Aprile- Maggio n째 34, 2011 Maggio-Giugno 35- 2011 - 2011 Settembre- Ottobre,n째 n째 37
Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale
Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).
Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Settembre-Ottobre 2011, n° 37. (Numero 38, 1 Dicembre 2011) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace
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Crisi finanziaria, crisi sistemico-politica, crisi etica di Elio Matassi
La lealtà di Bossi di Umberto Curi
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La sacralità della seconda natura ovvero il capitalismo trionfante di Andrea Poma
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L’emergenza antropologica: per una nuova alleanza di Pietro Barcellona, Pietro Sorbi, Mario Tronti, Giuseppe Vacca
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L’ideologia del liberismo di Gian Piero Scanu
Tutte le stecche del pifferaio magico di Andrea Margheri
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Crisi finanziaria, crisi sistemicopolitica, crisi etica di Elio Matassi
La situazione economico-finanziaria e, parallelamente quella politica sono precipitate, nel nostro paese, nel corso degli ultimi mesi. Il blocco neopopulista al potere, dinanzi ad una crisi di portata epocale ,dimostra tutta la propria inadeguatezza sul piano delle risposte, in primo luogo economiche e, in secondo, sul piano strettamente politico. Il blocco neopopulista al governo del nostro paese ricusa pregiudizialmente anche solo la possibilità di adottare quel minimale principio di redistribuzione, legato all’adozione della patrimoniale : in un paese come l’Italia dove l’evasione fiscale ha ormai raggiunto vertici insostenibili, (si tratta circa di 120 miliardi di euro all’anno, per in-
tenderci quasi il doppio delle due manovre devastanti effettuate nel corso dell’estate), il rifiuto di un tale strumento di redistribuzione assume le sembianze di una autentica provocazione sociale. Non bisogna essere né progressisti né rivoluzionari per l’adozione di un simile provvedimento,basta un qualsiasi conservatore illuminato, animato dal semplice buon senso (basterebbe ricordare le dichiarazioni in proposito di Luca di Montezemolo). Negli ultimi giorni la crisi si è ulteriormente radicalizzata con degli autentici dikat, espressi dalla Comunità europea e dalla Banca centrale, dinanzi a cui il blocco nepopulista sta addirittura implodendo, avvitandosi sulla difesa di se stesso senza alcuna risposta precisa e senza l’ assunzione di impegni rigorosi. Dinanzi ai segnali,ormai evidenti di scollamento del blocco neopopulista, il Partito Democratico sembra aver intrapreso la scelta,a mio avviso corretta, almeno in prima istanza,della salvezza e della ricostruzione nazionale. Da qui la scelta, altrettanto corretta, di porre sul tappeto il problema di una larghissima alleanza di forze che vada dal Terzo Polo (Casini, Fini, Rutelli )fino alle altre forze di sinistra rappresentate da Di Pietro e Vendola. Di fronte all’ormai drammatico disfacimento del tessuto istituzionale nazionale, è necessaria, almeno in un primo momento di ricostruzione, il coinvolgimento, al di là delle distinzioni politiche, di tutte le forze autenticamente responsabili. E’ venuto il momento per il Partito Democratico di assumere quella posizione ‘centrale’ tra la rappresentanza del Terzo Polo e quelle della Sinistra, una responsabilità al contempo politica e nazionale cui il Partito Democratico non può in alcun modo sottrarsi. Il tentativo di unire forze di estrazione diversa deve essere compiuto in un momento storico decisivo che rischia di travolgere l’Italia in una crisi irreversibile. Se questo non sarà possibile per l’autoesclusione di alcuni, allora, in subordine, si potrà adottare la linea di una unione più circoscritta. Queste sono semplici riflessioni immediate, dettate dalla urgenza drammatica degli eventi succedutisi nelle ultime settimane. Ma per una rivista come la nostra che ha anche ambizioni teoriche e che auspica di contestualizzare il presente storico alla luce di esse, non posso esimermi di inoltrarmi in una prospettiva più generale, che merita altrettanta attenzione. La crisi che attraversa nella contemporaneità tutto l’Occidente, dagli Stati Uniti all’Europa e che rischia di devastare paesi più deboli quali l’Italia e la Grecia, impone una meditazione di largo respiro. Proprio in questi giorni ho letto pagine veramente convincenti in proposito in uno scritto di una giovane studiosa, Elettra Stimilli, che titola in maniera significativa e, nel contempo, provocatoria, la sua ricerca, “Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo”, (Quodlibet, Macerata, 2011). Questo studio attraverso la mediazione delle fondamentali ricerche di M. Hudson, “Super Imperialism. The Origin and Fundamentals of U.S. World Dominance”, London, Pluto Press, 2003, arriva a conclusion largamente condivisibili. Quando il testo ricordato recita: “… la finanza non è solo consustanziale alla produzione di beni e servizi, e quindi al mondo del lavoro in senso classico; attraverso il massiccio dirottamento del risparmio delle economie domestiche sui titoli azionari, si è piuttosto operata la piena sussunzione della vita di ognuno al
mondo finanziario, che è precisamente ciò che ha reso possibile la conseguente trasfigurazione dell’indebitamento privato a motore dell’economia mondiale”. (p. 78), finisce col delineare una prospettiva storico – teorica che ‘Inschibboleth’ ha già portato avanti da alcuni anni e che oggi viene ampiamente riconosciuta dagli opinionisti e dai filosofi politici contemporanei più accreditati (si legga in proposito un saggio molto perspicuo di Roberto Esposito, uscito su ‘La Repubblica’ nel corso dell’estate). Quello che ormai sta diventando sempre più evidente e che sta espropriando non solo la vita delle democrazie liberali – rappresentative dell’Occidente ma la vita di ciascuno di noi sta nella radicalizzazione operata dal super capitalismo finanziario; con i termini stessi del volume prima ricordato di Elettra Stimilli: “…gli azzardi del capitale non sono più stati separati nella forma del rischio imprenditoriale per l’innovazione, bensì, individualizzati, hanno coinciso con gli stessi rischi dei risparmiatori. La finanziarizzazione è, così, entrata propriamente nella vita di ognuno. E questo non solo nella forma del risparmio, del reddito futuro e della pensione; ma, quanto più si è acuita la sussunzione della vita alla finanza, tanto più la trasformazione dei rapporti sociali ha teso a favorire la concentrazione del rischio finanziario tra i più deboli, persino tra quelli che i risparmi non c’è l’hanno proprio. Che il rischio finanziario venga concentrato nelle fasce più povere della popolazione, è segno del fatto che la finanziarizzazione dell’economia funziona proprio sulla base dell’inclusione della stessa vita nella creazione del valore. Si tratta di un modello fortemente instabile, che si nutre della sua stessa instabilità”. (p. 79). Sono affermazioni che si possono sottoscrivere completamente e che, dopo la fase della salvezza e della ricostruzione nazionale, non potranno non porre il problema del modello di sviluppo da costruire nel futuro e da rendere immune da tale costitutiva “instabilità”. Il compito del Partito Democratico (scelgo una formula che non può essere quella di una semplice riproposizione di un vacuo ed astratto dover essere) dovrà comportare, al di là del momento tattico (l’alleanza con forze eterogenee per la salvezza del tessuto nazional-istituzionale) anche una riflessione di ampio respiro sulla costruzione di un nuovo modello di sviluppo che sia in grado di emanciparsi dalla seduzione – ricatto finanziaria e dalla conseguente distruzione della vita degli individui che tale suggestione comporta necessariamente.
