: la riforma del servizio sanitario nazionale inglese (NHS). Questa riforma, presentata in un libro bianco nel luglio 2010 e successivamente in un disegno di legge quest’anno, è stata fortemente criticata da tutte le categorie interessate e ha aperto profonde divisioni nella coalizione
di governo. Recentemente il suo percorso legislativo è stato sospeso per permettere al governo di modificarne alcuni aspetti e assicurarsi così il consenso necessario a procedere. Nonostante l’incertezza sull’esito della riforma, il suo disegno originario resta un esempio interessante di applicazione del programma della BS a politiche concrete. Guarderemo quindi ad alcuni aspetti del progetto di riforma presentato dal governo per illustrare tre delle principali obiezioni che sono comunemente mosse alla BS, e tentarne una valutazione. La prima obiezione è che l’insistenza dei Conservatori sulla necessità di “ingrandire la società” è in realtà un modo per oscurare la vera natura del loro programma, che è semplicemente di ridimensionamento dello stato. “Grande società” non sarebbe quindi che un altro modo per dire “piccolo stato”. La promozione di nuove forme di risposta ai problemi sociali sarebbe cioè un obiettivo secondario del governo, mentre la sua priorità sarebbe una riduzione dello stato fondata su premesse neoliberiste tradizionali, come il desiderio di migliorare efficienza e produttività nell’economia. Più o meno questo si vuole dire quando si afferma che la BS è una “cortina di fumo per i tagli” alla spesa pubblica. Se considerazioni di giustizia sociale fossero effettivamente secondarie nel programma della BS, sarebbe legittimo domandarsi quanto sia ferma l’intenzione dichiarata di utilizzare lo stato per creare una “società più forte”, o se anche questo non faccia parte di una semplice operazione d’immagine. Lo scarso profilo delle iniziative sin qui adottate dal governo nell’ambito specifico della BS, e i forti ritardi nell’attuazione di molte di esse, sembrerebbero confermare quest’ultima ipotesi. Ma guardiamo alla riforma dell’NHS. La riforma è stata presentata come una massiccia devoluzione di poteri dal governo centrale ai professionisti e ai pazienti del servizio sanitario. Nel suo impianto fondamentale sarebbe quindi perfettamente in linea con i principi della BS. Ai professionisti verrebbe dato maggiore controllo sul budget sanitario, mentre verrebbero fortemente ampliati i poteri di scelta e di controllo dei pazienti sulle prestazioni che ricevono. Accanto alla maggiore libertà di professionisti e pazienti di decidere le forme e i modi dell’assistenza sanitaria, la riforma prevede una maggiore apertura ad operatori privati e del terzo settore nella gestione dei servizi, e il potenziamento dei meccanismi di concorrenza già esistenti nel sistema. Secondo il governo, libertà e concorrenza si rafforzerebbero a vicenda, portando a un servizio sanitario più efficiente, innovativo e rispondente ai bisogni dei pazienti. Tuttavia nelle prime fasi della riforma il governo è stato solerte soprattutto nell’annunciare l’abolizione di tutte le strutture intermedie di gestione del servizio sanitario (10 enti regionali e 152 enti simili alle ASL o USL italiane) e nel definire i nuovi e rafforzati meccanismi di concorrenza. Molto minore attenzione è stata invece dedicata alle forme di coinvolgimento di pazienti e professionisti, al di là di proposte sull’organizzazione del sistema che ricalcano in buona parte le strutture già esistenti. Sembrerebbe quindi che almeno in quest’area il ridimensionamento degli organi statali e l’apertura al mercato abbiano avuto effettivamente la precedenza rispetto alla cessione di poteri e risorse agli attori sociali coinvolti. D’altronde,
