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Gennaio-Febbraio , n째 39 - 2010


Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale

Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Gennaio-Febbraio 2012, n° 39. (Numero 40 1 MARZO 2012) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace


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Rigore, sviluppo, equità: sui tre principi del governo Monti di Elio Matassi Lo scontro nella Lega di Umberto Curi La politica dell’eterogeneo e il governo Monti di Bruno Moroncini

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I modi dell’interpretazione di Ugo Perone

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La supplenza dei governi tecnici di Guido Melis

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Sulla rappresentanza politica del lavoro di Silvano Andriani

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Elio Matassi, Il giovane Lukàcs. Saggio e sistema di Dario Gentili

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Rigore, sviluppo, equità: sui tre principi del governo Monti di Elio Matassi

Il mese di gennaio 2010 ha visto un’accelerazione considerevole nell’azione governativa di Mario Monti; liberalizzazioni, semplificazioni, lotta a tutte le corporazioni, che hanno di fatto ingessato lo sviluppo della società italiana, sono diventate finalmente prassi concreta dopo anni di una staticità sostanziale, di un’inerzia che aveva solo favorito ceti e gruppi sociali politicamente afferenti al blocco neopopulista (PdL, Lega), oggi sempre più diviso. Cominciano ad intravedersi i lineamenti essenziali di un capovolgimento di paradigma concentrato sul primato dello sviluppo, dopo i


durissimi provvedimenti prenatalizi, contrassegnati dal principio del rigore, dei parametri europei fissati dalla Banca Centrale. Sono comunque ormai chiarissimi due aspetti: la crisi che sta attraversando in profondità tutto l’Occidente è una crisi sistematica e non congiunturale; è finita per sempre la retorica connessa alla globalizzazione illimitata, concepita come dominio esclusivo della sfera economica. L’ipertrofia del momento economico, che ancora domina sulla scena italiana e internazionale, dovrà essere ripensata in modo radicale; il 2012 si presenta come un anno di appuntamenti elettorali particolarmente decisivi (in particolare quello francese e statunitense). ‘Rigore’ e ‘sviluppo’ dovranno dunque essere interpretati come due passaggi strumentali essenziali ma comunque pur sempre propedeutici al terzo principio tanto proclamato e auspicato e, a tutt’oggi, profondamente disatteso, quello dell’equità. Non possono essere considerate forme di lotte in favore dell’equità le recenti prese di posizione contro l’evasione fiscale: un’evasione così profondamente radicata in quasi tutti gli strati della società italiana da risultare ormai insopportabile. Se non si opera in profondità contro questa patologia del sistemaItalia, una patologia che non può essere affrontata solo con strumenti propagandistici di facciata, non si riuscirà mai a realizzare il terzo obiettivo, quello veramente irrinunciabile dell’equità. Sono convinto che l’autorevolezza del governo Monti riuscirà nei primi due obiettivi, risanamento economico e inizio di un nuovo possibile ciclo di sviluppo, ma fallirà completamente sul terzo, come di fatto si sta già intravedendo. Un’interpretazione di questo tipo, che stabilisca la sequenza corretta della crisi, in primo luogo etica e politica, scandirà necessariamente l’agenda politica dell’anno 2012 e quella del’inizio 2013, quando sarà ormai prossimo, alla scadenza naturale, l’appuntamento elettorale nazionale e non potrà più esservi la riproposizione del Governo Monti con l’attuale, anomala, maggioranza parlamentare. Comincia a delinearsi uno scenario politico – determinato in larga misura dall’avvento emergenziale del Governo Monti – in cui si assisterà alla progressiva scomposizione del blocco neopopulista. E’ presumibile che l’intuizione di partenza del centrodestra – di una vasta alleanza nella quale far coesistere Bossi, Casini e Fini insieme all’artefice di tale costruzione, l’ex Presidente del Consiglio – non sia più né praticabile né realizzabile. Le possibili alternative sono solo due: o il ricompattamento di PdL e Lega (ipotesi molto improbabile allo stato dei fatti), o un’alleanza che vada dal Terzo Polo fino al PdL; in tale eventualità vi sarebbe una sicura implosione del maggior partito del centrodestra con una perdita rilevante favorevole ancora a un’alleanza stretta con la Lega. Entrambe queste alternative aprono al PD uno spazio politico immenso, una ricomposizione-alleanza con le altre forze della sinistra, in particolare SEL e IdV, per realizzare finalmente quel terzo punto, l’equità, la ridistribuzione del reddito che il governo Monti non riuscirà mai a portare a compimento fino in fondo. Rinunciare a un percorso di questo tipo sarebbe per il PD un suicidio politico e culturale a un tempo. Rimanere schiacciato, in una “subalternità permanente”, all’interno del blocco centrista risulterebbe fatale per il PD e per lo sviluppo della


sinistra nel suo insieme. Un principio di equità che dovrebbe essere applicato a realtà istituzionali, ormai completamente devastate, come la scuola e l’università, dall’egemonia politico-culturale del neoliberismo. Basti solo ricordare come l’applicazione della riforma Gelmini, ormai imminente, provocherà accorpamenti che, snaturandolo, distruggeranno nella sostanza tutto il comparto del sapere umanistico; un delitto compiuto contro una delle nostre più prestigiose tradizioni, considerata ormai dalla classe politica dell’ultimo quindicennio semplicemente come residuale, come una dimensione irrilevante di cui liberarsi progressivamente, come un ‘peso’ da rendere sempre più minimale. Dal 2007, da quando è nata l’esperienza di Inschibboleth, non faccio che ripetere la formula seguente: non può né potrà mai essere costruita quale che sia dimensione di progresso al prezzo della distruzione del nostro più grande patrimonio, una delle risorse principali che ha consentito all’Italia di avere un rilievo-prestigio autenticamente internazionali. Si tratto di un disegno miope e suicida che il blocco neopopulista ha condiviso nel lungo tratto del suo governo e che il PD e la sinistra non potranno mai assecondare. Una scelta diversa per il PD, in un sistema elettorale completamente diverso, di natura proporzionale che favorirebbe il terzo polo e un centro rinnovato dalla veste tecnocratica, in un’alleanza moderata di centrosinistra, potrebbe risultare molto problematica e non riuscire a garantire quel terzo lemma ‘equità’, su cui tanto si investe dal punto di vista retorico-propagandistico, ma su cui si fa molto proprio su quello propriamente effettuale. Fino a che una delle nostre più grandi risorse, quella della tradizione umanistica non sarà considerata patrimonio comune, un bene comune, parola-chiave del dibattito pubblico contemporaneo, non vi potrà mai essere una reale inversione di tendenza nella realizzazione di una compiuta equità. Bene comune che va ben al di là di una distinzione-contrapposizione pubblico/privato, che finora ha tanto condizionato il dibattito politico. Sono queste alcune indicazioni di massima per un’alleanza strategica delle forze i sinistra che dovrebbe finalmente dare compimento al principio di equità in tutte le sue implicazioni.