La lealtà di Bossi di Umberto Curi
Lealtà è parola che deriva dal latino legalitas e che indica appunto l’attitudine a conformare la propria condotta ad una “legge”, vale a dire ad alcuni princìpi e ideali che si assumono come incrollabili. A differenza di altre virtù, la lealtà non può essere soltanto dichiarata a parole, ma si dimostra piuttosto nella pratica delle scelte compiute: è leale non semplicemente chi dice di esserlo, ma colui che dimostra concretamente con il suo comportamento la coerenza fra le parole e i fatti. Da notare che la lealtà emerge soprattutto in situazioni di conflitto, quando si tratta di scegliere fra il rispetto degli impegni assunti (rispetto che può comportare sacrifici e rinunce) e soluzioni più facili e convenienti, che però contraddicono la “legge” presa come riferimento. Fra i tanti esempi possibili, Gesù e Socrate possono essere considerati esempi di lealtà, poichè entrambi preferiscono morire, pur di non venir meno a ciò che si erano impegnati a fare. Con una sola parola – la lealtà, appunto – Umberto Bossi ha motivato la scelta di votare contro l’autorizzazione all’arresto di Milanese. Con la stessa lapidaria motivazione il Senatur ha risposto a coloro che gli chiedevano come poteva spiegare la decisione di respingere
analoga richiesta avanzata dalla magistratura nei confronti del ministro Saverio Romano. E successivamente di confermare la compattezza della Lega nel votare la fiducia ad un governo privo ormai di ogni autentica legittimazione politica e morale. Lealtà. Con questa spiegazione, apparentemente nobile, e perfino insolita in un mondo, quale è quello politico, generalmente attraversato da tradimenti e inganni, Bossi ha in realtà svelato quale sia la “legge”, alla quale i parlamentari della Lega hanno dimostrato di essere “leali”. Non il patto con i loro elettori, i quali si attendevano da loro che vigilassero affinchè le leggi fossero rispettate. Non le promesse fatte in campagna elettorale, quando si sono solennemente presi impegni per la tutela dei legittimi interessi delle popolazioni del Nord. Non la prospettiva strategica tante volte sbandierata, quella di realizzare una riforma federalista dello Stato. Niente di tutto ciò. La “lealtà” a cui ha concretamente dimostrato di fare riferimento Bossi è quella nei confronti di Berlusconi, del patto, più o meno scellerato, stipulato personalmente con lui, degli accordi palesi o occulti sanciti con colui che pure alcuni fa era stato definito il “mafioso di Arcore”. E’ questa la legalitas praticata dal Senatur: non il rispetto delle leggi, ma il vincolo di solidarietà con un personaggio diventato ormai da tempo imbarazzante anche per i suoi più accesi sostenitori. Non si tratta di moralismo. Il tema di fondo, soggiacente a questa bizzarro modo di concepire la lealtà, è strettamente politico. I cittadini hanno il sacrosanto diritto di sapere a quale “legge” coloro che essi si accingono a scegliere come rappresentanti si conformeranno: alle leggi dello Stato, o all’amicizia personale con un singolo personaggio, chiunque egli sia. Hanno diritto di verificare se gli impegni sono stati rispettati o se, strada facendo, si sono cambiate le carte in tavola. Nessuno si illude che, soprattutto nella politica odierna, si possano ritrovare gli emuli di Gesù o di Socrate. Ma è giusto pretendere di non imbattersi in Giuda.
