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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008


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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Settembre-Ottobre 2009, n° 20. (Numero 21, 31 Ottobre 2009) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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Il Partito Democratico, il Congresso e la “democrazia a venire”. di ELIO MATASSI

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Come cancellare il dialetto di UMBERTO CURI

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La fratellanza tra libertà ed eguaglianza di LEONARDO SAMONÀ

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Nella prospettiva di un dialogo originario. Intervista a Bernhard Casper a cura di BACHISIO MELONI

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L’anello di Gige e l’invisibilità del privato di CLAUDIA BARACCHI

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Conversazione con Claudio Mancini condotta da Mario De Caro

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Appunti per il Congresso del PD DI

MARCO FILIPPESCHI E CARMELO MEAZZA

Un nuovo paradigma per un’altra visione del futuro DI

NICOLA ZINGARETTI


Il Partito Democratico, il Congresso e la “democrazia a venire” di Elio Matassi

Il dibattito preparatorio allo svolgimento del primo grande congresso del Partito Democratico è entrato finalmente nel vivo: quando Pierluigi Bersani afferma che non si può demonizzare impunemente l’espressione ‘sinistra’, emarginandola dalle coordinate culturali e dalla prassi politica del Partito Democratico come accade invece molto spesso per esponenti vicini all’altro candidato alla Segreteria Nazionale, Dario Franceschini, individua finalmente la formula decisiva. Infatti il primo grande tema dell’ormai prossimo Congresso nazionale dovrà avere al centro della discussione questa impossibile rimozione dell’idea di sinistra, ‘impossibile’ per un partito come quello Democratico che voglia proporsi di andare al di là del panorama politico databile dalla fine degli


anni Ottanta. Provo a riassumerne i caratteri salienti: uscita dai suoi proclami utopici e dalle sue disillusioni, la maggior parte della sinistra europea si è resa conto che, dopo la caduta del muro di Berlino ed il crollo del sistema sovietico, ciò che era realizzato nel ‘socialismo’ poteva benissimo essere attuato dallo stato sociale ed anche da quello liberale, nel momento stesso in cui la frontiera tra liberismo e socialdemocrazia cominciava ad incrinarsi, facendo nascere una forma nuova: qualcuno (Guy Debord) lo ha definito “stato spettacolare integrato”, qualcun altro(Alain Badiou) “capital-parlamentarismo”. Abbandonando ogni posizione critica, la sinistra europea ha finito con lo schiacciarsi completamente sull’economia di mercato pur ingegnandosi a far rivivere un ‘antifascismo’ che, nelle condizioni epocali contemporanee, non poteva essere se non una forma di sentimentalismo moraleggiante. Entro quest’ottica peculiare e sullo sfondo generale dell’idolatria del consumismo, i diritti umani diventavano la base di un nuovo consenso, nonché un sostituto del pensiero politico, mentre altro non erano se non l’espressione di un discorso morale a base giuridica. La ridefinizione dei programmi, conseguenza naturale di questa evoluzione, portava rapidamente l’elettorato a pensare, non senza ragione, che non vi fosse ormai più alcuna differenza fondamentale tra ‘sinistra’ e ‘destra’ ed, al contempo, di situarsi esso stesso al di là di questa divisione, ormai divenuta obsoleta. Le conseguenze di una tale diagnosi sono ben note: aumento costante del tasso d’astensione, dispersione dei voti su un numero sempre maggiore di candidati, progressiva crescita di un voto di protesta che favoriva le posizioni populistiche. A queste conseguenze si deve inoltre aggiungere la scomparsa degli elettorati rigidi tradizionali a fondamento sociologico, professionale o religioso: mentre nel periodo precedente agli anni ottanta ogni famiglia politica (comunisti, socialisti, democratici-cristiani, liberal-conservatori, estrema destra) aveva ancora la propria cultura, ed anche un linguaggio ed uno stile di vita suoi propri, l’omogeneizzazione crescente degli stili di vita, accelerata dal consumismo e dai media, si è tradotta in un’indifferenziazione crescente dei comportamenti elettorali, ma anche, paradossalmente, in una sorta di atomizzazione dell’elettorato. Gli elettori, che sono sempre più consapevoli di appartenere contemporaneamente ad una pluralità di gruppi sociali, e che sono sempre meno influenzati dalle idee generali e sempre meno mobilitati dalle rappresentazioni collettive, votano di volta in volta i candidati più disparati; non cercano più un partito che risponda perfettamente al loro modo di vedere le cose, vagando da un partito all’altro in funzione dei loro interessi del momento. L’offerta politica è essa stessa sempre più frammentata; gli uomini politici, il cui linguaggio è permanentemente condizionato dalla tirannia mediatica, non ottengono altro che maggioranze di circostanza, che variano a seconda dei soggetti; gli elettori non hanno più da scegliere tra rappresentanti che incarnano visioni conflittuali dell’interesse generale, ma tra squadre di professionisti e di esperti che si sforzano di rispondere bene o male a richieste contraddittorie legate ad altrettanti interessi particolari. La fragilità delle convinzioni e l’incertezza delle valutazioni tecniche producono una politica sostanzialmente esitante, priva di riferimenti e, in modo particolare, generatrice d’indecisione. In tal modo si sviluppa una crisi della rappresentanza che ha come causa principale la compromissione dei confini di legittimità: questi non si risolvono più per via gerarchica, come nell’epoca in cui una legittimità predominava del tutto naturalmente su


