Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008
Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale Adesioni Bruno ACCARINO (Univ. di Firenze), Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Maurizio IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI (Univ. di Padova).
Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Ottobre-Novembre 2009, n° 21. (Numero 22, 30 Novembre 2009) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.
I
N
D
I
C
E
Il Partito Democratico, e lo “spirito delle primarie” di ELIO MATASSI
p. 3
Per una buona legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento di EUGENIO MAZZARELLA
p. 6
Filosofia morale ed etiche applicate di GIUSEPPE CANTILLO
p. 9
Intorno al segno della verità del nulla Intervista a Sergio Givone a cura di BACHISIO MELONI
P.
14
Sull’insegnamento della religione nelle scuole di ROBERTA DE MONTICELLI
P.
24
La crisi della Democrazia di RICCARDO TERZI
P.
27
P.
34
Il Papa e Nietzsche. In ricordo di Franco Volpi DI
FRANCESCO GHEDINI
Il Partito Democratico, lo “spirito delle primarie” e l’elezione alla segreteria di Bersani di Elio Matassi
Quella del 25 ottobre è stata una grande celebrazione della democrazia, un ritorno, dopo tante micro- o macracoconflittualità ‘interne’, allo spirito originario del grande progetto che ha contraddistinto la nascita del Partito Democratico. Ho assistito in prima persona, aspettando per quasi due ore, prima di votare in un seggio situato a Piazza Verbano, e sono rimasto colpito dalla pazienza, dalla serenità e consapevolezza che caratterizzavano l’atteggiamento delle lunghe fila degli elettori-simpatizzanti.
Si è avanzata da parte di molti l’accusa di sistema ‘iperdemocratico’ e ‘barocco’– alcuni aggiustamenti-ritocchi allo statuto e al regolamento del Partito Democratico sono sicuramente necessari, ma non credo si tratti di obiezioni convincenti. La democrazia, l’inveramento e la realizzazione compiute della democrazia non possono mai essere considerate alla stregua si una patologia ipertrofica: la democrazia, interpretata nella sua accezione più originaria ed elevata è soprattutto ‘partecipazione’, aspirazione da parte di ciascuno alla realizzazione dello stesso progetto. Questo era anche lo spirito trasparente con il quale quasi tre milioni di persone, in uno dei momenti peggiori della nostra vita azionale, ha affrontato questo appuntamento per dimostrare, con uno scatto d’orgoglio, che esiste ancora un’opposizione, un’alternativa ‘civile’ prima ancora che ‘politica’. Si tratta di un’indicazione decisiva per la classe dirigente del Partito Democratico, che dovrà essere in grado di raccogliere e interpretare una sfida che nasce ‘dal basso’, dal cuore stesso della società civile. Ho sempre ritenuto fuorviante la contrapposizione tra militanti ‘iscritti’ e militanti simpatizzanti, tra una forma-partito chiusa, oligarchica, e, invece, una forma-partito ‘liquida’, travolta e sommersa dal presunto volontarismo dei soggetti partecipanti. Uno scatto d’orgoglio che era indirizzato, da un lato, contro una prassi di governo esclusivamente ‘mediatica’, fatta da semplici annunci che non è mai stata seguita da una risposta legislativa veramente concreta, una prassi che cerca di destabilizzare concretamente le istituzioni e i loro rapporti, che cerca forzature e semplificazioni in ogni direzione, che getta scetticismo e sconforto sulla società civile, e che, dall’altro, era rivolto contro le ‘tentazioni personalistiche’ del nostro gruppo dirigente, contro una forma di lotta politica condotta più all’‘interno’ che all’‘esterno’ e in favore, invece, di un’unità sostanziale. Questo è il messaggio che le primarie hanno trasmesso al gruppo dirigente; su questa base, con una fiducia rinnovata, si può finalmente costruire quel partito profondamente innovativo quale dovrebbe essere il Pd. In virtù di tale messaggio è stata altamente positiva l’elezione a Segretario di Pier Luigi Bersani; un’elezione che ha dimostrato in maniera inequivoca come non esistessero due prospettive parallele e in conflitto tra loro, quella espressa dagli ‘iscritti’ e quella dei simpatizzanti del popolo della ‘sinistra’. Ha vinto con merito il candidato che era riuscito, meglio degli altri, a interpretare questo sentimento di ‘unità’ emergente in maniera irresistibile dalla base. Pier Luigi Bersani ha vinto, inoltre, anche in larga misura per aver avuto la spregiudicatezza intellettuale di non rimuovere-esorcizzare l’idea di ‘sinistra’ dal Pd; ovviamente un’idea di ‘sinistra’ che deve essere ripensata nella contemporaneità con strumenti concettuali completamente nuovi. Pier Luigi Bersani è partito simbolicamente dai problemi della crisi e del lavoro, da problemi che l’attuale maggioranza governativa sta cercando di eludere e che non possono essere considerati alla stregua di ‘accidenti’ transitori. La crisi esplosa in maniera drammatica impone una riflessione a trecentosessanta gradi, ad amplissimo spettro e Bersani si è dimostrato il più pronto a entrare in sintonia con una sfida che non lascerà le cose come prima. E’ un’illusione che tutto possa tornere rapidamente come in passato, che si sia trattato semplicemente di un incidente di percorso. La crisi è così profonda e radicale da imporre una vera e propria ‘svolta’, un capovolgimento di paradigma e Pier Luigi Bersani si è saputo collocare su questa lunghezza d’onda con una forma mentis aperta e con un illuminato pragmatismo. Molti si chiedono e chiedono: è dotato il nostro attuale Segretario di ‘carisma’? Che cos’è il carisma? Può essere esercitato in assenza della carica e del ruolo
di rappresentanza? Io ritengo di no e credo, al contempo, che proprio una personalità come quella di Bersani sia in grado di esprimere il proprio carisma nell’esercizio della funzione di Segretario; questa è l’interpretazione più convincente che possa essere fornita del ‘carisma’, le altre sono teoreticamente inquietanti e, in maniera particolare, profondamente antidemocratiche. Bersani si è sempre mosso nell’ottica della costruzione di un quadro di riferimento stratificato sulla base di alleanze specifiche e non sull’illusioneambizione veltroniana del partito a ‘vocazione maggioritaria’. Si è trattato di una semplificazione fuorviante che non rispecchia la realtà del nostro Paese e delle nostre tradizioni, molto più articolate di quanto possano presumere le apparenze estrinseche. Il bipartitismo presunto e non realizzabile ha, di fatto, favorito l’egemonia populistico-berlusconiana; Bersani si sta muovendo in una direzione completamente diversa, recuperando un rapporto con tutte le altre forze di opposizione. Il destino del Pd si giuoca proprio su questo tornante decisivo, recuperare un’idea di sinistra, anche se, come qualcuno l’ha felicemente definita, una “sinistra possibile”, ossia moderna e riformista. Una ‘sinistra possibile’ che elegge a suo punto di riferimento l’etica della democrazia, il ripristino di regole condivise, quel comun denominatore che oggi sembra essere scomparso per sempre. Non vi è un’etica senza democrazia, né democrazia senza etica, si tratta di una relazione biunivoca che è l’unica a garantire la prospettiva di una ‘sinistra’ riformista, dove ‘riformista’ e ‘possibile’ non dovranno essere considerati aggettivi ‘deboli’, di cui vergognarsi, ma linee-guida da portare avanti quali autentiche bandiere della sinistra.
Per una buona legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento: un’uscita dal dilemma di Eugenio Mazzarella
Nell’etica medica del “fine vita”, che ai più sembra oggi richiedere, nei limiti del possibile, un riferimento normativo d’ausilio e tutela della pratica medica e alle aspettative che emergono dalla società, i valori che potenzialmente entrano in conflitto sono noti. Da un lato l’indisponibilità della vita, anche la mia, ad ogni manomissione, e tanto più nelle sue situazioni di precarietà; dall’altro la libertà della persona che vive – e muore! – in questa indisponibilità. Se si vuole uscire da questo dilemma, l’unica strada percorribile è forse at-
tenersi proprio al lascito personale di una volontà espressa nella pienezza dell’autonomia della persona – quanto a se stessa, sia chiaro e a nessun altro. Ma, insieme, fare in modo di poter ascoltare, o riascoltare, “in situazione” – quando essa chieda attuazione alla prova della realtà – questa volontà espressa. La liceità delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, anzi la viva opportunità che il legislatore provveda a dar loro rilievo normativo, è ormai un dato acquisito. Sulle “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, sono in discussione, in Parlamento, più proposte, e sarebbe importante una sintesi il più possibile condivisa. Un passo avanti si è fatto con il passaggio dalla definizione di “testamento biologico”, con cui si è soliti tradurre il living will americano, a quella di “dichiarazione anticipata di trattamento” (DAT). Lo slittamento semantico da “testamento” a “dichiarazione” non è neutro; tende a depotenziare il carattere rigidamente vincolante di una disposizione testamentaria (cosa che il living will non può essere) della DAT, facendone piuttosto un’impegnativa per tutti “presa di parola” del diretto interessato nelle cure di fine vita che possano riguardarlo. Quello che si vuole, con questo slittamento semantico, è in definitiva uno stato interpretativo “aperto” delle decisioni di fine vita, che trovi la sua concreta definizione al letto del malato, lì effettivamente “ascoltato” nelle sue volontà disposte; che in altri termini quelle decisioni non discendano sic et simpliciter da una disposizione testamentaria ora per allora, che può farsi obsoleta alla luce dei progressi della medicina; e questo al di là della considerazione che ciò che ritengo oggi preferibile per me in una situazione immaginata non è detto che sia ciò che effettivamente potrò volere nella situazione realizzata. Ora però proprio questa giusta esigenza che la norma garantisca uno stato interpretativo aperto, affidato all’alleanza terapeutica tra medico e paziente (ovvero il fiduciario che lo rappresenta), nelle cure di fine vita non può tradursi nella non assimilazione a priori dell’idratazione e dell’alimentazione all’accanimento terapeutico, ovvero – come prevede il testo Calabrò approvato al Senato – nell’esclusione di principio di idratazione e alimentazione dalla Dichiarazione anticipata di trattamento, sul tacito presupposto che esse siano irrinunciabili per il paziente ed obbligatorie in terapia per il medico. Perché l’esclusione a priori dell’idratazione e dell’alimentazione dalla valutazione concreta della situazione clinica del paziente, decidendo anticipatamente per legge che non costituiscono in nessun caso accanimento terapeutico, o non concorrono a definirlo, chiude di fatto lo stato interpretativo aperto di un’alleanza terapeutica che si senta impegnata ad ascoltare nella situazione effettiva il paziente; e perché, concettualmente, l’accanimento non è configurato dal ricorso o dall’esclusione di questa o quella tecnica, ma è il complesso di un approccio finalizzato della cura che ha perso la proporzionalità tra mezzi e fini. La particolarissima situazione dello Stato vegetativo permanente, le possibili complessità delle situazioni c.d, “di fine vita”, non certo assimilabili le une alle altre, così come a situazioni che non sono, in senso stretto, “di fine vita” ma di vita intollerabile”, possono sì essere il più precisamente approcciabili nella norma, ma il dilemma etico che pongono non può essere sciolto ex ante nella norma, e va sciolto ogni volta nella situazione concreta. E’ nella situazione concreta, affrontata da tutti in scienza e coscienza, che solo può dirimersi il quesito se l’insistere nel prendersi cura della “vita biologica” (omeostasi chimico-fisica) non paghi prezzi insostenibili, magari in buona fede, alla “vita biografica e di relazione” nella sua “complessità”, alla sua
dignità di “persona”. Forse è giunto il momento che il legislatore aiuti a distinguere tra la vera eutanasia (peraltro proibita anche dal Codice Deontologico), anche nelle sue forme surrettizie, e quella che più correttamente potrebbe definirsi “distanasia” (è una pregnante formulazione di un illustre clinico da poco scomparso, Mario Coltorti), il rifiuto accanito di vedere nella morte un pezzo della strada che la vita è chiamata comunque compiere. Ciò che va salvaguardato in una norma relativa alle DAT è da un lato l’autonomia personale consegnata ad un libero e consapevole atto di volontà dispositiva; dall’altro la relativa autonomia, anche da quelle disposizioni, della situazione concreta su cui le DAT si esprimono; al letto del paziente incosciente il fiduciario deve poter interpretare nell’alleanza terapeutica con il medico nel miglior interesse del paziente, le sue stesse disposizioni, in una fedeltà che non sia pedissequa; se così non fosse il fiduciario sarebbe poco più di un esecutore testamentario, e non piuttosto un “tutore” che interpreta alla luce della situazione una volontà che non può più esprimersi attualmente in proprio, e che in teoria avrebbe potuto essere, dalla situazione reale e non immaginata, sollecitata a “cambiare idea”. Una riserva di verifica in situazione della volontà disposta, il cui primato morale, e il cui prevalere in diritto, nessuno potrà mettere in dubbio, fatte salve evidenze scientifiche e terapeutiche conclamate in senso contrario che dovessero insorgere alla scienza e coscienza del dialogo tra fiduciario e medico Insomma una riserva minima di applicazione delle DAT in capo al dialogo tra fiduciario e medico, all’alleanza terapeutica che dovrebbe continuare a manifestarsi al letto del paziente incosciente, dovrebbe essere prevista; anche perché così la normativa sulle DAT configurerebbe una sorta di “diritto mite”, per dirla con Zagebrelsky, un diritto che si realizza per un concorso di indicazioni deontologiche e normative, e non per un vincolo tassativo di una disposizione avente il carattere di un’obbligazione contrattuale. Il carattere di diritto mite della normativa sulle DAT potrebbe essere ulteriormente qualificato dal carattere sperimentale della legge, fissando un termine per verificarne la tenuta dell’applicazione in relazione agli scopi sociali che si prefigge. Su queste linee potrebbe ben essere cercata una sintesi, contribuendo alla definizione di una norma che sappia rispettare lo iato tra legge e pietà che vive sempre, nelle situazioni estreme, nella concreta vita etica.