La sacralità della seconda natura ovvero il capitalismo trionfante di Andrea Poma Dall’ingresso della caverna l’uomo scrutava angosciato il cielo notturno, inizialmente illuminato magicamente dal plenilunio, che di momento in momento si oscurava, invaso dall’ombra minacciosa e fatale. La massa oscura avanzava sul disco della Luna e le rubava la gloria della sua algida luce, spandendo sulla Terra la tenebra di una notte minacciosa e terrificante. Nessun rito conosciuto aveva avuto efficacia. Nessuna minaccia, altrimenti temuta dai nemici e dagli stranieri, nessun urlo aggressivo, né percussioni violente del terreno con ambo i piedi, né digrignare di denti o agitare di clava, avevano potuto alcunché contro la potenza anonima, cieca, indifferente del fato, che si espandeva
con la sua ombra a nascondere la Luna e ad annientare la Terra, l’uomo spaventato e tutto ciò di cui viveva. ***** Molte cellule che dicevano di sé “Io” seguivano atterrite, angosciate, il crollo repentino, roboante, di enormi masse rocciose di capitali finanziari, che si abbattevano indifferenti sul formicaio di società, gruppi, collettività, singoli e doppi, travolgendoli in una corrente magmatica, che fluiva turbolenta verso nessuna direzione. Non vi erano riti politici, finanziari, economici, astuzie sacrali note ai più o a pochi, che potessero in qualche modo impedire o domare l’evento fatale, di cui nessun “Io” era partecipe (partem capiens). ***** La Natura è un’esperienza umana che affonda le sue radici nel sacro immemorabile. Da quando, da sempre, gli uomini hanno sentito sopra, sotto, intorno a sé un enorme, indefinito essere vivente, un Leviatano anonimo, che trascorreva la propria vitalità senza inizio e senza termine, impassibile nel suo tutto ad ogni irrilevante inizio e ad ogni irrilevante fine; un corpo senza organi, percorso da miriadi di traiettorie, tutte e ognuna non più che superficiali rispetto alla sua massa, per altro priva di profondità. Molto più e molto peggio: gli uomini hanno sentito di essere essi stessi parti non partecipi, traiettorie insignificanti percorrenti questo tutto, la cui disperata e folle ostinazione a fissarsi in un’identità, a dire e ad essere “Io”, era del tutto trascurabile e trascurata, persino ignota e ignorata per la Natura. Per questo gli uomini hanno tentato di venire a patti, di creare transazioni, un commercio, con questa Natura fatale. Tale commercio non poteva non iniziare, ed è sempre iniziato, con un’offerta di sé, un sacrificio, una prostituzione sacrale, di sé, cioè del proprio “Io” ristretto o allargato (figli, schiavi, bestiame, beni), o per interposta persona (vittime sacrificali straniere). Non vi era altro modo concepibile per attrarre l’attenzione della Natura se non tentare un’interlocuzione dicendo “Io”, gridando “Io”, pur nell’atto dell’annientarsi, perché il Tutto diventasse un “Tu” e non fosse più minaccioso, ma disponibile. Fu illusione. La Natura non si accorgeva di nessun “Io”, di nessuna sua cellula, perché la Natura non è “Io”, non ha identità, nome, origine né finalità; non è né buona né cattiva; non ha relazioni né organi per le relazioni, perché non ha né esterno né interno, né superficie né profondità: semplicemente è vivente e nel suo vivere muta incessantemente e ciecamente, e nel suo mutare genera e distrugge le proprie parti, le proprie cellule, a milioni, a miliardi, in eventi catastrofici, cioè in successioni infinite di equilibri e di rotture, di flussi e di interruzioni di flussi, in tutto ciò immutabile e impassibile. ***** Dalle profondità altrettanto immemorabili, da cui sono sorte le
esperienze narrate nei libri antichi della Bibbia, conosciamo la storia di quegli antichi padri, forse urriti, che hanno fatto l’esperienza della semplice e radicale negazione del sacro. Essi hanno rivoluzionato la propria esperienza, hanno rifiutato di offrire qualunque sacrificio alla Natura sacra e hanno chiamato Dio, non già quest’ultima, ma colui che ha rifiutato il sacrificio. Essi hanno negato all’indifferenza anonima della Natura sacra ogni parola e hanno invece rivolto ad Altro la propri invocazione, il proprio grido (YAH). Rivolgendosi a lui con il Tu della pari dignità, hanno parlato senza sapere chi era colui che rispondeva; hanno parlato con lui di ogni cosa del mondo, dando a ciascuna un nome e liberandola così dall’anonimato sacrale della Natura. Da costoro è nata e si è moltiplicata una stirpe, che poi si è ampliata accogliendo chiunque volesse emanciparsi dalla Natura sacra. Nulla più è sacro per costoro, nulla più è profano, ma ogni cosa è buona o deve essere tale, chiamata per nome a se stessa. ***** Nei tempi moderni, che chiamiamo nostri solo perché, pigri, ne ripetiamo stancamente alcuni luoghi comuni e alcuni vuoti stereotipi, ma che in realtà sono ormai passati, schiere di preti religiosi e di preti laicisti ci hanno parlato fino alla noia della Natura. Gli uni predicando la sacra Natura, gli altri oltraggiandola, prestavano entrambe le schiere il loro servile omaggio ad essa (poiché la perorazione e l’oltraggio sono egualmente parte del rito di chi si affanna a trescare con il sacro). I filosofi e i maîtres à penser in genere ci hanno spiegato che la Natura è morta. L’uomo. dicono gli uni, ha perduto il rapporto con ciò che lo coinvolge trascendendolo e si è trasformato in un prometeico padrone di se stesso e di ogni cosa, dominante e non più dominato, animante e non più animato. L’uomo, dicono gli altri, si è emancipato dalla schiavitù della paura e dell’angoscia di fronte alla Natura sacra ed è ora pienamente libero e responsabile di sé e della propria vicenda. Per gli uni come per gli altri l’arma che ha ucciso il sacro Leviatano è la Tecnica, che poi non significa nulla, se non si osa rivelare il potere che la produce e la usa: alcuni dissennati lo confondono con la ragione, così come l’ignorante