Lo Scontro nella Lega di Umberto Curi

Come spesso accade in politica, anche in questo caso bisognerebbe evitare di farsi ingannare dalle apparenze. L’aspro conflitto che è in corso all’interno della Lega Nord non è affatto la conseguenza dello scontro personale fra Bossi e Maroni (che pure indubbiamente sussiste), né discende, come troppo spesso si ripete in maniera perfino stucchevole, dalle due “anime” del Carroccio, quella di “lotta” e quella di “governo”. In particolare, l’impiego di questa seconda chiave di interpretazione, che assimila i Lumbard al vecchio Partito comunista, ricalca pigramente slogan ormai obsoleti, senza riuscire a spiegare ciò che si sta verificando. In realtà, gli avvenimenti concomitanti al voto parlamentare sull’autorizzazione all’arresto di Cosentino hanno definitivamente fatto emergere una ambivalenza di fondo, destinata verosimilmente ad esplodere nel prossimo futuro. Fin dalla sua origine, la Lega si è caratterizzata per la compresenza di due ispirazioni, comunque irriducibili al semplice binomio lottagoverno. Da un lato, infatti, come risulta anche dalla fase storica della sua genesi, coincidente con la stagione di “Mani pulite”, il Carroccio ha colto e cavalcato l’onda montante dell’antipolitica, di


un’ostilità diffusa non a questo o a quel partito, ma al sistema dei partiti in quanto tale, ritenuto nel suo complesso irrimediabilmente corrotto e insanabilmente ammalato. Il simbolo di questa componente dichiaratamente avversa a ogni espressione politico-partitica può essere considerato il cappio che un parlamentare leghista aveva fatto sventolare nell’aula di Montecitorio durante la fase di Tangentopoli. Dall’altro lato, soprattutto nei centri urbani piccoli e medi del Nord, l’identità della Lega si è definita in un senso per certi aspetti opposto, vale a dire come partito organizzato capace di esprimere un ceto politico pronto e attrezzato per la gestione del governo in realtà rilevanti della cosiddetta Padania. Anche qui un esempio su tutti, vale a dire il caso di Verona, dove l’amministrazione guidata da Tosi agisce – nel bene e nel male – con criteri di grande realismo, e comunque certamente remoti da ogni esasperazione antisistema. Per dirla in sintesi: nella formazione creata da Bossi hanno convissuto a lungo, anche se in forme spesso conflittuali, l’antipolitica e la politica, l’appello alle viscere della plebe e il richiamo alla ragione del popolo, l’invettiva contro Roma ladrona e i “terun” e la disposizione a trovare una mediazione con i problemi e le esigenze del Sud, l’ideale della secessione e il più realistico approdo del federalismo. Era inevitabile che queste due tendenze, fra loro talmente diverse da risultare alla fine internamente contraddittorie, finissero per venire a galla, provocando le lacerazioni alle quali stiamo assistendo. Affinchè lo scontro – per tanti anni sopito dall’indubbio carisma del Capo – venisse allo scoperto, era necessario che almeno uno fra i “colonnelli” leghisti avesse il coraggio di intestarsi la paternità politica di una linea alternativa, rispetto a quella perseguita da Bossi. Lontano anni luce dal Senatur da una molteplicità di punti di vista (si pensi solo alle diversità, non solo di “stile”, con le quali i due esponenti leghisti hanno interpretato il ruolo di ministri, l’uno agli Interni, l’altro alle Riforme), Roberto Maroni ha rotto ora gli indugi, mostrando di essere pronto ad affrontare una resa dei conti non più rinviabile. E’ difficile prevedere quale potrà essere l’esito di questa convulsa fase di transizione. Resta tuttavia la convinzione che da un chiarimento di fondo non potrà che trarre giovamento l’intero sistema politico italiano.


La politica dell’eterogeneo e il governo Monti di Bruno Moroncini

Il primo numero dei Cahiers Bataille pubblica per la cura di Marina Galletti un inedito del pensatore francese dal titolo Definizione dell’eterologia. Questo il folgorante esordio: «L’eterologia è la scienza dell’eterogeneo, cioè la scienza della parte esclusa (o almeno del modo d’esclusione che crea questa parte)». Leggendolo non posso evitare un’’associazione libera’ e irresistibilmente penso all’espressione coniata da Jacques Rancière per designare la politica e distinguerla dalla polizia: mentre quest’ultima indica una gestione della comunità politica in cui il rapporto delle parti della città fra di loro è regolato da una legge della ripartizione dei beni materiali e immateriali fondata sul principio dell’isonomia, in cui cioè ciascuna parte fa la sua parte e riceve in proporzione, in cui ciascuna ha il suo posto all’interno della comunità e lo rispetta, sta in altri termini al


suo posto, la politica al contrario è la presa di posizione a favore dei ‘senza parte’, di quella parte della comunità cioè che di volta in volta è esclusa dalla partizione, della parte non contata, della parte esclusa. Non si dà politica in altri termini se non come politica dei senza parte. Non è questa la sede per approfondire il concetto batagliano dell’eterogeneo, la sua discendenza dalla sociologia francese del novecento, la sua parentela con gli studi di storia delle religioni: basterà ricordare che l’eterogeneo coincide per Bataille con la dimensione del sacro nella sua differenza dalla sfera del profano, vale a dire dell’utile e del lavoro produttivo, della necessità della sopravvivenza, e con l’articolazione interna al sacro fra il puro e l’impuro. Soprattutto Bataille vuole evitare la tesi ideologica che identifica il profano con l’impuro cui contrapporrre la purezza della dimensione sacrale e religiosa: è il profano al contrario a stare interamente dalla parte del puro dal momento che coincide con il primato dell’ordine, con la supremazia della vita sul godimento, dell’accumulazione sul dispendio, della morale sul piacere. Il sacro invece anche quando si presenta sotto le insegne della purezza resta impuro per il fatto di rappresentare in ogni caso la parte eccedente, trasgressiva, incandescente, della condizione umana. Più importante è mettere l’accento sul fatto che fra gli oggetti studiati dalla scienza eterologica si trova per Bataille anche la lotta di classe intesa come «una serie di fenomeni di polarizzazione che si producono all’interno del suo proprio dominio, eterogeneo in rapporto all’organizzazione pratica e tecnica della società». Se la lotta di classe è parte integrante della scienza eterologica, è perché essa rappresenta il lato eterogeneo dell’assetto societario, ciò che si oppone al buon funzionamento della società, che spezza in continuazione il patto sociale, vale a dire il compromesso o l’armistizio fra le classi, attraverso il quale si assicura l’ordine delle comunità politiche. Quel che sto per dire adesso apparirà sicuramente come una caduta vertiginosa dalle stelle alle stalle, ma io mi ostino a credere che anche il commento quotidiano ai fatti del giorno, per esempio a quelli politici, abbia un senso solo se per comprenderli si utilizzino le costruzioni teoriche più complesse e articolate, apparentemente lontane, se non estranee, alle miserie dei partiti politici italiani e alle capovolte dei mercati finanziari e dei tassi d’interesse. Se Bataille (ma qualunque altro nome andrebbe bene) non mi serve a comprendere anche le peripezie del governo Monti, allora è inutile essere filosofi, anzi è la filosofia ad essere completamente inutile. Dunque, vado avanti: il pericolo insito nel governo Monti non consiste nell’essere una buona incarnazione del concetto schmittiano di stato d’eccezione che, come si è capito ormai da un pezzo, è la migliore espressione del paradosso democratico in base al quale si assicura la sopravvivenza della democrazia sospendendone temporaneamente l’esercizio, bensì nel rendere possibile una opposizione, fatta propria da quasi tutti i commentatori politici italiani, fra tecnica e politica secondo la quale mentre il governo tecnico ha la forza di colpire privilegi e interessi di categorie, ceti o classi sociali senza doversi preoccupare degli effetti di tali decisioni dal momen-