un’altra. Di fronte a questa crisi, gli uomini politici si rimettono completamente ai risultati dei sondaggi, che consultano ossessivamente come un tempo i patrizi romani consultavano gli aruspici. Ma gli istituti dei sondaggi, che spesso errano, sono organizzati in maniera particolare per effettuare studi di mercato. Valutando le intenzioni di voto a partire da ‘campioni rappresentativi’ di elettori che dispongono di un certo potere d’acquisto, non ottengono mai risposte se non alle domande che pongono, cosa che consente loro d’ignorare completamente quelle che gli elettori ‘si pongono’. La democrazia politica in tal modo si trasforma in democrazia d’opinione e l’azione politica in “pura gestione delle esigenze economiche delle domande sociali” (Alain Finkielkraut). Una opinione pubblica, evidentemente, che non ha più nulla a che vedere con la volontà generale. Mentre gli uomini politici devono continuamente riconquistare la fiducia dei loro elettori, si è aperto un divario tra i cittadini ed una classe politica che sembra non avere più altra ambizione se non quella di riprodursi sempre eguale a se stessa. Un divario sempre più incolmabile per effetto dello scarto esistente tra le sfide del momento storico e la reazione delle istituzioni, tra le consuetudini e la legge, tra i progressi delle tecno-scienze ed la loro trattazione da parte del legislatore. “Al di là dei grandi obiettivi dichiarati –scrive Werner Olles –appare evidente che gli uomini politici costituiscono una classe omogenea che persegue, prima di tutto, il proprio interesse. Il discredito cade dunque contemporaneamente sugli uomini, per effetto della loro ipocrisia, e sulle idee che essi fanno circolare, che appaiono sempre più chiaramente come un grossolano alibi. I grandi principi di sovranità popolare e di rappresentanza perdono il loro smalto ed appaiono brutalmente come concetti vuoti, che mirano a mascherare l’accaparramento del potere da parte di una classe specializzata”. Il tempo degli intellettuali, d’altra parte, sembra essere passato. Vi sono sempre più molti discorsi intellettuali, ma non hanno più alcuna articolazione né alcuna ripercussione politica. L’intellettuale ha smesso ormai da tempo di essere l’autorità morale (la coscienza del suo tempo ) o l’autorità sociale ( il portavoce dei senza voce ) che rappresentava un tempo. Dequalificato dall’ascesa dei tecnocrati e dalla confusione dei media, egli non è più chiamato a produrre senso, ma solo un po’ di intelligibilità. A questo proposito Marcel Gauchet, che, per esempio, ha dinanzi ben chiaro il quadro della intellettualità francese, constata che “la cultura delle élite intellettuali è ridiventata indecifrabile per una maggioranza di francesi, così come il gioco politico classico”. Gli intellettuali non hanno altra scelta che ripiegare sui centri specializzati di ricerca universitaria e su cenacoli elitari, oppure diventare “oggetti colti” dello spettacolo mediatico, col rischio di essere obbligati a rincorrere senza sosta un’attualità che impedisce di anticipare i tempi. Mentre la televisione, divenuta il luogo centrale della produzione e della diffusione dei costumi e della cultura, tende essa stessa ad affrancarsi dal “dominio del politico”, la vita pubblica subisce ancora l’effetto del presenzialismo. Gli uomini politici sono i primi a non preoccuparsene se non nel breve periodo, che è generalmente quello che li separa dalla prossima elezione, che non li spinge a ricercare la ‘durata’. Ma che cos’è un’azione politica che non s’inscriva in un contesto-di-durata? L’azione pubblica risulta tanto più vulnerabile quanto più si trova agganciata alla congiuntura immediata. Il problema può essere prospettato anche sotto un’altra angolazione. L’ipotesi che potrebbe essere formulata è la seguente: noi oggi assistiamo solo al crollo della forma moderna della politica. In altri termini, non è la politica che scompare, ma solo un modo di intenderla