confonde la paccottiglia luccicante con l’oro fino; ma se se ne vuole dire il nome vero, allora questo potere si chiama Tecnologia e non è un soggetto, ma, come la Natura, è un sacro Tutto. L’età della metafisica, della perdita dell’Essere, dicono gli uni, è l’età della Tecnica. L’età della secolarizzazione e dell’emancipazione umana è l’età della Tecnica, dicono gli altri. Ed essi cantano questa antifona, questo agone di parole contrapposte, su una nota di corda unica e comune. Sono gli uni e gli altri devoti del nuovo bestione sacro, che, altrettanto fatale, anonimo, indifferente, ha sostituito la Natura. Questa seconda Natura sacra si chiama Capitale, e Capitalismo il modo d’essere nel quale per altro si identifica senza alcun resto, e come la prima esiste indifferente, riempiendo l’essere occidentale. Nuovo corpo senza organi, attraversato sulla sua superficie senza profondità dalla miriade di traiettorie, che follemente, come sempre è stato, si ostinano a dire di sé “Io”, senza che questa parola possa
mai uscire dall’evanescenza del flatus vocis e farsi discorso. Il Capitale trionfa, enorme bestia informe e proteiforme, e gli utili idioti che cantano inni alle meraviglie progressive della Tecnica gli fanno da cornice, come eunuchi, prostitute e nani di una corte demente per un sovrano che non regna né si accorge di chi vuole essergli suddito, ma placidamente è e sta in un dinamismo che sta fermo sul posto a velocità sempre più elevate. Il Capitale vive nutrendosi degli eventi e delle cellule che non ha bisogno di catturare, perché non sono altrove che su di lui e non sono altro che suoi modi e striature. La bestia divora se stessa, si direbbe, se ciò avesse un senso, ma non ne ha, poiché essa non è un soggetto né dice “Io”: è una nuova sacra Natura. ***** In questi giorni, tra luglio e agosto, in occidente osserviamo atterriti e angosciati gli immani crolli finanziari, gli attacchi violenti e vittoriosi al sistema debitorio dei più potenti Stati sovrani, allo sfaldarsi inane delle loro difese, in mezzo ad un assordante e inconcludente susseguirsi di dichiarazioni di coloro che si fanno riconoscere come esperti e responsabili difensori di quelle cittadelle inermi. È comprensibile la paura dei tanti che in questi eventi riconoscono la concreta minaccia per il proprio lavoro, la tempesta che probabilmente abbatterà le fondamenta della propria impresa, l’ombra tenebrosa che si allunga sul proprio presente precario e sul proprio futuro impossibile, la scure che si abbatte su quei presìdi previdenziali e assistenziali che dovrebbero rassicurare la propria vecchiaia. Ma questa è la prospettiva delle piccole, irrilevanti, formicolanti traiettorie soggettive, che si immobilizzano sconcertate sul corpo senza organi del Capitale. Esse saranno presto spazzate via, con leggi e norme dei vari Stati, affinché non ingombrino il campo, impedendo la dinamica dei flussi più vitali, che invece in questa situazione rafforzano più che mai il trionfante pulsare del Capitalismo. Quei poteri finanziari che solo pochi anni fa sono stati salvati dalla voragine con enorme elargizione di capitali da parte degli Stati, ora usano quei medesimi capitali per attaccare gli Stati che li hanno salvati, riprendendo così lena nel loro infaticabile e cieco fluire senza meta. Nella prospettiva generale del Capitale, la situazione è quanto mai positiva. I flussi si moltiplicano, le scorie vengono eliminate, la grande bestia è più che mai vitale e si espande divorando se stessa, il che non la porta affatto all’autodistruzione, bensì all’autoaffermazione senza limiti. Da molte parti si sente parlare di crisi del Capitalismo, di fallimento del Sistema. Purtroppo è vero il contrario. Ormai da qualche decennio il Capitalismo ha raggiunto la propria compiutezza e ora celebra il proprio trionfo. Nuova Natura senza soggetto, il Capitale avvolge e sovrasta ogni destino particolare e vive la propria dinamica esistenza solipsistica, né buona né cattiva, nella quale e per la quale gli individui che si ostinano a dire di sé “Io” sono innalzati o annientati senza alcuna ragione e senza alcun fine. I mezzi che il Capitale ha a disposizione per questo suo trionfale permanere sono
Tecniche, proprio quelle Tecniche che i patetici laicisti, progressisti e illuminati, continuano a osannare davanti a un popolo stremato. Nuove Tecniche finanziarie e bancarie, nuove Tecniche della comunicazione e della transazione, Tecniche informatiche, Tecniche statistiche, di calcolo e di previsione: tutto ciò ha potenziato enormemente la dinamicità dei flussi senza meta e quindi la vitalità del Capitale. ***** Di fronte a questa nuova Natura i più, e tra loro, in prima fila, gli spiriti forti, che combattono senza tregua la sacralità della prima Natura, si sottomettono e offrono sacrifici senza sosta: rinunciano ai propri beni, espongono anche le possibilità di vita e di lavoro dei propri figli, e gettano tutto ciò nel fuoco sacrificale, nel tentativo sacrale di rabbonire il Leviatano. Nessuno mette in discussione il Capitale trionfante, esso è sacro. Si cerca invece di placarlo o di salvarsi tenendosi vicino alla sua corte. Non so dire se ci sarà la possibilità di fuggire, di liberarsi da questa nuova fatalità e dall’asservimento sacrale ad essa. Forse dobbiamo sperare in qualcosa di simile a ciò che è già avvenuto e forse dobbiamo guardare in quella medesima direzione per spiare l’arrivo di una possibilità di liberazione. Forse uno di questi giorni qualche nomade urrita volterà fieramente le spalle al feroce Baal, gli negherà ogni sacrificio propiziatorio, e con un gesto di coraggiosa emancipazione e di autentica libertà si volgerà a parlare con un Altro, senza conoscerne il nome, ma rivolgendosi a lui con il Tu del discorso ed ottenendone la risposta della conferma nella sua lotta contro la sacralità del Capitale e della sua Tecnica.