to che non è chiamato a presentarsi alle prossime elezioni per vedersi confermato, i partiti, vincolati, perlomeno in democrazia, alla legge del consenso popolare, quindi agli interessi particolari delle parti sociali che pensano di rappresentare, non se lo potrebbero permettere in nessun caso. Col paradosso però che, consapevoli d’altronde che quei provvedimenti sono necessari, li delegano ad un governo da cui sono assenti per poter poi, al momento delle elezioni, andare a sostenere davanti agli elettori che loro erano contrari, che la colpa è del governo tecnico, che mai avrebbero colpito i pensionati, i tassisti, i farmacisti, l’articolo 18, i venditori di giornali, le municipalizzate, soprattutto quelle che erogano l’acqua, che mai avrebbero liberalizzato l’orario dei negozi né riformato il mercato del lavoro, che vadano pure al diavolo l’euro e l’Europa, i precari e i giovani, le donne ed i migranti loro non avrebbero mai fatto queste cose e avrebbero risolto i problemi, se solo lo avessero potuto, facendo pagare il prezzo della crisi una buona volta a quelli che non pagano mai, i quali, a seconda dei casi e delle opportunità politiche, sono una volta gli evasori fiscali (che come è noto sono sempre gli altri mentre tutti evadiamo allegramente l’iva), un’altra i tecnocrati di Bruxelles, un’altra ancora le banche, senza contare i comunisti, Marchionne, il capitalismo che è cattivo per definizione, la Cina e la chiesa che non paga l’ici. Ma se questa descrizione della situazione e soprattutto questa declinazione della politica fossero vere, allora il primo effetto consisterebbe nel chiedersi perché mai gli elettori dovrebbero votare per dei partiti così manifestamente inutili ed inetti. E non ci si fermerebbe qui: si dovrebbe concludere che è la politica stessa, se intesa in questo modo, ad essere completamente inutile e decidere, facendo dell’eccezione la regola, di tenersi il governo tecnico per almeno i prossimi trentanni. In realtà ciò che i politologi, i commentatori politici dei quotidiani e i politici stessi chiamano ‘politica’ è il dispositivo di controllo della società che Rancière ha designato con il termine ‘polizia’, concetto che non rinvia a nessuna forma di dispotismo o di violenza, ma semplicemente a quella concezione ideologica secondo la quale le parti in cui si articola la città collaborano felicemente al buon funzionamento dell’intero. Nella misura invece in cui la politica è la presa in carico dei senza parte e quindi una pratica per l’affermazione dell’eterogeneo, essa si configura come una rottura della pace sociale, come un’attiva produzione di disastro, un movimento castastrofico (la catastrofe indica il punto di svolta delle situazioni, l’inizio della trasformazione). Ciò è vero anche per la destra che, come dimostra soprattutto la storia del novecento, non è soltanto conservatrice, ma alle volte è costretta per iniziare un nuovo ciclo capitalistico a travestirsi da rivoluzionaria. Se così non fosse non si capirebbe né la necessità per un pensatore come Gramsci di inventare categorie storiografiche come quelle di ‘cesarismo progressivo’ e di ‘rivoluzione passiva’ né l’interesse di Bataille e del Collegio di sociologia per i fascismi europei. Tuttavia è per la sinistra che la politica non può avere altro significato che quello di essere un’applicazione della scienza eterologica e quindi di costituirsi a partito dei senza parte. Se ciò


non accade la sinistra non ha alcuna ragione di esistere e la sua inutilità è totale. Mentre la destra ha due opzioni, può essere alternativamente conservatrice e innovatrice, la sinistra ne ha una sola, quella rivoluzionaria, al di fuori della quale muore. Stupisce allora ed accresce lo stato di lutto in cui la sinistra mondiale è caduta dopo il collasso dell’Unione sovietica il fatto che i dirigenti del partito democratico, partito che volente o nolente eredita la tradizione delle lotte dei senza parte del sistema di produzione capitalistico, si affannino a dichiarare che gli interventi del governo Monti non debbano intaccare il patto sociale, che bisogna salvaguardare ad ogni costo i diritti, diventati privilegi, conquistati negli anni, in un precedente ciclo capitalistico, dalle parti sociali che sono diventate il loro bacino elettorale, quando essi dovrebbero attivarsi per rompere il patto sociale, favorendo l’irruzione al governo della società delle parti non contate, delle parti escluse, di ciò che è eterogeneo, radicalmente eterogeneo, rispetto all’attuale ordinamento della società. Che cosa avrebbe dovuto fare il partito democratico di fronte agli effetti che la crisi capitalistica globale produceva in Italia, mettendo drammaticamente fine ad un ciclo economico iniziato nel secondo dopoguerra e terminato già da lungo tempo, ma di cui le parti sociali continuano a consumare i resti come se fosse ancora in vita? Avrebbe dovuto chiedere le elezioni subito, vincerle come era annunciato in ogni sondaggio e andare a governare la crisi dando inizio ad un nuovo ciclo di accumulazione del capitale che però sarebbe stato fatto a favore dei senza parte. Si trattava insomma di fare gran parte di quello che già ha fatto e che si appresta a fare, se glielo faranno fare (ma in questo caso verrà l’uomo-lupo e saranno veramente lacrime e sangue), il governo Monti, di farlo da sinistra, spostando risorse dalle categorie e dai ceti divenuti improduttivi, da cui non si estrae più plus-valore, alle nuove figure della classe operaia, a ciò cui corrispondono i nomi dei ‘giovani, dei ‘precari’, delle ‘donne’ e dei ‘migranti’. Si trattava di mettere l’Italia al lavoro, opponendosi non solo alla destra, ma anche alla vecchia sinistra, rompendo con le tesi reazionarie della decrescita, dei beni comuni, dell’ecologia da un lato e con le posizioni operaiste da sempre perdenti nella lotta con il capitale dall’altro. Si trattava di rompere con il sindacato che quando non si fa cinghia di trasmissione del partito sceglie o - ed è il caso migliore - di proteggere gli interessi economici della classe, oppure - ed è la situazione attuale e il caso peggiore - di difendere ad oltranza fascie di aristocrazia operaia e di ceti improduttivi. Non avendo fatto niente di tutto questo né sembrando intenzionato a farlo in tempi brevi, il partito democratico è destinato alla scomparsa o all’insignificanza. Poiché il governo Monti è il governo della destra che tenta di fare quello che il governo Berlusconi non è riuscito a fare causa lo scontro di classe fra i fautori dei vecchi ceti borghesi e i sostenitori dei nuovi, quando la democrazia riprenderà il suo corso normale e saranno indette le elezioni, a vincerle sarà di nuovo la destra, certamente una destra senza Berlusconi per la gioia di tutti quelli che in questi anni hanno fantasticato di una destra elegante, conservatrice e legalitaria, ma pur sempre una destra,


mentre il partito democratico, per non parlare della sinistra cosiddetta ‘antagonista’, saranno diventati dei paragrafi brevi e stampati in corpo minore nei manuali di storia per le scuole superiori.


I modi dell’ interpretazione di Ugo Perone

Anche l’interpretazione si può dire in molti modi. In italiano, in senso più ristretto, possiamo parlare di decodificazione, riferendoci al passaggio da un segno al suo significato, di esegesi, in riferimento a testi aventi un valore autoritativo, o, più comunemente e vagamente, di interpretazione come esplicitazione di un significato non immediatamente evidente. Prevalentemente in filosofia è invalso poi l’uso del termine di ermeneutica, per designare tanto la pratica dell’interpretazione quanto il singolo e specifico atto interpretativo. Manca tuttavia una distinzione che, riprendendo la differenza tedesca tra Auslegung e Interpretation, potrebbe essere di qualche utilità. Come sempre l’espressione germanica Auslegung è assai più immediata; lì interpretare significa es-plicitare, es-porre; il termine di origine latina Interpretation, la cui etimologia


