InSchibboleth

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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008 Febbraio-Marzo n째 24, 2010


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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Ottobre-Novembre 2010, n° 29 (Numero 30, 30 Novembre 2010) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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L’implosione del PdL, le elezioni anticipate e la stategia del PD di Elio Matassi

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Salviamo l’Università di Umberto Curi

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Ma dov’è finito il Dio che allieta la mia giovinezza? di Roberta De Monticelli

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Logos filosofico e Logos rivelato alcune domande a Alessandro Ghisalberti a cura di Alessandro Carta

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Fede e democrazia, il modello americano e la sua incompiutezza di Anna Maria Nieddu

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Di un nuovo fideismo di Giovanni Invitto

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Recensione al film L’amore buio di Antonio Capuano di Domenico Spinosa

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L’implosione del PdL, le elezioni anticipate e la strategia del Pd di Elio Matassi

La crisi interna al PdL, ormai latente da tempo, è emersa nell’estate in tutta la sua gravità, apparendo ormai difficilmente componibile. Quello che all’inizio della legislatura appariva come un blocco monolitico, allo stato attuale dei rapporti, presenta un’articolazione composita: il PdL, la Lega, l’ala riconoscibile nelle posizioni del Presidente della Camera, Gianfranco Fini. Difficile individuare l’equilibrio soddisfacente per tutte le forze in campo, difficile in maniera particolare, comporre la diversità prospettico-strategica tra l’ala rappresentata dal gruppo ‘futuro e libertà’ e quella leghista, tra una prospettiva di destra europea, democratica e nazionale, rispettosa dei valori


costituzionali, ed una, invece, sostanzialmente secessionistica e anticostituzionale. Non appartengo alla schiera di coloro che ritengono, in maniera fuorviante, Gianfranco Fini fautore di uno rovesciamento di campo, di un passaggio traumatico dal centro-destra al centro-sinistra; reputo che ‘futuro e libertà’ rimanga solidamente ancorata al terreno del centro-destra, al cui interno coesistono visioni ormai incompatibili: un centro-destra sotto l’egida del Nord (una parte consistente dell’attuale PdL e la Lega) ed un centro-destra, invece totalmente rinnovato, che cerca di difendere quelle del Sud; una spaccatura ormai irreversibile da cui non sarà più possibile prescindere e con cui fare necessariamente i conti. Quale deve o dovrebbe essere la strategia del Pd e dell’alternativa? Di un’opposizione con un’articolazione tripartita, l’UdC, il Partito Democratico e l’Italia dei Valori? Anche in questo caso vi sono strategie molto differenziate. Come giudicare la prospettiva, dell’UdC, dei neocentristi? Sono molto dubbioso sul passaggio di campo di Pierferdinando Casini, che dovrebbe addirittura essere scelto, nell’ambito di una crisi sistemica, di una emergenza democratica, come premier di una coalizione che segnerebbe la definitiva rottura con tutte le posizioni della cosiddetta sinistra radicale, Di Pietro, Vendola e quello che rimane dell’estrema sinistra. Una scelta che farebbe esplodere tutte le contraddizioni interne al Pd, una scelta rischiosa se non addirittura avventurosa, che sancirebbe in maniera irreversibile l’incompatibilità del Partito Democratico con le altre forme di opposizione di sinistra. L’accelerazione della crisi politica, nonostante la fiducia ottenuta dal governo, impone un radicale ripensamento della strategia del Pd, scelte non più rinviabili e il ricorso, quanto più possibile vicino, alle primarie per la scelta di un premier da contrapporre al centro-destra. La rincorsa al centro, ormai saldamente occupata dai neocentristi, non rischia di risultare una scelta che sancirebbe la definitiva subalternità del Partito Democratico? Del resto il recente passaggio, prima nell’Api, poi a forme di sostegno diretto o indiretto di ben due rappresentanti del Partito Democratico in nome di un presunto nuovismo in realtà di un contenitore al contempo vuoto e astratto, sta a dimostrare come la via verso il centro incontri molteplici difficoltà. Ovviamente sono tutte questioni che presumono leggi elettorali diverse; ma è plausibile congetturare che l’attuale Parlamento che presenta nei due rami maggioranze diverse, composite ed eterogenee, possa esprimere una nuova legge elettorale? Ritengo questa ipotesi impraticabile ed è facile previsione il ritenere che le nuove elezioni si terranno con l’attuale sistema elettorale. Si tratta di riflessioni, ovviamente molto problematiche, in un momento epocale, caratterizzato dal berlusconismo ormai al tramonto, ma che proprio per le sue caratteristiche potrebbe trasformarsi in esiti difficilmente controllabili sul piano democratico. Vengo ad un secondo piano di riflessione e in questo caso devo essere assai drastico anche nei riguardi dell’’opposizione, e, in particolare, anche di alcuni settori del Pd, la Riforma universitaria, approvata alla fine di luglio dal Senato, e, in agenda, elezioni permettendo, in autunno alla Camera dei Deputati. Com’è possibile tollerare che un Parlamento, nella sua totalità, legiferi contro ogni principio di equità in violazione flagrante del principio di uguaglianza; mi riferisco, in particolare, al blocco degli scatti di stipendio che è rimasto solo per la categoria dei professori universitari (sono stati restituiti a tutte le altre categorie, dalla magistratura alla scuola secondaria, alle forze dell’ordine) e alla restrizione della carriera da 72 a 70 anni per


i professori universitari (unica categoria del pubblico impiego a cui venga applicata!). In questo secondo caso, una scelta scellerata, iniqua, raggiunta come equilibrio da contrapporre alla proposta demagogica e irresponsabile, postulata da alcuni settori del Pd, che, in nome di un presunto shock generazionale, proponevano di accorciare la carriera dei docenti universitari a 65 anni. Una proposta demenziale, di chi non è mai entrato in una università, in nome di un presunto liberismo, altrettanto demenziale, che si richiama al regolamento di altre nazioni europee (Francia e Germania) senza entrare veramente nel merito della questione. Negli altri stati europei la data di ingresso nel mondo universitario è all’incirca intorno ai 30 anni, mentre nella situazione italiana, e in particolare nelle discipline umanistiche, è superiore ai 40 anni. Come poter giustificare i 65 anni con un inizio così ‘procrastinato’? Quali limiti pensionabili potrebbero essere raggiunti all’interno di una fascia di età così circoscritta? Sanno i nostri ‘compagni e amici’ del Pd che in Germania (tra l’altro proprio in questa fase storica si sta prendendo in considerazione l’estensione della carriera fino a 70 anni) il cancelliere tedesco, fautore della legge per cui i professori universitari concludevano la loro carriera a 65 anni è Adolf Hitler? Il tutto in nome di un presunto ‘giovanilismo’ che non ha nulla a che vedere con la meritocrazia. Non rivendico certo le nobili ragioni della presunta superiorità della vecchiezza (anche se la creatività filosofica da Immanuel Kant a Hans Georg Gadamer si è andata affermando tra i 60 e i 70 anni), per esempio secondo la visione ciceroniana, per la venerazione tributata alla potenza ineluttabile e sostanzialmente benigna della natura. Come si afferma nel De senectute, bisogna seguire la natura “come la migliore delle guide : come una divinità ! “, non è possibile che questa abbia “delineato egregiamente le altre parti del dramma della vita”, tirando invece giù alla meglio l’ultimo atto “come un poeta maldestro”. Gli aspetti infelici della vecchiezza sono volutamente passati sotto silenzio, e le immagini offerte, edificanti : Catone, a ottantaquattro anni, è saldo e vigoroso come una vecchia quercia ; Massinissa, a novanta, è asciutto e scattante, e non scende mai da cavallo. Cicerone, ovviamente, conosce bene le accuse mosse alla vecchiezza. Le passa però in rassegna da un punto di vista astratto, facendone un semplice elenco, e tutte le sue capacità retoriche e di pensiero sono rese funzionali ad una loro programmatica negazione. In vecchiaia si è meno vigorosi ? Ma di questo può disperarsi solo un uomo mediocre come Menone, che un tempo infiammava le folle del circolo entrando nell’arena con un bue sulle spalle. In vecchiaia le facoltà mentali si attutiscono, la memoria si indebolisce ? Ricordo tutto -replica Cicerone attraverso Catone-anche se leggo “le epigrafi sepolcrali” . Il vecchio è ormai inadatto agli affari ? No, egli è come il pilota durante la navigazione : intorno a lui i giovani “si arrampicano sugli alberi, si affannano su e giù per le corsie, prosciugano la sentina”, a lui resta la responsabilità più gravosa, quella di tenere saldamente il timone . In Cicerone , la vecchiezza non è solo l’età di un’ininterrotta elasticità mentale, acuita dal cumularsi delle esperienze, né soltanto la stagione di una condizione fisica sufficiente. Essa è anche – e forse soprattutto – lo strumento attraverso cui mettere in pratica un processo di disciplinamento sociale. Il Pater familias deve esercitare la sua autorità “fino all’ultimo respiro” . Condizione di una vecchiezza sana e serena è che in gioventù si sia vissuti in modo equilibrato : “una giovinezza viziosa e sfrenata consegna alla vecchiaia un corpo debilitato”. Non è casuale se il maggior consesso politico di Roma sia un “senato”, né se in passato gli anziani vi venissero convocati da messi cursori che li raggiungevano nella