alla luce dell’ingente deficit del bilancio pubblico inglese, all’NHS si richiede di realizzare enormi recuperi di efficienza nell’arco dei prossimi 3-4 anni, e questo costituisce una delle principali motivazioni della riforma. Se la prima obiezione mette in dubbio la reale intenzione del governo di costruire la “grande società”, la seconda mette in discussione la realizzabilità stessa di tale obiettivo. Secondo quest’obiezione, sarebbe irrealistico aspettarsi una crescita dell’impegno sociale diffuso nella misura necessaria a ottenere il livello di protezione sociale ed i servizi pubblici che i Conservatori pure dicono di voler mantenere. La BS sarebbe, in altre parole, un programma troppo “esigente” nei confronti della società. Come può il governo aspettarsi, per prendere un esempio spesso citato nei dibattiti sull’istruzione, che un gran numero di genitori accetti di formare e portare avanti in prima persona cooperative per la gestione della scuola dei figli? Ma torniamo al caso della riforma sanitaria. Secondo le proposte del governo, tutte le aziende sanitarie diventerebbero autonome, libere dal controllo diretto del ministero a cui la maggior parte di esse è ancora soggetta. Verrebbero al tempo stesso aboliti gli attuali limiti alla quota di reddito che un ospedale può ottenere da prestazioni private, rese cioè al di fuori del servizio sanitario nazionale. Le aziende sanitarie verrebbero inoltre esposte a un regime di insolvenza simile a quello previsto per le società commerciali, anche se in caso di fallimento le autorità pubbliche garantirebbero la continuità dell’assistenza sanitaria attraverso l’acquisizione da parte di aziende sane. Nel presentare questo programma di forte apertura alla concorrenza e alle regole di mercato, il governo ha messo particolarmente in evidenza l’aspettativa che molte aziende, una volta al di fuori del controllo ministeriale, vengano acquisite dai propri dipendenti e continuino la propria attività come imprese sociali. Nel Libro Bianco sull’NHS dell’estate 2010 si dice che l’ambizione del governo è di creare “il più grande settore di imprese sociali al mondo”. Anche qui si vedrebbe l’attuazione della BS, con i professionisti della sanità che uniscono le forze per gestire in prima persona le aziende in cui finora hanno lavorato da dipendenti, soggetti a un asfissiante controllo burocratico che emana dal ministero. Tuttavia il personale sanitario ha finora mostrato scarso interesse per la gestione in proprio delle aziende, almeno a giudicare dai modesti risultati di un’iniziativa analoga varata già dal precedente governo laburista. Ad inibire l’interesse del personale ad acquisire, in tutto o in parte, la propria azienda, è spesso la complessità dell’operazione, ma pesa anche l’entità della sfida finanziaria che tutte le aziende sanitarie dovranno affrontare nei prossimi anni. Sembra probabile che se assetti proprietari nuovi e forme innovative di gestione emergeranno dalla liberalizzazione proposta, questo avverrà soprattutto ad opera di imprese private. Alcune di queste, grazie alle loro dimensioni, potrebbero inoltre più facilmente avvantaggiarsi della possibilità di acquisire aziende sanitarie pubbliche in difficoltà. Queste prime indicazioni sembrano offrire una conferma della seconda obiezione. Sarebbe irrealistico aspettarsi che medici e infermieri accettino in gran numero di acquisire il controllo delle aziende sanitarie in cui lavorano. L’aspettativa del governo che i professioni-