L’emergenza antropologica: per una nuova alleanza di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti, Giuseppe Vacca
La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pone di fronte ad una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e al tempo stesso la radice più profonda della crisi della democrazia. Germina sfide che esigono una nuova alleanza fra uomini e donne, credenti e non credenti, religioni e politica. Pertanto riteniamo degne di attenzione e meritevoli di speranza le novità che nel nostro Paese si annunciano in campo religioso e civile. A noi pare che negli ultimi anni – un periodo storico comincia-
to con la crisi finanziaria del 2007 e in Italia con il crepuscolo della “seconda Repubblica” – mentre la Chiesa italiana si impegnava sempre più a rimodulare la sua funzione nazionale, un interlocutore come il Partito democratico sia venuto definendo la sua fisionomia originale di “partito di credenti e non credenti”. Sono novità significative che ampliano il campo delle forze che, cooperando responsabilmente, possono concorrere a prospettare soluzioni efficaci della crisi attuale. Il terreno comune è la definizione della nuova laicità, che nelle parole del segretario del Pd muove dal riconoscimento della rilevanza pubblica delle fedi religiose e nel magistero della Chiesa da una visione positiva della modernità, fondata sull’alleanza di fede e ragione. Nel suo libro-intervista “Per una buona ragione”, Pier Luigi Bersani afferma che il “confronto con la dottrina sociale della Chiesa” è un tratto distintivo della ispirazione riformistica del Pd e che la presenza in Italia ”della massima autorità spirituale cattolica” può favorire il superamento del bipolarismo etico che in passaggi cruciali della vita del Paese ha condizionato negativamente la politica democratica. Ribadendo, infine, la “responsabilità autonoma della politica”, Bersani esprime una opzione decisa per una sua visione “che non volendo rinunciare a profonde e impegnative convinzioni etiche e religiose, affida alla responsabilità dei laici la mediazione della scelta concreta delle decisioni politiche”. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica vi sono due punti della relazione del cardinale Bagnasco alla riunione del Consiglio permanente dei vescovi del 26-29 settembre 2011 che meritano particolare attenzione. Il primo riguarda la critica della “cultura radicale”: essa è rivolta a quelle posizioni che, “muovendo da una concezione individualistica”, rinchiudono “la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale”. Il secondo è la proposta di nuove modalità dell’impegno comune dei cattolici per contrastare quella che in una precedente occasione aveva definito “la catastrofe antropologica”: “la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica”. E non è meno significativa la sua giustificazione storica: “A dar coscienza ai cattolici oggi non è anzitutto un’appartenenza esterna, ma i valori dell’umanizzazione [che] sempre di più richiamano anche l’interesse di chi esplicitamente cattolico non si sente”. In altre parole, la “possibilità” di questo nuovo soggetto origina dall’impegno sociale e culturale del laicato, nel quale i cattolici sono “più uniti di quanto taluno vorrebbe credere” grazie alla bussola che li guida: la costruzione di un umanesimo condiviso. La definizione della nuova laicità e l’assunzione di una responsabilità più avvertita della Chiesa per le sorti dell’Italia esigono
uno sviluppo dell’iniziativa politica e culturale volta non solo a interloquire con il mondo cattolico, ma anche a cercare forme nuove di collaborazione con la Chiesa, nell’interesse del Paese. A tal fine appare dirimente il confronto su due temi fondamentali del magistero di Benedetto XVI che nell’interpretazione prevalente hanno generato confusioni e distorsioni tuttora presenti nel discorso pubblico: il rifiuto del “relativismo etico” e il concetto di “valori non negoziabili”. Per chi dedichi la dovuta attenzione al pensiero di Benedetto XVI non dovrebbero sorgere equivoci in proposito. La condanna del “relativismo etico” non travolge il pluralismo culturale, ma riguarda solo le visioni nichilistiche della modernità che, seppur praticate da minoranze intellettuali significative, non si ritrovano a fondamento dell’agire democratico in nessun tipo di comunità: locale, nazionale e sovranazionale. Il “relativismo etico” permea, invece, profondamente, i processi di secolarizzazione, nella misura in cui siano dominati dalla mercificazione. Ma non è chi non veda come la lotta contro questa deriva della modernità costituisca l’assillo fondamentale della politica democratica, comunque se ne declinino i principii, da credenti o da non credenti. D’altro canto, non dovrebbero esserci equivoci neppure sul concetto di “valori non negoziabili” se lo si considera nella sua precisa formulazione. Un concetto che non discrimina credenti e non credenti, e richiama alla responsabilità della coerenza fra i comportamenti e i principii ideali che li ispirano. Un concetto che attiene, appunto, alla sfera dei valori, cioè dei criteri che debbono ispirare l’agire personale e collettivo, ma non nega l’autonomia della mediazione politica. Non si può quindi far risalire a quel concetto la responsabilità di decisioni in cui, per fallimenti della mediazione laica, o per non nobili ragioni di opportunismo, vengano offese la libertà e la dignità della persona umana fin dal suo concepimento. Ad ogni modo, se nell’approccio alle sfide inedite della biopolitica ci sono stati e si verificano equivoci e cadute di tal genere non solo in scelte opportunistiche del centrodestra, ma anche nel determinismo scientistico del centrosinistra, la riaffermazione del valore della mediazione laica che sembra ispirare “la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica” rischiara il terreno del confronto fra credenti e non credenti. Quindi dipenderà dall’iniziativa culturale e politica delle forze in campo se quella “possibilità” acquisterà un segno progressivo o meno nella vicenda italiana. A tal fine noi riteniamo che il Pd debba promuovere un confronto pubblico con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni religiose operanti in Italia oltre che sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”, su quelli che attengono in maniera più stringente ai rischi attuali della nazione italiana: la tenuta della
sua unità, la “sostanza etica” del regime democratico. Tanto sull’uno, quanto sull’altro, la storia dell’Italia unita dimostra che la funzione nazionale assolta o mancata dal cattolicesimo politico è stata determinante e lo sarà anche in futuro.
L’ideologia del liberismo di Gian Piero Scanu*
Oggi, mi chiederei, con crescente insistenza quale sia il limite umano davanti al quale si deve fermare l’enfasi ideologica del liberismo dell’epoca che viviamo. Un’enfasi che ha contagiato anche ambiti della sinistra e del mondo progressista, nel nostro paese e non solo. Un’enfasi che si è giustificata, nei migliori dei casi, con la attenuante per cui l’aumento di potere del mercato avrebbe permesso l’investimento in politiche sociali, in formazione, in uno sviluppo intelligente ed umano; convinti che l’appetito dell’economia si sarebbe potuto guidare dalla mano di una politica sapiente. In altri casi, il liberismo ha mostrato il suo volto più sfacciato, dichiarando apertamente che dalla ricchezza di pochissimi, con un’acrobatica ricaduta, ne avrebbero beneficiato i meno ricchi, che evidentemente sono molto di più. Le crisi economiche, sempre più lunghe e drammatiche, che avvolgono l’Occidente in questi ultimi tempi, ci mostrano come entrambe le prospettive a cui ho accennato siano fallite. La seconda per un’evidente disonestà di fondo, la prima invece merita di essere sottoposta ad alcune considerazioni.