loro “casa di campagna” . A Sparta poi i detentori delle più alte cariche dello stato “sono vecchi di nome e di fatto “ . Se vi accingete allo studio della storia, ammonisce Catone i suoi due giovani interlocutori, Delio e Scipione, vi accorgerete di come le nazioni più anziane siano state rovinate “da giovani”, ma restituite al loro splendore “da vecchi” . E’ facile intravedere in queste affermazioni ciceroniane non solo l’utopia conservatrice di un passato idealizzato nelle sue forme patriarcali e tradizionali, ma anche il profondo disagio d’una crisi politica attuale. Cicerone, membro dell’aristocrazia senatoria, scrive il De senectute nel 44 a. C.: l’apogeo della classe politica cui appartiene è ormai un ricordo del passato; dinanzi ai suoi occhi si proiettano i bagliori minacciosi dell’epoca imperiale. La prospettiva ciceroniana assume la ferma difesa della vecchiezza anche rispetto al tema della sessualità e della morte ; vi è una “terza ingiuria”, scrive ad un certo punto Cicerone, rivolgendosi alla vecchiezza ; si dice le siano negati i piaceri dei sensi”. Ma questa non è un’ingiuria-replica sollecito Catone sotto la penna di Cicerone – è il “meraviglioso regalo del tempo”, trascinando con sé “quel che la giovinezza ha di meno perfetto”. I piaceri dei sensi sono la “iattura più rovinosa” concessa dalla natura all’uomo ; da essi discendono “i tradimenti della patria, ... le rivoluzioni, le segrete intese con il nemico”. “Nel regno del piacere non alligna la virtù”. Ha ragione Sofocle – incalza Catone – nel dire che con l’avanzare degli anni ci si libera “di un padrone selvatico e furioso”. Finalmente, dopo aver servito “sotto le bandiere della lussuria”, lo spirito vive “raccolto in se stesso” . Anche la morte va guardata, senza drammatizzazioni, in quanto l’anima, chiusa “nella prigione del corpo”, in un luogo “contrario ad una sostanza divina”, comincia la sua vera vita – “l’unica vita degna di essere chiamata tale” – solo con la morte del corpo. E’ per questo- continua, con un’immagine indimenticabile- che “ho avuto la forza di sopportare con animo saldo la morte del mio figlio prediletto, Catone il giovane. Mentre ardevo il suo corpo sul rogo – “e sarebbe stato più naturale che egli ardesse il mio” – sapevo che la sua anima non mi abbandonava, ma, volgendosi a guardarmi, mi dava appuntamento per il futuro. In una visione sostanzialmente unidirezionale del processo temporale, la vecchiezza rappresenta il culmine della vita, e al pari delle altre età, ha i suoi svantaggi ma anche i suoi vantaggi, costituendo una potenza autonoma, che deve essere colta nella sua peculiarità. Una interpretazione meramente evolutiva del corso della vita, che presume, tra l’altro una visione seriale della temporalità. Una visione antitetica a quella del ‘giovanilismo’ di maniera, ovviamente ricusabile, in ragione di una meritocrazia effettiva che, in quanto tale, non potrà mai essere esclusivamente anagrafica. Vi sono giovani meritevoli e anziani meritevoli, una legge che si rispetti dovrebbe garantire l’effettiva produttività scientifica di tutte le fasce di età.


Salviamo l’Università di Umberto Curi

L’aspetto forse più preoccupante dell’intera questione è lo scarto fra la gravità oggettiva della situazione e il livello di consapevolezza diffuso nella pubblica opinione. Grazie all’indubbia abilità comunicativa dei ministri competenti, e alla complicità talora involontaria dei grandi organi di informazione, nell’immaginario collettivo è ormai passata, e si è anzi consolidata, un’immagine dell’Università italiana come luogo degli abusi e degli sperperi, come sede nella quale si compiono le peggiori nefandezze, come paradiso dei fannulloni e degli incompetenti. E’ bastato che Gelmini citasse il corso di laurea in “cucina mediterranea”, o che Tremonti evocasse la categoria dei baroni accademici, perché nella gente si insinuasse la convinzione che la massiccia razione di tagli, amputazioni e drastici ridimensionamenti, introdotti o programmati dalla funesta coppia di ministri, fossero sacrosanti, e che anzi quanto sta ora accadendo – vale a dire, né più né meno che lo smantellamento sistematico dell’università italiana – fosse salutato dal consenso generale della stragrande maggioranza dei cittadini. Ignari del fatto che la mannaia delle decurtazioni lineari ha colpito indiscriminatamente, e con pesantezza inaudita, tutto ciò che riguarda la formazione superiore, indipendentemente dal “merito” e dalla necessità. Con la conseguenza che, mentre è probabile che “cucina mediterranea” possa sopravvivere, ad essere


penalizzati in maniera irreparabile potranno essere i centri pulsanti della ricerca scientifica, in campo medico, ingegneristico, nel settore delle scienze umano-sociali, nella ricerca di base. D’altra parte, è doveroso riconoscere che questo violento attacco all’istituzione universitaria nel suo insieme deriva anche dall’incapacità degli organismi accademici, e dello stesso corpo docente, di avviare una seria analisi autocritica, dalla quale far discendere anche un necessario processo di autoriforma, mirante ad eliminare ciò che davvero andava cambiato o cancellato. Probabilmente, al punto in cui siamo arrivati, è davvero troppo tardi. Una buona metà dei tagli imposti dal piano elaborato da Tremonti sono già stati effettuati, con conseguenze largamente irreparabili. La seconda metà è già in arrivo, e non si vede chi o cosa potrà impedire che si abbatta su ciò che resta (davvero poco) dell’Università. Il colpo di grazia seguirà subito dopo, nelle prime settimane del prossimo anno, o addirittura prima, quando il disegno di legge voluto da Gelmini sarà stato definitivamente approvato dal Parlamento. Dopo questo autentico tsunami, lo scenario offerto dall’Università italiana sarà quello di un città bombardata. Qua e là, resterà in piedi qualcosa, più che altro come testimonianza del passato, qualche isola, non necessariamente perché più “meritevole”, si sarà miracolosamente salvata, qualche casamatta sarà rimasta indenne. Su questo vero e proprio campo di macerie, è possibile che fioriscano alcune iniziative private, ovviamente mirate principalmente alla realizzazione del profitto, piuttosto che alla valorizzazione dell’ingegno, mentre per il resto il definitivo degrado delle istituzioni formative superiori sarà diventato un dato irreversibile. I cittadini devono saperlo. La protesta che è in atto nelle università italiane, guidata soprattutto dalla fascia giovane dei docenti, vale a dire dai ricercatori, non difende privilegi, non chiede favori, non elemosina prebende. Si oppone ad un lucido e consapevole progetto di demolizione dell’Università. Cerca letteralmente di resistere – non può fare altro, almeno per il momento – ad una ferocia distruttiva senza precedenti. Se non si vuole dare ascolto alle parole, si guardino i fatti: già nell’ormai imminente anno accademico saranno centinaia gli insegnamenti che taceranno, in tutte le Facoltà. I corsi che potranno funzionare saranno costretti ad ospitare il doppio o il triplo degli studenti che “fisiologicamente” dovrebbero frequentarli. I giovani saranno costretti in aule totalmente inadeguate a seguire seduti per terra, arrampicati sulle finestre, i corsi superstiti da questa falcidie. I tagli selvaggi imposti alla ricerca faranno ulteriormente precipitare il livello qualitativo delle nostre strutture accademiche, proseguendo questa rincorsa all’indietro che già ci ha portato ad essere verso gli ultimi posti al mondo. Fermiamo questa follia prima che sia troppo tardi, ammesso di essere ancora in tempo. Mai come in questa occasione, si può dire che in gioco è il futuro di questo paese. Di più: a rischio di essere travolta dai nuovi barbari è la civiltà complessiva che si è faticosamente costruita in decenni di lavoro e di sacrifici.


Ma dov’è finito il Dio che allieta la mia giovinezza? (Una riflessione a margine del Festival Convivere: Europa – quale futuro? Carrara, 10-12 settembre 2010)

di Roberta De Monticelli

Non è per niente cristiano il mito della “radici cristiane” dell’Europa. Perfino nella messa cattolica c’era un momento splendido – ma che fine ha fatto? – in cui il celebrante diceva: “Introibo ad altare dei – ad deum qui laetificat juventutem meam”. Il Dio cristiano è questo Iddio che riaccende la nostra giovinezza, che la ravviva o la resuscita. Non ha niente, o ben poco, a che fare con il passato, con la memoria, con la tradizione, con le radici. E’ un Dio delle fioriture e delle fronde, anzi dei frutti da cui giudicheremo la bontà dei vivi, e del grano di senape, che sembrava nulla e un giorno, im-


provviso, è immensa chioma di foglie, folta di grida e canti, dimora a tutti gli uccelli del cielo. Poche cose sono più certe, fra le poche comuni ai Vangeli e alle Epistole di Paolo, che le immagini e le parole del rinnovamento – della rinascita, del soffio, del respiro, della liberazione, della vita che è ora, dei morti che debbono seppellire i loro morti. E poi del lasciare casa e padre e madre, anzi dell’”odiarli”, dell’andare per terre straniere e oltre i mari, della fioritura di lingue straniere che si accendono nella mente come scintille d’intelligenza nuova, del non volersi salvare l’anima propria ma anzi perderla – perché solo chi l’avrà perduta l’avrà infine salva. Renovatio mentis, conversione, vita nuova, ri-creazione: non c’è tema più caratteristico di questa spiritualità dell’oggi, che disdegna la conservazione del patrimonio e delle eredità di affetti quanto l’indefinito rinvio del Mondo Nuovo nelle promesse messianiche. Un giorno qualunque, un mattino azzurro di settembre in una città toscana, o una sera d’inverno nella neve dove cammina scalzo il pellegrino russo: una svolta del cuore e sei già di là, nell’assoluto, come i tram di Majakowski svoltavano nel Socialismo. L’assoluto, che non è affatto di là, ma è una rivoluzione che nulla rivela e tutto rileva dell’aldiqua – una trasvalutazione di tutti i valori, un vedere il mondo con gli occhi di Dio, e portarne il peso con spalle e braccia d’uomo. Hodiernum tuum, aeternitas. L’eternità è l’oggi di Dio – dunque è qui e ora. Ogni punto del mondo, ogni sua ora è “il punto pullulante dell’origine continua”, come scriveva il poeta cristiano Mario Luzi. In ogni punto del mondo e in ogni istante è in atto la creazione – e la creazione passa attraverso di noi, soli capaci di novità, noi che rompiamo i cicli eterni del cosmo e vi facciamo irrompere la storia. Noi imprenditori d’essere, nel bene e nel male, che “fummo fatti perché ci fosse il nuovo”, perché ogni momento di ogni vita fosse un possibile inizio. E come potrebbe essere attaccata al mito delle radici una religione che ha nel suo cuore oscuro e però folle di speranza il concetto di redenzione? Nel bene e nel male, anche ogni momento di risveglio della spiritualità che possiamo dire cristiana sa di liberazione e nuova intelligenza, di rigetto del passato e delle sue catene – “l’uomo vecchio”, e addirittura di annuncio di nuovo millennio. Ma perfino nella più umile e sommessa preghiera del mattino c’è questa sorta di familiarità con la gioia creatrice, il vento che si leva, la nascita dei mondi: “tu fai cieli nuovi e terra nuova…” Fin dall’inizio della storia che fu poi detta “cristiana” però, due porci sono entrati nell’anima nostra di poveri ossessi che nessuno ancora ha liberato: uno di tonaca nera, il male clericale; l’altro di mano rapace, il male del potere temporale e secolare. Sono le bestie che hanno nei secoli assalito e spesso distrutto le due ali dell’anima che anche un analfabeta riconoscerebbe come veramente “cristiana”: la laicità e la gratuità. Nei nostri anni confusi, abbiamo dovuto aspettare un critico caustico e angelico come Marco Travaglio, per sentirci dire la sola cosa cristiana che invano aspettavamo da monsignori e cardinali e papi, a proposito del crocefisso nelle scuole: “Gesù Cristo è un fatto storico e una persona reale, morta ammazzata dopo indicibili torture, pur potendosi agevolmente salvare con qualche parola ambigua, accomodante, politichese, paracula. È, da duemila anni, uno “scandalo” sia per chi crede alla resurrezione, sia per chi si ferma al dato storico della crocifissione. L’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia, ma soprattutto di laicità (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) e gratuità (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”)”. Non può essere che opera loro l’immane confusione che ha fuso in un mostro idiota i due sentimenti che solo la loro distinzione rende giusti


e compossibili: l’amor di patria – e il sogno di un Iddio. Quanto la fierezza del proprio passato, in quello che ha di buono o di grande, è una virtù civile e politica – e un po’ di senso dell’appartenenza europea è l’ultima salvezza possibile di questo sventurato Paese – tanto è un povero e interessato vizio ridurre il soffio dello Spirito all’ossessione delle radici, l’eterno alla storia di una regione del mondo e la renovatio mentis alla superstizione delle reliquie.