sti occupino ampi spazi lasciati liberi dall’azione diretta dello stato sarebbe quindi velleitaria. La terza obiezione è più vicina al cuore del dibattito sulla corretta estensione delle responsabilità e dei poteri dello stato. Mentre infatti la prima obiezione mette in dubbio la sincerità del governo, e la seconda la realizzabilità dei suoi piani, la terza riguarda direttamente le vedute espresse dal governo circa la corretta definizione del ruolo dello stato. Secondo quest’obiezione, il perseguimento degli obiettivi di giustizia sociale dichiarati dal governo richiede che alcuni compiti restino di competenza esclusiva dello stato, mentre il programma della BS prevede un trasferimento di responsabilità su questi compiti dallo stato agli individui e ad altri attori sociali. Non si vuole qui negare l’applicazione del principio di sussidiarietà, ma semplicemente definire in modo diverso l’ambito delle responsabilità che spettano esclusivamente allo stato. Nell’articolare la sua visione della BS, il governo correrebbe il rischio di considerare alcune questioni fondamentali di giustizia sociale alla stregua di problemi locali, che possono essere risolti al meglio a livello locale. Così facendo comprometterebbe il raggiungimento di quegli stessi obiettivi di riduzione della povertà e delle disuguaglianze che sono dichiaratamente alla base del suo stesso programma. Prendendo sempre ad esempio l’NHS, si può notare come l’approccio del governo ad importanti aree della riforma sia stato improntato al laissez faire. L’esempio forse più importante è la definizione dei nuovi distretti di assistenza sanitaria, che farebbero capo a consorzi di medici di base attivi nel territorio. Tali consorzi avrebbero il compito di disegnare i servizi offerti a livello locale e di acquistarli con un budget assegnato dal centro, e sarebbero enti pubblici soggetti a uno stringente regime di regolamentazione. Tuttavia la definizione di importanti aspetti costitutivi di tali consorzi è lasciata in prima istanza all’iniziativa dei medici di base, che sarebbero liberi di formare i consorzi “dal basso”. Poiché tali aspetti comprendono questioni fondamentali come l’ambito territoriale e la popolazione servita da ciascun consorzio, è prevedibile che vi siano forti differenze nelle dimensioni e nella composizione demografica dei vari consorzi. Si tratta di questioni non semplicemente tecniche, ma decisive per la natura stessa di un servizio sanitario. Distretti sanitari troppo piccoli in termini di popolazione servita sono vulnerabili al rischio di forti deficit di bilancio, perché presentano un maggior rischio che la popolazione sia soggetta a malattie più costose da curare rispetto alla media. Inoltre, se vi sono forti differenze nella composizione demografica dei distretti, è più probabile il sorgere di distretti con una forte concentrazione di aree socialmente svantaggiate e/o con bisogni di assistenza sanitaria più complessi. Benché sia possibile compensare in parte tali effetti introducendo correttivi al meccanismo di allocazione delle risorse, l’esistenza di forti differenze nel profilo demografico dei distretti renderebbe inevitabile il sorgere di forti disuguaglianze nell’assistenza sanitaria offerta in diverse aree del paese. La sostenibilità finanziaria dei distretti più svantaggiati verrebbe inoltre messa in discussione. Si rischierebbe così di compromettere l’esistenza stessa di un servizio sanitario pubblico a
copertura universale. Secondo i sostenitori della terza obiezione, compiti come la definizione dell’ambito territoriale e della popolazione servita dai distretti andrebbero lasciati alle autorità pubbliche competenti. Se queste rinunciassero alla responsabilità per questi aspetti, rischierebbero di rendere impossibile il perseguimento degli obiettivi di assistenza per cui pure conservano la responsabilità ultima. La BS è stata al tempo stesso al centro dell’attenzione e relativamente in ombra in questo primo anno di governo di coalizione. Se da un lato infatti i suoi principi sono stati invocati a sostegno di quasi tutte le principali iniziative di riforma dei servizi pubblici, gli aspetti più specifici del programma hanno ricevuto minore attenzione e suscitato scarso entusiasmo, anche nelle file stesse dei Conservatori. D’altro canto l’azione del governo, concentrata sulla