che è stato specifico della modernità. Nell’epoca moderna, la politica si è organizzata intorno allo Stato-nazione, essendo questo contemporaneamente il centro motore del meccanismo amministrativo ed istituzionale ed un agente produttore del sociale. I grandi concetti ai quali era associato, a cominciare dalla nozione di ‘sovranità’, erano in sostanza concetti teologici secolarizzati. Ora, questo modello normativo, che era sembrato imporsi in maniera definitiva nel XVIII e XIX secolo, è progressivamente entrato in crisi per effetto dell’irruzione nello spazio pubblico di attori politici esterni allo Stato o di attori sociali che esigevano di vedersi riconosciuto uno statuto politico in questo spazio. Più recentemente, lo Stato-nazione ha visto limitare sempre più il suo margine di manovra a causa del dispiegamento su scala planetaria di un certo numero di forze transnazionali sulle quali esso non fa più presa. Il suo discredito si è andato progressivamente accentuando man mano che crescevano la sua impotenza e la sua sclerosi. Oggi, come sottolinea, Alain Bertho, “lo Stato non istituisce più il sociale, lo destruttura. Lo Stato corre quindi il rischio di non essere più lo spazio naturale in cui si esprime la sovranità popolare, ma il suo esatto contrario”. Statuale e politico non sono mai stati totalmente sinonimi. La politica è esistita prima dello Stato, così come continuerà ad esistere dopo di esso. Per il momento, si può solo constatare che rimettere in discussione il monopolio statuale della vita pubblica porta alla dissociazione quasi completa di queste due nozioni. Ciò che scompare non è né la politica né lo Stato, ma l’identificazione tra Stato e politica. Usciamo in un solo colpo dall’epoca in cui i partiti politici rappresentavano tanto i mediatori ‘naturali’ tra la società e lo Stato, quanto i vettori privilegiati della politicizzazione delle sfide sociali elevate a livello di sfide di potere. Di qui anche l’esigenza di costruire una nuova forma-partito che in modo particolare dovrà essere ripensata e ricostruita proprio da un partito moderno come quello Democratico.Bisogna reagire a tale processo degenerativo della democrazia nella contemporaneità e non con un generico e vacuo ‘nuovismo progressivo’ che, di fatto, finisce coll’assecondare quella deriva, prospettiva che sembra essere coltivata in quei settori del Partito Democratico che si riconoscono nella candidatura di Dario Franceschini. Certamente non può essere questa l’opzione di un partito che vuole interpretare fino in fondo l’essenza e la vocazione della democrazia, di una democrazia che per essere veramente compiuta non potrà mai rinunciare al concetto di eguaglianza. E da qui che è necessario ripartire e questo snodo impone una rinnovata identità di sinistra, nel senso migliore di questa espressione. Infatti non sempre l’identità è una dimensione limitativa e questo è proprio il caso del paradigma di ‘sinistra’. Queste sono le nostre radici, questa è la nostra storia, questa è la nostra identità che ovviamente non deve essere interpretata in accezione statica ma dinamica. Si tratta di una sinistra postmarxista che riesce ad attingere a diverse tradizioniorientamenti filosofico – culturali. Solo su queste basi si potrà fondare una democrazia ‘a venire’ in cui la ‘crazia’ sia alleata o perfino unificata non solo con il diritto ma anche con la giustizia, come auspica Jacques Derrida: “esiste l’impossibile resta impossibile per l’aporia del demos , il quale da una parte è la singolarità incalcolabile del chiunque, prima di ogni soggetto; ma d’altra parte rappresenta l’universalità del calcolo razionale, dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il legame sociale dell’essere-insieme, con o senza contratto. Questo impossibile che esiste rimane incancellabile. Esso è tanto irriducibile, quanto il nostro essere esposti a ciò che accade. È l’esposizione a ciò che accade, all’evento”. La risorsa rappresentata dalla democrazia deve essere raccolta in tutta la sua capacità critica, comportando in primo luogo delle “ingiunzioni inflessibili”