Logos filosofico e Logos rivelato Alcune domande ad Alessandro Ghisalberti a cura di Alessandro Carta

Rivolgiamo alcune domande ad Alessandro Ghisalberti, che si è soffermato in questi ultimi anni sul rapporto tra filosofia e Rivelazione nell’ambito della dottrina del Verbum cristiano. A partire dal Prologo al Vangelo di S. Giovanni e da alcune indicazioni ancora precedenti nelle Lettere di S. Paolo, il nesso tra la Ragione filosofica e la Parola rivelata si è posto al centro della storia del pensiero occidentale: strutturale alla tradizione filosofica del cristianesimo da Giustino ad Agostino a Tommaso, tale nesso non cessa di impegnare la speculazione dei moderni ancora fino a Spinoza, Kant ed Hegel. Nel volume Logos filosofico e logos rivelato (Edizioni Cusl, Milano 2009) Ghisalberti ne fa emergere le ricche implicazioni ancora oggi spendibili nei vari ambiti della riflessione filosofica, soprattutto attraverso il riferimento ad


autori come Agostino, Scoto Eriugena e Tommaso d’Aquino: alle indicazioni relative all’analisi noetica e psicologica circa le condizioni del comprendere del soggetto umano e del suo e auto-comprendersi, si aggiungono gli apporti speculativi al tema metafisico del rapporto tra l’Uno e i molti nel contesto della creazione e infine quelli a livello teologico nella determinazione delle relazioni che animano la vita del “Deus Trinitas”. D: Professor Ghisalberti, mi permetta di iniziare la nostra conversazione con una domanda sulle implicazioni tra la tematica del Verbum e il problema della conoscenza. Nel tentativo di penetrare il mistero cristiano delle tre relazioni in un’unica sostanza, Agostino (De Trinitate, IX) si volge all’uomo interiore e vi trova impressa un’immagine indelebile di quella divina Trinità, che esprime nella triade di “mens”, “notitia” e “amor”: la “mens” è, sa di essere e ama e vuole il proprio essere. La verità di questa autocoscienza appare indefettibile e inattaccabile dal dubbio e questo permette al filosofo di sviluppare la sua caratteristica noetica dell’illuminazione divina. Nella lettura che Lei offre di questi passaggi Agostiniani risalta il ruolo prevalentemente regolativo delle “ragioni eterne”, la necessità di un legame tra l’intelletto finito e il piano della verità immutabile, il Verbum divino, “secondo cui” avviene la generazione del “verbo umano” che è la conoscenza vera o “conoscenza unita all’amore”. Con Agostino, la domanda fondamentale che Lei sembra porre è da dove venga la verità di un giudizio. La mente può produrla da sola o deve invece riceverla da qualcos’altro? R: la domanda è molto articolata e richiede una distinzione nei passaggi, che riguarda anzitutto il livello in rapporto al quale si pone Agostino. Nel De Trinitate, in modo particolare, viene sviluppata una topologia della mente modellata sugli aspetti che egli stesso aveva individuato nella riflessione intorno al dogma cristiano della Trinità. Il discorso non è mai unidirezionale perché Agostino è un autore “magmatico”, lo diciamo in senso positivo, e questa è la sua forza ma è allo stesso tempo un problema per il lettore. Agostino richiede al lettore un’ermeneutica sempre molto coinvolgente ma anche molto responsabile, cioè richiede la consapevolezza che si sta attivando un tipo di ermeneutica rispetto ad altri tipi di ermeneutica possibili. Non per nulla è stato un autore sia della grande ortodossia che della Riforma e quindi della divergenza rispetto all’ortodossia, perché i suoi testi delimitano un ambito di ampie interpretazioni. Quando divenne vescovo, Agostino si trovò di fronte all’obiezione sollevata dai suoi avversari (anche da avversari che stavano a metà strada tra la fede cattolica e il mondo intellettuale con cui Agostino voleva mantenere i legami) che il cristianesimo fosse una dottrina basata su un errore, un errore macroscopico o addirittura indice di profonda ignoranza, quello di usare il criterio della quantità, il tre, il numero tre che è quantitativo in rapporto


al mondo spirituale che le filosofie neoplatoniche avevano ampiamente sviluppato in un’ottica in cui il Vero, al suo massimo grado, non può che essere Uno. Addirittura, parlavano di Dio come dell’Unità al di là dell’Essere o al di là dell’essenza (“epekeina tes ousias”), dell’Uno come unità totalmente innominabile, totalmente indefinibile. Perciò introdurre il tre, come nel dogma cristiano, il numero tre, il numero che indica quantità nell’ordine del divino significava retrocedere rispetto ai grandi passi che aveva fatto la filosofia greca ed ellenistica. Era un’obiezione di non facile conto per il suo tempo, con cui Agostino dovette confrontarsi a lungo. I filosofi dicevano: “voi siete ridicoli sostenendo questa tesi e non siete degni di essere presi in considerazione dal punto di vista intellettuale”, e questo era un problema serio, anteriore al problema della trinità psicologica. Agostino ebbe allora l’intuizione (per sottolineare che non è l’introduzione della quantità come tale che interessa nel dogma della Trinità) che l’Unità propugnata dal cristianesimo e applicata alla divinità sia talmente grande e talmente forte da poter assorbire in sé il Tre. L’intuizione di Agostino è stata di pensare l’unità di Dio, l’unità della sostanza divina, come talmente una e talmente forte da compatire in se la trinità. Questa diventa quindi la chiave teoretica della lettura che egli fa nel De Trinitate e motiva il passaggio alla trinità psicologica. Contrariamente a ciò che a volte si scrive nei manuali, Agostino non è arrivato a spiegare la Trinità di Dio studiando la trinità dell’uomo ma è invece interpretando con acume lo sviluppo di questa inviolabile unità nella dimensione divina trinitaria che è arrivato a riconoscerne un esempio non totalmente identico ma simile, quindi analogico, nell’uomo. Anche l’uomo che resta uno, in quanto soggetto, ha queste movenze di “mens”, “notitia” e “amor”, ha un movimento triadico che non infrange l’unità. Oppure è “memoria”, “intellectus”, “amor” o “voluntas” e anche queste sono proprietà in progressione che si muovono con valenza trinitaria senza infrangere l’unità. Dunque Agostino non procede al modo degli scolastici di formazione aristotelica, che partono dal mondo sensibile per arrivare all’intellegibile, ma al contrario arriva a spiegare il mondo sensibile a partire dal mondo intelligibile, da buon seguace della filosofia neoplatonica. Allora anche il rapporto tra il Verbo divino e il verbo umano segue questa cadenza. Cioè, il verbo umano risulta nella sua movenza originato da una scansione psicologica di tipo trinitario, esattamente come avviene nella produzione del Verbo inteso come seconda Persona della Trinità. Poiché il Padre genera il Verbo conoscendo se stesso, essendo il Padre “auto-logos” o perfetta autoconoscenza, e questa perfetta auto-conoscenza si ipostatizza in un Figlio, Logos, Sofia del Padre, e tra il Padre e la sua Sofia o Sapienza si instaura un rapporto di perfetta corrispondenza che è lo Spirito Santo o Amore. Le analisi di Agostino trovavano dei precedenti in autori neoplatonici


che avevano già fatto questo tipo di percorso andando a vedere come il rapporto tra “mens”, “notitia” e “amor” nel soggetto conoscente umano obbedisse a uno schema trinitario, che non infrangeva il principio dell’unità in senso neoplatonico ma che stabiliva in qualche modo una dialettica trinitaria connessa con l’espansione dell’Uno. Schema che ritroviamo in Plotino: l’Uno, il Nous e l’Anima del mondo, appunto “mens”, “notitia” e “amor”. Queste applicazioni erano quindi già state fatte da diversi scolari di Plotino (convergenti o divergenti da Plotino) e c’era stata l’elaborazione di una trinità psicologica puramente filosofica e non cristiana, di cui Agostino poi probabilmente venne a conoscenza, non sappiamo se attraverso testi o attraverso colloqui con persone. Perché Agostino era sicuramente di quei personaggi capaci di una molteplicità di relazioni, di cui non sappiamo ancora tutto. Il paragone è con Dante. Se ci domandiamo quali sono le fonti di Dante, non riusciamo mai individuarle con certezza ma sappiamo che ha avuto miriadi di fonti conosciute in modo dettagliato e spesso diretto, fonti comunque veritiere perché quello che egli scrive vi corrisponde. Veniamo all’altro aspetto: da dove venga la verità di un giudizio. E’ la tradizionale questione dell’illuminazione della mente, l’illuminazione dell’anima che secondo Agostino è matrice della conoscenza. La parola “illuminazione” non è presente in Agostino, ma è presente l’equivalente di idee che hanno contenuto di rilevanza non riconducibile ai concetti che ci formiamo attraverso la conoscenza sensibile. Il problema è da dove vengano i contenuti che noi riteniamo di conoscere con certezza e che non possiamo, dal punto di vista della sua epistemologia, ricavare dal mondo sensibile. Tra questi contenuti vi è anzitutto l’esistenza di una realtà spirituale cioè totalmente immateriale, su cui Agostino aveva un campo di esperienza personale. Nelle Confessioni ricorda infatti che finché non arrivò alla conversione, cioè dopo il 386 e fin oltre i trent’anni, e finché non lesse i testi neoplatonici o persino ancora un poco dopo averli letti (in realtà li lesse tardi rispetto a quell’età, quand’era già a Milano, perché essendosi formato retoricamente non aveva la conoscenza dei testi platonici filosofici) ritenne ancora che lo spirituale fosse qualcosa di immateriale rarefatto. Noi diremmo oggi di natura corpuscolare come la luce, che è trasparente e che (come si diceva allora dell’aria e della luce e del diafano) non ha colore e non ha peso (ma noi sappiamo oggi che neanche questo è vero), una sorta di materia rarefatta la cui idea veniva dall’etere o quinta essenza di Aristotele, una materia insomma che non è materia quantificabile o quantitativa. Leggendo i neoplatonici riuscì a capire che doveva pensare allo spirituale come qualcosa che fosse ancora aldilà di questo, quindi qualcosa che non possedesse nulla di materiale né per quanto riguarda l’estensione né per quanto riguarda la possibilità di occupare spazio. Fatto questo guadagno, gli venne allora da chiedersi: se io conosco solo cose materiali e lo spirituale è altra cosa ed è il genere “altro” rispetto al materiale, come è possibile che io