riduzione del deficit e su una aggressiva riforma dei servizi pubblici in senso liberista e localista, sembra giustificare i timori degli scettici. Di questi timori abbiamo visto qualche esempio, tratto dalla tormentata riforma della sanità. Tuttavia, la BS rimane interessante perché si presenta come la base programmatica di fondo di un’azione di governo che si sta dimostrando energicamente riformatrice, nonostante le difficoltà legate alla convivenza dei due partiti in un’inedita coalizione. La BS si presenta anche come una risposta nuova a povertà e disuguaglianza in tempi di crisi economica, una risposta che punta a superare i limiti dello stato sociale tradizionale. Mettendo quest’obiettivo di giustizia sociale al centro del loro programma, almeno a parole, i Conservatori cercano di occupare un terreno storicamente presidiato dalla sinistra. Per la sinistra la BS rappresenta dunque una sfida, se non altro la sfida di smascherare il programma di Cameron come una semplice operazione di immagine, un fondale trompe l’oeil che nasconde un cantiere ancora sostanzialmente neoliberista. La sfida è forse però più ampia, perché qualsiasi dibattito sulla BS non può non toccare la natura e i limiti del ruolo dello stato, e la sinistra non può non avere su questo una sua posizione ben definita e alternativa a quella dei Conservatori. Nei primi mesi all’opposizione il Partito Laburista ha agito su entrambi i fronti, da un lato criticando energicamente l’azione del governo e denunciandone le incongruenze, dall’altro avviando un’ampia riflessione alla ricerca di una posizione alternativa. In questa riflessione sta emergendo con forza una posizione, il cosiddetto Blue Labour, che presenta importanti punti di contatto con il programma della BS. Di questa posizione, che sta acquistando peso crescente all’interno del partito e attraendo sempre maggiore attenzione nel dibattito pubblico, ci occuperemo in un prossimo contributo.
La tenuta di Rajani di Alon Hilu e La controvita di Philip Roth Olocausto spirituale di Graziella Falconi*
Ăˆ sbarcato in Italia La tenuta Rajani (Einaudi 2011, pp. 306), romanzo di Alon Hilu che nel 2009 vinse il piĂš importante e ricco premio letterario di Israele, il Sapir. Premio che dopo tre mesi di polemichesui giornali, gli è stato ritirato con la motivazione che tra gli organiz-
zatori del premio c’era un suo parente; un conflitto d’interesse. Ma questa è soltanto una parte della verità. Il libro era piaciuto a Simon Peres, che ne aveva apprezzato le qualità artistiche, ma aveva suscitato anche l’interesse della Knesset che invece lo aveva trovato orribile. Il romanzo osa parlare, infatti, di catastrofe, usando cioè il termine con cui gli arabi indicano l’esodo palestinese, e proprio nel momento in cui il governo di Netanyahu ha deciso di abolire questa parola dai libri di testo degli studenti arabi d’Israele. La famiglia di Hilu (nato a Jaffa nel 1972) ha una sorta di biografia ebraica anche se è musulmana, originaria della Siria – Damasco – Paese che ha lasciato per Israele. Non che i palestinesi siano contenti di come sono trattati nel libro dove appaiono rozzi, selvaggi aggrappati a superstizioni, succubi del più forte, assetati di vendetta, così come recita la XXVII sura del Corano: «Li faremo perire insieme con tutto il loro popolo. Ecco le loro case in rovina a causa dei loro misfatti». Il romanzo è costruito sul ritrovamento e sulla lettura congiunta di due diari, l’uno arabo e l’altro ebraico. Diari entrambi inaffidabili, contraddittori e contorti. Il protagonista arabo, Salah, dal nome di un profeta del Corano, discendente della famiglia Rajani di Jaffa, è vittima delle sue allucinazioni. E il protagonista ebreo, Isaac Luminsky, un immigrato polacco – dal nome di una persona reale, Haim Margaliot Kalviirisky, mutato in Luminsky nella versione inglese a seguito