non appare così definita, incerta com’è tra una radice che si riferisce al manifestare e una che rimanda al trattare, nel senso di scambiare, resta comunque vigorosamente segnato dal suffisso inter, che sembra alludere a una ricerca che deve operare una scelta tra opzioni diverse. In mancanza di meglio, in italiano siamo costretti a ricorrere alla formula interpretazione1 e interpretazione2, il primo che farei corrispondere ad Auslegung e il secondo a Interpretation. Con interpretazione1 ci riferiamo a tutte quelle attività di comprensione e commento che mirano all’individuazione dei significati propri di un segno, di un testo, di un’azione. Tale interpretazione, di norma, non è infinita, ma solo molteplice, molte essendo le possibilità ermeneutiche, tutte però ancorate all’autorità della cosa da interpretare (più complesso e profondo l’oggetto più numerose e varie le interpretazioni). L’interpretazione2 è invece quel gesto, tipicamente filosofico, in cui s’inscrivono le interpretazioni1 in un senso complessivo, capace di strutturarle e unificarle. Essa non è molteplice, ma per il riferimento alla totalità da cui è attraversata ha un carattere di infinità, in quanto è suscettibile al proprio interno di infinte e nuove modulazioni. Per certi aspetti l’interpretazione2 sembra venire dopo l’interpretazione1 (in quanto ne fornisce un’unificazione) ma per altri essa appare la condizione che apre la possibilità stessa delle interpretazioni1. Come l’attività ermeneutica mostra, se non si disponesse di un quadro di riferimento entro cui inscrivere le interpretazioni1, neppure sarebbe possibile formularle. Come si è detto, all’interpretazione1 corrisponde l’individuazione di specifici significati, all’interpretazione2 la proposta di un senso complessivo. Ma quale funzione attribuire a questa proposta distinzione? Anzitutto una funzione liberatoria. Si parla molto di interpretazione e ogni volta sorge un potenziale conflitto tra chi professa una filosofia ermeneutica e chi esercita molto più semplicemente un’attività interpretativa, attività che si estende ai più diversi campi culturali (letterario, giuridico, religioso, diagnostico, ecc.). L’esercizio dell’interpretazione non comporta l’adesione a una prospettiva ermeneutica in senso stretto. Essa è in grado di mettere capo a significati e di favorire un loro confronto, e a ciò intenzionalmente si limita. Altro è se s’intende inscrivere questi significati in una prospettiva a suo modo fondativa, tale cioè da rendere ragione della possibilità dell’esercizio interpretativo e da inscrivere i significati entro una prospettiva di senso, scelta che è una vera e propria libera decisione del soggetto. Qui non siamo più di fronte a interpretazioni, ma a un enunciato filosofico che dichiara che nella modernità non vi è accesso a una verità come oggettività di un ordine dato, ma come invenzione e proposta di senso. Il termine Weltanschauung, oggi assai screditato e assimilato a ideologia potrebbe essere ripreso e ripensato. La filosofia ermeneutica è un modo di vedere il mondo (dove visione del mondo come traduzione del termine tedesco dà luogo a un genitivo oggettivo) che si assume la responsabilità di un’opzione sintetica, suppone cioè che la costruzione di un mondo sia necessaria per vedere il mondo. Il mondo diventa quella modalità di visione che legge nella forma dell’unità ciò che si presenta nello stato della distinzione. Qui il genitivo è soggettivo. Ma è proprio nella duplicità


di questo genitivo, al tempo stesso soggettivo e oggettivo, che l’ermeneutica come filosofia non solo cerca di stringere il nesso di verità e interpretazione, ma anche tenta di superare la semplice opposizione di soggetto e oggetto. La distinzione proposta a questo punto assume anche un altro significato, consente cioè di formulare in modo più netto, e a mio parere più convincente, quello che è lo statuto su cui si fonda l’ermeneutica come filosofia. A questo punto risulta altresì chiaro che il termine interpretazione, nel suo senso generico, ha un’estensione semantica ampia e polisensa, ma che, riferito a un’opzione filosofica complessiva, ci si dovrebbe limitare piuttosto all’uso di ermeneutica e derivati, poiché questi meglio alludono a quanto qui ricompreso con il termine di interpretazione2.


La supplenza dei governi tecnici di Guido Melis*

“Tecnici” battono “politici” tre a zero. Se fosse stata una partita di calcio, la squadra capitanata da Mario Monti (Passera a centro campo, Fornero e Severino alle ali, un ex ambasciatore in porta e un prefetto nel ruolo dello stopper) avrebbe stravinto l’incontro. Si ripete in ciò (mi si perdoni la metafora) un leit-motiv della storia dell’Italia unita, una legge non scritta forse – ma in compenso inesorabile – che si potrebbe compendiare così: davanti a grandi crisi epocali le classi politiche si rivelano in Italia insufficienti, e tendono a cedere il passo a un’élite tecnica, una sorta di partito dei competenti, altrettanto costantemente tenuto en réserve de la Republique. Successe la prima volta nel 1893-94, quando la piccola Italia degli eredi di Cavour rischiò il default (allora però non si chiamava così) per il fallimento degli istituti di credito di prima generazione culmi-


nato nel grande scandalo politico-finanziario della Banca Romana: e Giolitti, vittima di quella crisi ma al tempo stesso suo risolutore, dovette volgersi alla moderna cultura bancaria di personalità come Bonaldo Stringher per creare la Banca d’Italia, supremo regolatore del sistema. Successe di nuovo dopo Caporetto, con l’armata in rotta e il Paese in frantumi: e fu allora la volta dei grandi tecnici vicini a Francesco Saverio Nitti, degli uomini dell’impresa industriale e delle assicurazioni, chiamati ad assumere il ruolo di ministri. E poi riaccadde dopo il 1929, quando l’Italia fascista trovò il ceto dirigente capace di trarla oltre la grande depressione non nelle file del corporativismo in camicia nera, ma nelle tranquille stanze della finanza pubblica e privata, affidandosi a uomini come Alberto Beneduce, il deus ex machina cui si dovette la creazione dell’Iri. E ancora nel dopoguerra, sino al Ciampi del 1993-94 e a quello, del 1996-2000, che pilotò l’entrata nell’area euro. Potrei continuare a lungo, citare nomi, eventi, circostanze. Non dalla politica, ma da altre pépinières de grands commis vengono sempre, immancabilmente, i risolutori delle impasses italiane. Ciò rimanda a due problemi, che vorrei qui di seguito rapidamente accennare. Il primo è perché la politica in Italia non esprima quasi mai una classe dirigente all’altezza delle grandi crisi, perché occorra sempre e comunque la supplenza di chi alla politica è estraneo, dalla politica non è stato selezionato, al patrimonio di conoscenze della politica non attinge. Il secondo è perché queste élites, questi “salvatori della patria”, svolgano nella nostra storia politico-istituzionale un ruolo breve, intermittente: chiamati a una supplenza, quando occorre; rispediti nelle retrovie, quando l’emergenza è superata. Perché insomma dopo Bonaldo Stringher e il Giolitti ideatore della Banca d’Italia si torni a Crispi e alle sue follie africane; e nel dopoguerra, salvata l’Italia dopo Caporetto, si debba assistere all’avvento del fascismo; e perché, dopo Beneduce e la sua virtuosa gestione dell’Iri, il grande ente di Stato, nell’età repubblicana, sia pure gradualmente, imbocchi la strada che ne segna l’inquinamento fatale da parte della politica di governo; e perché dopo il Ciampi dell’euro vengano Berlusconi e Tremonti, che sono l’esatto contrario. Un destino puntuale, si direbbe, ineluttabile. Una sorta di storia - quella delle élites tecniche – che potremmo definire come “storia dei vinti”. Alla prima domanda rispondo che la politica, per lo meno la politica dei partiti moderni del dopoguerra, in Italia è stata a lungo fuori delle istituzioni, è nata estranea alla loro cultura e alla loro prassi. Cattolici e socialisti (poi i comunisti) hanno costituito storicamente partiti attraverso i quali le grandi masse popolari escluse dallo Stato liberale, e tanto più da quello fascista, sono potute entrare nell’arena della decisione politica, e farsi valere. Ma al tempo stesso lo hanno fatto sulla scorta e sotto la suggestione di ideologie critiche verso lo Stato, o quanto estranee alla sua specifica cultura. Nei momenti di crisi, questi partiti hanno manifestato un limite di comprensione dei meccanismi istituzionali che ne ha gravemente compromesso la capacità di guidare la macchina pubblica. C’è una battuta rivelatoria di Nenni, nel suo diario, quando, parlando di non so quale nomina di responsabili dei servizi segreti, lui, allora vicepresidente