abbia questo concetto? C’è poi un altro aspetto che secondo Agostino aiuta comprendere come si arrivi alla verità di un giudizio. L’uomo innatamente, noi diremmo in modo costitutivo, fin da quando comincia a ragionare è capace di esprimere dei giudizi estetici di valore. “Estetici” non nel senso dell’estetica nostra, ma nel senso di giudizi che sono comparativi rispetto alle cose e ai valori che noi incontriamo anche nell’orizzonte sensibile (ecco perché “estetici”). Nell’esempio più classico che si può fare, noi riteniamo che l’albero sia migliore e più perfetto del sasso e che il cavallo, vivente animale, sia più perfetto dell’albero e riteniamo ancora che l’uomo sia più perfetto del cavallo. Si tratta di giudizi estetici di valore che noi pronunciamo con estrema sicurezza, sentendoci garantiti da un’evidenza interiore che ci abilita a dire che è che è così e siamo certi che non può non essere così. Allora Agostino si chiede: come possiamo formularli? nei due esempi dati, da dove viene all’uomo la possibilità di emettere giudizi di valore in una dimensione e in un’area che non è rapportabile a ciò che conosciamo attraverso i sensi? La risposta, dal suo punto di vista, è che ci deve essere un lume o una luce interiore depositata nell’anima da Colui che ha forgiato l’uomo. Agostino segue l’antropologia biblica dell’uomo dotato di un’anima, che andava bene anche ai neoplatonici, un’anima che è in qualche modo completa in se stessa e che tuttavia, per un destino che la Bibbia spiega, è temporaneamente nella condizione di dover coesistere ad un corpo. Questa coesistenza è iniziata in un certo punto del tempo e finirà ad un certo punto col finire del tempo. Dunque l’anima, osserva Agostino, che è stata messa nella condizione di coesistere col corpo umano, è stata anche originata nella condizione di disporre di queste conoscenze elementari, basilari, che non avrebbe mai potuto ricavare per altra via. Questo è il fondamento della dottrina dell’illuminazione, che è una forma di innatismo ma come vede un innatismo molto stemperato, non un innatismo violento. Non è l’innatismo di certe letture dell’età cartesiana, che semplificavano le cose. Non ci sono delle idee chiare e distinte immesse, come sembra dire Cartesio: “io ho l’idea di triangolo”, Agostino non lo avrebbe mai detto. Per Agostino si hanno soltanto le idee innate dello spirituale e della verità rapportata all’evidenza. Per chiudere la sua domanda, l’ultimo aspetto è allora da dove venga la verità di un giudizio. Agostino risponde che la verità viene dalla capacità che l’uomo ha di pronunciare giudizi di valore, in base alla sua dotazione strutturale di soggetto conoscente e al rapporto tra questo soggetto conoscente e il mondo della conoscenza che incontra. Il termine esatto è: l’uomo nel giudizio non crea la verità, non produce la verità, ma la scopre. Quindi il giudizio di verità è una scoperta, una “inventio” della verità. Come scrive ancora Agostino nel De magistro: non si manda un figlio a scuola perché impari a conoscere quello che pensa il maestro ma perché impari dal maestro a conoscere quello è depositato in lui, le conoscenze che sono


presenti dentro di lui. L’uomo si comporta da scopritore della verità, non da creatore o produttore. D: Tommaso d’Aquino fa convergere la noetica agostiniana e la teoria aristotelica dell’astrazione, le sue analisi intorno alla generazione del concetto offrono uno stimolo per uno sviluppo ulteriore del rapporto tra il concetto, definito da Tommaso “verbo della mente”, e la dottrina agostiniana del Verbo. Anche per Tommaso il verbo umano interiore corrisponde principalmente alla definizione o “quiddità” e viene generato dall’intelletto possibile informato dalla specie intellegibile. Come Lei fa notare in riferimento al Prologo alla Lectura super Ioanniis Evangelium dell’Aquinate, l’intelletto non solo genera il concetto ma lo conosce e conosce per suo tramite la cosa stessa che ha originato il processo conoscitivo. Per questo il concetto (verbo) sembra distinguersi dalla specie e dall’idea eterna e per questo Tommaso parla di una illuminazione del Verbo divino (la “luce vera che illumina ogni uomo” del Prologo giovanneo) anche nel significato di luce naturale della ragione. Nell’ambito di questa gnoseologia, che cosa significa che la conoscenza è una partecipazione alla “luce vera” del Verbo? R: la domanda richiama un primo aspetto, relativo al nesso tra la noetica aristotelica e la noetica agostiniana di cui parlavamo prima. L’intenzione principale di Tommaso d’Aquino è di trovare una via che permetta di far convergere la teoria agostiniana, che abbiamo chiamato dell’illuminazione nei termini precisati, con la dottrina dell’intelletto agente e possibile di cui parla Aristotele nel De anima e di cui era piena la tradizione peripatetica, greca e araba. Anche i primi autori della scolastica latina anteriori e maestri stessi di Tommaso, come Alberto Magno, erano allineati ormai su una dottrina della conoscenza umana fondamentalmente fedele all’aristotelismo. L’aristotelismo usa il termine verbo, logos, nel senso prevalente di “sermo” ma anche nel senso di concetto, e quindi ancora oltre c’è l’altro senso che è quello di “ratio”, ragione. Il logos è la ragione, è il “sermo” o il discorso articolato, non la parola soltanto ma la parola articolata che diventa più pregnante, verbo significativo. In questa direzione Tommaso riteneva, penso in totale buona fede teoretica, che la posizione di Agostino non riguardasse la presenza di idee innate dentro il soggetto umano e che il punto di vista agostiniano si potesse tradurre esattamente nei termini in cui Tommaso stesso intendeva parlare del lume dell’intelletto agente. In altri termini, l’intelletto ha per Aristotele i due momenti attivo e passivo, agente e possibile. Nel processo che porta all’atto di conoscenza, l’aspetto di agente rappresenta quell’elemento attivo che si riscontra in ogni processo di generazione nel mondo sublunare, generazione non solo nel senso animale ma anche di produzione e di “poiesis”, per cui c’è sempre l’incontro tra un elemento attivo e uno passivo. Anche nella produzione relativa all’atto


di conoscenza c’è un incontro tra un “nous poietikos” (intelletto attivo) e un “nous pathetikos” (che riceve), quindi è rispettata la metodologia, la teorica del rapporto potenza-atto come principio costitutivo di tutto ciò che si opera e si produce nell’universo sensibile, cioè nel mondo dell’esperienza sensibile nel quale noi siamo calati anche a livello di conoscenza. La nostra conoscenza fa parte dei fenomeni che si danno all’interno di un vivente sensibilmente controllato. Se il vivente non è vivente secondo le regole della biologia, dunque dell’empiria, non produce attività di pensiero. Tommaso riteneva allora che la dottrina di Agostino, debitrice di letture fortemente neoplatoniche e di scarse letture di Aristotele, potesse essere piegata nella direzione prevalente del testo aristotelico dal punto di vista della gnoseologia, della noetica e dell’epistemologia, testo che era molto più ricco delle fonti neoplatoniche di cui Agostino aveva avuto possibilità di servirsi. L’altro aspetto è che cosa significhi che la conoscenza è una partecipazione alla luce vera del Verbo. Acclarato il rapporto con Agostino, anche Tommaso conserva il principio secondo cui c’è nel processo noetico un elemento che non dipende immediatamente dai sensi. Interviene qui tutta una teoria antropologica e sopratutto una lettura del De anima di Aristotele che Tommaso compie in diverse opere (Summa theologiae, Summa contra gentiles, De unitate intellectus etc.), in cui fa vedere che l’anima è forma del corpo secondo la definizione aristotelica ma è forma del corpo le cui potenze, nella parte dell’anima con cui l’uomo intende e vuole, non comunicano con organi di senso. E’ questo una specie di equilibrismo del pensiero di Tommaso. Con Aristotele, l’anima del soggetto umano è pienamente forma del corpo, nel senso che non ci sono altre forme che fanno sì che l’individuo umano sia quel determinato individuo, ed quindi è pienamente responsabile di tutto ciò che si dà anche dal punto di vista biologico, vegetativo e sensitivo. C’è però questa peculiarità, rispetto alle altre forme che noi conosciamo anche degli organismi più evoluti: che l’anima dell’uomo in una parte delle sue facoltà, ossia l’intelletto e la volontà, non comunica con il corpo e non entra in comunicazione con organi di corpo sensibili. Perciò, in rapporto alla sua attività intellettiva e nella sua costituzione ontologica di facoltà intellettiva e volitiva, l’anima è forma del corpo senza essere condizionata dagli organi materiali del corpo. E’ per questo che l’anima può conoscere delle realtà totalmente immateriali e può quindi prescindere, se non dalla fantasia (non può infatti prescindere dall’elaborazione dei fantasmi), almeno dal verificare la corrispondenza nel mondo empirico di ciò che elabora speculativamente e teoreticamente nell’ordine delle realtà spirituali o immateriali. Ma soprattutto, se per quella parte per cui pensa e vuole l’anima non comunica col corpo, quando il composto o il sinolo di materia e forma si dissolve con la morte dell’uomo e la materia corporea si dissocia dalla forma o anima, l’anima può non soggiacere a questo destino di corruzione. Pur essendo forma del corpo, la parte superiore dell’anima ne è sottratta. E