dell’azione legale da parte dei discendenti di Kalviirisky, rinomato agronomo e pioniere della prima immigrazione degli ebrei in terra d’Israele fra il 1868 e il 1947 –, della sua falsità. E non può essere che così, poiché scrive Hilu «c’è un rapporto complicato tra raccontare la tua storia e vivere la propria vita». Anche uno dei più grandi autori ebrei Shmuel Agnon si era cimentato nel racconto delle origini dell’insediamento ebraico in Giudea; il suo Solo ieri si svolge anch’esso a Jaffa tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio della Seconda guerra mondiale, e l’Autore non cita mai un nome arabo, ignora totalmente la presenza palestinese. L’intento politico di Hilu era quello di rompere un tabù nella narrazione degli anni della fondazione. Un progetto che condivide con alcuni storici, come Benny Morris e Olan Pappe. Una scelta politica e una lettura dei primi anni del sionismo assai controversa che ha causato a Pappe il trasferimento obbligato a Londra. In Israele non si tollerano né ombre sui pionieri fondatori del Paese, né l’ironia sui sionisti «che prendono a calci gli abitanti e costruiscono kibbutz proclamando che sono paradisi socialisti», tanto meno contraddizioni sul racconto ufficiale secondo il quale chi fu espulso o se ne andò nel 1948 non ha alcuna voglia di tornare. Il romanzo ha inizio il 18 av 5655 (ossia la primavera-estate del 1895) con un incrociarsi di sguardi di curiosità, ammirazione e fiducia reciproca tra il ragazzino dodicenne Salah e Isaac che gli appare biondo e riccioluto come l’arcangelo Gabriele. È la serva della famiglia Rajani, Amina, a riferire a Salah, con parole tratte dal più vieto repertorio antisemita, che quell’arcangelo «era ebreo, membro
di quello strano popolo che infestava ogni angolo del mondo come pulci e pidocchi, uomini privi di dignità e di onore, con gli abiti sbrindellati e gli occhi velati, sempre immersi nella preghiera e giunti in massa anche a Jaffa per esercitare il commercio e sfruttare gli abitanti conformemente a un istinto scellerato. Tra loro vi erano strozzini che succhiavano il sangue alla brava gente». Salah ha dodici anni, nella sua sensibilità malata, non desidera che morire e intanto coltiva storie, prevede il futuro, predice che un uomo dalla barba nera e folta, parlando con sagacia, cercherà di convincere nobili e sovrani a cercare un regno per gli ebrei. Per non causare vergogna e umiliazione alla famiglia, su ordine di suo padre, Salah è rinchiuso nella tenuta. Una tenuta in stato di abbandono che tuttavia nasconde una grande forza e una rara bellezza e che fa molto gola a Isaac: «Sarò amico e compagno di tuo figlio e farò il possibile per aiutarlo», promette alla madre Afifa, bella araba dagli occhi verdi, posandole una mano sulla coscia. E così insinuandosi come un gatto sornione nella stanza da letto di Afifa, tenendo per mano il bambino, Isaac guadagna terreno verso la conquista della tenuta i cui mezzadri ubbidiscono ciecamente alle sue direttive. Quand’ecco che ritorna Mustafa, il marito di Afifa: è malato, soffre di spasmi e disturbi strani. Verso la fine estate del 1895, muore. «Mi chiedo quale sia il significato e quale ruolo io abbia in questo evento. Il cielo ha stabilito un curioso destino per me: rendere visita alle terre degli arabi e alle loro mogli. Forse ora mi si spalancherà la strada per ottenere entrambe e potrò diventare padrone e signore della tenuta che tanto desidero», così argomenta tra sé, Isaac. Agli occhi di Salah, novello Amleto – non mancano infatti Rosencratz e Guildestern nelle figure di Salim e Salam – Isaac colui che era stato l’arcangelo Gabriele, pur nel fulgore dei suoi riccioli d’oro, appare come il più infido, squallido e spregevole degli individui. Il bambino nel tentativo di far confessare a Isaac il delitto, lo provoca sul carattere degli ebrei, ancora