Filosofia morale ed etiche applicate. Osservazioni preliminari sullo stato della filosofia morale italiana*. di Giuseppe Cantillo
1. Avviando un discorso sullo status della filosofia morale italiana contemporanea, c’è, io credo, in primo luogo l’esigenza di una riflessione sullo statuto della disciplina, sul suo oggetto. E’ evidente, infatti, che nel corso di questi ultimi decenni si è sempre più venuta delineando una frammentazione dell’ambito disciplinare tradizionalmente raccolto sotto il titolo di “filo-
sofia morale”. Sempre di più si sono venute definendo le cosiddette “etiche applicate”: dalla bioetica all’etica sociale, dall’etica economica o degli affari all’etica dell’ambiente, all’etica della comunicazione, all’etica pubblica, spesso prendendo consapevolezza della propria specificità, ma ancor più spesso proponendosi come parti integranti, se non fondamentali, della filosofia morale. In effetti, già, storicamente, c’è sempre stata un’oscillazione tra etica, filosofia morale e filosofia pratica o della pratica. A queste oscillazioni non solo terminologiche, ma concettuali e indicative di prospettive, visioni del mondo, impostazioni filosofiche differenti, si sono sovrapposte le distinzioni attuali. Che cosa possiamo intendere quando parliamo di filosofia morale o, per riprendere un’espressione di Pietro Piovani, filosofia della morale? Una riflessione sui principi, sui fondamenti di un sistema di norme, di regole del comportamento, della condotta di vita; o anche una riflessione sulle condizioni di possibilità dell’esperienza morale – condizioni che in realtà si danno già in forma precategoriale nel momento stesso in cui avvertiamo di star vivendo un’esperienza morale. Nel senso cioè che quelle condizioni non sono dettate da un’astratta riflessione razionale, ma si danno nell’intuizione, in una “visione offerente” su cui si esercita la riflessione chiarificatrice e la definizione concettuale. Intendo dire che se riconosciamo nel dovere della universalizzazione del principio del nostro agire soggettivo la legge morale o il principio dell’agire morale, è perché abbiamo percepito, vissuto questo dovere, abbiamo provato un sentimento di rispetto della legge morale. Ma accanto al dovere della universalizzazione del principio soggettivo dell’azione, vi sono altre condizioni dell’ esperienza morale e quindi altri principi della filosofia morale o della morale. Per esempio, come ha messo in rilievo Enrico Berti commentando il concetto aristotelico di filosofia pratica, una condizione essenziale dell’agire morale e pratico è data dalla “scelta”1. Oppure ci si può riferire alla condizione della “libertà” come “autonomia” affermatosi nell’etica moderna o anche a quella della “vita buona” propria dell’etica antica alla quale si richiama una parte della più recente riflessione etica2. Si tratta quindi di risalire a queste condizioni, di definirle. Sicché una possibilità di delimitare il territorio della filosofia morale rispetto alle etiche applicate, definite dal loro particolare oggetto o campo fenomenico di applicazione, sta proprio nella descrizione dell’esperienza morale, nella riflessione su di sé della coscienza morale (fenomenologia della morale) e nella messa in rilievo delle condizioni di possibilità di essa, ovvero delle strutture trascendentali della coscienza, universali e universalizzanti, che presiedono alle scelte razionali nei vari ambiti della vita. Oppure, se si accede al problema dall’altra parte della relazione soggettooggetto, a parte objecti, il compito della filosofia morale è la descrizione e la determinazione concettuale di oggetti ideali che hanno di per sé valore morale, si presentano, si impongono alla coscienza come valori. Ci sono ancora altre possibilità: quella di riflettere, classificando, comparando, sulle argomentazioni, sulla logica dell’esperienza morale, o quella di compiere un’analisi critica del linguaggio morale. Inoltre, sempre su questo piano teoretico, si pone un altro problema riguardante la materia, il contenuto, dell’esperienza morale: pensieri, conoscenze, sentimenti, emozioni. Già si profilano a questo riguardo almeno due concezioni: razionalismo e sentimentalismo, e al loro interno rispettivamente intellettualismo e intuizionismo, sentimentalismo e emotivismo. Ma c’è di più. Perché, proprio in quanto ci siamo collocati nella prospettiva della ricerca dei principi, delle condizioni di possibilità dell’esperienza morale o della
condotta della vita, non possiamo non porci il problema della giustificazione, della fondazione di essi: cioè della fondabilità della morale—nel senso che la filosofia morale avrebbe come suo oggetto originario e principale la fondazione della pretesa di universalità e universalizzabilità dei principi dell’agire morale. Con una domanda –ombra: non solo circa la possibilità di tale fondazione, ma ancor di più circa l’esigenza razionale o almeno la convenienza, l’utilità di una tale fondazione. Anche se credo che si possa dire che l’esigenza razionale risulta con evidenza, se solo ci prospettiamo una concezione assolutamente storicistica, situazionistica delle norme, dei valori, dei criteri di scelta, se cioè portiamo fino alle estreme conseguenze il c.d. relativismo morale. Per quanto mi riguarda, la meta verso cui dovrebbe andare una riflessione di metaetica o di filosofia morale dovrebbe essere quella di riuscire a delimitare, per così dire, un recinto disciplinare costruito dalla convergenza della descrizione fenomenologica delle forme della coscienza caratterizzanti l’esperienza morale e insieme degli oggetti ideale intenzionati da quelle forme in quanto a queste offrentisi con originaria evidenza. Intuizioni e oggetti, forme e contenuti sono qui inscindibili, percepiti originariamente in una correlazione a priori. 2. Nella prospettiva appena accennata la “filosofia morale” in senso stretto si distinguerebbe dall’ambito più complessivo dell’etica che avrebbe ad oggetto tutti i campi dell’agire umano considerati scientificamente nella loro specificità e si articolerebbe quindi in ventaglio di etiche applicate. Per le quali si deve riconoscere che l’esercizio di esse esige specifiche competenze afferenti ai saperi positivi, alle scienze umane e naturali, in ragione di uno statuto disciplinare composito, non riconducibile soltanto e puramente all’ interrogazione filosofica circa i principi generali o il senso valoriale delle azioni. Il che non implica chiaramente che si possano tenere rigidamente separate filosofia morale ed etiche applicate , dal momento che in ultima istanza anche le etiche applicate rinviano alle domande intorno ai principi e al senso dell’agire umano, ma essere consapevoli che esse si pongono queste domande a partire da determinati campi della vita naturale o storica indagati dalle scienze corrispondenti. In questo senso, a proposito della bioetica, Adriano Pessina ha fatto osservare che la bioetica è sorta «come verifica della consistenza e della legittimità morale delle prassi scientifiche, nell’area delle biotecnologie e in quella della medicina ad alto contenuto tecnologico»3 e che «con la bioetica si riapre un dialogo [...] tra le scienze e la filosofia[…] dal momento che la netta separazione tra il piano dei fatti, espressi in proposizioni descrittive, e quello dei valori, indicati in enunciati normativi, per lungo tempo difesa dal cosiddetto non-cognitivismo etico, non sembrerebbe reggere l’impatto della concreta prassi biomedica, in cui la conoscenza empirica si fonde con il presupposto di dover agire per il bene del paziente, mentre la stessa scienza rivendica la propria libertà in nome del bene stesso della conoscenza»4. Pessina, rielaborando la tesi di Jonas secondo cui «in generale l’etica [avrebbe] qualcosa da dire nelle questioni della tecnica, oppure […] la tecnica [sarebbe] soggetta a considerazioni etiche»5 , sostiene che «la bioetica deve […] porsi come coscienza critica della civiltà tecnologica» , vale a dire come luogo di «chiarificazione e valutazione morale dello specifico contenuto pratico e teorico introdotto dalle tecnoscienze» e il suo carattere filosofico si lascia scorgere nella centralità delle domande intorno al «significato della costruzione dell’identità umana all’interno dell’azione tecnologica». Per
questa via la bioetica si fa per Pessina tout court filosofia in quanto affronta il problema della pretesa della tecnologia, della cultura scientifico-tecnologica di « stabilire ... il significato e lo scopo della vita». Tuttavia non sfugge a Pessina che la bioetica affronta il problema in una specifica prospettiva, consistente nell’«affrontare la questione della vita nella consapevolezza dei modi in cui oggi le scienze sperimentali pensano e governano i fenomeni della vita»6. «Lo sviluppo tecnologico – osserva ancora Pessina - ripropone con urgenza la domanda sul significato della vita e della vita buona, riaprendo la questione della finalità che una certa stagione della filosofia morale ha espunto troppo frettolosamente»7, e sostiene questa osservazione riprendendo una considerazione di Ch.Taylor secondo cui nella nostra cultura per lo più «l’obiettivo della teoria morale viene identificato nella definizione del contenuto dell’obbligazione, non nella natura della vita buona. In altre parole, la moralità concerne ciò che dobbiamo fare; e in tal modo esclude dal proprio ambito come irrilevante sia lo studio di ciò che è bene fare anche se non si è obbligati a farlo […], sia lo studio di ciò che è bene […] essere o amare. Ci sono, insomma, due comuni nozioni tradizionali di bene – il bene come vita buona e come oggetto del nostro amore e della nostra fedeltà – che in questa concezione [dominante] non trovano posto» 8. In questo modo, però, dall’ambito della bioetica il discorso si sposta di fatto all’ambito della filosofia morale o dell’etica filosofica. Questa duplicità di ambiti appare delineata in modo più preciso nella riflessione svolta sulla bioetica da Maurizio Mori nel saggio «La bioetica: la risposta della cultura contemporanea alle questioni morali relative alla vita». Mori comincia con rilevare i limiti della concezione naturalistica della bioetica, quale si è presentata nell’iniziatore della disciplina, l’oncologo Van Reasselear Potter nel suo libro del 1971 Bioethics. Bridge to the Future, secondo cui la biologia riuscirebbe «a individuare direttamente i nuovi fini morali da perseguire, cioè la “sopravvivenza dell’uomo e il miglioramento della qualità della vita”»9. Mori invece accetta la convinzione dominante che la bioetica sia «l’etica tradizionale applicata a un particolare campo d’indagine»10. Il che comporta appunto la distinzione tra etica generale e etiche applicate; e nel caso specifico il rinvio della bioetica ad una delle teorie etiche che nascono dalla riflessione critica sulla «morale di senso comune», che l’individuo acquisisce nell’ambiente in cui vive. Le teorie etiche “tradizionali” vengono per lo più divise in utilitarismo e etica deontologica, che costituiscono “due punti di vista” morale da cui giudicare le varie intuizioni presenti nella morale di senso comune. Ma ad un’analisi più attenta la distinzione è tra utilitarismo e etica deontologica della qualità della vita, da un lato, e etica deontologica della sacralità della vita dall’altro. La giustificazione di questi diversi punti di vista rinvia in ultima istanza a differenti culture o visioni del mondo: l’una pluralista e fondata sulla centralità della scienza, l’altra assolutista e fortemente connotata in senso religioso. Quindi Mori riporta le scelte, che si è chiamati a compiere di fronte ai problemi posti dalla bioetica, in ultima istanza alla teoria etica a cui si aderisce sulla base di una più complessiva visione del mondo. Qui si vede bene che la teoria etica, in quanto ha a che fare con i principi della morale del senso comune ha una propria sfera rispetto alle etiche applicate, ivi compresa la bioetica, dal momento che i problemi posti dalla bioetica vengono risolti in modo diverso a secondo della teoria etica che si assume. Ed è certamente significativo, dal punto di vista della prospettiva analitica, il riconoscimento della difficoltà – in una situazione di profonde trasformazioni specificamente sul piano della conoscenza dei processi vitali
– di una scelta inequivocabile tra i diversi tipi di etica. Ma c’è di più. Proprio perché Mori ritiene che l’assunzione di una teoria etica o di un’altra – in pratica la teoria etica del principio della sacralità della vita o quella del principio della qualità della vita – dipende dalla “cultura”, cioè della visione dell’uomo e del mondo a cui l’individuo aderisce, si pone, io credo, ancor più fortemente l’esigenza della filosofia morale come sfera autonoma di interrogazione della esperienza morale o della coscienza morale intorno ai principi fondamentali dell’agire: per esempio la domanda se questi principi siano rinvenibili soltanto sul piano dell’io empirico o come dice Mori dell’ “uomo psicologico” (per il quale non vi sarebbero ambiti di principio indisponibili per la scelta umana, ovvero, potremmo dire, non vi sarebbero imperativi categorici, ma solo ipotetici) o non rinviino invece a strutture trascendentali della coscienza e perciò non siano universalmente validi e portatori di imperativi categorici. Più precisamente: anche riconoscendo la storicità della morale, vi sono principi che ne disegnano in modo universale l’orizzonte di possibilità, principi universalmente validi che si incarnano di volta in volta in un determinato sistema normativo? O ci si deve fermare a un’etica deontologica fatta solo di doveri prima facie? E poi, anche ammesso che vi sia soltanto la dimensione psicologico-sociale della morale di senso comune, qual è il “principio ultimo”, a cui fa riferimento la bioetica, quello dell’autonomia o quello dell’utile, come vorrebbe, per esempio, Eugenio Lecaldano?11 E ancora, a proposito del principio della dignità della vita ci si può riferire ad una individuazione puramente soggettivistica del contenuto di una vita degna come suggerita da Ronald Dworkin e ripresa anche da Lecaldano?12 Già questi interrogativi che scaturiscono dall’interno del discorso della bioetica mostrano sufficientemente l’esigenza di un’autonoma riflessione di filosofia morale .
* Questo testo è una parziale rielaborazione dell’intervento fatto nella tavola rotonda su “Attualità e inattualità della filosofia italiana contemporanea” che ha concluso il seminario congiunto SUM-Coordinamento nazionale dottorati in Filosofia, Firenze 1 ottobre 2009. Cfr. E. Berti, Filosofia pratica, Guida, Napoli 2004, p. 9. Cfr. V, Gessa Kurotschka, Etica, Guida, Napoli 2006, p.6 3 A. Pessina, Bioetica. L’uomo sperimentale, Bruno Mondadori, Milano 1999, p.17. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 18 6 Ivi, p. 42. 7 Ivi, p.69. 8 Ch. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993, p.109. 9 M. Mori, La bioetica: la risposta della cultura contemporanea alle questioni morali relative alla vita, in Teorie etiche contemporanee , a cura di C.A. Viano, Bollati–Boringhieri, Torino 1990, p.187. 10 Ibidem 11 Cfr. C. Botti, voce Autonomia, principio di, in E. Lecaldano, Dizionario di bioetica, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 21, che fa riferimento al volume di E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 1999; E. Lecaldano, voce Diritti, in E. Lecaldano, Dizionario di bioetica, cit.,p.89. 12 Cfr. E. Lecaldano, voce Dignità della vita, in Dizionario di bioetica, cit., p. 84. 1
2
Intorno al segno della verità del nulla Alcune domande a Sergio Givone A cura di Bachisio Meloni
D.: Prof. Givone, intenderei soffermarmi su un preciso segnale che attesta un profondo ed interessante “mutamento di paradigma”, se non, come Lei tende a precisare, d’una “rotazione dell’asse filosofico” testimoniato dalla seguente formula: “Ciò che non si può dimostrare, deve essere raccontato”. Ho l’impressione che siano fondamentalmente due le ragioni che hanno spinto Lei, come altri pensatori, in quest’ultimo decennio a dare spazio ad altre forme di linguaggio, alla “bella scrittura”, all’idea di romanzo nella meditazione filosofica. Per ciò che concerne l’ambito più strettamente poetico, rispetto alla rassicurante linearità della prosa, alla nitida struttura della forma saggistica, subentra il riferimento alla predilezione del discorso poetico per – Parmenide e Wittgenstein permettendo – l’“indicibile”. Non
solo, riguardo a tale “nuova categoria” o nuovo modo di “conoscenza”, che tanto peso ebbe nella fondamentale “svolta” del pensiero heideggeriano (senza per questo voler tralasciare gran parte del pensiero anti o post-hegeliano: penso alla linea Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, o all’opera di Leopardi e di Michelstaedter), solo un’attenta analisi a partire da uno sguardo poetico (o “ultra-filosofico”) è in grado di scandagliare l’abisso e l’evento impenetrabile, fascinoso ed orrendo, neutro diremmo meglio, dell’esistenza generale e di ognuno. Nel Suo caso specifico la riflessione ricade invece più propriamente sulla realtà del romanzo e su quella verità che pure in esso si cela o si tenta di portare alla luce (mi riferisco a quanto Lei sostiene in Il bibliotecario di Leibniz. Filosofia e Romanzo (Einaudi, Torino 2005). Vorrebbe dirci qualcosa a riguardo di questo Suo ulteriore orientamento? Sì, il punto è precisamente quello: Parmenide e Wittgenstein “permettendo”, come Lei dice. Sarà pure azzardato e discutibile l’accostamento, ma bisogna partire da lì. E cioè dalla trasparenza dell’essere al pensiero, diciamo pure: dall’idenità di essere e pensiero. Certo in Parmenide l’identità ha valore metafisico e ontologico, mentre in Wittgenstein essa si dispiega interamente sul piano logico-formale e anzi linguistico. Ma se per Parmenide il logos è l’essere, è la struttura razionale della realtà, è pensiero che pensa il mondo com’è veramente – e non altro (tu non penserai il nulla, ammoniva Parmenide), in Wittgenstein invece l’essere è il logos, è ciò che si lascia esprimere linguisticamente – e non altro (dell’indicibile bisogna tacere, scriveva Wittgenstein), ed è per l’appunto questa esclusione del nulla o dell’indicibile dall’ambito di ogni discorso di verità ad autorizzare un progetto filosofico di “purificazione” o di formalizzazione del linguaggio che risolve l’ontologia nella logica e mette a tacere tutto il resto, concedendogli tutt’al più una certa dignità estetica ma negandogli qualsiasi accesso al vero. Del nulla non è più nulla. Sull’ “evento impenetrabile…neutro” cade un interdetto definitivo e pesantissimo. Quali le conseguenze? Ne ha parlato Putnam, quando ha fatto notare che quella operazione, pur necessaria, comportava il rischio di un vero e proprio suicidio filosofico. Una filosofia incapace di prestare ascolto a quel resto si nega in quanto filosofia. Diventa matematica, diventa tutt’uno con questo o quel sapere scientifico, ma non più filosofia. Si dirà: e noi facciamo a meno della filosofia. Già, ma siamo disposti a lasciare mute, non problematizzate, tutte quelle forme d’esperienza per interrogare le quali abbiamo bisogno di partire proprio da quell’”altro” che si vorrebbe cancellare? In ogni caso, non è solo questione di stile o del piacere per la scrittura, ma di una diversa concezione della filosofia, un mutamento paradigmatico, dove la filosofia non si lascia assimilare a modelli scientifici di conoscenza, ma non per questo cade nell’affabulazione, perché resta conoscenza, anche se di tipo particolare. E cioè: conoscenza interpretativa, conoscenza ermeneutica. Un teorema matematico vuole essere dimostrato. Una storia chiede invece di essere interpretata. Ecco, la filosofia come interpretazione di storie (storie che possono riguardare tanto gli uomini quanto Dio) alla luce di una verità possibile, è la concezione della filosofia che si affaccia qui. Una concezione diversa, che può sembrare nuova, ma che nuova non è: Vico, Hobbes, Rousseau non prendono forse a tema un episodio fondante della storia del genere umano, e cioè il patto che permette l’uscita dallo stato di natura, svelandone l’ipotetica verità nascosta? Il prospettivismo di Kierkegaard, il suo affidarsi a eteronimi, non sono strategie narrative? E Nietzsche: niente in lui è dimostrazione, tutto è racconto, tutto è evento, a cominciare dall’evento
della morte di Dio. Da questo punto di vista la tesi che ho sostenuto nel mio ultimo libro va intesa sia nel senso del riconoscimento che la filosofia ha un’essenza romanzesca sia nel senso dell’affermazione che il romanzo ha un’anima filosofica. D.: Fondo oscuro dell’esistenza e dell’essere in generale che ha coinciso, fin dall’opera di dissoluzione del reale suscitata dal linguaggio evocativo di Mallarmé in particolare, con una fondamentale spinta all’“ateismo” e alla “disumanizzazione”; disumanizzazione che, per intenderci, è da pensare più nei termini di una costitutiva separazione fra esistenza impersonale ed esistente, ossia nei modi tipici di una fondamentale risalita alla “verità dell’essere”. Il fatto di non vedere nella filosofia “l’ultima possibilità”, l’arte come mirabile strumento della dissoluzione del mondo in immagine, della “separazione” e della “differenza ontologica”, come del resto lamenta Levinas, in assenza di critica, può tradursi – nel peraltro auspicato superamento della metafisica tradizionale –, in “una esaltazione di una obbedienza e di una fedeltà che sono obbedienza e fedeltà per nessuno” (come esempio di questo ipotetico riferimento o preghiera, Salmo, mi viene in mente la Niemandsrose di Celan da Lei citata in chiusura a Storia del nulla, Laterza, Roma 1995). Lei in quell’occasione, riprendo un concetto su cui poter ancora riflettere, ha teso a privilegiare una prospettiva fondamentalmente meontologica: “davvero”, cito, “non c’è cosa […] che non sia custodita e fatta essere quale veramente è da ciò che l’espone al suo stesso annientamento” (p. 222). Il nulla di cui Lei parla – e in specie sulla base dello sguardo poetico del/dal nulla leopardiano –, come ha inteso precisare, non ha niente a che vedere con l’escatologia rovesciata della prospettiva nichilista; mi chiedo tuttavia se l’indeterminatezza dell’Aperto sia in grado di suscitare al contempo una prospettiva autenticamente laica ed umanamente etica. Quando si parla di “fondo oscuro dell’esistenza e dell’essere in generale”, come accade per esempio nella mistica speculativa, in Böhme e in Schelling, ci si pone fuori eo ipso rispetto alla filosofia dell’identità (da Parmenide a Wittgenstein), ma anche del razionalismo metafisico (Hegel, principalmente). La filosofia dell’identità si basa non solo sull’identità dell’essere e del pensiero, ma prima ancora sull’identità dell’essere con se stesso. L’essere è. Il non essere non è – non è al punto che neppure si può dire che non è. L’essere è l’essere: questo è tutto quel che si può dire! Se, come lo stesso Wittgenstein sarà costretto ad ammettere, l’indicibile resiste a questa presunta indicibilità, e fa valere le sue ragioni, e chiede la parola, imponendo alla filosofia di volgersi al “mondo della vita” per cogliere negli interstizi del linguaggio naturale le voci che il linguaggio logico-formale condanna al silenzio, proprio come un medico che si dispone ad “auscultare” le cavità polmonari cercando i segni della patologia latente, la filosofia dell’identità è già oltrepassata. Lo stesso era accaduto a Schelling: addirittura sarà l’essere in quanto tale ad apparirgli altro da sé, e quindi a resistere alla identificazione di sé con sé, dal momento che l’essere reca in sé la possibilità del non essere e del nulla, e questa possibilità, che è poi la libertà, non può essere annientata, pena lo scadimento dell’essere a mero doppio o supporto o ripetizione dell’esistente. Invece il razionalismo metafisico, come accade esemplarmente con Hegel, resta fedele alla filosofia dell’identità, anche se l’identità è bensì posta all’inizio (come identità astratta e negativa di essere e nulla), ma ritrovata alla fine (come identità concreta e positiva, dove l’essere si è fatto
spirito e il nulla è vinto per sempre). Qui il “fondo oscuro dell’esistenza e dell’essere in generale” è attraversato dalla luce, che ne trionfa, superando qualsiasi dualismo e consumando il residuo irriducibile del non essere nell’essere. La tragedia, dyssos logos, è cosa del passato. Attuale è lo spirito trionfante sulle potenze del negativo e soprattutto del nulla. La filosofia non si degna più di loro. Le disconosce. Non si può neppure dire che le neghi, perché semmai le lascia cadere, lascia il nulla al nulla, secondo l’antico insegnamento parmenideo. Non stupisce dunque che sia l’arte a farsi carico di qualcosa che è anche più significativo dell’oblio dell’essere: l’oblio del nulla. L’arte si pone espressamente come memoria del nulla. Infatti lo ricorda in due modi: uno più appariscente e impressionante, l’altro più profondo e per così dire più filosofico. Nel primo caso ricorda che il nulla è il nulla, ricorda cioè che la verità del nulla non si piega alla verità dell’essere, ma è quella che è, e per quella che è vuol farsi sentire: dura, amara, tragica, perché è in forza del nulla, questa potenza indomabile, che il male si rivela più potente e più inquietante del bene negato e la tenebra si rivela più tenebrosa della luce assente. Nel secondo caso ricorda che il nulla non soltanto ha una sua verità, che è fin troppo facile accomodare, ma addirittura viene prima della verità, in quanto fa da presupposto e da condizione di ogni autentica rivelazione di senso. In entrambi i casi il contributo di Leopardi è stato fondamentale. È Leopardi a vedere nel nulla “l’abisso orrido, immenso”, ma è lo stesso Leopardi a concepire il nulla come il principio (“il principio di tutte le cose… è il nulla”) che permette di gettare sul mondo uno sguardo in grado di coglierne l’intimo segreto: la misteriosa, struggente levità. Lo stesso si deve dire di Celan. Quanto ai filosofi, certamente si deve fare il nome di Heidegger (anche se Heidegger si è attribuito dei meriti che ha solo in parte, perché a mettere il nulla in rapporto col senso e con la verità dell’essere era già stato Schelling, e non solo Schelling). Ma se si vuole trovare una nozione di “apertura” che sia alla radice di un nuovo umanesimo civile, allora il primo nome da fare è indubbiamente quello di Giambattista Vico. D.: Tornando al rapporto filosofia e romanzo, Lei ritiene possibile accostarsi all’idea di quest’ultimo, più che come l’espressione del mondo, o di un mondo particolare, allo svelamento e alla realizzazione di un ordine fittizio in sé del tutto autonomo (e del suo tempo di là da ogni storia); o ancora una volta, come alla libertà di un poter fare eco all’essere che dall’opera stessa scaturisce. Opera che, come Lei riconosce nel Suo Il bibliotecario di Leibniz, non rientra nei ranghi della tradizionale filosofia della Storia, ma che al pari di ogni altra si fa pur essa storia. Su questo punto, a partire cioè dalle indefinibili tracce adombrate o raccolte dalla dimensione estetica (o “inestetica”, per dirla con Badiou, ma penso in particolare ad un più agguerrito maestro quale Blanchot, o allo stesso Derrida), mi sembra che gran parte del pensiero contemporaneo abbia inteso estendere il proprio tentativo di “dominio” disegnando ulteriori mappe di là dal mondo comune e quotidiano. Sottolineo la parola “tentativo”, poiché l’arte, quale “produttrice di verità” autonome ed assolute, come Lei insegna, sembra di fatto voler sfuggire all’idea di prestarsi ad oggetto d’analisi o di colonizzazione filosofica. Dove risiede allora, se mai esiste, la possibilità di un legame autentico e proficuo fra spazio letterario ed ermeneutica filosofica? Il problema è quello del valore conoscitivo della letteratura e in particolare del romanzo. Chiediamoci: chi conosce che cosa? Prendiamo un romanzo. Non si può certo dire di un romanzo che il suo compito sia di fornirci cono-
scenze sul mondo. Anche se ce ne dà, non è questo l’essenziale. Per quante informazioni sulla Russia al tempo dell’invasione napoleonica si possano trovare in Guerra e pace, non sapremmo che farcene, se non ci fosse dell’altro altro. Ma che cosa? Qualcosa che non sta là fuori, fuori del romanzo, cioè nel mondo reale, mondo comunque dotato di una sua autonomia e di cui il romanzo dà una rappresentazione, ma non sta neanche lì dentro, dentro il romanzo, perché è il romanzo, e il romanzo a sua volta non è se non il dispiegarsi di quest’essere. Di nuovo: che cos’è questo? Qui non c’è dubbio. È una finzione. Né più né meno che una finzione. Dunque, alcunché di fittizio. Ma bisogna intendersi. Il fatto che si tratti di una finzione non esclude, anzi include, la verità di ciò che è puramente simulato e finto, come direbbe Vico. Non la verità oggettiva del mondo, e neppure la verità soggettiva dell’autore, ma quella che si fa mondo attraverso l’autore e prima ancora attraverso l’opera: benché il romanzo non dica nulla che già non si sapesse o non si potesse sapere per altre vie, grazie alla finzione romanzesca quello che potremmo chiamare orizzonte d’intelligibilità si dilata e tutto ciò che vi cade dentro, questo o quel mondo, appare sotto una nuova luce: quanto meno più problematico, più ricco di significati, più capace di domande. Lo sa bene ogni lettore di romanzi: chiuso il libro, non è che il mondo sia cambiato, al contrario, il mondo è esattamente quello di prima (tanto che si prova un po’ di delusione a ritrovarcisi), e tuttavia il nostro sguardo sul mondo è mutato, magari impercettibilmente, ma come se finalmente scorgessimo quel che era sotto i nostri occhi ma non riuscivamo a notare, o magari vitrosamente, come quando di colpo ci ritroviamo o osservare il lato in ombra della realta, la Nachtseite. Perciò Novalis poteva ben dire che la lettura di un romanzo deve lasciare come una musica nelle orecchie, ed è questo che importa (non la trama, non i personaggi, non l’ambiente, ecc., tutte cose che si possono dimenticare). Una musica che è conoscenza, perché ci mette in sintonia col ritmo sempre antico e sempre antico del tempo. Nessuno meglio di Vico, per l’appunto, ha saputo far luce su questo fenomeno. “Fabula”, diceva Vico, significa “favella vera”. La ragione di ciò è che raccontandosi favole, raccontandosi storie, gli uomini escono dallo stato di abbrutimento e di accecamento in cui versano ab origine e diventano quel che sono destinati a diventare: uomini e non bruti. Naturalmente le favole sono favole, le storie sono storie: invenzioni che non hanno a che fare con la verità, se non in modo criptico e stravolto. E tuttavia raccogliendosi nel lucus e cioè nello squarcio che si è aperto nel fitto della selva antica gli uomini, interrogando i segni enigmatici che li interpellano, dando risposte che corrispondono sia pure in modo puramente fittizio all’originario movimento dell’essere, si riapproprino di se stessi e del loro destino. Domandiamoci dunque, con Vico: dov’è la verità dell’uomo? Nello stato di natura o nella civiltà? E se la civiltà è fatta di storie, o se si preferisce di favole, dov’è la verità? La risposta è superflua. Vico la racchiude nella formula: favola, favella vera. D.: Lei ha più volte fatto cenno al carattere irriducibilmente antinomico e contraddittorio della realtà (percepibile quale somma tragedia degli opposti), e in antitesi alla metafisica dell’Uno di ascendenza platonica, ha preferito indagare (peraltro quasi a voler proseguire idealmente sulla scia del Suo maestro Pareyson), ciò che per il pensiero novecentesco risulta avvertibile quasi come una nuova luce (“luce nera” dal fondo, in realtà), come punto di rottura e nuovo inizio segnato, oltre che dall’esperienza filosofica nietzscheana, dall’opera letteraria di uno scrittore quale Dostoevskij (penso al Suo Dostoevskij e la filosofia, Laterza, Roma 1984). Presupposto
è il fondamento, o in una prospettiva kantiana, il postulato della libertà, che come Lei sottolinea non è valore, ma presupposto originario per ogni altra determinazione di senso e di valore – quasi essa pure eco infinita della inesprimibile casualità di ciò che è. Si avverte a partire dalla dimensione letteraria un “fuori dal mondo” (o un quasi nulla, il nulla peraltro da cui proviene il fondamento stesso della libertà di ogni agire) che in sé non dispiega né criteri di oggettività ma neppure spazi per la coscienza, dove la poesia con il suo formidabile carico simbolico non dischiude – violandolo – l’indicibile ma rispetta, conserva il senso della sua alterità; tuttavia ciò che sembra rivelarsi è come uno sfondo atmosferico del tutto impersonale che in sé non indica alcuna prospettiva di umanità e di salvezza: Le chiedo, la verità alla quale Lei fa riferimento è più prossima all’essere indeterminato nella sua sovrabbondanza quale libera emersione dal nulla, o all’idea di scrittura invece in grado di sprigionare, come Lei stesso afferma sulla scorta di Benjamin, di far precipitare l’apocalisse nell’istante, “tanto che ogni istante può essere quello in cui si decide del senso o del non senso dell’essere” (Il bibliotecario di Leibniz, cit., p. 127)? Vediamo di chiarire, sia pure accennandovi soltanto, due punti che giudico molto importanti. Qui non si vuol negare validità al principio di non contraddizione. Il quale principio resta valido nel suo campo, cioè nel campo della logica. Semmai ancora una volta è la distinzione di logica e ontologia che va tenuta ferma. Che la realtà sia contraddittoria può benissimo esser vero (com’è vero). Mentre è falso che la realtà sia al tempo stesso contraddittoria e non contraddittoria. Dunque, il principio di non contraddizione non risolve-dissolve il carattere antinomico della realtà, ma lo conferma. Quanto alla metafisica dell’Uno di ascendenza platonica (ma anche plotiniana), certamente il dualismo è da escludere; eppure è stato Plotino a riscattare il nulla dalla condanna che gli aveva comminato la filosofia dell’identità e a mostrare come il nulla sia il fondamento dell’essere, così come bisogna pur sempre appellarsi al principio di non contradizione per affermare il carattere radicalmente conflittuale della realtà. Perché dico questo? Perché solo così la meontologia pareysoniana cui io continuo a guardare può essere sottratta a eventuali derive irrazionalistiche e portata a fondo, ricordando che essa è sì un’ontologia della libertà, ma lo è (non potrebbe esserlo altrimenti) in quanto ontologia del nulla. Una volta posto il nesso inscindibile nulla-libertà, e compreso che la libertà e il nulla simul stabunt simul cadunt, poiché la libertà senza il nulla è semplicemente impensabile, e il nulla senza la libertà è del tutto insignificante, allora ci si può, anzi ci si deve, mettere alla scuola sia di Plotino sia di Dostoevskij. Nessuna contrapposizione, nessun aut-aut. Al contrario, perfetta reciprocità di rimandi, come dovrebbe suggerire il fatto che Dostoevskij si pone al culmine di una tradizione di pensiero (la mistica della tradizione orientale) alla cui radice c’è Plotino. Vero è che in Plotino il nulla per così dire sprigiona la libertà e ne accentua il carattere sorgivo e produttivo, per cui il cosmo tutt’intero ne risplende, immagine luminosa dell’atto originario che lo ha tratto fuori dell’abisso senza dare ragione di sé ma proprio perciò infinitamente capace di tutte le possibili ragioni. Così com’è vero che in Dostoevskij la libertà appare originariamente affacciata sul nulla e dal nulla minacciata, al punto da apparire costantemente seguita come da un’ombra autodistruttiva, e comunque si configura come un peso insostenibile, come un tormento, come una tragedia, e infatti “il peso della libertà”, “il tormento della libertà”, “la tragedia della libertà” sono le espressioni che meglio la connotano. Ma di nuovo: nessuna contrapposizione. Se ne
ha la riprova considerando che le due posizioni tendono a rovesciarsi l’una nell’altra. Ci sono pagine plotiniane in cui l’idea del nulla come fondamento della libertà viene sviluppata nel senso dell’autodistruzione e fatta servire a una descrizione dell’inferno come assoluta volontà d’asservimento. E ci sono pagine dostoevkiane in cui l’idea della libertà come vittoria sul nulla rende possibile un gioioso sì all’essere che ha accenti di puro paradiso. D.: Mi permetta di insistere ancora di più sul tema dell’indispensabile attenzione alla sfera letteraria. Secondo il Suo parere, essa non è altresì il riferimento ad un fenomeno in cui la dimensione della libertà è destinata a fissarsi (direi quasi una volta per tutte) nella cristallina bellezza di una concrezione? Seguendo una delle più recenti e interessanti prospettive riguardanti la riflessione sull’arte, quale quella suggerita da Levinas (e in netto contrasto con la visione heideggeriana del lasciare che l’essere sia, dove libertà e verità dell’essere coincidono), l’arte nella sua costitutiva plasticità di fondo, non attesta forse l’identità di immagine di un mondo che afferma continuamente se stesso, dove altresì paradigmatica direi è l’idea che gli stessi protagonisti, privi della propria autentica libertà, o in preda a una libertà che si tramuta in o è già destino, non possano far altro che testimoniare all’infinito la loro vicenda in sé conclusa; stando all’evento di un attimo che dura in eterno (un tempo che imita la successione della durata, ossia senza nessun legame con l’istante che viene e che salva), l’arte non risulta più prossima a tale sensazione del medesimo? A ben vedere, Lei è dell’avviso che l’invito nietzscheano a trasformare il “così fu” in “così volli che fosse” sia accadimento tutto interno alle dinamiche dell’interpretazione critica e filosofica dell’opera d’arte, tutto interno alla dimensione della responsabilità personale e allo statuto individuale del problema della libertà? È l’ineludibile problema della bellezza. Ci siamo arrivati. Non poteva essere altrimenti. Certo oggi dobbiamo fare i conti col fatto che questo problema è vistosamente disconosciuto. O semplicemente rimosso. L’arte contemporanea non sa più che farsene dell’idea di bellezza e anzi programmaticamente la rifiuta. Da quali lontananze ci parla Dostoevskij? “La bellezza è il campo di battaglia in cui Dio e Satana si disputano il cuore dell’uomo”. È ancora cosa nostra la bellezza che “decide” di noi, della nostra salvezza, del senso della nostra vita? Sembrerebbe di no. Eppure… Baudelaire nello Spleen di Parigi si chiede se la bellezza provenisse da un cielo anteriore o dal profondo. Rilke nella seconda delle Elegie duinesi definisce la bellezza come l’inizio del terribile. E queste non sono voci arcaiche, ma voci in cui risuona un domandare che è l’essenza della modernità. Ma lasciamo stare. Consideriamo il punto che ci interessa. E cioè il tratto “decisivo” della bellezza, per cui la bellezza, che è la cosa più effimera e più sfuggente che ci sia, è anche quella in cui ci giochiamo tutto. Letteralmente, su tutti i piani: quello dell’estetica, dell’etica, della conoscenza. L’obiezione levinasiana è forte e consiste in una critica dell’apparenza estetica, che è apparenza in quanto l’arte simula di essere in rapporto con il bene e con il vero, in realtà per negare entrambi e comunque per sottrarsi ad essi, e cioè ponendosi per un verso al di là del bene e del male, o più precisamente al di qua, nel senso che bene e male possono essere presi a pretesto ma di fatto le sono del tutto indifferenti, e per l’altro ponendosi al di qua della verità, o più precisamente al di là, nel senso che qualsiasi strategia conoscitiva venga adottata ha luogo un oltrepassamento inevitabile e necessario verso l’affabulazione. Levinas concede
che nell’opera d’arte si manifesti qualcosa come la heideggeriana verità dell’essere, ma la verità dell’essere non è né “mia” né tanto meno “tua”, e dunque è non-verità. È disposto altresì ad ammettere che l’opera incarni valori e metta in gioco principi morali, ma lo fa in funzione puramente rappresentativa e ludica, quindi al di fuori di ogni autentica serietà morale. Insomma, secondo Levinas la dimensione estetica soffre d’un vizio d’origine e questo vizio d’origine è l’estetismo. Peggio ancora: il panestetismo, à la Nietzsche, per cui l’arte diventa una dimensione totalizzante. E la vita non vale né ha senso se non come invenzione artistica (questo, in fondo è il grande stile). Senonché Nietzsche non è l’unico esito possibile della rivoluzione romantica e dell’idea che l’arte sia una sorta di punto critico dell’esperienza. Nietzsche con ineguagliabile radicalità innesta sul tronco del romanticismo il suo programma antiplatonico e scioglie i tre che sono uno (vero, bene, bello) nella bella apparenza. Ma c’è anche il romanticismo platonizzante e ben più che platonizzante, perché profondamente attraversato da sollecitazioni neoplatoniche. Ed è il romanticismo da cui provengono sia Baudelaire sia Dostoevskij. Quello che sviluppa un’ontologia della bellezza che non soccombe alla critica dell’apparenza estetica ma al contrario dalla stessa critica ricava una conferma all’ipotesi che la bellezza sia una cosa molto reale, molto enigmatica, molto ricca di significati tutti da interrogare. Sapevano o non sapevano quel che dicevano, Baudelaire e Dostoevskij (e Rilke e tanti altri)? Io credo di sì. D.: Riflettendo sulle questioni suscitate dall’arte spesso ci si sofferma sull’idea dionisiaca dell’estasi e del sogno o dell’illusione febbrile; eppure, stando a una visione più disincantata, lo abbiamo visto, l’opera artistica, al pari di ogni gesto quotidiano in sé concluso, riferito al passato, come per le Moire dei greci, sembra suggerire la tragica irrecuperabilità e l’irreparabilità dell’azione, sia essa voluta o non voluta. A tale proposito mi chiedo se sia possibile rintracciare solo all’interno del monoteismo ebraico e cristiano quella precisa volontà di affermare per l’uomo moderno, al di là del suo possibile asservimento all’essere che si determina, al suo destino, l’opportunità del recupero, del nuovo inizio, della beatitudine, dell’apertura verso nuove prospettive di salvezza malgrado la sofferenza e l’ineluttabilità della morte. Nelle Sue riflessioni è del resto possibile riscontrare riferimenti precisi all’idea che lo scandalo del male possa essere piegato nel senso della volontà affermativa e della gioia. Noi siamo abituati a pensare secondo un certo schematismo per cui classicità e cristianesimo offrirebbero due prospettive sul mondo fondamentalmente antitetiche, dalle quali conseguirebbero opposti corollari. Per i greci la finitezza umana e in particolare la morte rappresenterebbero dei dati assolutamente inoltrepassabili, e dunque irredimibili, mentre l’idea cristiana di rendenzione attingerebbe a profondità inaudite e aprirebbe scenari fino ad allora inconcepibili, come la felicità eterna, e la gioia, origine e fine di tutto. A essere portato come prova, il tragico: cosa greca, non nostra. Ma ne siamo così sicuri? Possiamo ignorare il fatto che il tragico ha conosciuto almeno due riviviscenze straordinarie nei tempi moderni, a cavallo fra i secoli XVI-XVII e XVIII-XIX? Non ci dice più niente Kierkegaard con le sue tesi sul tragico antico e sul tragico moderno? Si consideri il concetto di colpa, sia come amartia sia come peccato, dove l’antitesi fra le concezioni che ne discendono sembra netta e non mediabile. Nel primo caso si tratta (vedi il detto di Anassimandro) di un debito che l’individuo contrae nei confronti
degli altri individui e della totalità degli esseri individuali, cioè dell’essere stesso, e che è tenuto a pagare restituendo all’essere la parte di essere che si è preso per vivere. Dunque, la colpa in quanto amartia appartiene all’ordine delle cose, non alla responsabilità del soggetto. Altro non è che una perturbazione limitata nel tempo, che il tempo riassorbe ed estingue, appunto come si estingue un debito. Non così nel secondo caso. Nel caso del peccato (quello che viene chiamato peccato originale) la responsabilità non solo è estesa ad abbracciare l’intera progenie di Adamo, ma viene attinta a un livello più profondo, al di là della imputazione di atti intenzionali: dove ciascun uomo è fatto responsabile del fatto di essere nato, quasi dovesse assumersene originariamente la pena, e fosse chiamato a rispondere di tutto a tutti e a prima ancora a Dio. Evidentemente è un paradosso, e per giunta un paradosso che ripugna la coscienza morale, ma che al tempo stesso fa luce su quell’autentico enigma che è l’assunzione di responsabilità – fin dove? Solo fin dove arriva il volere consapevole? E fin dove il volere consapevole? Il tragico greco altro non è che lo svolgimento di questo tema a partire dall’idea di colpa come perturbazione dell’ordine delle cose, ma facendo del colpevole (Edipo, ad esempio) colui che deve rispondere di fronte alla città di un delitto che nessun tribunale potrebbe imputargli. Questo spiega perché ci sia stato qualcuno, come Schopenhauer lettore di Calderón (no hay colpa mayor que haber nacido), che ha interpretato il concetto greco di amartia nel senso del concetto cristiano di peccato. E soprattutto spiega perché il tragico, che fiorisce in Grecia per pochi decenni e resta un fenomeno circoscritto, riemerga prepotentemente nel cuore di una modernità che solo con una certa distrazione può esere definita antitragica. In realtà il problema del tragico resta problema. D.: Seguire l’opera entro il proprio campo di forze significa, come Lei sostiene in Il bibliotecario di Leibniz, “assecondare il movimento della filosofia verso l’aperto, verso la libertà dell’interpretazione”, all’insegna di un vero e proprio senso di abbandono, che è ben altro del puro divertissement – secondo cui: solo perdendosi nell’oceano delle storie ci si salva dalla storia vera. Su questo richiamo all’errore si ha come l’impressione che l’uscita in direzione dell’“eterno scorrere del Fuori” – ma qui mi permetto di riprendere il dialogo ininterrotto tra due differenti ed emblematiche prospettive filosofiche, di Levinas e Blanchot – avvenga nel segno di una vera e propria spinta all’“evasione” dall’essere heideggeriano: «letteratura certo – scriveva in Noms Propres il filosofo lituano a proposito dell’opera di R. Laporte – ma talora poesia, quando appare un’uscita, anche se questa uscita di sicurezza è una porta finta o una finestra finta». Tuttavia, al pari di questo procedimento all’insegna del nomadismo, mi sentirei di lamentare che oggi neanche una prospettiva etica, pur mantenendo in sé presupposti di giustizia e di trascendenza a partire dall’Altro quale verità perseguitata, sia sempre del tutto in grado di condizionare per davvero la cosiddetta verità dell’essere. Abbandono, nomadismo, erranza: sono termini di un clima filosofico-letterario in cui il pensiero sembra sposare le ragioni della narrazione e farsi pensiero narrativo, che pone il proprio telos nella ricerca e nel movimento verso la verità piuttosto che nella verità stessa. Ciò è avvenuto in concomitanza della crisi del razionalismo metafisico, e anzi ne ha rappresenato il punto di svolta, nella direzione di un superamento dell’identità (identità parmenidea di essere e pensiero ma soprattutto identità hegeliana di realtà e autocoscien-
za). Vogliamo definire questo détour concettuale, ma non solo concettuale, facendo ricorso a Heidegger? D’accordo. Esprimeremo una certa insoddisfazione, data l’incompiutezza del tentativo se non la sua evasività? Anche su questo possiamo trovarci d’accordo (e prestare attenzione a Levinas e a Blanchot) . È un fatto che quei termini (abbandono, nomadismo, erranza) hanno prodotto una retorica che ha oscurato la questione di fondo: appunto, la crisi del razionalismo metafisico. L’aperto, cioè la verità che non si lascia catturare dentro il cerchio magico del principio e della fine dimentica di essere quel che è, luogo d’un effettivo sconfinamento, dove perdersi significa perdersi, e dove l’esodo può trovare compimento nel ritorno, ma può anche non trovarlo – e trovare invece il nulla. Perché quello è il problema, ancora una volta: il nulla, il nulla come possibilità reale. Senza il nulla, senza la reale possibilità dell’annientamento non si dà alcuna esplorazione dell’altra faccia della luna (dell’Altro, voglio dire), né alcuna sperimentazione del negativo (e qui per negativo intendo non solo la più innocua delle figure, ma tutte quelle che con questa formano una costellazione, in primis il male e magari “la verità perseguitata”). In proposito il romanzo ha da dire alla filosofia più di quanto la filosofia non abbia da dire al romanzo. Il romanzo è essenzialmente peripezia. Perciò, com’e stato detto giustamente, non c’è romanzo che non sia racconto d’un viaggio, fosse pure soltanto un viaggio intorno alla propria camera o nella propria testa, quindi exodos e nostos. Ma in quanto peripezia, il romanzo “sa” (vero e proprio sapere, questo) che in ogni momento ci si può smarrire, e perdere, quando addirittura l’impossibiltà del ritorno non sia inscritta nella partenza e nell’erranza. Consapevoli che ci sono regioni d’una negatività irriducibile, come la morte o la follia, i romantici vollero andare a vedere come stessero le cose da quelle parti. Non che l’idea fosse originale. Altri prima di loro ci avevano provato. Avendo però in mano (come Enea) il ramoscello d’oro, a garanzia del ritorno. Invece i romantici rinunciano al ramoscello d’oro. Vogliono dar voce all’angoscia di chi dispera del ritorno. Può forse, chi muore, tornare a raccontare com’è andata? O chi sprofonda nella follia, farne oggetto di esperienza? I romantici scelgono lo strumento della letteratura invece che la filosofia. Sanno che la filosofia, cercando la verità dell’essere, nella molteplicità delle storie in fondo non fa che inseguire la sola storia vera – come in fondo continuerà a fare Heidegger. Ma non è la verità dell’essere, che interessa loro. Semmai è la verità del nulla.
Sull’insegnamento della religione nelle scuole di Roberta De Monticelli
C’è un libro che consiglio a tutti i lettori: La fede pensata – Padre Ciolini nella Chiesa fiorentina, Le Lettere, Firenze 2009. E’ a cura di Marco Vannini, e raccoglie scritti – teologici, filosofici e omiletici di Padre Ciolini, inventore e animatore di quei Convegni di Santo Spirito, tenuti nell’omonima splendida cornice del complesso di Santo Spirito a Firenze, che per quasi venticinque anni hanno acceso la fiammella di una riflessione spirituale e culturale di grande qualità, e anche di grande successo fra il pubblico fiorentino. Una delle poche iniziative di questo livello e di questa liberalità, partite dall’interno della chiesa cattolica – in realtà dall’interno della solitudine e del coraggio di un uomo di fede e di spirito, che era solo un semplice frate, e un insegnante di religione al liceo Michelangiolo. Un’iniziativa paragonabile, per la levatura degli invitati e il calore, la quantità e l’assiduità del pubblico, alla serie delle “cattedre dei non credenti” del Cardinal Martini; con la differenza che i Convegni del Santo Spirito furono, per la maggior parte del tempo, animati e sostenuti da un solo uomo, ricco solo dell’amicizia che sapeva far nascere nei suoi interlocutori, anno dopo anno – fra questi alcuni
dei più noti filosofi, teologi, storici, letterati italiani. Li sostenne a lungo da solo, anche finanziariamente: con il suo modesto stipendio di professore di religione. Fu, Padre Ciolini, il primo maestro e mentore di Marco Vannini, il massimo studioso italiano della tradizione mistica, cristiana soprattutto, e di Meister Eckhart in particolare. Che gli dedica appunto un saggio molto bello, da cui traggo un passo importante sulla figura di questo religioso, uomo di spiritualità e teologo, non semplicemente rappresentante di un cattolicesimo progressista e socialmente impegnato, come a Firenze Giorgio la Pira, don Milani, Padre Balducci: “Ricordo gli accenni polemici contro il Vaticano, che non aveva accettato di mettere a cattedra l’insegnamento della religione per non sottometterlo al controllo dell’Università Statale, o comunque della Pubblica Istruzione, preferendo lasciarlo facoltativo e facendolo così diventare una materia di serie B” (p. 18). In un suo articolo non pubblicato, Adamo Perrucci, studioso fiorentino di filosofia, si interroga proprio su questa – con le sue parole, “Contraddizione nell’accordo di revisione dei Patti Lateranensi, firmato com’è noto nel 1984 da Bettino Craxi, e dall’allora Segretario di Stato Vaticano, Cardinale Agostino Casaroli. La contraddizione è evidente – eppure non ci pensiamo abbastanza, e bisogna ringraziare chi ci aiuta a metterla a fuoco. Eccola. Secondo lo spirito della revisione del Concordato, ci ricorda Pedrucci, si riconosceva a una società sempre più secolarizzata – e io direi ormai “adulta” - “il diritto alla diversità culturale e all’autodeterminazione morale”. E si riconosceva anche l’importanza del ruolo che la tradizione cristiana e cattolica aveva rivestito e rivestiva nella formazione dell’identità culturale degli Italiani . credenti o non che essi fossero. Le premesse erano chiare: c’era il riconoscimento della necessità di rivedere il Concordato in funzione di una miglior tutela della laicità dello Stato, ma anche il riconoscimento, almeno da parte dello Stato, della maggiore età morale dei cittadini e quindi dell’importanza che rivestiva per la formazione personale degli individui un’approfondita conoscenza della tradizione cattolica e della religione – o perlomeno di quella cristiana: se non altro per poter aderire con cognizion di causa, o viceversa respingere, questa eredità indubbiamente legata a filo stretto con la nostra storia. Queste considerazioni, senza neppure tirare in causa l’incipiente multiculturalità, che mi pare un problema ulteriore, sarebbero dovute bastare a una soluzione ovvia e coerente: se la conoscenza della tradizione religiosa del nostro paese è necessaria alla formazione personale, allora da un lato l’insegnamento non deve avere proprio nulla di confessionale: si tratta di trasmettere conoscenze, non di evangelizzare o convertire. Si tratta di alfabetizzare le persone anche soltanto sui contenuti fondamentali del canone e della tradizione, per non parlare della storia della religione, della sua fenomenologia, o dell’enorme ruolo che il cristianesimo ha svolto nella costruzione della mente e della cultura europee. Ma dall’altra parte, in questo caso, l’insegnamento in questione non dovrebbe affatto poter essere facoltativo: almeno, non più di altri pezzi e momenti della formazione culturale impartita a scuola, la storia o l’italiano, il greco o la filosofia. E invece cosa è successo? Molto semplicemente, che da un lato le motivazioni della revisione sono rimaste quelle che avrebbero dovuto segnare il passaggio dell’insegnamento della religione da forma di catechesi a materia
curricolare vera e propria, senza opzioni o sconti. Ovviamente, a condizione che come disciplina della conoscenza e della cultura fosse insegnata: e non come catechismo o predica. Ma dall’altro, invece, si rese facoltativa l’ora di religione, esattamente come se assistervi implicasse aderire a un credo – cosa che certamente non si poteva imporre per legge. Questa la flagrante contraddizione che ancora oggi subiamo. Le ragioni? Purtroppo Padre Ciolini le vide bene. Le stesse del resto che hanno impedito l’insegnamento della teologia nelle Facoltà e università dello Stato, o comunque non confessionali. Le stesse che hanno privato proprio l’Italia, a livello culturale e scientifico, di una delle più autentiche, antiche e nobili sue risorse di esperienza spirituale e di pensiero. Guardate il cattolico praticante medio. Non vorrei essere pessimista ma… cosa ne sa della sua fede? E il medio agnostico, o ateo, della fede che rifiuta? E soprattutto, ancora una volta, hanno privato i cittadini italiani del vero diritto di scegliere. Non si dovrebbe, infatti, poter scegliere se restare ignoranti, o no. Bisognerebbe avere il diritto di non restare ignoranti, per poi scegliere : se un retaggio culturale, morale e spirituale come quello cristiano, o addirittura cattolico, lo si vuole far proprio, o no. Ma come sempre – se dipende dalla chiesa italiana – questo nostro Paese deve all’infinito restare il Paese della minore età. Non so se della cuccagna. Ma della minore età, senza dubbio….
La crisi della democrazia di Riccardo Terzi
Da tempo è aperto in tutta Europa il tema della crisi della sinistra, e l’ultima tornata elettorale conferma che non si tratta di una oscillazione contingente, ma di un processo più profondo di erosione del consenso e di declino. La mia ipotesi è che il destino della sinistra sia un aspetto solo parziale di un più ampio sommovimento politico, il quale chiama in causa le forme dell’intera vita democratica. La crisi investe la sinistra solo di rimbalzo, ed essa è travolta non da se stessa, dai suoi errori e dalle sue divisioni, ma dal fatto che la democrazia si è inceppata. E la democrazia è per la sinistra uno spazio vitale assolutamente necessario, mentre la destra, nelle sue varie espressioni, tende a limitarne la portata e si pone in una posizione di diffidenza. Non è una tesi consolatoria, ma al contrario essa ci chiede una più radicale revisione di tutta la strategia politica. Proviamo allora ad articolare questa ipotesi, ad esplorarla nei suoi diversi risvolti, a mettere alla prova la sua efficacia interpretativa. C’è una prima obiezione a cui rispondere, la quale tocca proprio il punto sostanziale del nostro ragionamento. Essa si può formulare così: perché mai dobbiamo interpretare come crisi ciò che è solo un mutamento delle forme della politica? La percezione della crisi è solo, in questa ottica, un riflesso conservatore e nostalgico, l’attaccamento a una determinata fase della vita democratica. Ma la democrazia è sempre in evoluzione, è un continuo processo di adattamento ai diversi contesti storici, e ciò che oggi ci sta di fronte non è altro che un nuovo stadio di questa ininterrotta evoluzione.
Questa obiezione è tipica di un certo storicismo a buon mercato, il quale finisce sempre per giustificare tutto ciò che accade, vedendo in questo accadere il segno di una superiore necessità. La risposta a questa obiezione è che la storia conosce non solo evoluzioni, ma anche rotture. Nel nostro caso, si tratta di una rottura non appariscente, ma nascosta, per cui la democrazia sopravvive a se stessa, nei suoi aspetti esteriori e formali, e nello stesso tempo si svuota del suo contenuto sostanziale. È una tesi che va ovviamente argomentata e motivata. Ma non si può rispondere con l’ottimismo dell’incoscienza, che vede sempre all’opera nella storia dell’Occidente il cammino della libertà. Il discorso non riguarda in modo specifico l’Italia, ma la tendenza generale che attraversa tutto il nostro continente. Non è Berlusconi il motivo del nostro allarme, perché egli rappresenta solo una patologia aggiuntiva, che si inserisce in un quadro di più generale sfaldamento delle istituzioni democratiche europee. Prendo qui in esame cinque diversi profili della crisi, i quali costituiscono delle aree problematiche da scandagliare, alla ricerca di nuove soluzioni. Le cinque aree possono essere così designate: lo spazio, il tempo, i soggetti, i fini, la parola. La democrazia e lo spazio La democrazia è una organizzazione dello spazio. Nasce nello spazio circoscritto dell’antica polis, e progressivamente si allarga fino all’istituzione delle moderne forme di democrazia rappresentativa nell’ambito dei grandi Stati nazionali. Ma oggi c’è un ulteriore salto qualitativo della dimensione spaziale, con il pieno dispiegamento di un processo globale che investe non solo le relazioni economiche, ma tutte le sfere della nostra vita collettiva. La democrazia tradizionale è impotente di fronte ai nuovi processi, perché ancora non c’è nessun contenitore democratico che sia in grado di regolarli. I centri decisionali sono tutti esterni al circuito democratico: imprese multinazionali, agenzie, tecnostrutture, in breve una ristrettissima élite che non deve rendere conto a nessuno e che nessuno riesce a controllare. Il problema urgente è dunque il seguente: è possibile, e come, una democrazia dei grandi spazi? Il movimento no global ha cercato di affrontare il problema, ma si è rapidamente avvitato su se stesso, in una logica di astratta contestazione frontale. Ma forse si può dire che ha aperto la strada, e che su questa strada altri possono mettersi in cammino: le organizzazioni sindacali, l’Internazionale socialista, la rete associativa che già opera nello spazio globale. Si tratta però di muoversi in un’ottica del tutto nuova, abbandonando la vecchia logica di una infinita mediazione diplomatica tra i diversi interessi nazionali. Se si vuole incidere nel nuovo spazio, occorrono soggetti che abbiano in quello spazio la loro ragion d’essere, che siano a tutti gli effetti gli attori e gli interlocutori di una politica globale. Anche la Chiesa può avere un ruolo, come forza di orientamento morale, che richiama la necessità di un rapporto tra economia ed etica, tra mercato e giustizia. E l’ultima enciclica di Benedetto XVI esprime chiaramente la volontà di riposizionare la dottrina sociale della Chiesa nel quadro dell’attuale processo di globalizzazione. Resta comunque irrisolto il problema delle istituzioni politiche. Il primo decisivo passaggio è la costituzione di un vero spazio democratico nel continente europeo. L’Europa ha intuito la necessità di darsi una più ampia dimensione spaziale, con una strategia di «allargamento» dei suoi confini, che dà vita potenzialmente a un nuovo straordinario soggetto politico. Ma all’allargamento non ha corrisposto un disegno istituzionale adeguato, e perciò quella forza potenziale è divenuta una ra-
gione di fragilità e di paralisi. L’Europa stessa, quindi è oggi un fattore di crisi, perché non si è data un progetto politico unitario e non ha proceduto a nessuna seria democratizzazione delle sue strutture istituzionali, col risultato di essere sempre più avvertita come una burocrazia invasiva, e non come il luogo di una democrazia allargata. Prendono così forza i movimenti antieuropei, nazionalisti o localisti, di destra o di sinistra. L’Europa deve ripartire su nuove basi. Altrimenti il suo destino sarà quello di una progressiva irrilevanza, proprio nel momento in cui tutta la situazione mondiale è messa in movimento, e si ridefiniscono le gerarchie e i rapporti di forza. Nello stesso tempo, proprio perché occorre proiettare la politica nei grandi spazi, occorre anche un forte presidio democratico dello spazio locale, per non lasciarlo nelle mani del comunitarismo reazionario, che pensa l’identità del territorio in una logica di rifiuto di tutto ciò che è esterno. Il problema dello spazio si pone quindi su diversi livelli, che sono tra loro strettamente intrecciati. La democrazia deve ridisegnare i suoi spazi, muovendosi in diverse direzioni, così da poter intervenire nel vivo dei processi di trasformazione, nelle reti lunghe del globale come nelle reti corte del locale. E occorre per questo una democrazia combattente, perché ormai tutti gli spazi sono contesi, e interi territori vanno riconquistati alla sovranità democratica. La democrazia e il tempo Il secondo tema è il tempo. Il governo democratico consiste nel prendere tempo, tutto il tempo necessario per ascoltare le diverse opinioni, per mediare tra i diversi interessi, per costruire una sintesi condivisa. La democrazia si occupa non della velocità, ma della qualità della decisione, ed essa ha bisogno di un tempo di maturazione, di un processo nel quale si possano ponderare tutte le possibili alternative. A tutto ciò si oppone la mitologia del decisionismo: il culto della velocità, il preconcetto che l’efficacia della decisione dipenda dalla concentrazione del potere, il mito del «capo carismatico», che da solo tiene in pugno tutta intera la situazione, l’idea insomma che la democrazia sia un dispendioso processo ‘ritardante’, non più compatibile con una società in rapida evoluzione. Questa offensiva ha lasciato delle tracce profonde, e ha determinato una sorta di ‘senso comune’, al quale tutti sembrano passivamente adattarsi. Se rileggiamo tutto il dibattito istituzionale di questi anni, vediamo che il tema è sempre il medesimo, declinato con più radicalità o con più moderazione: rafforzare i poteri dell’esecutivo e ridimensionare il ruolo delle rappresentanze. La questione del tempo viene quindi usata per scardinare il nostro modello costituzionale, in quanto esso sarebbe un fattore non più sopportabile di inefficienza dell’intero sistema politico. Anche a sinistra c’è tutta una corrente di pensiero, se così si può dire, che affida le sorti della sinistra stessa alla piena accettazione del paradigma decisionista. Una sinistra finalmente moderna sarebbe quella che si libera del vecchio fardello partecipativo, e che compete con la destra sul suo stesso terreno: leaderismo, decisione, potere carismatico, semplificazione, investitura popolare diretta che fa piazza pulita di ogni logica di mediazione. La ricetta non ha funzionato. E comunque sia, se si assume questo orizzonte ideologico, la distinzione tra destra e sinistra perde qualsiasi significato. Di questa impostazione vanno contestate le premesse: il modello plebiscitario non è affatto una garanzia di efficienza, ma è solo una garanzia di arbitrio. Decisione e rappresentanza non sono tra loro in alternativa, ma sono i due lati non dissociabili dello stesso processo. Ciò che appare necessario è un programma di razionalizzazione istituzionale, per eliminare i tempi morti e
le duplicazioni, a partire dal superamento del bicameralismo perfetto, che non ha nessuna giustificazione funzionale. La democrazia, senza rinunciare a se stessa, può darsi delle regole di maggiore efficienza, e questo è possibile anche utilizzando, nei diversi campi, le nuove tecnologie informatiche. La questione del tempo e della velocità è quindi agitata solo strumentalmente. È solo un argomento ideologico, nel senso deteriore del termine, che serve a travisare la realtà, è l’alibi con cui si cerca di giustificare lo svuotamento della democrazia. A questa manovra non dobbiamo fare nessuna concessione. Il tempo, in fondo, è solo una risorsa che va usata con saggezza, scandendone i ritmi sulla base delle nostre necessità. La democrazia e i soggetti In terzo luogo, la competizione democratica presuppone la costituzione di soggetti collettivi, di rappresentanze, di canali organizzati che sappiano convogliare la partecipazione intorno ad alcuni obiettivi unificanti. È questa la funzione propria dei partiti politici, che sono il punto di raccordo tra cittadini e istituzioni, la mediazione concreta di società civile e società politica. Questa rappresentazione classica della democrazia come sistema dei partiti si trova oggi a essere messa in discussione, per effetto di un generale processo di individualizzazione e di frammentazione sociale, che rende assai più problematica la formazione di grandi aggregazioni collettive. È un processo che va attentamente analizzato, nei suoi diversi risvolti, e che contiene in sè diverse e contraddittorie potenzialità. Da un lato, è evidente il rischio di una dissoluzione dei legami sociali, il cui esito sarebbe quello di trasformare la società in un agglomerato informe di individui isolati, in una moltitudine dispersa, ed è proprio in questa rarefazione della struttura sociale che può facilmente affermarsi, senza incontrare resistenze significative, il modello populista e plebiscitario. Ma questo è solo un aspetto della realtà, un esito possibile, non un destino. Il processo che si usa definire come individualizzazione significa anche una maggiore coscienza critica, una certa irrequietezza soggettiva, che rimette in discussione i meccanismi tradizionali dell’appartenenza, della delega fiduciaria, dell’identità ideologica. E dà luogo a nuove forme di impegno, di partecipazione, per cui si può parlare di una politicità diffusa, che non si lascia tutta racchiudere nelle strutture tradizionali di partito. L’errore capitale che ha contrassegnato tutta la più recente storia politica è stato quello di inseguire la società civile nelle sue tendenze dissolutive, senza cercare di reinventare, con le nuove energie disponibili, le forme e gli strumenti della politica. La politica ha rinunciato al combattimento, e si è lasciata occupare e dominare dagli umori mutevoli di una società civile individualizzata, strutturata solo per interessi corporativi e non per progetti unificanti. Non si è capito che il post ideologico, il post identitario, è anche necessariamente il post democratico, perché non c’è vita democratica senza la visibilità dei soggetti politici, senza la trasparenza della loro competizione sul terreno dei progetti e dei valori. Se la politica perde la sua ambizione egemonica, non resta che arrendersi alla spontaneità quotidiana delle cose, il che vale a dire ai rapporti di potere costituiti. Per questa ragione, la destra può impunemente cavalcare gli umori dell’antipolitica, perché ciò conduce alla stabilizzazione conservatrice del sistema. Mentre per la sinistra si tratterebbe solo di un precipitoso disarmo unilaterale. Il punto critico da affrontare è quindi il seguente: come restituire un senso, un’identità all’azione politica organizzata. È da qui che si deve ripartire. Non serviranno a nulla aggiustamenti tattici o solo organizzativi, se non si
mette mano a quello che è il centro sostanziale della politica, il suo essere cioè pensiero organizzato, rappresentazione e interpretazione della realtà. Non è affatto vero che nel nostro mondo attuale ci sia spazio solo per il calcolo degli interessi immediati. Al contrario, è proprio l’opacità della nostra vita quotidiana che ridà forza alle domande fondamentali, sulla nostra identità e sul nostro destino. Se la politica non risponde, se non si misura con queste domande, saranno altri i punti di riferimento: i fondamentalismi, le mitologie, le chiese. Da un lato una ricerca spirituale autentica, ma dall’altro anche identità deturpate, ideologie dell’intolleranza, che sono il riflesso della crisi dell’Europa e la negazione del suo patrimonio culturale. I teorici del post ideologico, convinti di essere approdati in un mondo senza conflitti, non avvertono il rischio di essere sommersi e travolti da una violenta ondata ideologica, e non si rendono conto che è proprio la loroposizione di indifferenza e di neutralità il punto debole delle nostre società democratiche. La democrazia e i fini Il filo conduttore di tutto il nostro ragionamento mi sembra essere, a questo punto, sufficientemente chiaro: la democrazia non è solo una procedura, ma è il processo che realizza una partecipazione reale alle scelte e alle decisioni politiche, e che ha bisogno di essere continuamente alimentato e spostato in avanti, per spezzare di volta in volta le strozzature e le incrostazioni che si oppongono alla pienezza e all’universalità della cittadinanza. È in questo senso che si può parlare oggi di una crisi, perché c’è una situazione di appagamento e di stabilizzazione, e la democrazia sembra aver perso il suo impulso dinamico. Per questo è essenziale il discorso sui fini, perché non si dà partecipazione se non in vista di determinati obiettivi, di traguardi che debbono ancora essere raggiunti. La democrazia, possiamo dire così, è la competizione tra diverse idee di giustizia, le quali si definiscono in base a un sistema di valori e di principi su cui modellare l’ordinamento sociale. Naturalmente, si tratta di un discorso estremamente aperto a diverse possibili soluzioni, ma c’è politica solo se il confronto si tiene a questo livello, sul terreno dei fini e dei progetti di società. Se invece i fini sono già dati, sono inglobati nella realtà attuale, e la discussione politica riguarda solo i mezzi, non il che cosa ma il come, o il chi, allora effettivamente della democrazia non c’è nessun bisogno, perché si è dissolto il suo oggetto. La crisi della democrazia è l’effetto di questo appannamento del discorso politico. Nel momento in cui il discorso sui fini viene rimosso, perché si tratta solo di stare pragmaticamente nella realtà data, si costituisce allora un sistema chiuso, che ruota all’infinito su se stesso, e che si regge su una regola di passività e di opportunismo. È l’avvento dell’uomo postideologico, che non si concede pensieri lunghi, domande di senso, ma si limita a gestire la sua quotidianità. Ma non ci troviamo in presenza di una mutazione antropologica ormai compiuta, e anzi sono molteplici i segni di una soggettività più matura e inquieta, che si mette in cammino verso nuovi possibili traguardi. Alla fine, l’egemonia politica sarà di chi riesce a dare un senso collettivo a questa ricerca. La democrazia e la parola Possiamo infine intendere la democrazia sotto un ultimo profilo: la democrazia come il ‘prendere parola’, o, per usare la terminologia di Hirschmann, la «voice» che si oppone all’«exit», il far sentire la propria voce, le proprie ragioni, anziché abbandonare il campo e uscire di scena. Quando accade che anche nel campo della politica si tende a rispondere alle criticità con una
strategia di exit, di uscita, di abbandono, allora ciò significa che il sistema politico si è inceppato, che la politica non riesce più a funzionare con una logica diversa da quella del mercato. Il confine tra i due campi, il privato e il pubblico, si fa sempre più indistinto, e la politica stessa funziona solo come mercato politico. In che senso la parola è essenziale per la democrazia? Possiamo distinguere tre aspetti. Il primo è la necessità che tutti, senza nessuna forma di esclusione, abbiano il diritto di prendere la parola, che si costituisca quindi uno spazio pubblico che sia davvero uno spazio aperto e universale. In teoria, nessuno sembra negare questo principio, ma nei fatti sono in atto potenti fattori di esclusione, tra i quali il più evidente e il più intollerabile è quello che esclude da ogni forma di partecipazione democratica tutta la grande ondata dell’immigrazione, dando così luogo a un sistema duale, diviso, non solo in linea di fatto ma anche in linea di principio, tra chi è titolare dei diritti e chi ne è escluso. È questa una ferita profonda che si è aperta nella nostra vita democratica, e risanare questa ferita è il primo passo necessario per restituire alla democrazia tutta la sua forza vitale. Il secondo aspetto riguarda la difficoltà di affidare al processo democratico il governo di una società ‘complessa’, nella quale ogni singolo problema presenta tutta una serie di variabili tecniche di difficile comprensione. La tendenza in atto è quella di riservare queste decisioni a una cerchia ristretta di «esperti». È un’antica questione: chi deve decidere, solo chi sa, o tutti indistintamente, col rischio che la loro decisione sia approssimata, emotiva, non fondata su una conoscenza reale del problema? Questa alternativa si può risolvere solo se la democrazia mette in campo un processo culturale di massa, che dia a tutti gli strumenti conoscitivi indispensabili per poter decidere con cognizione di causa. Il tema è ancora quello affrontato da Antonio Gramsci: il ruolo degli intellettuali, il loro distacco dalla massa delle persone semplici, la necessità di una nuova sintesi, ovvero di una generale riforma intellettuale che investa gli strati più profondi della società nazionale. La democrazia pretende che tutti abbiano la parola, e che abbiano la parola su tutto. Questa è la sfida. Se si accettano limitazioni, nell’una o nell’altra direzione, vuol dire che la democrazia si arrende di fronte alle difficoltà. Il terzo aspetto è forse quello più essenziale: la democrazia come dialogo, come ricorso alla parola anziché alla forza, alla persuasione anziché al dominio. C’è un parallelismo, nella storia, tra democrazia e filosofia. Atene è il luogo in cui i due processi si incontrano, dove la ricerca della verità si fonda sul dialogo e sulla libertà, dove quindi sapienza e virtù politica tendono a convergere. E tutta la democrazia moderna rinasce con l’illuminismo filosofico, con le sue battaglie contro i dogmatismi teologici e contro gli assolutismi politici. Democrazia e filosofia, crescono o declinano insieme. L’aspetto più preoccupante dell’attuale momento politico è che esso non dà luogo a nessun confronto di idee, a nessun dialogo, ma solo a logiche di schieramento e a formule propagandistiche. La domanda finisce per essere solo questa: tu con chi stai? E non, tu cosa pensi? Il progetto democratico ha bisogno della parola, e alle parole, spesso consumate e irriconoscibili, occorre restituire un significato, per ricostruire quel linguaggio comune che è lo strumento indispensabile del nostro dialogo, del nostro decidere, coscientemente, dei punti di consenso o di dissenso. Dobbiamo prenderci tutto il tempo necessario per questo lavoro di rielaborazione, di ricostruzione del linguaggio e della cultura politica, sapendo che il dialogo non è il frutto della moderazione, ma della chiarezza e della radicalità del pensiero.
La democrazia come lotta politica a viso aperto Qual è infine la conclusione possibile di tutta questa lunga ricognizione intorno alla crisi della democrazia? Essa è tutto sommato semplice: la democrazia deve essere non una retorica, ma un combattimento. I diversi profili su cui ci siamo soffermati sono il terreno di una lotta politica che deve essere combattuta a viso aperto. Questa è l’essenziale correzione da fare: vedere con chiarezza il legame che unisce a uno stesso destino la sinistra e la democrazia, e porre qui il centro di tutta la nostra iniziativa. C’è un punto importante da chiarire: questa battaglia democratica non si oppone alla modernizzazione, ma al contrario è il compimento del progetto politico della modernità. L’alternativa a questa impostazione è il ritorno ai particolarismi, al diritto diseguale delle caste, al localismo, a una struttura di tipo neofeudale, dove la persona non ha diritti propri, ma dipende interamente dal contesto in cui si trova. È questa la linea di marcia della destra attuale: rompere l’universalismo democratico, e organizzare una società corporativa, lasciando ai soggetti sociali più deboli solo le risorse residuali di una qualche forma di assistenza paternalistica. Ma esistono le condizioni per vincere questa battaglia? Si tratta allora di capire se esiste o no una domanda di partecipazione, e quali sono le energie, anche solo potenziali, che possono essere attivate e messe in movimento in una propositiva politica. Dietro l’apparente spoliticizzazione, c’è in realtà una vasta rete sociale e una varietà di forme partecipative, e c’è una grande disponibilità a mettersi in gioco in quei rari momenti in cui la politica fa appello alla partecipazione popolare, come è accaduto con lo strumento delle primarie. Il limite è che tutto questo non riesce ad incidere nel processo politico, perché si tratta o di fatti occasionali o di una socialità volontaristica che resta confinata in uno spazio circoscritto. Ciò che manca è la forza e la compiutezza di un progetto politico. Come dice Mario Tronti, il difetto dellapolitica attuale non è quello di non saper ascoltare, ma di non saper parlare. Se la politica non parla, tutte le potenzialità della società civile finiscono per essere disperse. Quale soggetto politico si può far carico di questa necessità? Dovrebbe essere questo il compito del Partito democratico, se si decide finalmente a darsi un profilo, una struttura organizzata, una cultura politica, e ad agire nella realtà, nei suoi conflitti, negli interessi e nelle passioni, come una forza di combattimento. Non so ora fare previsioni su quello che accadrà. Voglio solo dire che questo è il tema che ci sta di fronte, e che infine avrà un futuro chi riesce a prenderlo nelle sue mani, e a rimettere così in moto il processo democratico, dando a esso un senso, uno scopo, una forza di mobilitazione. In collaborazione con Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri
Il Papa e Nietzsche. In ricordo di Franco Volpi di Francesco Ghedini
Nella messa del giovedì santo 9 aprile 2009 papa Benedetto XVI ha ricordato che Nietzsche “ha dileggiato umiltà e obbedienza come virtù servili” e messo al loro posto “la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo”.1 Tra le prime reazioni alle parole del Papa va menzionata quella, attenta e misurata, di Franco Volpi.2 Com’ è noto, lo studioso vicentino, traduttore e grande conoscitore di Heidegger (ma anche di Jünger, di Schopenhauer, di Schmitt, di Gadamer ecc.), capace di unire un non comune rigore filologico a profondità di pensiero e vivacità di scrittura, è morto qualche giorno dopo, a soli cinquantasette anni, travolto da un auto mentre pedalava sui Colli Berici. Alla sua memoria, e in segno di gratitudine per la sua amicizia, dedico queste poche considerazioni.
Nella messa del giovedì santo 9 aprile 2009 papa Benedetto XVI ha ricordato che Nietzsche “ha dileggiato umiltà e obbedienza come virtù servili” e messo al loro posto “la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo”. Pur riconoscendo l’esistenza di “caricature di una umiltà sbagliata e di
una obbedienza sbagliata” che non vanno imitate, il pontefice ha però stigmatizzato la “superbia distruttiva e la presunzione che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza”3. Le parole del Papa hanno suscitato immediate e variegate reazioni, dalle più gridate e militanti alle più pensose e interlocutorie4. Non da ora del resto il card. Ratzinger, dotto cultore di filosofia e raffinato teologo si è interessato al pensiero di Nietzsche. Se fin da giovane studente di filosofia si era occupato di lui “marginalmente, ma con effetti durevoli”5, anche in qualità di pontefice, e dalla nuova autorevole cattedra, si è più volte riferito a lui6. E non senza ragioni. Diversi aspetti del tempo in cui viviamo, in particolare in riferimento alla sua temperie spirituale, possono essere ricondotti a motivi e temi del pensiero del filosofo tedesco7. Si pensi, per non fare che un esempio, all’annuncio nietzschiano della “morte di Dio”ed alla connessa discussione del nichilismo. Entrambi motivi accompagnati, se non centrati, su una violenta polemica anticristiana. Nietzsche stesso si è presentato come un avversario di rigore del cristianesimo. Ciò nonostante non sono mancati tentativi di recuperare il suo pensiero alla “storia della coscienza cristiana” né quelli di considerare comunque talune sue idee stimolanti e salutari per la stessa teologia. La pubblicistica che si è occupata del rapporto tra Nietzsche e il cristianesimo è vastissima e non mancano opere di indiscusso e duraturo valore ermeneutico8. Le parole del Papa nella predica per la messa del giovedì santo hanno affrontato temi che effettivamente Nietzsche ha interpretato per lo più in chiave di opposizione al cristianesimo, ma certo il pontefice non poteva, né presumibilmente voleva, con i pochi cenni rivolti all’autore di Così parlò Zarathustra, pretendere di risolvere la discussione su un pensatore così complesso e plurale, (che ha fatto del continuo sperimentare nuove vie di pensiero, della moltiplicazione delle prospettive una strategia filosofica ed esistenziale) magari facendone una specie di capro espiatorio. Piuttosto esse mi sono sembrate voler affrontare, su un piano pastorale, come si evince dal contesto del riferimento, più che il pensatore, consegnato alla riflessione e alla storiografia filosofica, l’emblema di una atmosfera culturale diffusa, che a Nietzsche in qualche misura si richiama. Le provocazioni di Nietzsche, in specie il suo attacco frontale al cristianesimo, risuonano oggi infatti nelle parole e negli scritti di epigoni numerosi e di rumorosa notorietà9 e rischiano soprattutto di trasformarsi nella canzone d’organetto di un nuovo superficiale conformismo esistenzialculturale, a cui lo stesso Nietzsche (refrattario presumibilmente allo stesso possibile “gregge” dei nietzschiani da discount della filosofia) avrebbe penso reagito. Si tratta talora di un nietzschianismo che trova nell’anticristianesimo la sua bandiera, trascurando a volte con compiaciuta leggerezza (non è il caso degli autori della nuova destra francese) di considerare come nel cristianesimo Nietzsche volesse combattere non solo il dualismo metafisico-morale o l’ideale ascetico, ma anche e soprattutto il grande movimento all’origine della dottrina dell’uguaglianza degli uomini, declinata in chiave etica come compassione, altruismo, attenzione per gli ultimi, e in chiave politica come preparazione alla democrazia, al liberalismo, al socialismo. Certo i motivi di Nietzsche non sono riconducibili a quanto credettero di divinare i suoi interpreti nazisti (Nietzsche non è antisemita, né razzista, né crede alla “Germania sopra tutti” considerandosi piuttosto “un buon europeo” ostile al nazionalismo becero), e contro cui si schierò l’apologetica cristiana e marxista, ma comunque restano, in questi ed altri aspetti
della sua filosofia, tratti che, assunti senza una adeguata contestualizzazione prospettica risultano, francamente, non condivisibili. Bene scriveva Volpi osservando che “è meglio prendere Nietzsche non per le risposte che dà, ma per le domande che pone”. In tutti i casi questo “nuovo”10 nietzschianismo diffuso, spesso confonde, l’egoismo esigente di Nietzsche, che chiama ciascuno al proprio irriducibile imperativo “divieni ciò che sei”, con il relativismo sterile e seriale del consumismo come filosofia di vita. Qualcosa che già il filosofo tedesco aveva chiaramente deprecato e temuto, proprio nella figura che più radicalmente egli oppone al suo ideale del superuomo, quell’ultimo uomo, incapace di obbedire, come di soffrire, di venerare come di gioire, incapace, soprattutto, di credere e di creare qualcosa che vada oltre il proprio impotente, confortevole adattamento ad un nichilismo edonista11. In altra chiave, l’egoismo di cui Nietzsche si fa corifeo può anche esser letto come appello “alla fierezza e alla libertà assoluta dell’uomo” (libertà anche dai conformismi dell’umanesimo ateo, quindi, e da tutte le ideologiche “ombre di Dio” che costituiscono surrogati spesso meno nobili della antica volontà di credenza) e quindi deprecato come un atteggiamento prometeico da chi crede in un umanesimo teocentrico. Il Papa non ha fatto, da questo punto di vista, che riprendere una interpretazione tradizionale della storiografia cattolica su Nietzsche, declinata talora con penetrazione, si pensi agli scritti del grande teologo padre H. De Lubac, (che pure ne Il dramma dell’umanesimo ateo fronteggiava il Nietzsche delle truppe tedesche di occupazione), ma più spesso volgarizzata da apologeti bramosi di trarre qualche briciola di grandezza dalla polemica contro un grande avversario. Più recenti interpretazioni di matrice cattolica non usano più ricondurre la proclamazione della “morte di Dio” al presunto desiderio di Nietzsche (un Nietzsche appiattito erroneamente su Feuerbach e Comte) di mettere l’uomo “al posto” di Dio. La morte di Dio non significa tout court la fine dell’alienazione dell’uomo, come dimostra la denuncia nietzschiana dei pericoli del nichilismo, del “deserto che avanza”. Allo stesso modo l’ateismo in Nietzsche non è univocamente visto come una scelta favorevole alla vita, ma viene problematizzato e interpretato genealogicamente12. Lo stesso attacco al cristianesimo lascia spazio ad altre figure del divino, certo sfuggenti, ma irriducibili all’umanità presente (Valadier) e, in un certo senso, può addirittura evocare esistenze “cristiane” non segnate dal risentimento, come quella che Nietzsche, in fondo, riconosceva in Gesù.
1
L’omelia è stata pubblicata integralmente su “Avvenire” il 10 aprile 2009, p. 17. F. VOLPI, Contro Nietzsche. L’accusa del Papa al filosofo nichilista, “La Repubblica”, 10.04.2009, p.46 s. 3 Tra le prime reazioni alle parole del Papa si veda quella, attenta e misurata di F. VOLPI, Contro Nietzsche. L’accusa del Papa al filosofo nichilista, “La Repubblica”, 10.04.2009, p.46s. Com’ è noto, lo studioso vicentino, traduttore e grande conoscitore di Heidegger, (ma anche di Junger, di Schopenhauer, di Schmitt, di Gadamer ecc.) capace di unire un non comune rigore filologico a profondità di pensiero e vivacità di scrittura, è morto poco dopo, a soli cinquantasette anni, travolto da un auto mentre pedalava sui Colli Berici. Alla sua memoria, e in segno di gratitudine per la sua amicizia, dedico queste poche considerazioni. 4 Sono tra gli altri intervenuti a caldo, intervistati da G.G. VECCHI, Il Papa e Nietzsche, duello tedesco, “Il Corriere della Sera” 10. 04.2009, p. 43, Massimo Cacciari, Emanuale Severino, Gianni Vattimo e Giovanni Reale. Nello stesso giorno, su “Libero” Marcello Veneziani, a p. 1 e 33; su “L’Unità” B. Gravagnuolo a p. 38. A distanza di qualche tempo, una rapida ricognizione in rete individua, alla voce 2
Ratzinger e Nietzsche, ben 25.800 pagine web. 5
Cfr. la testimonianza del suo vecchio professore Alfred LÄPPLE, E Ratzinger studiò col mistico Buber, “Avvenire”, 4 febbraio 2009 p. 32. 6
Anche nell’enciclica Deus Caritas est.
Un teologo come Johann Baptist Metz ha parlato della nostra età postmoderna come dell’età del “Nietzsche atmosferico”, del Nietzsche che respiriamo con l’aria. 7
8
Volpi opportunamente richiamava i lavori di E. Biser e di P. Valadier, certo meno “concordista” di Biser. Sul confronto di Nietzsche con il cristianesimo resta utile il classico studio di K. JASPERS, Nietzsche e il cristianesimo, già tradotto per Ecumenica, Bari, e nel 2008 in nuova edizione per Marinotti; si vedano inoltre il numero monografico di “Concilium” 5/1981 dedicato appunto a Nietzsche e il cristianesimo e G. PENZO-M. NICOLETTI (a cura di), Nietzsche e il cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1992. 9 Per tutti valga il caso di M. ONFRAY, Trattato di ateologia. Fisica della metafisica, trad. di G. De Paola, Fazi, Roma 2006, pp. 199, che già nell’annunciare la sua lotta contro i commercianti di “oltremondi” schierati “sull’altro lato della barricata esistenziale- dalla parte degli ideali ascetici” p. 19 evidenzia la dipendenza della sua retorica da quella nietzschiana, ben altrimenti capace di giocare sul duplice registro della polemica (in tutte le sue gradazioni, dall’ironia all’invettiva) e dell’osservazione distaccata o benevola. Non si può dire, del resto, che Onfray non abbia a sua volta commerciato con il pensiero nietzschiano, che gli ha fornito spunti per molti dei suoi scritti, briosi ma niente affatto inattuali fin da Il ventre dei filosofi. Critica della ragione dietetica, trad. di G. Bogliolo, Rizzoli 1991 a ID., Cinismo. Principi per un’etica ludica, trad. di S Atzeni, Rizzoli, Milano 1992, fino ai più recenti e reclamizzati. 10 Ad un’altra generazione di epigoni, che accusava il cristianesimo di aver svirilizzato l’uomo, rispondeva, sul piano di un confronto esistenziale, in nome di un cristianesimo che raccoglie le sfide nietzschiane e si guarda dal “giustificare con l’umiltà e con l’obbedienza cristiana” forme comode di mediocrità o di addomesticamento E. MOUNIER, L’affrontamento cristiano, trad. di D. Nardelli, Ecumenica, Bari 1984. 11 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, trad. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1968, Prologo, 5. 12 Su questo punto si veda quanto ho tentato di argomentare in F. GHEDINI, Esperienza del nulla e negazioni di Dio. Interpretazioni dell’ateismo in Nietzsche, Gregoriana. Padova 1988.