incancellabili, le uniche che possano far fronte alle sfide della globalizzazione. Bisogna avere la spregiudicatezza intellettuale di superare il vecchio modello di cosmopolitismo (greco-cristiano, stoico, paolino, kantiano) per abbracciare una solidarietà universale che sappia andare al di là dell’internazionalità degli Stati-nazione e, dunque, della cittadinanza. Questa è la direzione di una sinistra moderna, “possibile” come auspica qualcuno (Vannino Chiti) ma concretamente realizzabile. Sul grande tema della sinistra e su una rinnovata interpretazione dell’idea di uguaglianza si giocherà anche il destino del Partito Democratico.


Come cancellare il dialetto di Umberto Curi

La questione dell’insegnamento del dialetto nelle scuole, recentemente rilanciata con forza dal ministro Luca Zaia, presenta almeno due aspetti meritevoli di riflessione. Il primo, sul quale si è quasi esclusivamente concentrata la discussione delle ultime settimane, è di carattere politico. Il forte investimento della Lega su questo terreno conferma che, in vista delle ormai prossime elezioni regionali, il Carroccio sente l’esigenza di una riaffermazione di identità, tanto più necessaria per scongiurare l’ipotesi di un riassorbimento nel quadro indistinto del centrodestra. Da questo punto di vista, Bossi è disposto a pagare prezzi consistenti sul piano di una possibile espansione al Sud, pur di riprendere un protagonismo da qualche tempo un po’ offuscato nelle regioni settentrionali. Consapevole che, dal Piemonte fino al Veneto, la Lega dovrà giocarsi la sua partita contro il Pdl, molto più che contro un centrosinistra impossibilitato a competere davvero per il governo di quelle regioni, il Senatur sta impostando il confronto sul piano politico-culturale, cavalcando con grande spregiudicatezza temi sui quali sa di poter riscuotere vasti consensi popolari. Pur essendo in realtà più importante e significativo, il secondo aspetto di questa controversia è rimasto sostanzialmente nell’ombra, anche nelle repliche di esponenti del Pd. Non è un caso. Anziché ridurre la questione ad un semplice referendum pro o contra il dialetto (impostato così,


il problema è ozioso o demenziale, o entrambe le cose insieme), si tratterebbe di inquadrare l’argomento su un piano molto più serio, domandandosi in termini più generali che cosa si debba insegnare a scuola, e dunque quale ruolo essa debba avere nella società attuale. Tutti gli sproloqui sulla bellezza, la ricchezza e il “colore” dei nostri dialetti (e non solo di quello veneto, ovviamente), lasciano in realtà il tempo che trovano, visto che a nessuna persona sana di mente può venire in mente l’idea balzana di cancellare la pratica del dialetto. Ma neppure – ed è questo il punto – di insegnarlo a scuola. Vi sono delle attività che appartengono al repertorio delle cose che si apprendono insieme col latte della propria madre, e che poi si coltivano “naturalmente” per il fatto stesso di vivere e lavorare in un certo territorio, e che non richiedono affatto un insegnamento. Sarebbe come insegnare ai giovani del Nord a mangiare polenta o ad avere la passione per le escursioni in montagna, o a quelli del Sud a consumare pomodori o ad apprezzare il mare. Tutto ciò appartiene a tradizioni e costumi locali, che si tramandano senza alcuna grottesca “istituzionalizzazione” scolastica. Altrimenti bisognerebbe dedicare ore di insegnamento alla “pizzica” per i giovani del Salento, o istituire corsi per i cori alpini nel Cadore. La vitalità e la persistenza di queste culture è affidata alla loro capacità di rinnovarsi, come espressioni genuine di concreti modi di vita. Se il dialetto fosse insegnato a scuola , perderebbe la sua specifica natura di mezzo di comunicazione “naturale”, con i connotati della freschezza e della autenticità che conosciamo, per diventare appunto lingua fossile, “materia” di insegnamento, oggetto di studio. Di ciò dovrebbero rendersi conto tutti coloro i quali , per ragioni diverse ma per lo più condivisibili, sono affezionati alla sopravvivenza e alla trasmissione delle culture locali: in linea di tendenza, se realizzata la proposta leghista finirebbe paradossalmente per cancellare la pratica concreta del dialetto veneto nel giro di un paio di generazioni. Trapiantare il dialetto a scuola vorrebbe dire infatti inaridire la fonte dalla quale esso sgorga spontaneamente, impedendo di fatto che esso possa sopravvivere. Col risultato che il veneto andrebbe ad arricchire il numero delle lingue “morte” insegnate nelle nostre scuole. Insomma, uno dei tanti inganni sui quali la Lega sta costruendo anche nella nostra regione la sua proposta di governo.