del Consiglio, scrive candidamente: “Io non ne conoscevo neanche uno”. Una politica che non conosce, non padroneggia, non guida la macchina dello Stato, dunque. Il discorso vale certo solo in parte per il personale di governo della Democrazia cristiana, che quello Stato lo conobbe e lo abitò nei più reconditi meandri: ma se si studia a fondo una personalità controversa come Giulio Andreotti, ad esempio, non si potrà non riscontrarvi il vizio di una visione delle istituzioni sempre invariabilmente tutta politica e politicizzante, tutta strumentale alle esigenze della politica. Alla seconda domanda che mi sono posto (perché i salvatori della patria vengano sempre rimandati a casa, senza che la loro esperienza entri per così dire mai “in vena”) risponderò che qui sta un limite preciso del nostro meccanismo di formazione delle élites, meccanismo che resta confinato nelle università e nei centri di eccellenza (nelle istituzioni finanziarie, per lo più), senza che avvenga mai quel processo di fusione che è tipico invece di altri paesi. La Francia di De Gaulle ha avuto sin dal dopoguerra l’ENA, vero terminale di fusione tra i giovani aspiranti politici e i loro coetanei tecnocrati, riserva dalla quale la Repubblica (la quinta più della quarta) avrebbe tratto alla stessa stregua governanti provetti, grandi imprenditori privati, dirigenti pubblici di vaglia, persino capi dello Stato. La Gran Bretagna ha storicamente effettuato la stessa fusione di politica e tecnica nel circuito d’eccellenza dei grandi colleges universitari (la tradizione Oxbridge), che alimenta i quadri dirigenti dei due partiti storici e al tempo stesso dà uomini e cultura al Civil service. L’Italia no. Politica e tecnica, da noi, non si sono quasi mai intrecciate fra loro (salvo prestiti personali isolati, per quanto importanti). Da dove viene la nostra classe politica? Come si forma e si seleziona? Se si fa eccezione per la leva degli amministratori degli enti locali, campo nel quale possiamo vantare qualche non trascurabile virtù, per il resto la fucina dei politici è la semplice cooptazione verso l’alto, sulla base di inespresse doti di fedeltà al leader di turno. Troppo poco per competere con l’apprentissage dei politici europei. E il risultato si vede. Che fare, allora? Poche cose che forse non costerebbero molto, se solo se ne avesse consapevolezza: 1) riformare in profondo il nostro sistema di formazione delle élites, puntando sui centri di eccellenza post-universitari e aprendo scuole di politica in senso moderno, basate sul mix delle competenze e degli apprendistati; 2) abituare i partiti a selezionare il proprio personale dirigente anche e soprattutto in base alle competenze dimostrate sul campo, individuando percorsi misti, di studio e esperienza, che possano davvero forgiare una leva politica nuova; 3) infine, inserire stabilmente la tecnica (uso qui un sostantivo che non mi soddisfa: voglio indicare – lo si sarà capito – quella che altrove ho chiamato la cultura delle competenze) nell’alveo della politica, innestando sistematicamente il suo seme benefico, curandone con attenzione la pianta, mettendone a profitto i frutti. Facile a dirsi, mi si obietterà, più che a farsi. Ma una politica perennemente in debito d’ossigeno dovrà pure, prima o poi, prendere atto del suo stato di difficoltà strutturale. Dovrà, sia pure riluttante, adottare dei seri rimedi. Parlamentare PD.


Sulla rappresentanza politica del lavoro di Silvano Andriani*

Mi concentrerò sul tema della rappresentanza politica del lavoro. La issue più caratteristica del movimento socialista alle origini non fu quella, peraltro molto importante e molto sottolineata da Norberto Bobbio, dell’uguaglianza, che è stata propria di tutti i movimenti progressisti. Fu invece quella di trarre il lavoro fuori dalla condizione di merce cui l’aveva ridotto il capitalismo. Soprattutto su tale aspirazione, credo, sia stata fondata l’idea del partito della classe operaia e la stessa idea della lotta di classe. Nelle diverse componenti del socialismo era generale la convinzione che la liberazione del lavoro sarebbe venuta da un ricongiungimento di esso con il controllo dei mezzi di produzione, ma sul modo come tale ricongiungimento


avrebbe potuto essere realizzato le idee non erano identiche e non erano chiare. Lo stesso Marx ipotizzò che, alla fine, si sarebbe creata una società autogestita, nella quale lo Stato sarebbe scomparso, senza dare, però, di essa una descrizione convincente. Ci sono state alcune esperienze e lo stesso movimento cooperativo trae origine da quella idea, ma l’esperimento più importante resta quello del «socialismo reale». L’insuccesso di quella esperienza ci dice molte cose a proposito della pianificazione centralizzata e dei regimi a partito unico, ci dice anche che la liberazione del lavoro non può realizzarsi in un colpo solo con un atto giuridico, sia pure rivoluzionario, come la statalizzazione dei mezzi di produzione, visto che le condizioni di lavoro nelle imprese socialiste non sono certo risultate migliori di quelle dei Paesi capitalisti. La liberazione del lavoro può essere solo il frutto di un processo di lunga durata, ma esplicitamente orientato a quel fine. Nel corso dell’esperienza del socialismo reale il partito cambiò la sua natura. Il partito bolscevico non era mai stato il partito dei lavoratori, era un’avanguardia rivoluzionaria, nel tempo divenne il partito delle tecnocrazie e delle burocrazie che gestivano le imprese e la pianificazione. E il sindacato una cinghia di trasmissione delle direttive del partito. Come sono andate le cose sul versante riformista? Dal punto di vista del processo lavorativo molto male direi. Il cosiddetto compromesso socialdemocratico comportava l’accettazione di un modo di produzione – parcellizzazione del lavoro, taylorismo – estremamente alienante; in compenso, il processo di valorizzazione del capitale, tanto per continuare a usare il linguaggio di Marx, fu sussunto all’interno di un meccanismo di distribuzione del reddito determinato e gestito politicamente e orientato a creare condizioni di benessere per tutti i cittadini. La piena occupazione, tra l’altro, era il principale obiettivo dell’approccio welfarista. È bene ricordare che nel quadro dell’approccio riformista cambiò anche la visione dell’impresa e non è un caso che a lanciarla fu proprio Henry Ford, colui che aveva introdotto il nuovo modo di produrre. Nel suo «Piano Americano», che fu anche punto di riferimento per l’esperimento di «Comunità» fatto da Adriano Olivetti, l’impresa venne teorizzata non più come semplice coacervo di contratti individuali, ma come un costrutto sociale, un sistema di relazioni fra parti diverse che doveva comportare un certo bilanciamento del potere. Il ruolo della rappresentanza del lavoro mutò rispetto al passato. Il sindacato diventò il principale artefice del bilanciamento del potere, che in alcuni casi giunse anche a forme di autogestione, mentre il partito, nel modello socialdemocratico puro, cioè quello scandinavo, divenne il regolatore, attraverso lo Stato, del meccanismo distributivo e quindi dell’allocazione delle risorse. Si può dire che il focus dell’impegno a dare un senso al lavoro si spostò dal come il lavoro veniva usato nell’attività produttiva a per che cosasi lavorava, cioè per una condizione di benessere. Schematicamente si può dire che il modello welfarista dovette fare i conti con due contraddizioni. La prima dovuta al fatto che durante «i trenta anni gloriosi» successivi alla Seconda guerra mondiale, nei