L’intento di correggere le tendenze sperequative dell’economia non è stata una tendenza vana e malvagia, ma piuttosto manchevole. Ciò è accaduto, a mio avviso, per un’insufficiente elaborazione concettuale e valoriale intorno alla quale un sistema politico ed economico dovrebbe essere imperniato. Ne è mancato il centro dove far risiedere il principio da cui partire e che, allo stesso tempo ne fosse il punto irrinunciabile ed irriducibile. Io credo, con una convinzione che è prepolitica, che tale centro debba essere la persona umana nel riconoscimento della sua dignità piena. Nella suddetta mediazione tentata spesso dalle socialdemocrazie e anche da altri governi di orientamento di centrosinistra, tale punto è stato sempre eluso; e ora cercherò di spiegare perché. Come ben sappiamo, da almeno 20 anni, il mondo non è più lo stesso. Ne sono mutati i rapporti di forza e potenze finora egemoni (tra cui il nostro Paese) si sono trovate ad aver perso la loro posizione su uno scacchiere molto più complesso. Con la globalizzazione sono venute meno intere concezioni economiche; o meglio, una certa dinamica dell’impulso economico si è manifestata nella sua più palese espressione, e a crollare sono state, invece, le misure di contenimento ed equilibrio che ho citato. Ciò dimostra come a reggere un sistema di mercato temperato era il mercato stesso e non l’essere umano. E’ bastato un cambio di ritmo nella macchina del profitto per generare le ingiustizie che sono sotto gli occhi di tutti; il mercato, arrivato il momento decisivo, avrebbe fatto, nei confronti di una politica che chiedeva interventi e correzioni, come quegli adulti che mandano i bambini a giocare, sostenendo che quelle sono cose da grandi. Sicuramente è una mancata una politica forte, in grado di porre punti irrinunciabili; inoltre, è probabile che ci sia stata una fiducia nel fatto che alcuni diritti sociali, acquisiti grazie alla crescita economica, sarebbero rimasti inamovibili. Invece, è evidente come le pressioni nei confronti di alcuni diritti basilari si siano intensificati ed inizino ad avere le prime conseguenze sulle nuove generazioni. Non possiamo negare che il liberalismo (che è sicuramente una forma più saggia del liberismo) abbia permesso di raggiungere alcuni diritti fondamentali altrimenti difficilmente raggiungibili. La formula è stata più economia uguale più diritti. Ora che l’Occidente vive un’inflessione economica come si traduce l’equazione? Quali danni sociali ne derivano? Se l’equazione non dà più un risultato che possa garantire la dignità dei cittadini, allora la politica ha il compito di pensare qualcosa di nuovo, o almeno di rivendicare con forza un limite invalicabile oltre il quale non si chieda di aver ragione in base ai numeri, alle tabelle e alle statistiche. Del liberismo dobbiamo smascherare il suo fanatismo ideologico, teso soltanto a legittimare i rapporti di forza; e proprio noi, che facciamo vanto di militare nel campo progressista, non possiamo assumere il dogmatismo del mercato come la massima indicazione politica.
Il liberismo sempre più marcato fa sfoggio del rischio quasi come di una virtù cardinale. Enormi quantità di valore si possono costruire o distruggere in tempi irrisori; grandi opportunità che, ovviamente, contengono grandi rischi. Ora, la domanda, alla quale non possiamo sottrarci è: possiamo permettere che, tra ciò che possiamo sottoporre ai fattori di rischio del mercato ci siano anche le donne, gli uomini, i giovani, ai quali chiediamo fiducia nelle istituzioni, consapevoli che la politica è l’unico strumento possibile per rimediare alle ingiustizie della nostra società? Infine, un’ultima questione di cui voglio solo porre il problema: se, a causa dei rischi del mercato, gli Stati e i loro cittadini sono esposti a subire i violenti contraccolpi a cui stiamo assistendo, possiamo davvero sperare che gli stessi cittadini siano più responsabili di fronte all’arbitrio finanziario che incombe su di essi? Potremmo iniziare ad invertire questa tendenza solo quando si penserà all’uomo non come accessorio del calcolo politico, ma come il persistente monito di un’inesauribile umanità.
* Senatore della Repubblica, PD.
Tutte le stecche del pifferaio magico di Andrea Margheri
(…) Dobbiamo ritrovare nelle storie diverse che stanno confluendo verso l’alternativa, le ragioni di un progetto unitario di governo capace di cambiare l’Italia e di ricollocarla da protagonista nella corrente delle grandi trasformazioni mondiali. E per la verità, i grandi successi elettorali del centrosinistra ci spingono a riproporre con forza quelle diverse ragioni come radici ancora vitalissime di una nuova cultura e di una nuova proposta. Ma queste saranno adeguate all’analisi della crisi economica mondiale, saranno consapevoli dei rischi attuali della democrazia e dell’economia del nostro Paese nella stessa misura in cui saranno attraversate dal coraggio dell’autocritica. Dobbiamo innanzitutto rispondere alla domanda: perché in questi decenni siamo rimasti frantumati e, alla fine, soccombenti? Perché non abbiamo fatto valere le ragioni politiche, culturali e sociali della riscossa progressista che pure a tratti sono riemerse anche sul piano elettorale? Che cosa è mancato finora alla cultura progressista e riformista per opporsi con efficacia alle forze di coalizione di Berlusconi e del centrodestra?