La fratellanza tra libertà ed eguaglianza di Leonardo Samonà

Nel corso della sua storia moderna la forma democratica di vita associata, che caratterizza il mondo occidentale, ha visto crescere irresistibilmente, insieme a libertà ed eguaglianza, anche lo scontro tra questi due pilastri della propria evoluzione politica. Da una parte il regime democratico incentiva infatti la crescita costante dei diritti individuali, accompagnata dalla pluralizzazione delle forme di vita e dei loro orizzonti normativi. Dall’altra rafforza progressivamente il principio dell’eguaglianza, che esige regole sempre più indifferenti alla pluralità di quelle forme di vita, e ne depotenzia i valori “interni” a vantaggio di valori comuni meramente procedurali. Se restringiamo la nostra considerazione a questo aspetto antitetico della relazione tra libertà ed eguaglianza, dobbiamo certo osservare per un verso che, per molto tempo, spinta alla differenziazione e spinta all’indifferenziazione hanno giocato una sorprendente partita, perché hanno permesso che libertà ed eguaglianza maturassero insieme, pur con i loro sotterranei antagonismi, e conferissero attraverso la loro convivenza una tenuta irrequieta ma durevole alla modernità. La concorrenza dei due valori ha trovato il suo instabile punto di equi-


librio nell’omogeneità degli interessi e delle radici culturali, capace di preservare la diversità sotto l’ombrello di un’identità più o meno forte – divenuta nel corso della modernità quella “nazionale” – e di difendere d’altra parte tale identità dagli aspetti più stranianti della diversità, reprimendo al proprio interno la loro spinta al disordine o tenendoli fuori dai propri confini in un avvicendarsi ininterrotto di guerra e pace armata. Un’eguaglianza che combatte per l’emancipazione dalla diversità e una libertà che combatte per l’emancipazione dalla sottomissione a ogni riferimento esteriore si sono trovate così a solidarizzare contro un nemico comune, rappresentato dai privilegi, dalle gerarchie, dall’oppressione di poteri esterni che pretendono l’assoggettamento; e per molto tempo hanno potuto respingere incessantemente a fondo i contrasti che opponevano l’una all’altra. Tuttavia nell’epoca della globalizzazione – un’epoca che ha rotto i confini nazionali, ha mescolato le culture e ha abbattuto le distanze senza creare prossimità, ma producendo soltanto, con la forza dirompente di mezzi tecnologici, la costrizione dell’umanità in uno spazio ristretto a villaggio globale – questo tipo di solidarietà tra libertà ed eguaglianza sembra ora portare in primo piano i suoi veleni. L’uguaglianza prende il volto di un’identità formale che pesa come una cappa di piombo su ogni tipo di diversità respingendola sempre più violentemente nell’irrilevanza, cioè producendo sempre nuove ineguaglianze. La libertà si estenua in un gioco di trasgressioni che non producono una rescissione dei legami, ma solo una fuga sempre più percettibilmente entropica dal livellamento di tutte le forme di vita; e intanto precipita verso una decisa ostilità all’eguaglianza, nella misura in cui la sua potenza di emancipazione viene vanificata dalla forza ogni volta inesorabilmente maggiore con cui l’eguaglianza si affranca, a sua volta con tratto ostile, dall’incidenza della diversità. La libertà e l’eguaglianza distruggono, con un tale scatenamento di reciproca inimicizia, i tratti che ne fanno dei valori. L’una sembra soltanto un principio di dissoluzione di regole e responsabilità: un’impresa peraltro velleitaria, perché dominata reattivamente dal potere di risucchio della collettività, un potere (dovuto per esempio a meccanismi economici o a progressi tecnologici) che sempre più appare come autoreferenziale, funzionante da sé, capace di legare al di sotto di qualunque spinta centrifuga e di ridurre le differenze a meri fenomeni quantitativi e statistici. L’uguaglianza perde a sua volta i suoi connotati etici per trasformarsi in un inarrestabile processo di omologazione, che copre indifferentemente, sotto la sua maschera ingannevole, odiose diseguaglianze e diritti inalienabili alla diversità. Passate da una battaglia solo sotterranea a una competizione mortale, libertà ed eguaglianza disseppelliscono anche la lunga serie di rinnovate forme di schiavitù e ingiustizia di cui hanno disseminato il loro percorso evolutivo. Guardate sotto la luce del conflitto che ora le divora, libertà ed eguaglianza appaiono dunque due valori viziati fin dall’origine. E mi sembra si possa dire che la storia europea del secolo scorso si sia lasciata soggiogare dalla fascinazione di questo giudizio negativo, sia quando – ed è stato il pericolo più grande, quello dei fascismi – ha rigettato entrambi i valori, mostrando così un’avversione totale ad essi, perché estesa al loro intimo legame; sia quando si è lasciata sedurre dalla possibilità di instaurare il predominio della libertà sull’eguaglianza o di questa su quella, illudendosi di far scaturire da questo predominio la pace tra i due valori – ed è la storia dei due blocchi, anche dopo che, con il crollo del muro di Berlino, si è creduto che la “caduta” dell’uno decretasse la “ vittoria” dell’altro. Ma davvero dobbiamo guardare al rapporto tra libertà ed eguaglianza come a una rivalità alla lunga destinata a mandare in rovina la società? O non dovremmo as-