quali il modello welfarista si affermò nei Paesi avanzati, il distacco tra questi e i Paesi del «terzo mondo» non fece che crescere. Vale la pena di ricordare che analizzando questa tendenza, alla metà degli anni Sessanta, Gunnar Myrdal, il principale padre fondatore dell’idea dello Stato sociale, sostenne la necessità «to go beyond the welfare state». L’altra contraddizione era intrinseca al modello: più aumentava il benessere e il livello culturale della popolazione, meno appariva accettabile ed efficiente il modo di produrre taylorista. Entrambe queste contraddizioni esplosero nella crisi degli anni Settanta. Il neoliberismo ha vinto in quanto è riuscito ad accreditare due idee chiave: che nel processo di globalizzazione trainato dai mercati vincano tutti, come già sostenuto nell’Ottocento dalla famosa teoria dei costi comparati di David Ricardo e che la centralità dei mercati, di per sé, ampli la sfera di libertà degli individui, soprattutto in quanto consumatori, ma anche come produttori, visto che i mercati premierebbero il merito e perciò aumenterebbero la mobilità sociale. I fatti hanno di nuovo ampiamente smentito queste tesi; del resto, è intuitivo che se aumentano, come sono aumentate quasi dappertutto, le disuguaglianze, le opportunità di vita non possono che divergere. Col prevalere dell’approccio neoliberista cambiò ancora la visione dell’impresa: la teoria dominante negli ultimi venti anni è diventata la «shareholder value», che tornò a concepire l’impresa come semplice coacervo di contratti individuali, coordinati però da un soggetto forte: il capitale finanziario. Unico compito dell’impresa sarebbe, secondo tale teoria, di «produrre valore per gli azionisti», cioè profitti. In esso si esaurirebbe ogni ruolo sociale dell’impresa, giacché, per dirla con Milton Friedman, «The business of business is business». Il management opererebbe come agente del capitale finanziario e l’unico problema sarebbe «the agency cost», cioè il rischio di un disallineamento dell’interesse dell’agente rispetto a quello del proprietario. Le stock option sono state usate per contrastare tale rischio coinvolgendo il management nella proprietà. Sappiamo come è andata a finire. Le crisi finanziarie e i grandi scandali societari del decennio trascorso hanno ferito a morte la shareholder value minandone la base teorica e cioè l’assunto della razionalità ed efficienza dei mercati. È stata ormai ripudiata da tutti, ma in pratica resta dominante. La sinistra ha disertato questo terreno di confronto sul quale, è evidente, si definisce anche il ruolo del lavoro nell’impresa e nella società e questa, a mio avviso, è la prova più evidente della sua subalternità culturale. Nella visione neoliberista, è chiaro, non ha senso una rappresentanza politica e neanche sindacale del lavoro e la sinistra ha reagito spesso allentando il suo rapporto con i lavoratori e spostandosi al centro. Ora vorrei fare tre considerazioni prima di porre la domanda conclusiva. Innanzitutto, Karl Marx è stato il primo a individuare nel capitalismo la tendenza a una potenziale separazione della gestione dell’impresa dalla proprietà, definendo i manager «funzionari del capitale». Solo negli anni Trenta del Novecento la dottrina ufficiale è riuscita, con Adolf A. Jr. Berle e Gardiner C. Means, a teorizzare l’impresa manageriale.


Nell’approccio marxista, tuttavia, resta, a mio avviso un limite importante: la sottovalutazione della funzione imprenditoriale. Questo fu un limite di tutta la scienza economica dell’epoca e oltre; basti pensare che la teoria neoclassica, dominante per quasi un secolo, aveva difficoltà a spiegare l’esistenza stessa dell’impresa. A superare quel limite è stato Schumpeter, non a caso l’economista accademico che più conosceva Marx e che ha elaborato una teoria del ciclo, in quache modo, parallela a quella del terzo volume del Capitale. Nell’approccio di Schumpeter ha un ruolo chiave l’imprenditore, definito come differente non solo dalla proprietà, ma anche dal manager. Per lui, infatti, l’imprenditore non è colui che si limita a gestire l’impresa, ma colui che crea l’impresa, che crea nuovi modi di produzione, o nuovi prodotti, o, addirittura, nuovi campi di attività. Quella imprenditoriale è, dunque, una funzione creativa, che riveste un’importanza particolare nelle fasi di «distruzione creatrice» che segnano, per Schumpeter, ma in qualche modo anche per Marx, il passaggio da un ciclo economico a un altro. In secondo luogo vorrei richiamare un concetto elaborato dopo la crisi della shareholder value da Neil Fligstein: «conceptions of control». Secondo questo autore la ratio dominante nella governance delle imprese cambia nel tempo in seguito al mutare delle alleanze che si stabiliscono tra i diversi soggetti che insistono nell’impresa. Secondo questo autore ora saremmo in una fase di passaggio. Avevo notato, commentando qualche anno fa questa tesi, che i mutamenti di fase non avvengono semplicemente nelle singole imprese, ma sono indotti dal mutamento del contesto sociale e politico. A me pare evidente che la politica di Roosevelt, le leggi con le quali rafforzò il controllo delle imprese sui mercati e affermò un potere di controllo monopolistico dei sindacati sul mercato del lavoro, crearono le condizioni di quel bilanciamento del potere nelle imprese che fece da base a un’alleanza fra capitale industriale e sindacati e rese dominante la visione dell’impresa che Henry Ford aveva lanciato qualche decennio prima. Così la politica e le leggi antisindacali di Thatcher e Reagan spianarono la strada all’alleanza fra capitale finanziario e capitale industriale, cioè management, che ha caratterizzato gli ultimi tre decenni e che trova riscontro nel fatto che quasi dappertutto rendite e profitti sono aumentati a scapito della quota del lavoro sul reddito nazionale. L’ultima considerazione coincide con una citazion e di Claudio Napoleoni. Siamo in un convegno sul neoliberismo organizzato dal Cespe nel 1981. Allora usavamo analizzare i processi della realtà in tempo reale. Tutti convenimmo che eravamo di fronte a un mutamento di fase del capitalismo di lunga durata. Claudio sostenne, tuttavia, che eravamo alle soglie di una nuova rivoluzione tecnologica, «… che è certamente basata su una nuovacombinazione di scienza e tecnologia…»; aggiunse: «Credo che i meccanismi innovativi del mercato su questo terreno falliscano». E disse inoltre che la piena utilizzazione del potenziale di tale rivoluzione tecnologica spetterebbe alla sinistra assumendo la questione della liberazione del lavoro, della possibilità che oggi è diventata storicamente matura, di superare, in un processo che sicuramente sarà lungo, quella scissione, che ha caratterizzato tutta l’epoca capitalista, tra lavoro meramente esecutivo e lavoro cognitivo. Ciò