una volta attingendo a una consolidata tradizione antisemita: «Mi misi a parlare allora in maniera vaga del carattere del popolo dell’arcangelo, gli ebrei, domandando se fossero vere le accuse che molti muovono loro circa la tendenza a mentire, a ricorrere al sotterfugio, il perfido arcangelo rispose che in effetti gli accusatori hanno ragione … se fosse pure tipico degli ebrei bramare le proprietà e le mogli altrui e il perfido arcangelo confermò anche questo con una risatina disinvolta, quasinci stessimo scambiando battute e barzellette. Egli non sa cosa sia l’onore». Salah è insieme il profeta del Corano, ma anche Amleto e Ofelia, i molti riferimenti alle tragedie di Shakespeare lo colorano di universalismo. Mentre per Isaac il carattere predominante è quello ebreo, un assoluto a sé stante. Isaac, secondo Salah porta alla follia la bella Afifa, a sua volta ora Gertrude ora Ofelia ora Lady Macbeth, la ricatta in continuazione, si dichiara disposto a badare ai braccianti e ad occuparsi della tenuta alla sola condizione che l’atto di proprietà, il kushan, della tenuta Rajani passi nelle sue mani: «Altrimenti me ne andrò e ti lascerò sola con quel tuo figlio squilibrato e strampalato». Le pagine del romanzo sono così precipitate dai giorni del sole nell’inverno dello scontento. Salah prevede tutto, il nuovo paesaggio israeliano, la perdizione degli arabi. In un incontro decisivo tra
l’uomo e il ragazzo, quando Isaac chiede: ma insomma, perché sei arrabbiato con me?, Salah risponde di non essere infuriato per le cose che Isaac ha fatto ma per quelle che farà. Allora Isaac lancia il suo ultimatum, dice basta: «O sei con me o sei contro di me. Se sei con me spogliati di questo manto di rabbia e di astio e indossa la tunica della fratellanza e del rispetto. Se sei contro di me ci dichiareremo guerra». Hilu lascia quindi nelle mani dell’ebreo Isaac la responsabilità della dichiarazione di guerra, ancorché essa sia causata dalle visioni di Salah, prima ancora che dalla sua ‘sfrenata malvagità’ e dall’incapacità dell’arabo di assumere un principio di realtà. Grava su Isaac l’accusa di una insensata bramosia della terra che oscura la tenerezza del suo cuore, a fronte della quale le maledizioni di Salah non sono niente. Non bastano tutte le tragedie di Shakespeare per narrare la complicata tragedia dei due popoli, ordita secondo gli uni e gli altri (almeno in questo concordi) da Dio. Secondo un detto ebraico quando l’uomo pensa, Dio ride, il pensiero dell’uomo e la parola che ne discende sono la risata di Dio. È una risata amara se il Creatore, come scrive Jean Daniel (La prigione ebraica) – per superare la delusione della sua stessa creazione ha dovuto inventarsi un piccolo popolo – «che non mette soggezione» – e scegliere di amarlo. Ma affinché Dio non abbia a pentirsi del suo amore, infinito e impietoso, a questo piccolo popolo è imposto di praticare un alto livello di spiritualità. Se così non fosse, se non fosse sacro, Dio stesso non potrebbe amarsi in esso. Non c’è altro popolo che affondi, come Israele, la sua storia e la sua identità in questo mito poetico. Nell’universo ebraico il vincolo identitario è totalizzante. Esso si manifesta anche tardivamente e contro la volontà e le certezze dell’individuo, arriva cioè un giorno in cui un ebreo si dice: «Non sono mai stato niente, quanto sono un ebreo». Il resto è niente. Così in Philip Roth – (La Controvita, Einaudi 2010, pp. 394) – a conferma che l’ebraismo sopravviverebbe anche se Israele fosse perduta, come sostenne Karl Jaspers: «L’ebraismo è più che lo Stato d’Israele». «E chi, allora» gli aveva obiettato Hannah Arendt «ha il diritto di parlare per gli Ebrei, come ebrei nel senso politico del termine?». L’Occidente, l’Europa in particolare, dal 1947 ha inteso dare una risposta al quesito della Arendt concedendo agli ebrei una