similare la dura lezione proveniente dagli eventi terribili del XX secolo per comprendere che oggi l’Occidente, in un’epoca particolarmente mutevole e tenebrosa quanto al suo futuro, si ritrova a dover smaltire quanto prima la pericolosa illusione che la coppia dei valori più importanti della sua storia politica possa risolvere le proprie interne tensioni attraverso il predominio di un valore sull’altro? Viviamo in un’epoca in cui urge la necessità di elaborare nuovi strumenti culturali, capaci di comprendere l’anima nascosta e autentica di una forma democratica della vita sociale vissuta per molto tempo come processo di mero svuotamento di valori a regole procedurali, definite soltanto negativamente per la loro neutralità e non comprese invece nella ricchezza di spirito che le ha prodotte. Strumenti difficili da mettere a punto, tanto più sotto la pressione di un risveglio minacciosissimo dell’istanza di eguaglianza, che riapre le ostilità sotto forma di guerra contro una libertà declinata come emancipazione occidentale dalla dipendenza e dal bisogno. Per le sue connotazioni geografiche e culturali, tale guerra nasconde un potenziale esplosivo incalcolabile per le sue dimensioni “globali”, e coltiva un’idea di “rivincita” che, nelle sue manifestazioni più inquietanti, sembra posseduta da una mira alla vittoria totale, e sembra dunque proporre di nuovo, nelle sue viscere più profonde, il rigetto congiunto di libertà ed eguaglianza. Possiamo ancora perdere tempo prezioso inseguendo il miraggio, riaccesosi a Berlino nel 1989, di una pace armata della libertà accettata dall’eguaglianza come una cambiale a scadenza indeterminatamente remota? O non è piuttosto il caso di riprendere di nuovo il legame irresolubile tra libertà ed eguaglianza a partire dalle sue risorse più interne e positive? Se torniamo per esempio alle parole d’ordine della Rivoluzione Francese, dovremmo prestare una rinnovata attenzione al fatto che l’esito virtuoso del complesso intreccio tra i due valori era stato affidato sin dall’inizio alla salda speranza di vedere generarsi la fratellanza “in mezzo a loro”, con uno slancio che, certo, è sempre stato in qualche modo “controfattuale” e utopistico, ma è stato sempre anche inteso come l’effetto di un radicamento inestirpabile della libertà nella relazione sociale, attraverso un appello all’unità che le giunge dalla sua più essenziale intimità e che la costituisce come strutturalmente responsabile per altri e di fronte ad altri. La speranza nella “fratellanza” è salda perché la libertà schiude al suo interno un legame con l’“altro” più profondo di quello che si manifesta nella dipendenza, e fa dell’unità sociale o politica il più inclusivo dei legami, capace di coniugare in maniera paradigmatica l’uno e i molti. Ma a sua volta questo legame resta sempre anche affidato alla speranza, perché si presenta come conseguenza della partecipazione responsabile degli individui all’unità. E implica una trasformazione dell’idea stessa di unità, che va intesa come quella che si costituisce come raccoglimento dei differenti e non è dunque senza di essi. Tuttavia la fratellanza va decodificata. Essa fa vedere i diversi come simili, e cioè fa germogliare l’eguaglianza sul terreno della diversità. Per questo motivo si presenta come il legame congenito di libertà ed eguaglianza; e però, in quanto fa così rientrare la diversità all’interno dell’unità, ricolloca la comunità prima, in linea di principio, della libertà. La forma nuova di questo primato conferisce per un verso alla fratellanza un carattere di fragilità. La sua priorità non è infatti mai data, ma sempre in qualche modo progettata e sperata, cioè affidata alla responsabilità. Se però si pretende di garantirla riconsegnandola alla mera “natura” socievole dell’uomo o alla previa condivisione di una visione del mondo, essa si rivela al di sotto della libertà e dunque del potere di unificazione che aspira ad evocare. Come legame di sangue (la “nazione”) la fratellanza ha mostrato subito di provocare nuove disegua-