che colpisce in questo intervento è, da una parte, l’intuizione profetica dell’«economia della conoscenza» di cui oggi tutti parliamo; dall’altra, la convinzione che il mercato, di per sé, non è disposto a utilizzarne tutto il potenziale. Importanti ricerche in corso ci dicono che la scelta delle tecnologie non è neutrale, dipende dal soggetto che comanda nell’impresa e che il capitale finanziario ha in generale interesse ad adottare quelle tecnologie che più gli consentono di mantenere il controllo sull’impresa e mantenere un orientamento a ottenere profitti nel breve periodo. D’altro canto ricerche su come si sono distribuiti i guadagni di produttività negli ultimi anni ci dicono che sono state penalizzate anche figure di lavoratori tipiche dell’economia della conoscenza. L’orientamento del ciclo tecnologico è determinato dalla distribuzione del reddito e dalle forme della governance delle imprese. Vengo così alla domanda conclusiva. E possibile oggi, pur in presenza della maggiore diversificazione del mondo del lavoro che il convegno ha già messo in luce, trovare una issueunificante che ponga il lavoro al centro di un nuovo modello di sviluppo e dia nuovo senso alla rappresentanza politica del lavoro? Sono convinto che lo impaginato sia, se si assumerà come obiettivo centrale di un nuovo modello di sviluppo quello di consentire alle persone di realizzare nella misura massima possibile attraverso il lavoro le proprie capacità; capabilities, per dirla con Amartya Sen. Questa, evidentemente, è un’aspirazione comune a ogni tipo di lavoratore ed è nell’interesse della società renderla realizzabile. Se si pensa a uno sviluppo economico siffatto, allora bisognerà orientare diversamente le imprese e la società. Questo ci riporta al tema della visione dell’impresa, della governance e della ricerca di modi di produzione che consentano nella misura massima l’uso della conoscenza. Certo il mondo delle imprese e anche le forme di governance resteranno diverse e anche il livello di conoscenza e i tempi nei quali essa sarà introducibile nei processi lavorativi saranno diversificati; importante sarà che il processo vada nelle diverse situazioni e, sia pure con tempi e modalità diverse, nella direzione desiderata e che si sia in grado di operare con quell’obiettivo in modi diversi nelle diverse situazioni. Ma andrebbero riorientati la visione e il funzionamento dell’istruzione e del complesso delle attività formative, della cultura e riorganizzato su nuove basi il mercato del lavoro e le politiche di welfare. In una tale visione, sono convinto, sia arrivato per la sinistra il tempo di elaborare una propria teoria positiva della funzione manageriale. A partire da Schumpeter. Funzione imprenditoriale e lavoro cognitivo non sono la stessa cosa, ma il confine è molto mobile e le sovrapposizioni crescenti; anche l’imprenditorialità, ovviamente, si basa sulla conoscenza. Se si assume l’imprenditorialità come una funzione creativa, allora è nell’interesse della società diffonderla in massimo grado, il che significa renderla accessibile al maggior numero di persone, allargando la base sociale della selezione degli imprenditori e separando sempre più questa funzione dalla proprietà. Significa premere nelle grandi imprese per un decentramento delle informazioni e delle responsabilità, contrastando la tendenza a concentrare le informazioni sensibili nel top management che è alla base dell’enorme attuale divario retributivo fra manager e altri


lavoratori. Significa trovare forme di governance più decentrate anche nei distretti industriali e nelle reti di imprese. Significa realizzare in taluni casi quella «impresa di capitale e lavoro» preconizzata da James Meade e in una certa misura già realizzata in esperienze tipo Silicon Valley, esempio di un diverso modo di operare della finanza e di un’alleanza positiva tra capitale finanziario e conoscenza. Una strategia di questo tipo potrebbe favorire l’unità del mondo del lavoro e la formazione di un blocco sociale per l’innovazione. * In collaborazione con Argomenti umani diretta da Andrea Margheri


Elio Matassi, Il giovane Lukàcs. Saggio e sistema, Mimesis, Milano di Dario Gentili

A poco più di trent’anni dalla sua prima edizione (1979), arriva benvenuta la ripubblicazione di Il giovane Lukács. Saggio e sistema di Elio Matassi. È significativo, inoltre, che la ripubblicazione di una delle interpretazioni più influenti del pensiero lukácsiano (in Italia e non solo), Il giovane Lukács appunto, giunga praticamente in contemporanea con la riedizione di La distruzione della ragione, uno dei classici più discussi del cosiddetto – e vedremo perché la seguente definizione debba essere presa con beneficio d’inventario – “Lukács della maturità”. Una prima questione da sollevare s’impone dunque immediatamente: si tratta solo di una coincidenza editoriale o la ripubblicazione del classico lukácsiano e dell’interpretazione di Matassi indica che siamo in presenza di una riscoperta di Lukács? Forse è prematuro parlare di una renaissance della filosofia lukácsiana, ma sarebbe un caso


di miopia ermeneutica non cogliere un possibile nesso tra l’attuale rilancio su larghissima scala del pensiero marxiano e marxista e un rinnovato interesse per un autore, Lukács, che negli ultimi vent’anni ha scontato insieme ad altri esponenti del marxismo – più o meno ortodosso che sia – una certa marginalizzazione culturale. Non è ora il caso di dilungarsi – in quanto si tratta di un fenomeno evidente anche ai non addetti ai lavori – sulla crisi di quel modello unico liberal-liberistico, uscito vittorioso dalla fine della Guerra fredda e dalla caduta del Muro di Berlino, che ha cavalcato proprio per un ventennio l’onda della globalizzazione economica; è invece opportuno sottolineare come il neomarxismo, che si presenta oggi – pur nella diversità delle sue analisi e proposte – come il critico più agguerrito di tale modello, si rivolga e vada riscoprendo la tradizione del marxismo europeo della seconda metà del Novecento. È a questo punto, tuttavia, che l’inserimento di Lukács nel novero di questi autori potrebbe risultare problematico. Di quale dei due Lukács, infatti, si sta parlando: di quello giovane, mistico ed esistenzialista, de L’anima e le forme o di quello maturo, ideologico e ortodosso, di La distruzione della ragione? Oppure di quello in equilibrio tra le due posizioni, il Lukács di Storia e coscienza di classe apprezzato da Benjamin e Bloch? Ed è proprio a questo punto che il contributo de Il giovane Lukács di Matassi può rivelarsi fondamentale, tanto da – ripetiamo – renderne benvenuta la ripubblicazione. Matassi pone radicalmente in discussione la scansione per fasi, se non proprio per svolte, dell’itinerario filosofico e intellettuale di Lukács. Ma per rendere ciò possibile, bisogna prima di tutto demistificare e disperdere quell’alone mitico che avvolge il “giovane Lukács”. Questo è lo spunto teoretico iniziale de Il giovane Lukács, ribadito ancora oggi da Matassi nell’Introduzione alla nuova edizione: «Il giovane Lukács, ipostatizzato a ‘pensiero unico’ e avulso da tutti i suoi svolgimenti è diventato, con fasi di alterna ‘fortuna’, il modello di un pensiero ricco di spunti, dallo stile scintillante, che ha dato luogo alle formule più variegate, il giovane Lukács ‘profeta della decadenza’ o, ancora, della morte e dell’angoscia, per ricordarne solo alcune, tutte, comunque, viziate da un parametro interpretativo, aprioristicamente presupposto, ‘ideologico’ e, dunque, in ultima analisi, arbitrario» (p. 9). A partire da 1968, soprattutto in Italia, si è andata infatti affermando la fortuna del giovane Lukács a discapito in particolare del Lukács maturo, quello appunto de La distruzione della ragione. In quegli anni, si poteva essere testimoni quasi di un paradosso: da un lato, si criticava il Lukács de La distruzione della ragione che, in nome del realismo, tacciava di irrazionalismo quella filosofia, quella letteratura e quell’arte borghesi che invece erano alla base della nuova forma di Rationalitierung tematizzata da Cacciari e da lui definita con la formula “pensiero negativo”; dall’altro lato, si apprezzava il giovane Lukács in quanto teorico di quella stessa arte borghese riconducibile al “pensiero negativo” – come testimonia, tra gli altri, un articolo di Asor Rosa pubblicato nel ’68 su “Contropiano” e giustamente valorizzato da Matassi. Bisogna poi ricordare che lo stesso Lukács, disconoscendo in parte la sua produzione giovanile o limitandola a rappresentare una fase dialetticamente “compresa e superata” nella sua produzione marxista più tarda, aveva in sostanza avallato un’interpretazione dualistica del suo itinerario intellettuale. Insomma,


considerando la particolare congiuntura della ricezione lukácsiana in Italia, l’impresa a cui si apprestava Matassi con Il giovane Lukács non è affatto semplice: dimostrare teoreticamente e filologicamente la “continuità” dello sviluppo filosofico del giovane Lukács e, di conseguenza, sdrammatizzarne la discontinuità rispetto al Lukács della maturità. Ciò significa – e introduciamo così il lessico lukácsiano a cui fa riferimento il sottotitolo di Il giovane Lukács: Saggio e sistema – affermare la continuità tra saggismo e sistema, che la gran parte della critica di allora aveva attribuito invece a due fasi distinte dell’evoluzione del pensiero lukácsiano: «Problematizzare e far emergere in tutta la sua evidenza questa duplice continuità (tra forma saggistica e forma tragica e tra saggismo e sistema) costituisce il proposito e l’ambizione di questa ricerca» (p. 19). Il giovane Lukács procede ricostruendo l’evoluzione del pensiero lukáksiano attraverso l’analisi teoretica e filologica dei testi premarxisti, una cui buona parte all’epoca ancora inediti in Italia: dal Lukács ungherese a quello di Heidelberg, passando per il cosiddetto Manoscritto Dostoevskji, custodito in una valigia abbandonata da Lukács presso la Deutsche Bank di Heidelberg nel 1917 e là ritrovato per puro caso alla sua morte, nel 1971. Alla luce delle posizioni assunte da Lukács nella maturità, più che di una dimenticanza si è trattato quasi di una rimozione. È il “saggismo” a rappresentare per Matassi l’elemento di continuità che attraversa tutta la produzione giovanile lukácsiana e che, come suggeriscono le pagine conclusive del libro, ne proietta le acquisizioni teoriche e stilistiche fin dentro il periodo marxista. Prima però di considerare la continuità tra saggio e sistema – a prima vista, stando alla “lettera” dei concetti in questione e alla “tradizione” che li accompagna, quantomeno problematica – bisogna esplicitare la prima continuità proposta da Matassi in Il giovane Lukács, quella tra forma tragica e forma saggistica. Ebbene, quella conflittualità irresolubile tra artista e vita e – ricorrendo ai termini del titolo di uno dei capolavori giovanili di Lukács – tra “anima” e “forma” è compresa e superata soltanto nella forma saggistica: «Il carattere utopico ed in ultima analisi consolatorio della proposta lukácsiana appare finalizzabile alla negazione piuttosto che alla valorizzazione effettiva del valore tragico, almeno nella misura in cui lo si consideri una possibilità estetico-teorica in sé e per sé autarchica» (p. 97). La posizione di Matassi è in radicale alternativa rispetto all’enfatizzazione della dimensione tragica e, di conseguenza, dell’irresolubilità del conflitto, che in quegli anni si andava tematizzando in Italia, anche sulla scorta del giovane Lukács. In Il giovane Lukács, invece, la forma tragica non è autonoma rispetto alla “forma saggio”, anzi ne è un “momento dialettico”, “negato” e “superato” all’interno del “saggio come sistema”. Eccoci giunti, dunque, al nodo teoretico fondamentale: tra saggio e sistema s’instaura una stretta continuità. Il saggio è, in un certo qual modo, sistema: «La distinzione di ‘saggio’ e ‘sistema’ è dunque una distinzione interna allo stesso quadro di riferimento e non qualifica due modi di essere alternativi, escludentesi reciprocamente, ma scandisce la sostanziale continuità della ricerca lukácsiana. Una ricerca orientata alla costruzione di un modello dialettico che possa emanciparsi dalla ipoteca hegeliana di una dialettica che è immedia-


tamente sistematica, funzionale ad un ‘sistema’» (p. 163). Di quale sistema deve trattarsi perché non sia riducibile a quello hegeliano e alla sua dialettica? In quale sorta di sistema possono trovare espressione le caratteristiche peculiari della forma saggio: eterogeneità metodologica, asimmetria formale, rapsodicità tematica? La risposta di Matassi non lascia adito a dubbi: «L’opera d’arte (che la dialettica saggistica adombra e che il modello sistematico esplicita) costituisce la soluzione lukácsiana al problema di fondo della sua ricerca […]. La sua rigorosa fondazione non può non essere, in ultima istanza, che il ‘sistema’ stesso. L’opera d’arte è già in sé immediatamente un sistema, l’unico sistema teoricamente plausibile» (p. 163). È dunque nell’opera d’arte che saggio e sistema confluiscono in modo coerente; è nell’ambito dell’estetica che, nella crisi del modello sistematico hegeliano, è pensabile ancora un sistema in grado di assumere la frammentarietà, l’eterogeneità e la contingenza senza ricondurli a unità e conciliazione. In quanto identità mediata dialetticamente di soggetto e oggetto, che costituisce una forma “concreta” di totalità, la concezione lukácsiana dell’opera d’arte rappresenta per Matassi una soluzione del conflitto tragico tra anima e forma che si distingue sia dall’opera d’arte funzionale al sistema di Hegel sia dall’antisistematicità e dalla a-totalità con cui Adorno ne determina la peculiarità. Il modello estetico che rappresenta l’esito della rigorosa analisi di Il giovane Lukács è, per Matassi, l’acquisizione fondamentale del giovane Lukács, che si ritrova anche negli scritti marxisti della maturità: è una dialettica non funzionale a un sistema presupposto – ma che piuttosto ogni volta fa sistema – che Lukács ha definito in gioventù in quanto opera d’arte e che lo accompagnerà anche nelle elaborazioni successive. È questa, in sintesi, la conclusione di Matassi: «Se la evoluzione intellettuale del giovane Lukács non deve essere interpretata sulla base di presunte svolte e conversioni da accettare come dei puri e semplici ‘fatti compiuti’ e se la stessa espressione ‘giovane Lukács’ ha un significato che non sia semplicemente quello mitico e suggestivo che gli viene attribuito da tendenze […] che ne dilatano oltremisura e per giunta arbitrariamente la portata, la sostanziale continuità del progetto teorico complessivo del giovane Lukács […] dovrà essere ricercata e fondata proprio all’interno del particolare modello di estetica elaborato. Un modello che costituisce la prima, decisiva, formulazione del problema più generale della dialettica, che accompagnerà sempre Lukács nel corso della sua complessa esperienza intellettuale» (p. 187). Non si tratta allora di “scegliere” – come già in passato si è fatto – quale Lukács sia oggi più attuale o quale Lukács possa rientrare a pieno titolo nella riscoperta e rivalutazione in corso del pensiero marxista. Non bisogna rinunciare al giovane Lukács a vantaggio di quello marxista, o viceversa. Soltanto considerandone la filosofia in modo unitario e coerente – senza mitigarne affatto le contraddizioni, espressione tuttavia di ogni pensiero autenticamente in divenire – Lukács può tornare oggi d’attualità. Anzi, proprio oggi – che viviamo in un mondo non più concepito dualisticamente, per posizioni ideologicamente contrapposte – come mai finora. Ed è sempre oggi che, forse, Il giovane Lukács – alla sua pubblicazione un testo pioneristico e controcorrente – può trovare il suo tempo opportuno e propizio.



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