terra, la Giudea, che non gli apparteneva più da tanto tempo, molto più dei quattrocento e passa anni della loro permanenza in Egitto. Accolti e riconosciuti dalla comunità internazionale che li spronava ad andare avanti, ma non accettati dai loro vicini, gli ebrei concepirono lo Stato di Israele come l’ente con il diritto di parlare per gli ebrei, che si assumevano così sia l’onere di «esercitare collettivamente l’ebraismo come etica del diritto e della giustizia» sia quello di badare alla propria sopravvivenza anziché lasciarla nelle mani degli altri. Per questi motivi, sostiene Jean Daniel, il legame degli ebrei con Israele «va molto in là», è molto più forte rispetto alla solidarietà verso qualunque Stato nel quale abbiano scelto di vivere. Il legame ebraismo-Israele si rivelerebbe così più forte e intricato di quanto Jaspers sosteneva, aprendo tuttavia delle contraddizioni. Di queste
contraddizioni sono diversamente testimoni sia il romanzo di Hilu, sia quello di Philip Roth. Israele suscita simpatie solo quando è piegato e piagato, gli ebrei senza Olocausto, dice Roth, saranno ebrei senza amici. Israele è accusato di aver imparato ad Auschwitz a comportarsi da nazista con gli arabi, la forza e la militanza degli ebrei viene considerata immorale, quando attacca e vince unanimemente si grida alla sua malvagità mentre il vinto, pur continuando a esercitare tutto il suo odio, è lodato per la sua virtù. Che cos’è Israele? Il Paese dove diventare un ebreo normale, il «terreno di coltura per ogni ramo di follia che il genio ebraico possa concepire», «l’ossessiva prigione degli ebrei par exellence», il luogo ideale per gli americani della diaspora che vanno e trovano rassicurazione nelle barbe che gli ricordano la «santa debolezza yddish»? Secondo Roth il sionismo ebbe le sue origini oltre che dal sogno di sfuggire al pericolo dei ritratti dell’ebreo, come quelli di Salah/Hilu, della crudeltà, della ingiustizia sociale e della persecuzione, dal desiderio di spogliarsi di un comportamento distintamente ebraico, e di costruirsi «una controvita, che ne fosse l’antimito». Israele come camera di decontaminazione dalla sacralità, il luogo «dove disebreizzarsi», dove diventare laici? Anche se i laici, afferma uno dei personaggi della Controvita, dai tratti fondamentalisti, non sanno per cosa vivono. Nella Controvita, arriva il giorno della riscoperta dell’ebraicità, per Henry, fratello di Nathan Zuckerman (alter ego di Roth, come in questo romanzo lo è anche Henry), afflitto da una ipertensione che influisce sulla sua attività sessuale, incapace, com’è, di vivere senza erezione, senza sesso. Henry fugge dai betabloccanti e si rifugia in Giudea. Nathan, che non aveva visitato Israele dal 1960, va a riprenderlo. Appena sbarcato in Terra Santa, Nathan è accusato di essere un cattivo ebreo, lo è nella misura in cui non si interessa al fatto che il mondo intero vedrebbe volentieri questo Paese cancellato dalla faccia della terra e anche per non aver coltivato quell’appuntamento ‘l’anno prossimo a Gerusalemme’, esattamente come gli arabi se lo danno per la Mecca. Il tema del ritorno, breve o lungo che sia, come atto sacro. Un po’ meno questa sacralità è riconosciuta alla diaspora palestinese, che ha fini più utilitaristici. In Roth, uno dei personaggi «in arabo mi dice che sogna di tornare a Giaffa – che un giorno ci tornerà – lo hanno convinto i siriani, tieni duro continua a prendere a sassate gli scuolabus degli ebrei e un giorno tutto sarà tuo». Nathan Zuckerman è uomo della Diaspora, l’ebreo errante è l’archetipo della diaspora, ossia vive la condizione di quanti, individui e popoli, a seguito e a causa di una situazione di forzatura, abbandonano il territorio di origine per un altro luogo dove vivere e dove si adoperano a mantenere un’identità collettiva sostenuta da un mito V. S. Naipaul, ad esempio, analizza la grande ambiguità di ricreare l’India a Port au Prince, dove la sua famiglia si era trasferita. L’alienazione, causata dalla perdita, si trasforma in sentimento di esclusione o di superiorità, in incapacità o in mancanza di volontà di essere pienamente accettati. Il risultato è che pur essendo inevitabilmente trasformati – ogni processo identitario non è che una costruzione variabile e utilitaria – i membri del circolo chiuso degli