glianze e schiavitù, e perfino di averne bisogno. Come legame ideologico si è parimenti mostrata come uno strumento al servizio dell’inimicizia e della lotta. Come richiamo all’identità culturale ha preso immancabilmente il volto dei “respingimenti” e della difesa di privilegi. Solo quando abbandona la difesa dell’identico e, seguendo il comando della “regola aurea”, assume radicalmente la prospettiva dell’altro, la fratellanza scopre l’indistruttibilità dei legami e della socialità. La forza della democrazia, che oggi appare come una forma di governo insostituibile anche per la sua incomparabile tolleranza dei conflitti interni, deriva dal fatto che essa fa dell’unità un principio verso il quale convergono, attraverso il libero consenso, tutti gli individui che compongono il corpo sociale. L’unità è quindi sempre spostata in avanti, in un orizzonte per così dire escatologico che situa il punto di partenza nella diversità, e dunque in ciò che è altro dall’unità, che è fuori dal comune. La democrazia ha in questo senso sempre la sua condizione di partenza nella libertà dell’altro, cioè nella libertà dell’individuo situato fuori dalla comunità, e proprio per questo nella libertà di ognuno, cioè nell’eguaglianza che non esclude nessuno, che non prescinde dagli individui, ma si costituisce come il raccoglimento e l’inclusione di tutti. In quanto partono sempre dall’altro, libertà ed eguaglianza non possono prescindere dalla fratellanza. Questo fa sì che la democrazia non si possa costituire a partire dall’unità ma neanche a prescindere da essa. La democrazia non può ridursi a valori meramente procedurali – anche se è minacciata da valori sostanziali fatti valere indipendentemente dal consenso – perché un tale forma politica si costituisce come inclusione dell’altro. Questo fa dei valori procedurali non il semplice esito della deriva nichilistica di società che rinunciano alla loro “identità” morale e culturale per abbandonarsi alla logica consumistica del mercato, ma un guadagno spirituale formidabile di società che mettono a fondamento dei valori costituenti la libertà dell’altro, sempre a rischio di esclusione e di persecuzione; e per questo motivo rifiutano una libertà privilegiata, e assumono una libertà che pretende l’eguaglianza per potersi affermare (non si può dimenticare in proposito l’efficacissima dichiarazione di Voltaire di essere disposto perfino al sacrificio per difendere la libertà d’opinione, appunto, dell’altro). Anche la costituzione, atto fondativo di uno stato democratico, rimane sempre un termine verso il quale si deve convergere a partire dalla libera responsabilità di ognuno. Nella fratellanza, la democrazia si è posta già oltre la semplice assunzione della formula negativa della “regola aurea” e della libertà che trova nell’altro il suo limite, per abbracciare il lato positivo della relazione ad altri. La struttura teleologica dell’unità in un regime democratico – una struttura che implica la libertà (la laicità) non come spazio dell’accidentale quanto piuttosto come momento necessario dell’unità, e che proprio per questo non può tuttavia vedere a sua volta la libertà ridotta a mera emancipazione dall’altro – ha a mio giudizio un terreno decisivo di elaborazione nella difficile comprensione dello spazio della laicità in ambito religioso. Proprio in questo ambito – dal quale certo, va detto, ha preso sempre più netta distanza la storica affermazione moderna di diritti civili attraverso la battaglia di liberazione da una concezione autoritaria della relazione religiosa – va cercata tuttavia oggi la coltivazione, certamente sempre esposta al rischio autoritario, di una connessione positiva tra la libertà e il vincolo all’altro. In particolare, oggi, la forma democratica dell’unità può avere un suo fecondo modello nella forma di “comunità” richiesta dall’incontro e dal dialogo interreligioso, che oltretutto costituisce la sfida decisiva dell’epoca in cui viviamo. L’unità cui questo modello fa riferimento non può essere rivendicata come proprietà di una parte in