9Non credo che l’entusiasmo dei trionfi elettorali possa essere turbato da simili domande. Semmai può essere correlato alle risposte che si possono dare. Occorre una premessa metodologica: dobbiamo ricondurre il concetto di mistificazione ai suoi limiti razionali. La mistificazione elevata a ‘categoria dello spirito’– strumento per interpretare e duplicare la realtà, creandone un’altra parallela cosiddetta virtuale, ma capace anch’essa di plasmare le vicende umane – sino a pochi anni fa si poteva rintracciare solo nel pensiero più negativo intorno alla nuova civiltà della comunicazione generata dalla inesausta rivoluzione tecnologica. E negli incubi letterari che l’hanno descritta. Abbiamo vissuto i decenni in cui essa è via via diventata uno strumento, in certi casi decisivo, della lotta politica. Con la variante ‘anomala’, così rilevante nella vicenda italiana, del populismo berlusconiano. Esso è vissuto della straordinaria capacità del Grande Imbonitore di vendere la mistificazione come merce genuina; gli annunci come realizzazioni, i fantasmi del passato come nemici in- combenti e minacciosi, i più ‘vieti’ luoghi comuni come principi innovativi e dinamici, le regole del vivere civile come vincoli intollerabili imposti di volta in volta dallo statalismo, dalla magistratura ‘rossa’, dai comunisti annidati nei posti di comando. Se guardiamo alla nostra storia recente un enigma irrisolto fa pensare: perché una gran massa di cittadini e di elettori lo hanno seguito come i fanciulli seguivano il pifferaio magico nella favola? Basta a spiegare il successo quasi ventennale della mistificazione berlusconiana la capacità imbonitrice e trasformista del premier? Possiamo tentare di rispondere con una riflessione sull’attuale e crepuscolare ‘esondazione’ di mistificazione. Questa, ora, dopo il crollo elettorale delle amministrative funge da ‘mantra’ consolatorio («il Cavaliere vince ancora 4 a 1»), da promessa di rivincita sul terreno delle grandi riforme a partire dal fisco, da appello alla riscossa dei fedelissimi contro i traditori, gli ignavi, i dubbiosi. E ancora in certi settori dell’elettorato funziona la sindrome del pifferaio magico. Possiamo dire che ciò avviene anche a prescindere dal grado di credibilità dello stesso pifferaio, per una spinta diversa e più profonda dell’attrazione che essa esercita. Oggi, infatti, l’efficacia dell’armamentario storico di Berlusconi è stata seriamente vulnerata sia sul terreno del governo effettivo del Paese e della inconcludenza degli annunci miracolistici, sia da quella commistione di privato e pubblico che appare comunque, indipendentemente dal giudizio penale riservato solo ai giudici, indegno di uno statista. E le stesse invettive minacciose contro la magistratura, la Corte costituzionale, la stessa Carta sono ora dei boomerang incontrollati. La riflessione, dunque, ripercorrendo l’intera parabola del berlusconismo, consente di confrontare le diverse fasi. Scopriamo allora che le ragioni del consenso e del sostegno sono ben più generali e profonde della sua efficacia propagandistica e riguardano la natura stessa del ‘sistema Italia’, le sue caratteristiche essenziali, nello sconvolgimento economico, commerciale, demografico, geopolitico degli ultimi decenni. C’è un significato profondo, che la cultura di sinistra ha il torto di aver sottovalutato, nelle paure che hanno attraversato i diversi settori della società italiana di fronte alla globalizzazione, in forme ed esiti diversi certo, ma sempre in un quadro
potenzialmente unitario. Confrontiamo, dunque, la traiettoria ‘asincrona’ dello sfaldamento della maggioranza del 2008 e dei suoi interni contrasti, con le ‘esondazioni’ della mistificazione berlusconiana sempre più grottesche. Si ricava la conferma che la propaganda come sostituto della politi- ca non è, come è sembrato a molti, l’origine culturale e il nocciolo forte del berlusconismo, ma è stato lo strumento sinora efficace di una concezione delle relazioni sociali e politiche molto più ampia e generale. Questa scaturisce dall’insieme degli interessi e dagli adat- tamenti competitivi che hanno costituito il ‘modello Italia’ negli ultimi decenni (dagli anni Settanta al Duemila) e che ora cerca di sopravvivere alla grande crisi finanziaria e alla nuova competitività mondiale. Un modello che sopravviveva e sopravvive sfruttando non solo i suoi ‘punti di eccellenza’ così efficaci sui mercati mondia- li, ma anche le sue interne arretratezze e contraddizioni, così come le sue ‘zone oscure’ sul piano del rispetto delle regole e del fisco. Così, nel tessuto della piccola e media impresa che costituiscono la grande massa del tessuto industriale italiano con le ‘punte’ di eccellenza qualitativa coesistevano, finché è stato possibile, la forza incontrollata del sommerso, la svalutazione competitiva, l’affidamento dell’innovazione non già a un collegamento sistemico delle imprese singole o associate con la ricerca nelle sue diverse articolazioni, ma al ‘fai da te’ più o meno dinamico dei collegamenti informali e quasi casuali su scala mondiale. Grazie alle generazioni di artigiani-imprenditori e alla cultura specifica e diffusa di alcuni contesti sociali industriali e mezzadrili l’informalità ha funzionato, ma non ha generato sufficienti elementi per essere all’altezza della fase nuova, di più generale e dura competizione sul terreno scientifico e tecnologico. Negli stessi decenni il sistema bancario e assicurativo è rimasto in ritardo nei rapporti con l’impresa rispetto al livello di dinamicità raggiunta in altri Paesi: basta pensare alla mancata introduzione del ‘venture capital’. Negli stessi decenni, il sistema delle imprese maggiori, anch’esso ricco di punte di eccellenza, in altre parti veniva devastato dalla rincorsa alla finanziarizzazione delle attività a scapito degli investimenti in innovazione di prodotto. L’uno e l’altro pro- cesso era indipendente dalla natura pubblica o privata della proprietà: si è trattato di una spinta generale a collegarsi alle più rischio- se tendenze internazionali. A questi elementi di crisi presenti nel tessuto industriale pur ancora così forte corrispondeva una generale arretratezza nella scuola e nelle aziende dei processi di formazione delle risorse umane, un disimpegno crescente dalle problematiche della qualità e del ruolo sociale del lavoro. Tutto ciò si è rivelato drammaticamente con la superficialità colpevole con cui l’economia italiana e le istituzioni hanno guardato alla precarizzazione del lavoro. Frattanto si mostravano rigide e incrollabili le piazzaforti organizzative e legislative entro cui si annida il privilegio corporativo e che si ergo- no contro il libero accesso delle nuove generazioni alle professioni e a molti mestieri. Queste pesano gravemente sul costo complessivo del modello, paralizzando la mobilità sociale e favorendo, tra l’altro, la fuga dei cervelli. Se a questo si aggiunge il perdurare della crisi di più antica origine, che però in quegli anni ha continuato a colpire in vari modi la scuola