indiani di Trinidad cercano di ricreare un’India a sua volta non più esistente. Oggi la condizione di popolo deterritorializzato è una condizione comune a molti popoli e nonostante la globalizzazione continua ad ardere il mito del ritorno. Emozioni disordinate risalenti alla cacciata dal Paradiso terrestre di Adamo ed Eva, alla lotta tra Caino e Abele, alle grandi ere delle origini dell’uomo, alla trasformazione/ passaggio da popoli cacciatori-raccoglitori in coltivatori e al timore di essere ricacciati dalla condizione di stanziale a quella di nomade. Ma non sono tutte lacrime quelle che brillano. L’anomalia della diaspora , come sotto linea con cattiveria uno de i personaggi di Controvita, è che nella diaspora si conduce una vita comoda, indipendente. Molte volte senza alcuna vergogna. Accusa che viene rivolta anche alla diaspora armena. Così come agli ebrei di New York che hanno la possibilità di sentirsi a casa propria, arrivati e rispettati. Le contraddizioni dei sentimenti e delle condizioni diasporiche generano tensioni che invertono l’ordine: il vero fanatico non è più il salmodiatore davanti al Muro del pianto, ma l’ebreo della diaspora il quale – secondo quanto afferma un fanatico, ritratto da Roth nel romanzo – mette l’egoismo davanti al sionismo, il guadagno personale e il piacere personale davanti alla sopravvivenza del popolo ebraico, dimentico che per esso non c’era un futuro nell’Europa cristiana dove «non potevano continuare a essere se stessi senza incitare alla violenza forze sinistre contro cui non avevano la minima possibilità di difendersi». Dove – riassume Roth – la vita dell’ebreo, la sua sopravvivenza doveva essere caratterizzata da: «servilismo, deferenza, diplomazia, autoironia, sfiducia in se stessi, depressione, buffoneria, amarezza, nervosismo, introversione, ipercritica, suscettibilità, ansietà sociale, assimilazione sociale». Non che la democratica America, dove pure gli ebrei si sentono al sicuro, non stia preparando, con il suo melting pot, i matrimoni tra religioni o razze diverse, di ebrei con non ebree, un secondo Olocausto, un olocausto spirituale. Roth introduce dunque il tema dell’olocausto spirituale, una filiazione della cultura del dubbio. Un Primo Levi* stanco e deluso da tutti è messo alle corde, in un cantone, da un giovane che, durante una visita a una scuola, gli chiede: perché privilegiare il racconto degli ebrei dopo il Vietnam, i genocidi Stalin ecc.? Roth chiama in causa un processo di ellenizzazione della cultura ebraica che renderebbe gli ebrei sempre più affetti da autodistruzione, autocontorsione, malati di autoinganno. Un suicidio di massa. Alon Hilu potrebbe dunque essere iscritto a questo club, pur provenendo da una cultura islamica che ha molto meno frequentazione col dubbio e molto più con la certezza. Quando si parla di Israele invece è vero ogni sinonimo e il suo contrario, la normalità e l’anormalità, il dritto e il rovescio, l’oppositio concidentorum e la conciditio oppositorum. In questo senso essa è paradigmatica della contemporaneità. Purtroppo non sempre riesce ad arrivare a una sintesi come nello splendido avvertimento di Golda Meir: «Noi forse vi perdoneremo un giorno di aver ucciso i nostri figli, ma mai vi perdoneremo d’averci messo nella situazionedi uccidere i vostri». * In collaborazione con la rivista Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri