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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Giugno-Luglio 2011, n° 36. (Numero 37 30 Ottobre 2011) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace
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n d i c e
La crisi della verticalitĂ della politica di Elio Matassi
La dignitĂ della donna di Marco Ivaldo
Sulla democrazia in Italia di Bruno Moroncini
La democrazia paritaria di Vittoria Franco
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Il fallimento e il rancore dei neoliberisti di Ernest
La crisi della verticalità della politica e il trionfo della orizzontalità della società civile di Elio Matassi
Dopo il dirompente risultato delle recenti elezioni amministrative, anche l’ampio conseguimento del quorum nei referendum (non avveniva da 16 anni) con il trionfo dei si, dimostra in maniera
inequivoca quale sia la direzione prospettica del nuovo trend politico – culturale. E’ finito un paradigma che considerava la dimensione politica in maniera unilateralmente verticale, una politica su cui cadevano dall’alto le decisioni di una leadership presuntamente carismatica, decisioni che non potevano non essere accettate. Gli ultimi due risultati elettorali (amministrative e referendum) verificano ampiamente quanto già acquisito con le ultime Presidenziali americane che avevano visto l’indiscussa vittoria di Obama. Un risultato che era stato conquistato con un movimento reticolare e democratico che nasceva ‘dal basso’, dalla società civile stessa che non consentiva più ad alcuno di dominarla ‘dall’alto’ con l’ausilio della spettatorialità televisiva. Nelle elezioni Presidenziali americane come in quelle recenti avvenute nel nostro paese vi è dunque un ritorno alla militanza diretta ed esplicita di ampli strati della società civile che non sono pregiudizialmente configgenti con i partiti – istituzioni ma che li aiutano a scegliere e a rinnovarsi. Questo movimento reticolare trova nello strumento elettronico il suo sbocco naturale, implicando una accentuata partecipazione senza la quale la ormai esangue democrazia rappresentativa non potrebbe più svilupparsi e continuare a vivere. Il ritorno alla democrazia partecipativa e la dialettica costruttiva fra quest’ultima e la dimensione rappresentativa della democrazia costituiscono la svolta epocale della più immediata contemporaneità. Una sfida che deve essere raccolta ed interpretata nella misura dovuta in modo particolare dal Partito Democratico che è nato per alimentare questa dialettica con l’istituzione delle Primarie. Siamo ad una svolta che è largamente consonante con quanto sta avvenendo a livello internazionale nel vicino Mediteranneo, in altre parti dell’Europa e che era stata anticipata dalle Presidenziali americane. Questa svolta non può non porre dinnanzi all’acuirsi della crisi economica, anche in questo caso, con riflessi internazionali, il problema di un nuovo modello di sviluppo, sollecitato anche dal definitivo tramonto di ogni illusione energetica di tipologia atomica. Sulla natura di tale modello di sviluppo non può non incidere anche il contributo delle religioni, un tema che la nostra rivista sin dal suo atto di nascita ha sempre portato avanti con coerenza. A questo proposito è interessante il recente libro di Vannino Chiti, ‘Religioni e politica nel mondo globale. Le ragioni di un dialogo’, Firenze, Giunti Editore, 2011. Del resto la stessa espressione ‘Schibboleth, in cui si riconosce il nostro gruppo di ricerca, è sicuramente molto di più di una semplice suggestione letterario-filosofica. L’origine-costellazione semanticoconcettuale si può ritrovare nella silloge dedicata da Jacques Derrida al grande poeta di lingua tedesca Paul Celan, Schibboleth-pour Paul Celan, in cui viene ad indicare in primo luogo il valore della condivisione, un valore che esprime contestualmente “la differenza, la linea di demarcazione o lo spartiacque, la scissione, la cesura, quanto, d’altra parte, la partecipazione…”. Si tratta di un paradigma prezioso per il legame indissolubile istituito tra differenza, linea di demarcazione e partecipazione/con-divisione e può essere utilizzato utilmente per una riformulazione del concetto di laicità che sia in grado, senza avventurarsi
in semplificatori ed impraticabili eclettismi, di rinnovare categorie e linguaggio del Partito Democratico. Rinnovamento che non potrà prescindere da questa struttura aperta di con-divisione e partecipazione; lo spazio politico riempito da tale con-divisione non dovrà mai essere alternativo alla realizzazione dell’individuo quanto piuttosto il luogo del confronto e del riconoscimento reciproco. Ovviamente per una revisione-approfondimento del concetto di laicità non possono essere ignorati i problemi emersi nell’ultima parte del secolo XX, la sfida della globalizzazione e delle società multiculturali. Sono in proposito interessanti le risposte fornite in primo luogo da Habermas. Per il filosofo tedesco la società contemporanea è una società “postsecolare”, ossia una società che “deve prevedere il persistere di comunità religiose entro un orizzonte sempre più secolarizzato”. Una società compiutamente secolarizzata nella quale, tuttavia sia venuta meno la collisione fra una forma mentis laico-militante (laicista) e la forma mentis religiosa. L’auspicio conclusivo di Habermas, che si può largamente condividere è, dunque, quello della formazione di una “sfera pubblica polifonica” (l’aggettivazione musicale risulta in proposito molto pregnante), in cui le ragioni religiose e quelle secolari possano coesistere ascoltandosi reciprocamente. Una sfera pubblica, concepita come inclusiva e non esclusiva, che ponga fine all’ingiustizia di richiedere dallo Stato liberaldemocratico ai suoi cittadini credenti una suddivisione d’identità (in una parte pubblica ed in una privata). Un’interpretazione critica del paradigma francese di laicità, di cui rappresenta una versione alternativa importante, quando recita che “la generalizzazione politica di una concezione del mondo di tipo secolare non è compatibile con la neutralità ideologica del potere statale, che garantisce eguali libertà etiche per tutti i cittadini”. Ho scelto intenzionalmente Habermas e la sua proposta di una rifondata ed allargata nozione di laicità in quanto credo fermamente nella funzione di una rinnovata ‘teoria critica’ che sappia leggere nel profondo e filtrare criticamente l’idea di ibridazione che ha governato il destino della modernità occidentale. Le argomentazioni critiche di Vannino Chiti vanno esattamente nella stessa direzione di ricerca e devono essere attentamente meditate anche per quello che concerne il contributo che può offrire la dottrina sociale della Chiesa. Inoltre vanno tenute nella debita considerazione anche le argomentazioni di Abdelwahab Meddeb in ‘Religione e politica’, che mira ad approfondire il contributo della religione islamica. Nelle società sempre più dominate dalla globalizzazione, un antidoto efficace contro il primato dell’ideologia economica può essere prospettato solo dalle religioni senza pregiudiziali e da un costruttivo dialogo interreligioso.
La dignità della donna di Marco Ivaldo
Vorrei muovere da una caratterizzazione della idea di dignità. Kant dice che nel regno dei fini tutto ha un prezzo, cioè può essere sostituito con qualche cosa d’altro che gli sia equivalente, oppure ha dignità, cioè è superiore ad ogni prezzo e non ammette equivalenti con cui sia permutabile o sostituibile. Ciò che ha dignità non può essere scambiato con qualche cosa d’altro, non ha un valore relativo, ma intrinseco. In quanto essenzialmente diversa dal prezzo la dignità risulta il valore non negoziabile per eccellenza. Ma che cosa, o chi ha dignità? Ha dignità la moralità, e ha dignità l’umanità in quanto capace di moralità. L’essere umano ha dignità in quanto è l’unico essere capace di autodeterminarsi in senso morale. Ma questo implica che l’essere umano ha dignità, e non prezzo, in quanto è libero, è la libertà nel mondo, e la libertà è la capacità – che soltanto l’essere umano possiede nel mondo – di svelare l’essere e di conferire significati al mondo stesso. Nonostante alcune contestazioni cui oggi viene sottoposto da alcune versioni del pensiero femminista, penso che possiamo riconoscere in questo presupposto filosofico-umanistico il fondamento etico-
ontologico della dignità della donna. La dignità della donna riposa ultimamente sul fatto che la donna, alla pari dell’uomo, è un essereumano, cioè è la libertà nel mondo. Come tale la donna, come l’uomo, ha dignità, cioè possiede una qualità ontologica che non ha prezzo, non è negoziabile, non è merce di scambio, e deve essere oggetto di rispetto. La donna è eguale all’uomo, e l’uomo alla donna, perché la donna e l’uomo sono espressioni differenti dell’umano, della comune umanità, e in questo sono radicalmente eguali - dicendo ‘radicalmente eguali’ (con)affermo indirettamente che questa eguaglianza include la differenza femminile-maschile, cioè la differenza sessuale o dei generi, come dirò. Una critica all’idea di uguaglianza – idea che ha costituito il punto d’avvio del femminismo, e nasce a ridosso della Rivoluzione francese – sostiene che insistere sul tasto dell’eguaglianza rappresenterebbe pur sempre un fattore di omologazione, di conformazione della donna a un modello ‘maschile’, il quale in definitiva riempie dei propri connotati l’idea dell’uguaglianza, finendo in un falso universalismo che spaccia per universali qualità o proprietà particolari (‘maschili’). Questa critica è pertinente e va accolta come invito all’autocritica: affermando che la donna ha la stessa dignità dell’uomo, che perciò non può in nessun caso venire ridotta a merce, cioè a materia negoziabile e permutabile, o a strumento, non sostengo affatto che la donna deve diventare come l’uomo, ma che l’uomo e la donna sono eguali nell’umano, e per questo hanno la stessa dignità. Le offese o le discriminazioni nei confronti della dignità della donna - il fatto che sembri ritornata socialmente ‘accettabile’, anzi incoraggiabile, l’opinione che la donna, in particolare il suo corpo, possano venire ridotti a merce ai quali si può assegnare un prezzo d’acquisto o di vendita - mi pare che provengano da un rinnovato rifiuto del principio-eguaglianza – rifiuto che fa parte di un più ampio attacco al principio-eguaglianza tipico della temperie ideologica degli ultimi venti anni -, e dall’idea della superiorità del maschio e della inferiorità della donna. Hanno il loro retroterra ideologico in una forma mentis - proveniente dal sottosuolo della nostra storia e che emerge come un fiume carsico nel “sonno della ragione” - che considera la donna ‘meno umana’ del maschio, cosa che rende ‘accettabile’ l’idea che la donna debba stare al servizio, o essere strumento della volontà di potenza di quest’ultimo - uno stare a servizio conosce molti modi di declinarsi, non solo quello sessuale. Perciò, senza istituire ‘gerarchie’ di tipo antropologico, dobbiamo muovere dall’idea di fondo che l’essere-umano, la libertà nel mondo, è uomo-donna, esiste come femminile-maschile: non che prima esista l’essere-umano, e poi esso si individui nella differenza sessuale, invece: l’essere-umano esiste nel mondo in individui, cioè nella differenza dei generi e come differenza dei generi. Abbiamo qui il principio di una ontologia duale, fondata sull’irriducibilità dell’essere-due, maschio e femmina, ma anche sulla loro relazionalità. Ognuno dei due, cioè la donna e l’uomo, non può da solo coltivare l’illusione di porsi come coincidente con l’intero dell’umano - coltivare questa illusione, o questa pretesa,
porta alle distorsioni del rapporto intersoggettivo che provocano la strumentalizzazione dell’alterità, il misconoscimento dell’altro fino alla sua distruzione come libertà nel mondo, cioè l’instaurazione di relazioni predatorie. La donna e l’uomo sono rinviati l’uno all’altro attraverso la rispettiva differenza, che si modalizza in diversi livelli antropologici, non solo quello biologico e sessuale. Allo stesso tempo però la donna e l’uomo sono ciascuno figure dell’intero, sono ciascuno espressione assoluta dell’umano, e in ciò sono ontologicamente eguali e dotati di una dignità che esige rispetto e richiede cura. Dunque la donna e l’uomo sono ciascuno non coincidenti con l’intero dell’umano, e perciò rinviate alla comunicazione e allo scambio, e insieme sono ciascuno l’intero dell’umano secondo uno dei due generi del suo (=dell’intero umano) esistere in individui. Nel tenere viva ed aperta questa dialettica di non coincidenza e di (parziale) identità con l’intero dell’umano si gioca la possibilità di un rapporto fra la donna e l’uomo che abbia il carattere del reciproco riconoscimento fra esseri dotati di dignità, e perciò fra esseri liberi. La libertà dell’uno – come ha affermato Simone de Beauvoir – non può volersi se non destinandosi alla libertà dell’altro, cercando di prolungarsi con la libertà dell’altro. Una ripresa del principio-eguaglianza, non solo come principio giuridico – un principio che per altro non è affatto assicurato in amplissime parti del mondo -, ma come principio ontologico-etico - l’uguaglianza come “denominatore comune in ogni essere umano a cui va resa giustizia” (Carla Lonzi) -, mi sembra culturalmente necessaria e politicamente tempestiva per difendere e affermare la dignità della donna. Riprendo la mia tesi: la regressione che oggi sperimentiamo nel riconoscimento della dignità e del ruolo delle donne nella società ha come presupposto un attacco all’eguaglianza. Aggiungo che il misconoscimento della dignità della donna è direttamente proporzionale e va insieme all’abbassamento della dignità del maschio. Ovunque l’essere-umano viene ferito, offeso, umiliato in una espressione di sé, è tutto l’umano, come insieme e nelle sue singole parti, che viene ferito, offeso, umiliato. La mercificazione di uno è mercificazione di ognuno e di tutti, anche se questi non ne prendono atto (o si ritengono immuni da essa). Nel quadro che ho chiamato ‘ontologia duale’ l’insistere sul nesso fra eguaglianza nell’umano e dignità non significa sottovalutare l’altro Leitmotiv del femminismo, quello della differenza, come differenza sessuale o differenza di genere. Non posso adesso fermarmi – anche perché non ne ho la competenza - sulla diversità fra un approccio al femminile basato sulla differenza sessuale, che viene ricondotta per lo più all’ordine biologico e all’ordine simbolico, oppure sulla differenza di genere, che viene vista per lo più come una costruzione culturale. Simone De Beauvoir affermava ad esempio che “donna si diventa, non si nasce”, leggendo la differenza di “genere” principalmente come una costruzione culturale. Si può non essere d’accordo con questa impostazione che sembra abolire completamente il riferimento a una ‘natura’, anche se essa – mi pare – dice qualcosa di vero, e cioè che l’essere umano – donna e uomo – è quell’ente la cui natura è costitutivamente rinviata alla libertà,
sicché ciò che noi siamo lo facciamo noi di noi stessi, certo non da soli, ma nell’intreccio con altri, donne e uomini, in situazioni determinate, praticando il logos, e in relazione a quella legge morale della ragione pratica di cui parla Kant. Penso perciò che il riconoscimento della dignità della donna abbia la sua radice nell’eguaglianza ma si rivolga alla differenza e assuma anche da questa contenuti concreti. Penso cioè che affermare la dignità della donna - e analogamente quella dell’uomo - significa affermare, rispettare, tutelare non la dignità di qualcosa di generico, ma la dignità di un preciso individuo che è sempre donna o uomo, la dignità cioè di un individuo connotato dalla differenza sessuale. Ora, questa differenza nasce dall’intreccio in movimento di fattori biologici, psichici e culturali. A proposito della differenza sessuale bisogna perciò evitare un duplice pericolo: il primo pericolo è di ipostatizzare un pacchetto di caratteri o di qualità alternativi, tradizionalmente classificabili come ‘maschili’ (es. forza, intraprendenza) o come ‘femminili’ (es. cura, disponibilità), fissati una volta per tutte, smarrendo la dimensione storica che segna la loro emergenza; l’altro pericolo è di neutralizzare più o meno completamente i fattori differenzianti finendo così, consequenzialmente, per negare la differenza sessuale, in nome di una ridefinizione ‘neutra’ dell’umano, operazione che mi sembra come minimo troppo contro-intuitiva per essere sensatamente sostenibile. Edith Stein ha scritto che la donna e l’uomo sono diversi nel senso che “non solo il corpo è strutturato in modo diverso […], ma tutta la vita del corpo è diversa, il rapporto dell’anima col corpo è differente, e nell’anima stessa è diverso il rapporto dello spirito alla sensibilità, come rapporto delle potenze spirituali tra loro”. La Stein parla qui in modo per me interessante - dopo avere richiamato la diversità della specifica struttura biologica - di diversità di rapporti fra le capacità (potenze!) nella donna e nell’uomo, più che di diversità fra caratteri o qualità alternative (che possono trovarsi sì prevalentemente in uno dei due sessi, ma che non mancano del tutto anche nell’altro). La donna e l’uomo sono perciò differenti per la modalità o la proporzionalità in cui, in ciascuno d’essi, si configurano e vengono configurati i rapporti fra le capacità sensibili, psichiche, spirituali. Nasce a qui l’idea di una identità femminile e di una identità maschile che più che ripetere modelli tradizionali già dati o di obbedire a standard rigidi si formano via via attraverso un intreccio di rapporti, rapporti fra persone e rapporti nelle persone, e rapporti che si plasmano in questo duplice rapportarsi. Certamente questa costruzione dinamica dell’identità non può fare a meno di una ‘forma’: dicendo persona si parla di un essente capace di apertura universale (o trascendentale), individuato in una corporeità (e psichicità) specifica, che esiste nella relazione. Per il primo aspetto, l’apertura universale, la donna e l’uomo sono eguali, per il secondo aspetto, la corporeità, essi sono diversi, per il terzo aspetto, la relazione, essi sono rinviati l’una all’altro per esistere da soggetti, cioè da esseri liberi-in-relazione. Emerge qui lo spazio dell’etica: la donna e l’uomo possono corrompere la relazione in un rapporto
predatorio e di dominio, in cui l’uno riduce l’altro al proprio servizio, a essere strumento e merce; oppure possono riconoscersi reciprocamente come soggettività marcate dalla differenza, laddove ognuna di esse non pretende signorilmente il proprio riconoscimento a partire dalla sottomissione dell’altra, ma lo riceve dal libero riconoscimento dell’altra soggettività, la quale a sua volta riceve proprio il riconoscimento dal libero riconoscimento della prima. E’ ciò che si può chiamare il chiasma del riconoscimento. La dignità della donna e dell’uomo come persone, come esseri cioè che hanno capacità di autodeterminazione morale - autodeterminazione morale che può realizzarsi ma può anche non realizzarsi, cioè è affidata alla libertà -, si realizza in definitiva in un’etica e come un’etica del riconoscimento.
Sulla democrazia in Italia di Bruno Moroncini
In un libro recente (Borrelli, Genovese, Moroncini, Pezzella, Romitelli, Zanardi, La democrazia in Italia, Cronopio 2011) alcuni filosofi orientati in senso politico-morale e dei quali fa parte anche lo scrivente hanno tentato di discutere il concetto della democrazia connettendolo però ad una analisi storico-filosofica della situazione italiana, in particolare degli effetti di lunga durata del quasi conchiuso ventennio berlusconiano, con l’obiettivo di prendere distanza sia dalle polemiche quasi giornaliere che proliferano nella carta stampata e nei cosidetti programmi televisivi di approfondimento politico (o di sprofondamento dell’intelligenza) sia dalla sterilità del gioco dei rapporti di forza fra i partiti, i movimenti e i vari gruppi di pressione, tutti incapaci oramai di qualunque progetto a lungo termine riguardante la comunità storica denominata
Italia. L’intento che comincia a prendere corpo anche fra gli storici, seppure non sempre con esiti del tutto convincenti (si veda ad esempio il Berlusconi passato alla storia di Antonio Gibelli), era quello di trattare il berlusconismo non come un’anomalia transitoria comparsa inaspettatamente nel processo di costante consolidamento delle istituzioni liberal-democratiche, ma al contrario come l’indice storico di tendenze di lunga durata della storia italiana oltre che di processi transnazionali legati alla globalizzazione (il neo liberismo, ad esempio, così come è stato analizzato da Foucault). Pur nelle differenze anche cospicue fra gli autori - differenze negli apparati teorici, nelle procedure concettuali e infine nelle concrete scelte politiche di ciascuno - alcune premesse tuttavia, quasi delle precondizioni per qualunque discorso sulla democrazia in Italia, sono state considerate irrinunciabili da tutti. Le riporto così come Maurizio Zanardi le ha elencate nella premessa all’intero libro: «1) L’inservibilità della categoria di “fascismo” o “neofascismo” per interpretare l’attualità italiana; 2) le enormi responsabilità politiche e culturali della “sinistra”, che impongono di rompere con il suo discorso; 3) l’impotenza della coscienza antifascista e patriottica; 4) il carattere conservatore del richiamo al primato della Costituzione e della legge; il tratto reazionario della fede nella magistratura; l’estrema debolezza politica della proposta di un nuovo Comitato di liberazione nazionale per “salvare” il nostro paese» (9). Se avesse fatto in tempo ad aggiungere - ma il libro era già in stampa - la proposta delirante di Asor Rosa sulla necessità, in mancanza di meglio, di un colpo di stato contro Berlusconi capitanato dal presidente della Repubblica ed eseguito da carabinieri e polizia di stato (forse aveva confuso Napolitano con Cossiga), il quadro di ciò che non bisogna né fare né pensare sarebbe stato completo (anche se c’è sempre qualcuno - vedi Carlo Formenti sull’ultimo numero di Alfabeta - pronto a prender la cosa sul serio). Fedele al suo ruolo di coordinatore dell’intera operazione, Zanardi ha tentato anche di trarre dai diversi contributi una conclusione che, come le premesse, potesse essere considerata condivisa e l’ha trovata in ciò che ha definito il carattere eccedente e perciò eccessivo della democrazia. Con un riferimento al libro VIII della Repubblica di Platone in cui si accusa la città democratica di far mercato delle costituzioni perché, essendo priva di un principio in grado di guidarla, essa non solo le contiene tutte, ma applicandole insieme e senza alcun criterio, finisce per delegittimarle e per togliere loro ogni autorità, Zanardi perviene alla conclusione che quello che per il filosofo ateniese costituisce il limite della democrazia per gli autori del libro è al contrario la condizione per la ripresa dell’esigenza democratica: «né forma di governo né forma di costituzione, né forma di società, la democrazia va pensata come ciò che eccede tutte queste identificazioni» (11). Pur nutrendo qualche dubbio sull’esclusione della democrazia dall’elenco delle forme del governo (è una tesi di Rancière che in parte condivido e in parte no), tuttavia sul carattere eccedente della democrazia sono pronto a mettere la firma. Giungerei anzi a sostenere che la democrazia sia quella forma di dominio - per usare un lessico kantiano - in cui l’eccedenza perviene al governo della polis.
Definendo la democrazia il governo dell’eccesso, gioco intenzionalmente sul doppio senso del genitivo secondo il quale il governo dell’eccesso è immediatamente eccesso che governa, vale a dire che se la democrazia è da un lato un certo esercizio del potere su ciò che va oltre il limite essa è dall’altro anche l’illimitata e incondizionata delegittimazione di ogni forma di potere. Mi si può obiettare che, così facendo, avvolgo il concetto della democrazia in aporie insolubili e in contraddizioni insanabili. Ma è proprio quello che ritengo sia necessario fare: il concetto della democrazia può essere espresso solo da ossimori, vale a dire solo se si accetta che sotto il medesimo riguardo e nel medesimo tempo si dia la compresenza senza mediazione di due predicati opposti che fra di loro non siano semplicemente dei contrari bensì dei contraddittori. Una ricognizione anche elementare degli usi del termine democrazia dimostrerà la verità di questo assunto. Il mio contributo si divide in due parti: nella prima provo a definire la democrazia, a produrne il concetto; nella seconda ad applicarlo all’attualità italiana. Riassumo brevemente: 1) in base alla prospettiva platonica richiamata prima la democrazia non è una costituzione proprio perché le è tutte, oppure è la costituzione (la Politeia in senso classico, ossia una forma del governo) che decostruisce tutte le costituzioni. La conseguenza è che il concetto della democrazia è sempre duplice, spaccato e contraddittorio, che la democrazia è sempre questo e altro, il più delle volte il suo radicalmente altro. È impossibile quindi usare il termine democrazia senza aggettivarlo proprio perché la democrazia è la sua stessa degenerazione: prima dell’ ’89 si avevano le democrazie liberali e le democrazie progressiste o socialiste; dopo l’’89, una volta finita l’illusione (ché tale era) di poter usare la parola democrazia senza aggettivi dal momento che era sottinteso che l’unica forma di democrazia fosse quella liberale, la dicotomizzazione è ricominciata: democrazia rappresentativa e democrazia plebiscitaria, democrazia parlamentare e democrazia diretta, democrazia liberale e democrazia dispotica. La democrazia è l’uno e l’altra indecidibilmente. Aggiungerò alla lista tanto per completare il quadro (ma meriterebbe un discorso a parte) l’ossimoro leninista ‘dittatura democratica’. 2) Il demos non è il popolo, ne è una parte; di conseguenza la democrazia in quanto potere del demos è il potere di una parte della città contro altre parti indicate convenzionalmente dai quantificatori ‘uno’ e ‘pochi’. Essendo parte il demos non è ‘tutti’, è soltanto ‘molti’, una pletora non unificabile senza nomos né isonomia. La democrazia è il governo dei non-tutti: in quanto tale implica una città divisa, non unificabile, aperta. Sempre ad un passo dal cadere nella tirannide, ma anche sempre un passo oltre. Si sfugge infatti alle conseguenze della ‘partigianeria’ - dispotismo, dittatura, etc. applicando le procedure standard della democrazia che sono l’eleggibilità di tutte le cariche pubbliche e la loro rotazione ottenuta o attraverso il voto a suffragio universale o attraverso il sorteggio. 3) La democrazia è il governo non di tutti, ma di chiunque, di chiunque altro, ossia di un altro qualunque, di uno di cui è impossibile sapere preventivamente se viene come amico o nemico, di uno che si presenta quasi sempre come un ‘impresentabile’ (nel senso di uno che è così cafone e maleducato che non lo si può presentare nei
salotti buoni) all’orizzonte della polis. Se, come vuole Derrida, la democrazia è av-venire, ciò vuol dire che il governo democratico non riuscirà mai a chiudere la città nel cerchio dell’immanenza proprio perché la sua sola possibilità di sopravvivenza - e della città di cui è il governo - riposa integralmente sull’apertura al chiunque viene, sia esso un amico o un nemico - quasi sempre le due cose insieme. Cosa deriva per la comprensione della storia recente dell’Italia da questo concetto della democrazia? 1) Che Berlusconi è un chiunque: un classico homo novus che in base alle leggi date della città non avrebbe nemmeno potuto essere eletto, un illegittimo sia per le élites industriali che per quelle politiche, un usurpatore privo di diritti. Il suo è quindi un governo democratico - dispotico, plebiscitario, populista quanto si voglia, ma egualmente democratico. 2) Berlusconi però è anche un chiunque che si prende per un ‘chi’, vale a dire uno che può dimenticare di essere stato eletto da una pletora di chiunque e può credere invece di essere stato chiamato lì, al governo, dalla divinità in persona. Che cosa può spingere Berlusconi o chiunque altro, al di là del suo carattere e dei tratti soggettivi, a poter scambiare una elezione democratica in una chiamata sovrannaturale? L’assenza di alternativa, l’impossibilità della rotazione delle cariche. 3) Si giunge così a quella che per me è la vera emergenza democratica dell’Italia di oggi che non è rappresentata da Berlusconi, ma dallo stato comatoso se non già del tutto cadaverico dell’opposizione che dovrebbe credibilmente candidarsi al governo del paese, dalla crisi cioè della sinistra italiana e in particolare del partito democratico - nomen omen. Riporto la mia invettiva, quasi dantesca, nei confronti del partito democratico così come si trova nel libro: «Mostratisi incapaci di decostruire in tempo utile la loro storia e di conseguenza di anticipare la catastrofe dell’Unione sovietica, i discendenti del partito comunista italiano, invece di ripensare alla luce dell’attualità il rapporto mancato fra il comunismo e la democrazia – che implicava a sua volta la decostruzione del marxismo –, hanno liquidato in tutta fretta e l’uno e l’altra. Sono diventati liberali fuori tempo massimo, hanno scoperto i diritti universali della persona nell’epoca della fine dell’universalismo e dell’avvento dell’impersonale, hanno sostituito la lotta di classe con l’etica della solidarietà mentre il mondo era dominato dalle questioni della biopolitica. In ritardo su tutto, si sono affidati alla scorciatoia offerta dalla magistratura – un’iniziativa, quella di tangentopoli, che più di destra non poteva essere – e continuano a sperare che qualcun’altro gli risolva il problema – Berlusconi – che essi non sono in grado di affrontare. Essi rappresentano oggi una piccola borghesia culturalizzata – i cosiddetti ceti medi riflessivi – che recalcitrano di fronte alla nuova proletarizzazione, quella specifica della cultura di massa e della globalizzazione che corrode i privilegi e le rendite di posizione ottenute negli anni della espansione capitalista del secondo dopoguerra» (176-177). Aggiungerò solo una considerazione che, più passa il tempo, più mi sembra decisiva per comprendere la situazione italiana: fra gli effetti nefasti dell’ ’89 c’è stato anche quello di ricondurre la sinistra italiana ad una situazione pre-fascista, vale a dire (e per quel che in storia possono valere le somiglianze e le ripetizioni) alla sua divisione fra un riformismo
impotente e subalterno e un massimalismo parolaio e avventurista. Se il PCI non è mai stato una alternativa di governo possibile ciò era dovuto alle sua posizione in campo internazionale, non al fatto di rappresentare l’ala massimalista della sinistra italiana di cui il PSI avrebbe rappresentato quella riformista: in quel caso l’opposizione teorica e politica era fra il comunismo e la socialdemocrazia, non fa il riformismo e il massimalismo. Insomma, l’incapacità del partito comunista italiano di fare i conti prima della caduta dell’Unione Sovietica con la sua storia ed insieme col mondo contemporaneo e anche - perché no? - con noi del ’68 che di quella storia e di quel mondo rappresentavamo l’ala critica e decostruttiva, ha comportato non solo la consegna della società italiana a Berlusconi, ma anche la resa all’estremismo che, come è noto, è la malattia infantile, con molte recidive, del comunismo. Cambia il quadro appena delineato alla luce del risultato delle recenti elezioni amministrative e dei referendum? Non credo, mi sembra anzi che si aggravi. A vincere infatti le une e gli altri non è stato il partito democratico, ma appunto l’ala massimalista della sinistra italiana. Nelle due città che contavano qualcosa ai fini dell’assegnazione della vittoria all’uno o all’altro dei due cosiddetti poli hanno vinto a Milano un candidato del narrativismo vendoliano il cui leader non sembra tuttavia aver tratto alcun vantaggio politico al livello nazionale dall’insperato risultato e a Napoli un esponente dell’Italia dei valori di Di Pietro che più furbo dell’altro e sfruttando anche la vittoria ai referendum ha deciso di indossare la maschera della mitezza pronto tuttavia a rispolverare quella feroce che più gli si addice e che lo colloca da sempre all’estrema destra dello schieramento politico italiano. D’altronde nella storia d’Italia le trasmigrazioni da sinistra a destra e viceversa non rappresentano una novità. Con questi leader e con il partito democratico in caduta libera ogni possibilità di alternativa si allontana: se Berlusconi è veramente alla fine della sua parabola politica quelli che lo sostituiranno non verranno da sinistra. Rimpiangeremo il tempo del bunga-bunga in cui ogni tanto il leader si distraeva dai compiti di stato e si concentrava sulle ‘girls’. Quelli che verranno saranno irreprensibili, le loro ‘girls’ saremo noi, ci staranno addosso ventriquattr’ore su ventiquattro. È un ipotesi che fa venire i brividi.
La democrazia paritaria di Vittoria Franco*
L������������������������������������������������������������������ e donne rappresentano una forza e una risorsa per la società. Costituiscono un patrimonio di potenzialità, una forza che vuole essere più attiva e che per questo chiede un cambiamento profondo nell’organizzazione sociale e del lavoro e nei rapporti fra i generi. Sono perciò una risorsa per la modernizzazione della società. Un Paese che aspiri a essere dinamico, moderno, capace di crescere non può fare a meno di investire sul lavoro femminile, sulla rappresentanza, su tutto ciò che può colmare l’incredibile gap di gene- re che ci colloca al 74° posto nella classifica del World Economic Forum per le discriminazioni nei confronti delle donne: fra i Paesi più arretrati, dopo il Ghana o Malawi. Nell’organizzazione sociale e del lavoro tutto procede come se niente fosse cambiato nel corso del tempo, come se le donne oggi fossero quelle degli anni Cinquanta e Sessanta. Anzi, peggio. I passi avanti fatti nel tempo per incrementare qualità e quantità di alcuni servizi all’infanzia e alla persona, di indubbio sostegno alle donne che lavorano, si sono bloccati e il welfare si va restringendo; si mette un ostacolo in più invece di semplificare la strada per consentire loro di realizzare se stesse e le loro aspirazioni. La verità con la quale si stenta a fare i conti e che si
rifiuta di accettare in pieno è che le donne oggi hanno molti desideri e sono di- ventate poco disposte a fare rinunce: vogliono studiare, svolgere un lavoro all’altezza della loro formazione, fare carriera, essere madri. In sintesi, vogliono contribuire a costruire le condizioni per poter essere davvero libere e responsabili; come dice Alain Touraine, vo-gliono essere artefici di se stesse e del loro destino. La frontiera della democrazia paritaria come il nostro orizzonte politico Se questo è il nuovo essere delle donne, ne discende che occorre costruire le forme di una nuova e diversa convivenza fra uomini e donne, un nuovo ethos, nel senso letterale di «dimora» in cui abitare insieme, uomini e donne. Hannah Arendt direbbe un «mondo comune», una forma del convivere fondata su un nuovo patto fra uomini e donne su come stare nel mondo insieme e basata prima di tutto sul rispetto della loro aspirazione alla libertà e a un’eguaglianza più piena, sul riconoscimento del loro desiderio di stare sulla scena pubblica: di «eccellere», per usare di nuovo le parole di Hannah Arendt, di essere viste e considerate per quello che sono e per ciò che valgono. Questo rispetto e questo riconoscimento costituiscono il principio base della democrazia paritaria. «Democrazia paritaria» non è una formula vaga, ma ha una so- stanza culturale, giuridica e politica molto pregnante e concreta che dà forza al principio di eguaglianza. Significa costruzione comune delle istituzioni democratiche; cooperazione nelle attività sociali; condivisione del lavoro di cura; in una parola: condivisione del potere pubblico e delle responsabilità private in una democrazia che riconosce l’esistenza sulla scena pubblica di due generi che go- dono di eguaglianza e di eguali opportunità. «Condividere» e «cooperare» sono le due parole chiave che parlano del riconoscimento del fatto che la democrazia e le sue istituzioni sono – devono essere – frutto del contributo di donne e di uomini. Per questo il termine «conciliazione» fra lavoro e famiglia (adoperato soprattutto per i servizi di sostegno alla donna che lavora) non basta più; esso va integrato con «condivisione» e dunque con istituti normativi che prevedano, ad esempio, il congedo paterno obbligatorio quando nasce un figlio, un fatto che sarebbe anche sul piano simbolico molto significativo. Tutti dovrebbero essere più convinti del fatto che abbiamo a che fare con una donna moderna che vuole costruire una famiglia moderna in una forma sociale organizzata in maniera più adeguata ai nuovi bisogni femminili. Io credo che le donne del Pd dovrebbero assumere la costruzione della democrazia paritaria come il loro obiettivo identitario, come la loro frontiera di azione. Non sarebbe sconvolgente se questo principio fosse perseguito fino in fondo? Far diventare progetto e agire politico la democrazia paritaria significa, infatti, dover produrre una rivoluzione nelle mentalità, nella cultura dei rapporti fra i generi, nel modo in cui il lavoro è organizzato, nelle forme in cui la società e i servizi sono strutturati, nel modo in cui il potere pubblico è distribuito. Questa è per me oggi la vera sfida delle donne del Pd: essere soggetti della politica, attrici che cooperano a costruire le nuove forme della società. Se non siamo in grado di assumere questo orizzonte di azione, vuol dire che non siamo neanche in grado di dare senso alla costruzione di un luogo autonomo delle donne.
Come attrezzarci per rispondere alle obiezioni? Le domande degli ‘scettici’ sono tanto frequenti quanto ripetitive. Perché le donne devono cooperare? Perché devono partecipare alla rappresentanza? Non è il genere, ma il merito il criterio, sostengono. Non offendiamole trattandole come dei panda da proteggere con le quote. Quante volte l’abbiamo sentito ripetere, sempre – o quasi – da uomini? Ho anche ascoltato affermazioni – convinte – del tipo: non è vero che le donne sono discriminate! Per essere convincenti nelle risposte, occorre essere forti nell’elaborazione oltre che nella proposta politica; dire chiaramente che il principio tradizionale della giustizia sociale da solo non basta più; che è necessario arricchirlo con il principio della giustizia di genere, che tiene conto delle ripercussioni che le misure sociali, economiche, legislative hanno sulle donne. Per ogni provvedi- mento occorrerebbe fare una sorta di valutazione di impatto di genere e chiedersi se esso va ad ampliare o a restringere le pari opportunità fra uomini e donne. La dimensione della giustizia di genere è parte integrante della nuova democrazia paritaria e ha come fondamento un altro valore, esplicitato nel Documento di Pechino del 1995: Parità di diritti, di opportunità e di accesso alle risorse, uguale condivisione di responsabilità nella famiglia tra uomini e donne e una armoniosa collaborazione tra essi sono essenziali per il benessere loro e delle loro famiglie così come per il consolidamento della democrazia1. La cooperazione viene dunque riconosciuta come un fattore di crescita, di coesione sociale, di rafforzamento della democrazia. La dimensione paritaria rende la democrazia più ricca e più giusta. Dentro questo quadro di democrazia paritaria va collocato anche il problema delle quote nella rappresentanza. In questo modo si abbandona definitivamente l’ottica della tutela di una debolezza e si entra in quella della valorizzazione di una forza potenziale per tutta la democrazia. Oggi le donne sono più istruite e desiderose di affermazione e aspirano anche a una più efficace e più ampia rappresentanza. Non è più valido l’argomento tanto sbandierato dei «panda» dal momento che ci si pone sul piano di un concetto più complesso di giustizia, che comprende anche la giustizia di genere. D’altra parte, prevedere una legge che renda obbligatorie le quote di genere è ineludibile. La storia lo insegna. Senza una legge che le imponga ai partiti, non si riesce a rompere il circolo che esclude le donne dalla rappresentanza. La rappresentanza politica ha una portata simbolica enorme perché rappresenta il potere per eccellenza; il potere di stabilire le regole, di decidere non solo cosa fare, ma anche chi includere e chi escludere. L’esperienza italiana su questo versante è disastrosa. Dopo la riforma dell’articolo 51 della Costituzione nel 2003 e, precedentemente, dell’articolo 117 che stabiliva nuove competenze delle Regioni in merito alle eguali opportunità fra uomini e donne, i tentativi di introdurre quote di genere nel nostro ordinamento sono tutti miseramente falliti. Niente è contenuto nella nuova legge elettorale per il Parlamento nazionale del 2005, mentre il minimo previsto per l’elezione del Parlamento europeo
nel 2004 era valido soltanto per due tornate elettorali, che si sono già svolte, e dunque anche quel fronte è di nuovo completamente scoperto. Le proposte depositate in Parlamento giacciono senza possibilità di essere prese in considerazione. Così ab- biamo interi consigli regionali, comunali e provinciali privi di rappre- sentanza femminile; un parlamento nazionale che, nonostante un aumento percentuale in questa XVI legislatura, resta fra gli ultimi in Europa col rischio, se si andasse a nuove elezioni, di ritornare a percentuali imbarazzanti. La frantumazione delle forze politiche e la crisi del bipolarismo, infatti, sicuramente penalizzano la presenza delle donne nelle istituzioni, mentre l’attuale legge elettorale premia la fedeltà al capo piuttosto che le competenze e, dunque, svilisce la capacità di rappresentanza dei parlamentari in generale e delle donne in particolare, scelte troppo spesso in base a criteri estetici e anagrafici. Se nel 2003 o nel 2005 era difficile ottenere norme sulle quote di genere nelle liste per una complicità maschile a salvaguardia del- l’esclusivo potere politico di rappresentanza, oggi il quadro è decisamente peggiore a causa della regressione culturale nella concezione della donna, considerata soprattutto come oggetto di contemplazione estetica e di sfruttamento sessuale. Tanto più dunque dobbiamo batterci all’interno del Pd perché sia riconosciuto il ruolo atti- vo delle donne e prevista la loro presenza paritaria anche nelle liste elettorali. Non è più un fatto di rivendicazione corporativa, è una necessità per il Paese e per la sua modernizzazione, per una società più aperta e inclusiva. Tutti i dati confermano, infatti, che le società che hanno minori disparità di genere sono anche quelle più dinamiche e competitive. Non si può costruire un Paese moderno se le donne non sono protagoniste, se non si è in grado di valorizzare i loro saperi e le loro capacità nelle carriere, nelle professioni, nei luoghi dirigenti, nelle leadership anche politiche. In una parola, se non si costruisce una democrazia che veda l’eguale partecipazione di donne e di uomini. La nostra forza di donne nel Partito democratico si misurerà anche in base alla capacità di ‘costringere’ tutto il Partito ad assumere la democrazia paritaria come un elemento costitutivo della sua identità politica. 1I
diritti delle donne sono diritti umani. La Conferenza mondiale di Pechino del 1995 e il Pechino + 5, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 2003, p. 27. Ho affrontato questi problemi con maggiore ampiezza nel mio libro Care ragazze. Un promemoria, Donzelli editore, Roma, 2010.
Il fallimento e il rancore dei neoliberisti di Ernest*
È diventato il welfare – scuola, formazione, sanità, servizi, pensioni, ammortizzatori sociali – il famoso «spettro [che] si aggira per l’Europa». Le classi dominanti e l’oligarchia politico-finanziaria sembrano avere come denominatore comune l’attacco agli architravi del modello sociale europeo. E, in tutta Europa, è in atto una poderosa offensiva culturale finalizzata, come scrive l’economista del Pd Stefano Fassina, a eliminare il welfare universale e tornare al modello categoriale e corporativo per i più forti. Prima della Grande Recessione, il welfare doveva essere eliminato in quanto intralcio al libero dispie- garsi delle forze progressive del Mercato auto-regolato. Oggi, dopo il crollo del paradigma liberista, si tenta una spregiudicata manovra culturale: il welfare, dipinto come coacervo di sprechi e clientele della vecchia sinistra parassitaria, è un lusso insostenibile e va sacrificato in nome
del risanamento dei bilanci pubblici.
In Italia, come al solito, è sempre la batteria degli intellettuali ‘terzisti’ del «Corriere della Sera» a menare le danze e, co- me al solito, l’obiettivo è la Sinistra che deve rinnovarsi abbandonando il suo principio fondativo, il principio dell’eguaglianza. Ammonisce il solito Angelo Panebianco: Gli elettori si troveranno sempre più a dover scegliere fra vantaggi di breve e vantaggi di medio termine (fra l’uovo oggi e la gallina domani). La riduzione delle prestazioni degli Stati produrrà, presumibilmente, forte disagio sociale e forti proteste. I partiti socialisti, naturalmente, le cavalcheranno. Ma potranno essere premiati dagli elettori solo se questi ultimi penseranno esclusivamente in termini di vantaggi a breve termine: se chiede- ranno, cioè, di bloccare la riduzione delle prestazioni sociali anche a costo di trovarsi, subito dopo, nella situazione catastrofica in cui si trovano oggi i greci. Se questo non avverrà, la sorte elet- torale dei partiti socialisti (o di ispirazione socialista, come il Pd italiano) diventerà sempre più precaria.
La crisi della Grecia viene, dunque, agitata come una clava contro lo «spettro» del socialismo della spesa con l’obiettivo esplicito e dichiarato di occultare la crisi clamorosa del liberismo e del «pensiero unico» dominante rimpiangendo l’uni- ca Sinistra che piace veramente ai ‘terzisti’ e purtroppo anche a parti rilevanti del Pd e del centrosinistra, quella che fa il mestiere della destra. Aulico e struggente il riferimento finale del pezzo di Panebianco al New Labour di Blair: «La fine del “socialismo della spesa” sembra non lasciare alternative ai socialismi meridionali: o rinnovare radicalmente scopi e culture politiche o rassegnarsi al declino». Non sembra proprio che a Panebianco interessino i dati reali dell’economia e della società che dimostrano come le strategie del New Labour abbiano indebolito anziché rafforzato l’economia e la società della Gran Bretagna. Anche nella cri- si greca, come segnala Fassina, «gli squilibri dei conti pubblici sono frutto di enormi clientele e dell’evasione fiscale alimentate dalla destra». E Loretta Napoleoni non a sproposito evoca il paragone con la Grande crisi del 1929 scrivendo: «Si teme il parallelo con la grande depressione del 1929 quando ci trovammo di fronte ad una crisi con due picchi, il secondo, quello micidiale, coincise con il crollo delle banche». La crisi strutturale nasce proprio dalle strategie economiche ispirate ai principi ideologici del neoliberismo e non, al contrario, dagli sprechi del «socialismo della spesa». Non a caso le strategie di Obama e di molti governi dei Paesi sudamericani, strangolati negli anni passati dalle stesse strategie del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale riproposte oggi per la Grecia e l’Europa, tentano di rilanciare lo sviluppo economico e i consumi della working class e della classe media con un mix di interventi che rafforzino le prestazioni sociali dello Stato, sviluppino l’economia reale attraverso il sostegno alle imprese e le alternative produttive dell’economia «verde» e siano in grado di porre un freno alla speculazione finanziaria. Su questo punto particolare della speculazione finanziaria i
‘terzisti’, stranamente tacciono. Eppure come rileva opportunamente Paolo Leon: Non nego che occorrano misure per ridurre la spesa pubblica o aumentare le entrate, ma queste misure sarebbero molto meno dure se, contemporaneamente, l’Europa e noi cercassimo di tagliare l’erba sotto i piedi alla speculazione finanziaria. La Germania lo sta facendo alla grande: ha appena limitato la speculazione al ribasso contro i titoli di Stato in euro commerciati nel paese, e sta per approvare una legge che allarga la limitazione ad ogni speculazione al ribasso (gli Usa l’hanno proibita fin dal 2005).
Anche Obama sta cercando di frenare la speculazione e nei consessi internazionali si ricomincia sempre più spesso a par- lare di Tobin Tax. In sostanza lungi dall’affidarsi alle magiche mani del mercato capace di autoregolarsi che hanno così clamorosamente fallito sarebbe necessario un grande accordo, una sorta di nuova Bretton Woods, finalizzato a riformare le istituzioni internazionali, a regolare i mercati finanziari, combattere la speculazione e affrontare le conseguenze degli errori di questi anni che sono già drammatiche, ma che rischiano di diventare disastrose. Non viene proprio in mente, insomma, a Panebianco che la crisi nasce proprio dal fallimento delle politiche economiche da lui sponsorizzate e idealizzate. Come scrive Fassina: il dibattito politico avviene all’insegna di un paradosso: il welfare europeo, sopravvissuto alle mode e agli attacchi del liberismo, ammortizzatore degli effetti più acuti della crisi, rischia og- gi di morire dissanguato per avere soccorso e salvato un capitalismo impazzito, inceppato da 25 anni di svalutazione del lavoro e di drammatico aumento della disuguaglianza.
Il governatore della Puglia Nichi Vendola, in una delle affermazioni più emblematiche della sua campagna elettorale, ha rovesciato il paradigma dei tagli spiegando che per riqualificare la spesa sanitaria e i servizi e risparmiare veramente è necessario «investire di più». Sì, per fortuna, nelle pieghe del pensiero unico che tante vittime continua a fare anche a sinistra sta emergendo faticosamente un positivo controcanto politico, ma anche teorico che, senza alcuna nostalgia di carattere statalista o, tantomeno, assistenzialista, cerca di (ri)costruire i paradigmi di una soluzione «di sinistra», comunitaria e solidale per la crisi strutturale che attraversa la società. Nel saggio stimolante di Richard Wilkinson e Kate Pickett La misura dell’anima (trad. it. Feltrinelli, novembre 2009) si collegano gli alti tassi di disagio sociale e di infelicità con la crescita delle disuguaglianze tra ricchi e poveri. La destra di Berlusconi e Tremonti, che in campagna elettorale aveva rispolverato addirittura la «curva di Laffer» e riproponeva fuori tempo massimo la «Reaganomic», non solo non ha diminuito la pressione fiscale, ma dovendo finanziare il blocco sociale del centrodestra e, soprattutto, i futuri costi (presunti!) del federalismo in salsa leghista, sta utilizzando la crisi per dirottare la spesa pubblica e attaccare le fondamenta del welfare statale e locale senza peraltro riuscire a toccare alcun vero spre-
co (tantomeno quelli della cosiddetta casta), o sostenere in alcun modo, come, invece, sarebbe necessario, lo sviluppo, la ripresa dei consumi e i redditi delle famiglie più in difficoltà. Altro che risanamento e fine del «socialismo della spesa»! Scrive Paolo Leon a questo proposito: il sospetto atroce è che la manovra di restrizione sul bilancio pubblico sia vista come un’opportunità per ridurre il ruolo dello Stato, sconfiggere lo Stato sociale o, alla peggio, passati due anni, tornare a largheggiare nella spesa pubblica in tempo per nuove elezioni.
Ovviamente il «largheggiare» di cui parla Leon andrà di pari passo con la distruzione dell’universalismo del welfare e interventi rigorosamente ispirati al (cosiddetto) «conservatorismo compassionevole», al proliferare delle «grandi opere», al finanziamento dei deficit e degli sprechi dei sindaci «amici». Al massimo si potrà sostenere il modello falsamente «sussidiario» (il principio di sussidiarietà è cosa seria e appartiene alla parte migliore della storia del movimento operaio del Novecento) portato avanti da una parte del «terzo settore», a cominciare dalla Compagnia delle opere, che rischia di costruire, come in America, un welfare di serie b per gli emarginati e i settori più deboli della società. Mentre continueranno le false privatizzazioni intese come «re- gali» agli amici degli amici (la vicenda della Protezione civile Spa insegna...), svendita del patrimonio pubblico, svendita dei beni comuni come l’acqua e, ovviamente, la sequenza dei condoni in tutti i settori. Per non parlare delle spese militari che proliferano trasformando il ruolo delle nostre Forze armate in direzione di un modello offensivo in aperto contrasto con la Costituzione. Quanto al problema dell’equità e dell’etica, la descrizione delle caratteristiche strutturali della politica economica di molti governi europei e, ovviamente del nostro, fattada Loretta Napoleoni è perfetta: tutti gli altri Paesi hanno raffazzonato una serie di tagli che colpiscono quella fetta sempre più piccola della popolazione che paga le tasse e che invece bisognerebbe sostenere nei momenti recessivi. Chi negli ultimi vent’anni ha intascato più del 60% della crescita del Pil, dagli Hedge Funds al crimine organizzato, non viene toccato perché ha imboscato i guadagni, ha evaso il fisco o semplicemente opera nel mondo dell’illegalità. Ecco uno dei motivi per cui i cittadini europei questa austerità non la vogliono. In Italia si cerca di addolcire la pillola con l’usuale propaganda: si abbattono i salari nominali e quelli sociali, ma ci si vanta di non aver aumentato le tasse. Viene spontaneo pensare che il motivo sia solo lo scarso numero di chi le paga. Si condanna l’ennesimo obbrobrio edilizio per poterlo accatastare invece di far pagare una penale salatissima a chi lo ha commesso e costringere costoro anche ad abbattere queste costruzioni come avviene in Inghilterra e nella maggior parte dei Paesi civili.
Persino dentro al Pdl e alla Lega si cominciano ad avere serie preoccupazioni per una direzione di marcia di questo tipo. Non è solo Fini, ma una marea di amministratori locali, addirittura nel profondo della cosiddetta Padania, che protesta e chiede una nuova
politica. È vero le proteste sociali sono, ancora, frammentate, episodiche e spesso difensive, nonostante il grande e generoso sforzo dell’imprescindibile Cgil, a causa delle profonde divisioni del fronte sindacale. Ma il malessere sociale è profondo e diffuso e il centrosinistra dovrebbe finalmente riuscire a rappresentarlo indicando un’alternativa politica e programmatica anche sul piano ideale. E il primo punto fondamentale, ovviamente, è quello di chi deve pagare le risorse necessarie. In questo senso la questione fiscale anche dal punto di vista dell’etica, della coesione sociale, del «senso civico», diventa decisiva per la sinistra. Occorre liberarsi dell’ideologia neoliberista e riscoprire il valore del «patto fiscale», non come una sorta di astratta ascesi neocalvinista, ma come fondamento etico, razionale ed economico della comunità e della convivenza. Non serve solo una grande operazione verità che sveli «di che lacrime grondi e di che sangue» la politica fiscale di questo Paese, ma anche un nuovo «patto fiscale» adeguato alla struttura sociale e in grado di rispondere anche alle esigenze dello sviluppo e della ripresa dei consumi. Non aiuta, certo, il riesplodere della questione morale e il suo dilagare anche in molti governi locali gestiti anche dal centrosinistra. Grillo, Travaglio & C. sono solo gli effetti di una malattia profonda. La crisi della politica, infatti, ha molto a che vedere con la crisi strutturale della democrazia. Una classe politica senza ideali e senz’arte né parte, viene dalla sottomissione delle istituzioni e della politica stessa alle ragioni dell’oligarchia finanziaria che controlla i centri del potere economico e il sistema dell’informazione e ha bisogno di controllare anche le risorse pubbliche. Fare pulizia rispetto al malcostume e alla corruzione vuol dire affrontare la questione morale nella sua essenza di grande questione democratica, vuol dire ridare autonomia alla politica e solidità alle istituzioni, sapendo che gran parte delle risposte non può più avvenire a livello dei singoli Stati, ma deve rafforzare il ruolo delle istituzioni internazionali a cominciare dall’Unione europea. Occorre dunque rivedere molte delle certezze di questi anni a cominciare dall’illusione che il sistema politico potesse essere riformato all’interno di una sorta di «bipartitismo coatto». C’è proprio «un filo rosso», nel nostro Paese, tra l’attacco al welfare, le aggressioni nei confronti dei giornalisti e dei magistrati, la messa in discussione di diritti fon- damentali sanciti nei fondamenti della Costituzione. Si ha bisogno di riscrivere la storia, di cambiare la Costituzione, di «atomizzare» sul piano culturale la società e le comunità, di modificare lo stesso patto fondamentale su cui si regge la cittadinanza civile, sociale e statuale del Paese, per concentrare il potere nelle mani di un’oligarchia chiusa e autosufficiente ed escludere definitivamente le classi subalterne, ma non solo loro, dalla gestione dello Stato. Questa è la posta in palio. Non c’è, insomma, solo la «macelleria sociale» di cui parla giustamente Nichi Vendola, ma un disegno di società inaccettabile, pericolosa, ingiusta. Per dirla tutta, parafrasando il saggio di Wilkinson e Pickett, si potrebbe dire che la società delineata da questa direzione di marcia è una società dove «l’infelicità di (quasi) tutti è condizione per la felicità di pochi (anzi di pochissimi)». Ha ragione Fassina quando scrive:
Forse è utile (ri)studiare le risposte di Roosevelt alla Grande Depressione. Per capire che il welfare è stato voluto, a cavallo della II Guerra Mondiale, innanzitutto dai liberali illuminati per costruire le democrazie delle classi medie. ... Siamo ad un crocevia storico: l’Europa mercantilista o l’Europa del lavoro? I riformisti europei possono ritrovare l’anima, la loro identità, la loro funzione nazionale impegnandosi per una UE federale, capace di governo politico per la crescita e per il lavoro, unica via per garantire stabilità alla finanza pubblica. Ma l’anima e l’identità, al di là delle etichette, delle scelte politi- che contingenti e dei piccoli interessi di bottega, di una vera Riforma morale e politica sono ancora una volta legate alla riscoperta del valore della libertà (ignobilmente usurpato proprio da coloro che la negano) intesa come possibilità di autodeterminazione, condizione per la libertà e la liberazione di tutti. Ha ragione Alfredo Reichlin (buon compleanno!). Con buona pace di Panebianco e dei ‘terzisti’ è ancora una volta l’umanesimo socialista a poter ridare speranza e a poter riscrivere la narrazione di un possibile cammino verso una società migliore.