e l’università, se si aggiunge l’incapacità di organizzare e adeguare ai tempi e alle opportunità tecnologiche le reti infrastrutturali, si ricava – come ben hanno documentato molti autori come Andriani, Gallino, Ruffolo, Vaccà, Rullani, Zamagni e tanti altri – quel quadro di stagnazione e di frammentazione che ancora perdura e che sta alla base del ritardo italiano in Europa e nel mondo. Come viene ripetuto dagli storici, dal Guicciardini in poi, la stagnazione e la frantumazione dei ‘particulari’, degli interessi specifici di territori, categorie, famiglie potenti è un «ricorso» permanente dell’Italia, è nel suo Dna di nazione divisa e invasa per secoli. Ma in quel momento specifico, nel momento della creazione di Forza Italia. quelle caratteristiche assistenziali furono affrontate con piglio propagandistico veramente eccezionale – per la verità favorito dalla lunga preparazione teorica di tanti ‘maîtres à penser’: basti pensare alla P2 e, per altro verso, al craxismo – con l’ipotesi e la promessa berlusconiana di portare in fondo la ‘rivoluzione’ liberista italiana. Non già nuove regole per un mercato competitivo, ma deregolazione spinta e ‘alleggerimento’ dello Stato e del fisco; potere accentrato e personalizzato di modello aziendalistico per dare uno strat- tone imprenditoriale al Paese; qualche lusinga alla richiesta leghista di un aspro protezionismo razzista sia sul terreno sociale e territoriale, sia sul terreno economico. La frammentazione viene unificata sotto la bandiera di un’Italia in cui tutti devono diventare proprietari, in cui sono messi in discussione la Costituzione e l’assetto istituzionale, in cui lo Stato deve solo ritirarsi come un servizio secondario gestito come un’azienda. È chiaro che nella visione di Forza Italia del ‘94 l’Europa appare distante o addirittura ostile; c’è invece, nella Lega la nostalgia della lira e della svalutazione competitiva. Entrano, poi, in campo, co- me elemento politico non secondario, ma connaturato con il berlusconismo, l’attacco permanente alla magistratura in nome del ‘garantismo’. In realtà, la magistratura è colpevole di non veder chiaro negli affari del Cavaliere, come dubiterà, in seguito, dei suoi comportamenti privati. Ma questo diventa un pesante scontro istituzionale; non privo di echi a livello internazionale. Questa concezione potrebbe essere definita con questo slogan: manteniamo i caratteri del ‘non sistema’ italiano e andiamo fino in fondo con un pragmatismo spregiudicato, al limite della provocazione, nell’adeguamento della Costituzione e dello Stato agli interessi ‘particulari’. Ma non solo essa si rivela nel tempo completamente irrealistica, soprattutto dopo la crisi globale e la svolta che il mondo sta imprimendo ai rapporti competitivi tra i diversi sistemi economici e so- ciali, ma si rivela terreno eccessivamente fertile per le cricche che gestiscono, in un sottobosco melmoso, l’intreccio tra politica e affari, facendo impallidire il ricordo di Tangentopoli. Questa è la rivoluzione liberista che dal ‘94 con varie traversie, come la rottura con la Lega, poi sanata, ha sdoganato e unificato le componenti del centrodestra, eredi dei democristiani, dei liberali, del socialismo craxiano, di una parte dei repubblicani, sino ai neofascisti di Fini già incamminati sulla via di Damasco di An. Un cemento che ha retto a molte prove, che ha ‘organizzato’ il populismo privatista e antistatalista di Forza Italia con il localismo settario e discriminatorio della Lega e il nazionalismo di An. Miracolo non della propa-
ganda, ma di quel coacervo di interessi che si è nutrito e si nutre degli elementi peggiori della realtà italiana, umiliando nel contempo il lavoro e le punte di eccellenza, le grandi risorse di inventiva e di intelligenza. Così facendo esso aumenta le disuguaglianze e, in certi casi, come per i giovani, le rende intollerabili. Il crepuscolo di questa concezione non deriva dall’esaurimento della verve propagandistica di Berlusconi, ma dal fallimento del suo nocciolo programmatico, della sua idea forza. La crisi, le difficoltà del capitalismo finanziario, il travaglio dell’Europa, la corsa impetuosa dei Paesi emergenti non tollerano il ‘non sistema’ degli interessi particolari, chiedono, più sistema, più capacità di elaborare un disegno razionale e unitario non solo di crescita economica, ma di riorganizzazione sociale. Nella nuova situazione europea e mondiale un Paese che vede decrescere il suo livello di produttività e che si riconosce incapace di programmare e organizzare la crescita è destinato a una deriva senza speranza. Sono, dunque, le condizioni oggettive e impellenti che richiedono anche nelle ristrettezze finanziarie che la crisi impone, non la ‘ritirata’ del pubblico, ma un pubblico migliore e meno caro, liberato dalle cricche, autonomo dagli interessi particolari e totalmente rispettoso del mercato competitivo; e soprattutto una politica industriale degna di questo nome. Sono le premesse necessarie anche per sperare di affrontare con qualche risultato il dualismo tra il Nord e il Sud del Paese. Richiedono una vera guerra di liberazione (anche in questo devono consistere le riforme) contro i privilegi corporativi. Richiedono più eguaglianza, maggiore giustizia sociale, una vera apertura alle opportunità di accesso al lavoro e alla vita delle nuove generazioni. Richiedono non annunci, ma severi programmi e seri controlli per lo sviluppo di nuove ‘reti’ infrastrutturali che facciano dell’Italia il crocevia del Mediterraneo e dell’Europa per l’energia (il gas), per i trasporti marittimi, per gli scambi commerciali. Richiedono valorizzazione del sapere, della ricerca, dell’innovazione, del lavoro in tutte le sue forme. Su queste esigenze sbatte la faccia e si frantuma il centrodestra, non sulla stanchezza ripetitiva della mistificazione berlusconiana. È la realtà che si impone, contro le illusioni della propaganda. Ecco perché è necessaria la percezione autocritica della nostra storia presente. Come è stato documentato molte volte e da vari autori su «AU», i progressisti italiani hanno dovuto subire la risposta di centrodestra alle difficoltà degli anni Novanta perché la loro risposta era frammentata e contraddittoria per l’incidenza di analisi e formule invecchiate. Ora, le lezioni degli ultimi anni devono spingerci a dare compattezza, omogeneità all’ipotesi di riforme efficaci per l’uscita dalla crisi attraverso il rafforzamento e, in certi casi, la costruzione del ‘sistema Italia’ con la valorizzazione delle sue eccellenze, delle sue opportunità competitive. Un programma che le culture progressiste già hanno nel loro patrimonio di idee ma che devono rendere esplicito agli elettori, ma anche di fronte al dibattito europeo e mondiale. Per questo, nel crepuscolo del berlusconismo e nella frantumazione strutturale del centrodestra, il motore dell’unità non sta nella scelta pregiudiziale delle alleanze, ma nella forza del progetto, nella proposta di rilancio di un rapporto interattivo e dinamico tra pubblico,
privato e comune. A cui le alleanze, caro Pd, seguiranno necessariamente.