siccome la parte superiore sviluppa per Tommaso unitariamente anche le funzioni dell’anima vegetativa e dell’anima sensitiva, allora l’intera anima del soggetto umano è immortale. Detto questo, alla domanda dove si manifesti per Tommaso la partecipazione alla luce del Verbo, si può rispondere che essa si manifesta nel fatto che l’anima intellettiva muove, secondo la lettura di Aristotele, nella duplice tensione di intelletto agente e intelletto possibile. L’intelletto agente ha la funzione di essere illuminante nei confronti dei fantasmi conosciuti tramite i sensi ed elaborati attraverso la memoria e la fantasia, e cioè interviene smaterializzando la specie sensibile e facendola diventare intellegibile. Ma oltre a questo, l’intelletto agente è anche depositario dell’ “habitus principiorum”, parola che è tecnica nel vocabolario di Tommaso ma viene da Aristotele e su di essa ci sono state diverse dispute nella vecchia tradizione neoscolastica. Ma al di là della discussione, semplificando ma non alterando la sostanza, l’ “habitus principiorum” rappresenta lo stato costitutivo (nel senso in cui dicevamo costitutiva la presenza di certe nozioni basilari allo stato elementare in Agostino) dei primi principi del conoscere, che sono i primi principi della noetica e dell’epistemologia aristotelica: identità, non contraddizione e terzo escluso. Che non sono presenti attivamente, cioè astrattamente, nel senso che l’intelletto agente conterrebbe la formulazione del principio di non contraddizione di Aristotele o del principio d’identità di Hegel etc. Tommaso dice soltanto che è presente, in forma latente, la capacità della nostra struttura intellettiva di operare sempre passando all’atto e facendo emergere nel passare all’atto la capacità veritativa che deriva dalla piena partecipazione di quei principi. La partecipazione alla luce o conoscenza luminosa dei primi principi è la presenza della luce del Verbo dentro il singolo soggetto conoscente. Infatti per Tommaso, ogni singolo uomo è depositario dell’intelletto agente e possibile. D: Se è d’accordo, passerei ora ad una questione più propriamente metafisica. La generazione del verbo umano può essere posta in rapporto di analogia con la generazione del Verbo divino, con alcune importanti differenze. Soprattutto, in un unico Verbo sempre in atto Dio dice se stesso e insieme tutte le cose che sono, poiché non è soltanto piena autocoscienza ma anche Parola rivelata e creatrice (nella pericope di S. Giovanni commentata dall’Aquinate: “tutto è stato fatto per mezzo del Verbo”). Il riferimento alla causalità creatrice e conservatrice del Verbo permette a Tommaso di estendere lo schema delle partecipazioni oltre l’intelligenza, verso l’essere e la vita delle creature. Tuttavia, gli equilibri di questa relazione non sono facili da determinare. Da un lato, come Tommaso annota nella questione 4 De veritate (De verbo, riportato con traduzione italiana nel Suo volume), poiché le creature dipendono da Dio ma non viceversa, “nelle creature vi


sono relazioni reali mediante le quali si rapportano a Dio mentre la relazione opposta è in Dio solo secondo la ragione”: infatti, le uniche relazioni reali in Dio sono quelle tra le persone divine e rispetto al fondato Dio deve rappresentare l’irrelato, l’indipendente, l’assoluto. Dall’altro lato, “l’agire creando” è a tal punto proprio del Verbo divino che se le cose cessassero di esistere il Verbo stesso cesserebbe di essere Verbo. Nel Suo volume, Lei si sofferma a lungo su questi passaggi e sulla natura “operante” e “influente” del Verbum. In riferimento al pensiero di Tommaso e degli altri autori di cui si tratta, come dobbiamo intendere la relazione tra il Verbo divino e la creatura (“Egli era nel mondo”), tra l’eternità del Principio e la temporalità del mondo? R: siamo al quesito centrale, dal punto di vista dell’architettura metafisica nel senso più ampio del discorso di Tommaso. Lei ha toccato dapprima i tre grandi attributi trascendentali, l’essere, il vivere e l’intelligere che in molti testi di Tommaso risultano essere i veri trascendentali. Sono infatti quelli che si possono predicare propriamente anche di Dio, mentre nell’architettura dei trascendentali dei manuali noi abbiamo in genere dei trascendentali che permettono di espandere, di creare un’espansione conoscitiva a livello trascendentale che trascende quindi l’ordine categoriale. Qui invece siamo al trascendentale nel senso metafisico, perché con questa triade di essere, vita e intelligenza Tommaso intende dire che tutto ciò che si assomma di perfezioni relativamente all’intero, quindi Dio e mondo insieme, è costitutivamente essere, vivere e intelligere. Cioè la somma delle perfezioni, che poi è riconducibile anche alla trinità teologica in senso stretto, si condensa in questi trascendentali. Invece i manuali, in genere, partono dal trascendentale Unum che viene definito come ciò che è indiviso in sé e diviso da qualsiasi altro. Quindi da una definizione puramente tautologica che non ha espansione, una definizione descrittiva che serve a ramificare il rapporto tra il categoriale e il trans-categoriale ma non dice nulla sulla costituzione ontologico-metafisica dell’originario, sulla struttura originaria del pensiero e dell’essere e di tutto ciò che noi mettiamo dentro l’intero, essere e pensiero nella formula originaria. In secondo luogo, lei ha accennato alla relazione tra creatura e creatore. Sicuramente, nella tradizione scolastica e nel pensiero cristiano in genere, cioè già nei Padri della Chiesa e in Agostino e nell’alto medioevo prima ancora che ci sia la scolastica vera e propria, la categoria con cui si pensa la realtà è questa, cioè creatore e creatura. Tanto è vero che si parla del “creato” anche nel linguaggio non metafisico, degli intellettuali in genere o anche degli uomini politici del tempo. La parola “creato” viene assunta per significare la realtà del mondo, dell’esperienza. In realtà, questa distinzione tra creatore e creatura è a tal punto propria dell’Occidente che si può farla risalire non soltanto a Mosè e alla Bibbia ma anche per certi versi a Platone, e secondo


certe letture anche ad Aristotele, alla differenza tra il motore immobile o l’Uno in sé, totalmente immateriale e totalmente in atto, e il mondo dove l’atto è invece misto alla potenza. Quindi, il cosiddetto “principio di creazione”, in senso dilatato, crea un’area che accomuna il pensiero occidentale. È vero che poi ci sono state le dispute dell’Illuminismo, per cui se si parlava di creazione in un senso legato alla Rivelazione si trattava di un oggetto di fede, mentre si doveva invece parlare delle cose positivamente. Ma fino a tutto il 1400, diciamo, è questa la prospettiva. E questa prospettiva permette a Tommaso d’Aquino di sviluppare una metafisica che non è dipendente dal dogma come tale, ma è legata a un pensare che è quello per cui ciò che vediamo intorno a noi (e lo vediamo come noi siamo fatti, quindi lo vediamo anche in relazione a noi) e noi stessi siamo in una situazione di dipendenza. Una situazione macroscopica di dipendenza è che non siamo sempre esistiti e non esisteremo sempre, e questa è l’esperienza originaria. Ciò che, nonostante le dispute dei positivisti scientifici, ormai anche la scienza applica a tutti gli oggetti che noi conosciamo del mondo. Persino nella spiegazione della formazione del cosmo e della vita del cosmo si parla dell’accendersi di una stella e poi del suo spegnersi, e si dice che tutte le galassie hanno avuto un’accensione o un avvio. E quello che col termine di creazione intendiamo è proprio qualcosa in cui c’è una partenza e una fine, una destinazione che l’uomo esperisce su se stesso ed è trasferibile nell’analogia anche macro scientifica. Ed ha un senso quindi non legato alla “pietas” della vetula, che prega Dio come suo creatore perché lo ha imparato dal catechismo. C’è qui una grande espansione del pensiero occidentale che ha accolto, come guadagno della riflessione sapienziale di tutte le civiltà mediorientali e poi della filosofia occidentale, questa dimensione dell’universo come qualcosa che è dipendente. Anche per Hegel il mondo è dipendente, e lo è anche per Schelling. Varia la modalità di configurare la dipendenza ma questa relazione è costitutiva dell’Occidente. Non so se dico delle cose che esulano, oltre che sicuramente dalla mia competenza, anche dall’ambito del dicibile, ma per quello che si sa nelle filosofie e nei pensieri dell’oriente questo senso di creaturalità non c’è. C’è invece un senso olistico, il senso di appartenere da sempre a un tutto. Invece tutta la filosofia dell’occidente, persino l’errore di Parmenide secondo cui il divenire non è reale, configura una zona di dislivello: c’è un livello di pienezza e c’è un livello di non pienezza, c’è un essere o costituzione ontologica che è il mondo diveniente e che non è nel possesso attuale pieno di sé, ma è nella dipendenza. In questo senso, Tommaso fa un discorso che va oltre la lettura del testo biblico, perché non è un esegeta ma uno speculativo e tutta la grande metafisica deve fare i conti con questo tema. Allora quale può essere la relazione tra il Verbo creatore e il mondo diveniente e creato, secondo la dottrina della creazione della Rivelazione cristiana? E’ una relazione di dipendenza, ma è anche chiaro che nel Verbo


creatore tale relazione non comporta alcuna variazione nel suo essere Verbo creatore. Il suo essere Verbo creatore è al di fuori del tempo, è al di sopra del tempo, è oltre il tempo. Il primo, l’originario, l’archè è per definizione ciò che sta al di fuori di ogni vincolo e in filosofia lo chiamiamo l’Assoluto. L’agire creando, nell’ipostatizzazione della seconda persona della trinità, è l’attribuzione dell’agire del Padre alla personificazione o alla persona ipostatica del Verbo, che è quindi il Pensiero del Padre, il Logos del Padre, il Verbum del Padre. Quindi il Verbo crea perché il Padre pensa il Verbo, diciamo così introducendo una successione che in Dio non c’è ma che è solo discorsiva, esplicativa, esegetica. In questo livello, come dice Tommaso nel testo citato, l’agire creando è ciò che consente alla realtà creata e derivata di consistere, cioè di essere conservata nell’essere, perché se è stata originata ha bisogno di essere conservata da chi l’ha originata, mentre da sé non potrebbe fare nulla. Non c’è un principio d’inerzia, come la legge di Newton, che possa valere in metafisica. E se anche ci fosse, varrebbe in rapporto al fatto che permane l’istituzione, cioè il principio istitutivo di questa legge d’inerzia in campo metafisico, che è la dipendenza dal Verbo. Ora, lei chiede: se le cose cessassero di esistere, il Verbo stesso cesserebbe di esistere? Questa formula è presente in Tommaso e io la uso sempre, amplificandola, contro quegli autori contemporanei viventi che accusano il cristianesimo e la dottrina della creazione di nichilismo. Il cristianesimo, con la dottrina della creazione, sarebbe nichilista per due aspetti: in primo luogo, sostenendo che la creazione avviene dal nulla, il cristianesimo penserebbe il nulla come esistente, quindi nel cristianesimo sarebbe già inoculato questo pensiero contraddittorio (che è la matrice del nichilismo) che il nulla possa essere e che dal nulla possa essere nato qualcosa. L’idea che ci possa essere un passaggio dal nulla all’essere pare, facciamo un nome a caso, a Emanuele Severino che sia l’espressione massima del nichilismo, perché pensare che ci sia un momento in cui il tutto è nulla, l’essere è nulla, e il nulla sia produttivo costituisce la massima contraddizione. La seconda contraddizione, nella dottrina cristiana della creazione dal nulla, consisterebbe poi nel pensare che Dio possa “redigere omnia in nihil”, che possa cioè far tornare tutte le cose nel nulla in virtù della sua onnipotenza. Ora, è vero che questa espressione si trova in tanti autori a cominciare dai Padri della Chiesa. La si trova del resto anche nelle filosofie ellenistiche e nell’orizzonte teologico dello stoicismo, che era molto religioso, nel pensiero che il potere degli dei potrebbe sovvertire l’ordine e modificare il destino e le sorti, se non del mondo complessivamente, almeno del singolo. In realtà, in relazione al primo aspetto della creazione dal nulla, la dottrina cristiana fa riferimento all’assoluta trascendenza che emerge dalla posizione creazionista della Bibbia. Dicendo che Dio crea tutto dal nulla, si intende dire che Dio crea tutto non avendo bisogno di niente ed questo il senso dell’espressione “dal nulla”, cioè che Dio crea non presupponendo


niente. Non si intende dunque ipostatizzare il nulla, bensì affermare che c’è Lui come pieno e basta. Quindi, non c’è nessun nulla ipostatizzato. E questo potere di Dio creatore in rapporto alle cose create resta totalmente distinto, cioè l’universo creato da Dio si mantiene nella condizione di non poter esercitare nessuna influenza nei confronti del Dio creatore, né di incremento né di decremento, perché Dio creatore è l’assoluto ed è il tutto, è la totalità. Allora, il mondo creato è creato da Dio ed esiste nella misura in cui Dio l’ha disposto. Perciò, in relazione al secondo aspetto, non si può dire che se Lui non lo sostenesse, per un capriccio, il mondo potrebbe ritornare nel nulla. Non è pensabile un capriccio di Dio perché Dio, dal punto di vista della struttura metafisica dell’essere Dio, è fuori del tempo ed fuori del cambiamento di umori, non ha capricci, non cambia pensiero, non cambia rotta. L’assoluta trascendenza di Dio non è influenzata dal mondo, e allora dire che Dio potrebbe ridurre lo stesso mondo nel nulla è un modo per dire che Dio resta totalmente sovrano, superiore a questo mondo che Lui stesso ha creato. Poiché ha creato, non è pensabile attribuire a Dio una volontà distruttrice. Attribuirgliela sarebbe nichilismo. Anche Tommaso scrive che Dio non ridurrebbe mai il mondo al nulla, benché la Sua onnipotenza, spiegata col linguaggio umano, ci possa portare a dire che se volesse potrebbe farlo. Ma Dio non può volerlo, per la ragione che cesserebbe di essere Dio creatore e il Verbo cesserebbe di essere Verbo. E soprattutto, siccome il Verbo nella rivelazione cristiana si è incarnato e si è manifestato all’uomo, non potrebbe esistere tutta una storia che è documentata, la rivelazione positiva. Cioè, dire che Dio può distruggere il mondo dove si è manifestata l’incarnazione del Verbo è una cosa assolutamente improponibile. Restano da chiarire le ultime due espressioni che lei ha usato nella sua domanda: il rapporto tra l’eternità del principio e la temporalità del mondo, quindi il rapporto tra eternità e tempo. L’eternità noi sappiamo che cos’è ma non la possediamo, e secondo Tommaso (ma se ne trovano tracce anche in Agostino) arriviamo a pensare l’eternità conoscendo il tempo, a differenza dei platonici che dicevano che il tempo è un immagine dell’eternità. Noi vediamo che il tempo è questa successione di prima e di poi, questa successione di passato, di presente e di futuro, e quindi immaginiamo un momento di eterna presenza in cui questa successione si arresti. Allora immaginiamo l’immagine del tempo che si fissa nell’istante: è l’ “aion”, è l’eterno. Dal punto di vista del percorso, noi non conosciamo dunque il tempo a partire dall’eternità ma è vero il contrario, e questo è chiaro sopratutto in Tommaso, contro quanto si scrive spesso nei manuali di filosofia e di storia della filosofia. Il tempo che ci appartiene ci costruisce e ci istituisce. Noi ci costituiamo come “io” nella misura in cui questo io si riconosce come quello stesso che era ieri o dieci anni fa o, come nel mio caso, anche diversi anni fa. C’è questa continuità del permanere che però non ha mai un arresto in un presente


stabile. E io avverto, teoreticamente e anche psicologicamente, che quello che darebbe felicità al mio pensiero e al mio desiderio è che io potessi stare in un presente stabile e pieno, dove non sentissi il bisogno, la necessità, la privazione. Cioè comprendo che in questa successione non trovo quello a cui aspiro, e a cui aspiro non per mia scelta ma perché dentro di me desidero stare in un momento in cui questo fluire si fermi in un possesso stabile, permanente e felicitante. Poiché il tempo è erosione, la mia identità rischia di essere proiettata in un vuoto assoluto, un vuoto da “aerumna” (Agostino, Conf., III, 2,4; Salmo 31)), da erosione, da distruzione. Metafisicamente, la domanda è come può accadere che io sia un essere creato, proiettato in una direzione che va verso la distruzione, pur possedendo questo desiderio di non andare, di non essere distrutto, di restare in un punto di appoggio fisso e in un ancoraggio fisso. Come può accadere questo? O rinuncio a trovare qualsiasi spiegazione, come hanno fatto molte filosofie, oppure devo dire che, siccome tutto ciò che accade nel tempo è cominciato da un’origine, questa origine si fa carico di riprendersi il tempo, il mondo, il divenire. Quindi, la risposta alla domanda sulla relazione tra l’eternità del principio e l’eternità del mondo è che l’eternità del principio è istitutrice all’origine del mondo, del tempo, del divenire, della storia, e in quanto origine non può permettere che quello che ha originato vada distrutto. La conclusione è che io porto dentro di me l’aspirazione che l’origine mi ha posto affinché io colga il senso del mio strutturarmi nella direzione del tempo, della temporalità e della storia. Fondandomi su un’istanza di senso che ottiene soddisfazione solo se l’origine è vista come capace di ricomprendere in sé quello che voleva manifestare ponendo il tempo e il divenire. Altrimenti si deve rinunciare a dare un senso alla storia, all’uomo, all’ io. D: Un’ultima domanda. Nell’importante pericope 18 del Prologo di S. Giovanni si legge: “Nessuno ha mai veduto Dio”, e Tommaso commenta rilevando il carattere enigmatico delle diverse modalità del “vedere” Dio: la riflessione dei filosofi appare insufficiente, gli stessi concetti trascendentali (essere, unità, bontà, verità) si riferiscono a Dio con forti limitazioni nel “modus significandi” e senza dare una conoscenza propria della sua essenza. L’inaccessibilità di Dio suscita allora l’atteggiamento apofatico, che ridimensiona la pretesa di determinare con categorie umane la radicale diversità dell’essere divino, ma la stessa negazione appare insufficiente perché svuota il pensiero e si risolve in un’affermazione rovesciata, a cui ugualmente sfugge il proprio oggetto. Il Prologo di Giovanni tuttavia prosegue: “l’Unigenito ce lo ha rivelato” e Tommaso evidenzia, di fronte all’insufficienza delle tradizionali vie filosofiche (affermativa e negativa), la necessità del percorso offerto dalla manifestazione del Figlio Unigenito, Sapienza di Dio, che rivela all’intelletto sostenuto dalla


fede il mistero di tre Persone sussistenti in un’unica natura divina. Quali sono gli apporti di questa rivelazione del Verbum al discorso intorno a Dio e in che modo il dischiudersi della relazione trinitaria modificata i termini del “vedere Dio”, rispetto alle tradizionali vie del Logos filosofico? R: questa domanda apre ad una fondamentale questione che ancora non ho tematizzato fino in fondo, quella del rapporto tra filosofia e rivelazione a cui lavoro da anni, ma che purtroppo non sono ancora arrivato a compiere e ad esprimere in modo pienamente articolato. Da un lato, in un discorso più generale, la filosofia è rivelazione: la filosofia è sofia e la sofia è una forma di conoscenza nella quale l’uomo singolo (oggi e in ogni tempo) si immette, come nell’aria che è già presente o nell’ambiente che già circonda. La sapienza come ciò che già circonda, il luogo o il “topos” dove va a collocarsi l’individuo umano pensante capace di sofia, è allora ogni forma di manifestazione della verità, della luce, di cui non è autore il singolo uomo. Non è autore nel senso che, come dico spesso ai miei studenti, noi non siamo i primi a filosofare né tanto meno saremo gli ultimi. Questa presenza, questo dato, questo apporto che la fenomenologia chiamerebbe la “Gegebenheit”, l’offerta o il dono che è dato lo chiamiamo pensiero o lo chiamiamo essere, orizzonte insomma che trascende il mero dato materiale di quei corpi che non possono accedere alla sapienza. Allora l’accesso alla sapienza configura un orizzonte di svelamento, diciamo anche nel significato heideggeriano, cioè uno svelamento del senso dell’essere. C’è un orizzonte che ci precede e che prosegue dopo di noi, all’interno del quale ogni percorso di conoscenza si inserisce. E tutto questo è, in senso lato, rivelazione. La filosofia in questo senso è una rivelazione. La Rivelazione biblica è una rivelazione di tipo particolare rispetto alla rivelazione del sapere delle filosofie, delle mitologie, delle discipline scientifiche. La rivelazione ebraico - cristiana positiva ha la pretesa di configurarsi come una parola detta in base ad un’autorità che ritiene, nel rivelarsi, di dare testimonianza della sua autorevolezza. Allora, questa è la parola di Jahavé: Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me e di questo sono garante perché con quello che faccio autentico la veridicità di quello che dico. Questa rivelazione è autenticata dalla manifestazione che può fare nell’orizzonte di chi è capace di captarla, quindi sempre in un soggetto dotato di conoscenza e di volontà. In questo senso, la rivelazione ebraico-cristiana ha un costrutto che riduce il sintagma “rivelazione” ad un percorso molto definito e molto precisato, che è quello di una manifestazione della verità da parte di un’autorità assoluta, di un Assoluto che la proclama con la forza del dichiararsi l’origine, l’assoluto di questa rivelazione garantita dalla stessa origine, e la manifesta all’uomo prima a parole e poi nella storia con la carne e l’incarnazione del Verbo. Inoltre per i medievali, nell’interpretazione letterale della Bibbia, anche lo Spirito


Santo si è incarnato prima in una colomba e poi nel fuoco, quindi anche la terza persona della Trinità ha assunto forma visibile e sensibile. Quindi c’è un percorso di rivelazione che è andato costituendosi dalla forma della incompletezza nella forma della pienezza: la forma della rivelazione ultima del verbo morente sulla croce, che si dichiara Figlio di Dio e Dio lo riconosce come suo figlio nel momento in cui muore sulla croce, e lo riconosce come suo figlio perché, in quanto suo figlio, è portatore di un’umanità in cui aveva assunto pienezza di struttura e immagine, vera persona umana, vero corpo e vero io umano. In quel momento lo riconosce come Figlio dotato di questa assunzione della umanità con sé, e la morte del Figlio, riconosciuta dal Padre, diventa salvatrice per l’umanità. Questa è la forma della pienezza di una rivelazione che si compie poi anche dottrinalmente. Dottrinalmente, nell’antico testamento non era rivelato a tutti che Dio è Padre e Figlio e Spirito Santo, ma la pienezza della rivelazione trinitaria si è manifestata soltanto col Nuovo Testamento, col compimento della rivelazione neotestamentaria. Dove per altro non c’è la parola trinità. Nella lettura del Nuovo Testamento, dal monoteismo si passa ad una Trinità perché la Trinità, diciamo così, è rivelazione del monoteismo nella storia. Nella storia il monoteismo passa attraverso la rivelazione trinitaria. Perché questo avvenga non è dato a noi discettarne, è una domanda che si può fare ed è legittima, ma è una domanda che non rispecchia le regole con cui abbiamo delimitato la rivelazione in senso stretto ebraico-cristiana, come parola di Dio che si manifesta e poi s’incarna prima nelle parole e poi nel Dio fatto uomo. La spiegazione che gli autori hanno trovato, una spiegazione di comodo e di convenienza, è che l’uomo doveva essere preparato gradualmente a recepire questa rivelazione. In altri termini, perché Dio non ha detto subito ad Adamo, quando lo ha cacciato dal Paradiso terrestre, di essere Padre e Figlio e Spirito Santo e che lo avrebbe poi redento dalla colpa? Questa è una lettura che esula dalla nostra capacità di giudizio, perché questo tipo di rivelazione è una rivelazione che ci è offerta. Non l’abbiamo chiesta noi, c’è stata offerta in questa forma. Allora storicamente è risultato che il monoteismo, nella forma originaria della Legge mosaica, non è stato sufficientemente aperto e chiaro e convincente, cioè non è stato salvatore. Paolo dice che la Legge non ci ha salvato, la Legge non ci salva e c’è bisogno di una nuova Legge, di un Nuovo Testamento. Allora, in questo senso, la Trinità è apparsa perché anche la storia è trinitaria. Questa è anche l’idea di Agostino, in fondo. La storia dell’Occidente che cresce sulla impostazione del pensiero ebraico-cristiano, che diventa quindi cristiano, è trinitaria. E l’Occidente stesso, tutto l’Occidente che è cristiano, è trinitario perché riconosce che nella propria storia e nella storia dell’uomo la rivelazione della Trinità è stata quella che ha segnato il suo cammino. C’è un secondo elemento. Nel concetto di rivelazione è incluso un concetto di storia perché vediamo che la storia va verso un incremento,


evolve in una direzione di positiva crescita per l’umanità. Quando parlo di storia, nel contesto della metafisica cristiana, non faccio nessun riferimento alla storia accademica fatta di documenti, epigrafi, dati materiali, che è la storia del positivismo. Un concetto di storia coniato su basi positiviste non ha a che fare con il concetto della rivelazione. Il concetto di storia che la Rivelazione porta è quello della crescita dell’uomo. L’uomo sa di stare in una storia che sta crescendo, perché vede che tutto ciò che trascorre con lui nel tempo è sempre apportatore di una novità positiva che lo fa crescere. Fino a al momento in cui, con la rivelazione di Gesù Cristo, la crescita è proiettata su un “éschaton” definitivo, su un compimento della storia che per ora sappiamo con certezza che ci sarà, non sappiamo configurarne i tempi e i modi ma sappiamo con certezza che ci sarà perché il compimento della salvezza è già dato ed già avvenuto con Gesù Cristo. Il percorso che resta è un percorso esplicativo, applicativo della pienezza dei tempi, in cui si inserisce la possibilità per tutti noi di partecipare a questa salvezza data nella pienezza del tempo. Naturalmente, anche se i discorsi sembrano astratti da un punto di vista filosofico, teologico e anche metafisico, questi tempi non sono tempi astratti perché non dobbiamo aspettare il compimento definitivo della salvezza, perché è già stato tutto compiuto. Noi siamo inseriti individualmente in uno spazio esiguo di questo percorso, tra la morte e risurrezione e glorificazione del Cristo e il suo ritorno ultimo (éschaton), in un segmento minimo che è il “kairos”, il tempo opportuno. Il senso del tempo opportuno della storia è quello commisurato all’individuo, e l’individuo recepisce il suo stare dentro questo alveo di rivelazione grande e recepisce lo spazio che gli è dato e in cui coglie quella salvezza, che è già stata compiuta ma che sarà manifestata solo nel definitivo. Quindi non siamo in una storia di tipo hegeliano, ma siamo protagonisti con il “kairos” individuale che entra in quest’alveo di storia salvifica o, come si diceva con termine latino, “salutare” cioè portatrice di salvezza nel senso della dimensione piena della ricchezza, della crescita del desiderio spirituale. Noi vogliamo veramente essere per sempre e allora, in questo senso, anche l’espressione “nessuno ha mai visto Dio” consente all’uomo nel “kairos” di stare nella situazione in cui vede Lui solo attraverso la rivelazione che gli viene fatta dall’Unigenito che si è manifestato nella carne, come dice Giovanni: “Nessuno ha mai visto Dio; solo il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre ce lo ha rivelato”. Nell’adesione a questa rivelazione che chiamiamo fede, sappiamo che la salvezza per noi è data, anche se non abbiamo la pretesa di vedere Dio finché siamo in questa condizione in cui nessuno ha mai visto Dio e “rimane vivo”, in riferimento a quanto diceva Mosè nell’Esodo e anche al Vangelo stesso di Giovanni. Quindi il “vedere Dio” è riservato al momento definitivo, abbiamo però la certezza che questo sarà dato. Questo è un monito alla filosofia, che non pretenda di dire che vede Dio o che


ha visto Dio. Ma è anche la garanzia che questo Dio comunque si è fatto vedere individualmente e si farà vedere. Noi non c’eravamo, noi siamo tra quelli che non l’hanno visto di persona, e però crediamo senza aver visto e sappiamo che vedremo.


Fede e democrazia: il “modello americano” e la sua incompiutezza di Anna Maria Nieddu

A seguito di una campagna elettorale che ha emozionato il mondo, l’elezione di Barack Obama è stata letta diffusamente come una nuova attestazione della possibilità e, insieme, della irrinunciabilità di un legame inscindibile tra fede e democrazia. Un connubio che costituisce la componente essenziale di ogni progetto politico proiettato in un futuro di civiltà ancora tutta da costruire e – proprio per questo suo particolare carattere - sempre perfettibile. Al di là delle scelte specifiche che, a meno di un anno dal suo insediamento, mettono oggi in crisi il mito superomistico creatosi intorno


alla leadership di Obama, il senso stesso della sua elezione ha sortito, nel momento, l’effetto di produrre un drastico risveglio dal torpore indotto da quella certezza di incarnare un modello compiuto e perfetto di democrazia propagandata nel corso dei due mandati presidenziali di George W. Bush. Questo iniziale risveglio rischia ora, gradualmente ma inesorabilmente, di trasformarsi in riassopimento e in una ancor più drammatica rassegnazione all’indifferenza se le attuali difficoltà, materiali e fattuali, della presidenza Obama inducessero a riassorbire il trauma prodotto dal significato originario e, a suo modo, rivoluzionario dell’ascesa alla Casa Bianca di un presidente afro-americano, e non semplicemente in quanto afro-americano. Sul piano culturale, i valori intorno ai quali negli Stati Uniti si è andato costituendo l’ideale democratico rinviano a una tradizione di pensiero che affonda le sue radici nel cosiddetto Rinascimento americano. Dapprima all’interno dei circoli trascendentalisti del New England, successivamente all’interno del pragmatismo, la questione di una democrazia sempre incompiuta e perfettibile è stata posta in vario modo al centro di una riflessione filosofica intesa in prima istanza come impegno civile. Intorno alla radicale messa in questione del rapporto del Nuovo mondo in costruzione con le «vecchie Muse europee», si è sviluppata, come è noto, una temperie culturale che ha poi trovato attenti interlocutori in molte altre situazioni politiche, accomunabili fra loro soltanto sulla base della ricerca di rinnovamento e dell’esigenza di costituire nuove tensioni ideali e valoriali. Tra queste situazioni, in un orizzonte segnato da forti conflittualità ideologiche, si colloca anche quella dell’Italia della ricostruzione post-bellica e post-fascista, all’interno della quale il confronto con gli Stati Uniti d’America ha mantenuto sempre, nel bene e nel male, il posto centrale. Se dunque - certo non in assoluto, ma a partire da questo sfondo storico di riferimento - non possiamo non dirci tutti un po’ «americani», possiamo, invece, pensare risolto il problema circa il modo di relazionarci con una realtà così abissalmente diversa dalla nostra come quella degli Stati Uniti? I tentativi maldestri di assumerne a vario titolo ‘il modello’, perseguiti sotto ben diverse bandiere e nei più svariati campi dell’agire politico o, più vagamente, sociale hanno alle spalle la necessaria consapevolezza? Oppure esprimono meri stereotipi culturali riadattati in chiave post-ideologica? Ciò che colpisce nella gran parte degli aspiranti importatori di questo modello sono, in primo luogo, le semplificazioni, che male si addicono a un quadro di riferimento così complesso. Opportunamente, Ermanno Bencivenga avverte gli incauti estimatori à outrance del cosiddetto ‘modello americano’ che gli Stati Uniti corrispondono, quanto meno, a due opposte realtà. Sarebbe infatti più opportuno parlare non di una ma di «due Americhe», senza riferirsi alla divisione geografica del continente ma a quella messa in atto sul piano sociale e culturale dalle nuove classi nelle quali si divide la cittadinanza statunitense: la classe sociale che discende dai grandi imperi economici e dai suoi referenti politici – autoritaria e repressiva - e quella che proviene da generazioni di immigrati, che lottano per cambiare il proprio destino e per raggiungere una piena democrazia. Al di là dei rilievi che, sotto alcuni aspetti, la lettura in bianco e nero degli Stati Uniti di Bencivenga suscita, emerge sullo sfondo una correlazione di ordine filosofico di più rilevante spessore che ritengo meriti attenta considerazione e riflessione proprio per le incisive ricadute che da essa possono provenire e che concernono la possibilità stessa


di una diversa lettura del ‘modello democratico’ americano. Una lettura che rinvii al senso e al metodo di una esperienza storica unica, non prevedendo improponibili importazioni di contenuto. In quella che, in parte per vocazione e in parte per necessità, si presenta come una società costituitasi fin dal suo nascere su base multietnica, multireligiosa e multiculturale l’ambiziosa ‘scommessa illuministica’ dei Padri fondatori si è nutrita attraverso una mai sopita fonte kantiana dei principi etico-politici che – pur non senza contraddizioni, frutto dell’umana fallibilità - hanno costituito il fondamento culturale e politico della sua costituzione federalista. Una costituzione che – vale la pena ricordarlo – destò, a sua volta, l’ammirazione dell’ultimo Kant, come attesta un autorevole riscontro di Giuliano Marini. Nel territorio americano la società si è di fatto costituita alle origini come percorso di socializzazione tra diversi. In questo modo, da un peculiare, e inedito, connubio tra pluralità di fedi religiose e fede democratica è nato il fenomeno unico nel suo genere della religione civile; una religione universalistica e pluralistica al tempo stesso che costituisce ancora oggi – nonostante le profonde incrinature prodotte dall’undici settembre la malta deputata a tenere insieme un pluralismo valoriale così spinto che difficilmente potrebbe essere retto all’interno di altre situazioni. In questa, come in altre realtà culturali specifiche, le peculiarità della effettualizzazione storica rendono quanto meno semplicistico, e inopportuno, anche il solo proporre una esportazione di modelli sociali e culturali compiuti, astraendoli dalle condizioni peculiari che li hanno posti in essere e che si connotano sulla base del cambiamento e del progresso, in una parola del meliorism. Un modo più avveduto di porsi nei confronti del ‘modello americano’ richiede piuttosto di assumerne il senso e il metodo, rinunciando alle facili soluzioni pronte all’uso, comprese le superfetazioni superomistiche di improbabili leader carismatici. Su questo piano, il principio di ascendenza kantiana della democrazia come ideale normativo, nella cornice della progressiva realizzazione di un processo di pacificazione interna ed esterna ai popoli, è un modello sul quale la riflessione politica non dovrebbe stancarsi di riflettere. Il formalismo etico, anti-contenutistico, sul quale poggia questo principio non genera astrattezza; al contrario, secondo la lezione di Pietro Piovani, esso rappresenta il migliore alleato di uno storicismo avveduto. Gli Stati Uniti, del resto, con i loro umani pregi e difetti offrono la migliore rappresentazione di questa possibile alleanza e le loro divisioni e contraddizioni valgono ad allertarci sulla fragilità delle risultanze di un progetto che non dovrebbe appagarsi della pedissequa imitazione di un modello compiuto, scegliendo piuttosto lo scomodo percorso di una tensionalità infinita verso un progetto ideale. Si è detto, credo con buoni motivi, che l’elezione di Obama ha realizzato ancora una volta il sogno americano. E del resto, il 19 gennaio del 2009 molti hanno certamente stentato a credere che l’insediamento alla Casa Bianca proiettato sugli schermi televisivi si svolgesse all’esterno degli Universal Studios. Eppure, anche queste indimenticabili immagini hanno contribuito a scuotere le certezze acriticamente assunte e le ‘comode’ rassegnazioni di quei molti, dentro e fuori gli Stati Uniti. Hanno accelerato la riapertura della riflessione e della discussione critica su quello che molta parte della opinione pubblica del mondo occidentale si ostinava a considerare un modello di democrazia finito e pronto all’uso, avvertendo che il significato stesso del


termine ‘democrazia’ era stato sovvertito fin dalle radici nel momento del folle tentativo della sua esportazione messo in atto dopo la tragedia dell’undici settembre. La vittoria di Obama ha segnato la rivincita di un principio fondamentale che affonda le sue radici nel tessuto stesso della civiltà statunitense: quello dell’incompiutezza irriducibile del progetto democratico e del profondo valore sotteso proprio a questo suo connaturato carattere. Un valore che esige una fede radicata in un «dover essere» verso il quale tendere, pur nella consapevolezza della irraggiungibilità di una sua forma perfetta. Niente a che vedere o a che spartire con qualsivoglia istantanea del momento rappresentata da una sua determinata effettualizzazione storica, sia pure di tutto rispetto. Nessun contenuto definitivo. Nessuna sintesi conciliatrice di opposti in un assoluto pacificato. Nessuna «fine della storia», per dirla con, e contro, Francis Fukuyama. La democrazia americana va accortamente, e preliminarmente, considerata sul piano del suo principio etico-politico e, insieme, storico. Un principio che ha governato la sua nascita e con il quale essa stessa – almeno nei suoi momenti migliori – sente ancora il dovere di confrontarsi.


Di un nuovo fideismo di Giovanni Invitto

Stiamo parlando di laicità e non di laicismo. Sono termini diversi: il primo indica un pensiero e una cultura libera da dogmi. Insomma è il “sapere aude” di oraziana e kantiana memoria. L’altro termine, invece, richiama una radicalizzazione ed un “esser contro” piuttosto che un atteggiamento propositivo. Perché dico questo? Vedendo la situazione politica e culturale italiana mi pare che sia imperante una nuova forma di fideismo. Non si tratta più di una fede positiva, tra l’altro oggi praticata per la maggior parte con inerzia e per abitudine, ma di un “comune sentire” per il quale l’importante è avere punti fermi, certezze epidermiche, bandiere per le quali tifare senza bisogno di mettere in campo la ragione e il discernimento. Non molto tempo fa scrivevo qualcosa sull’ultimo film di Dreyer, siamo fermi al 1964, nel quale il regista danese diceva di aver voluto manifestare il proprio “ateismo religioso”. Era, evidentemente, una forma colta per esprimere un vissuto. Qui si sta parlando, invece, di un fideismo nato da una situazione umana di precarietà e di assoluta mancanza di certezze. Per cui l’Uomo della Provvidenza funziona sempre e i massmedia ne sono i sacerdoti. Ricordo che a mia madre, nata nei primi anni del secolo, cattolica fervente, promotrice di associazioni, all’origine delle formazioni locali della D. C., un giorno chiesi


se fosse mai stata fascista. Con mia sorpresa mi rispose di sì. A questo punto, ritenendo tutto ciò contraddittorio con la sua storia e l’immagine che io ne avevo, le chiesi il perché. Mi rispose: “Perché non capivamo quello che stavamo vivendo”. Credo proprio che anche quello che stiamo vivendo oggi sia la rinunzia alla comprensione, al cercare di vedere dietro la facciata; sia l’accontentarsi dei lustrini e delle parate. In sostanza siamo nella palude di un nuovo fideismo sciatto e pauroso: proprio l’opposto di una laicità consapevole che è ragione, domanda, distanza e dubbio permanente.


Recensione L’amore buio di Antonio Capuano, ovvero la presa di coscienza del lato oscuro di Domenico Spinosa

Presentato nella sezione «Giornate degli autori» della 67ª Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, l’ultimo lavoro del maestro Antonio Capuano, L’amore buio, è un film sul disgelo dell’Io, sulla messa a nudo del nostro essere molteplice che o per un motivo o per un altro tendiamo e/o siamo portati a non conoscere, a non scoprire, a nascondere. Protagonisti qui sono gli adolescenti, sempre a cari al regista, della sua città: Napoli. In particolare, Irene e Ciro. Tutto ha inizio durante una accecante giornata al mare, tra luccicanti e roventi corpi giovani stesi al sole e tuffi coraggiosi da rocce che a guardarle destano sfida, cullati da ritmi neomelodici e frasi rubate al linguaggio verbale contemporaneo. La sequenza è da immortalare, ricca di movimenti di macchina che sembrano dolcemente accarezzare le figure in campo. Ma appena si sta per godere dello spettacolo, ecco qui la caduta, come sempre, quasi a ricordarci dell’intermittenze di cui è fatta la vita. Ecco qui lo scontro, la violenza che interviene a sospendere la bellezza, la bellezza di Irene e Ciro che si oscura nella notte tra le luci sfocate della città e l’incoscienza. L’atto si consuma brevemente in una notte buia, senza vista e senza senso, cieca. Ma la presa d’atto non manca ad arrivare. E così inizia un’altra storia, dallo scontro non cercato all’incontro invece cercato e possibile. Inizia lo scoprirsi mancanti, l’essere incompleti, parziali. Ma già il rendersi conto di ciò fa ai protagonisti superare (forse solo in idea) l’avverso, e il lento aprirsi al nuovo e allo stesso tempo allo sconosciuto diventa plausibile, reale, concreto. Passa tra le mani, prende dentro, sconvolge nel


profondo. È qui, tra queste pieghe, che troviamo il film. È osare a tuffarsi in acque non ancora provate. Qui tutto il film. Permanenti, nella mente di noi spettatori, le scene in cui assistiamo al viaggio nel centro di Napoli, nel cuore e nel ventre di questa città, che Irene intraprende. La protagonista attraversa la porosità di Parthenope, passando dai quartieri spagnoli fino ai decumani lì dove si imbatte nei chiaro-scuri del celebre capolavoro (a lei forse sconosciuto) Le Sette opere di Misericordia del Caravaggio, conservate al Pio Monte di Pietà. Dalla curiosità provocata alla (ri)scoperta di se stessi. E niente sarà più come prima. L’amore buio rappresenta l’ennesimo, niente affatto stanco però, dono che il maestro Capuano offre alla sua gente e ai suoi ragazzi, oggi più che mai. È un suo nuovo invito alle giovani generazioni a fare i conti con se stessi e, perché no, anche raccontando storie sempre difficili. Se possiamo permetterci di avanzare qualche appunto, questo può essere rivolto ad alcune scelte un po’ ideologiche che ritroviamo in sceneggiatura. Ma davvero ciò risulta essere poca cosa nei confronti di un affresco di immagini sempre vive a cui veniamo posti di fronte.



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