dialogo, ma non può essere nemmeno ridotta all’indifferente convivenza di principi “stranieri” l’uno all’altro. L’indifferenza assume infatti sempre il volto prevaricante di un’ostilità contro le differenze religiose, e dunque l’egemonia di un nuovo punto di vista (a questa obiezione dovremmo stare molto attenti noi “occidentali”). L’unità richiesta dal dialogo interreligioso implica invece una connotazione di “unicità” che ha però come tratto specifico l’inclusione di ciò che l’unità stessa distingue da sé: il divino che può unire è solamente quello che accoglie l’altro. Una tale connotazione del divino istituisce la laicità, non nel senso di uno spazio esteriore al sacro (il profano), ma nel senso di uno spazio appropriato a fare entrare in gioco la posizione specifica – quella dell’ultimo in un processo che parte dalla libertà – in cui si colloca il principio che raccoglie e unifica. L’esser come l’altro, la somiglianza dei diversi, il convenire quale risultato di un dialogo a partire da posizioni diverse, si radicano nell’esser altro del divino, e nel suo tenere insieme facendosi altro, cioè ad un tempo ammettendo l’altro e sottraendo a ciascun protagonista del dialogo l’ultima parola. Questo è a mio giudizio il modello di un incontro tra individui che converge nell’unità e “scommette” su di essa (nel senso che guarda all’unità come termine raggiungibile a partire dalla libera e responsabile adesione degli individui). Nella forma di una salda speranza nella forza fondativa della fratellanza, e non nella forma dell’imposizione di valori che vigono “assolutamente” solo nella misura in cui restano indifferenti al convergere del consenso su di essi – o nella misura in cui, per dirla in altri termini, restano indifferenti alla laicità –, si costituisce l’azione politica adatta a un regime democratico e capace di durevole effetto in esso. L’idea di un’unità che nasce nella forma di unificazione di “identità” diverse e nella ricerca, mediante un dialogo disarmato e intenso, di punti verso i quali convergere e sui quali raccogliere consenso, mi sembra la più attrezzata per rispondere in modo decisivo e non effimero all’urgente domanda di un legame politico globale capace di ricucire le spaccature sempre più profonde che lacerano il mondo attuale. Questa forma di unità, radicata nel legame all’altro e costituentesi come accoglimento dell’altro, interpreta a mio giudizio in modo appropriato la fratellanza: è il valore politico più fragile, perché, come è stato ampiamente dimostrato da esiti tragici di nobili istanze, non può essere in alcun modo conquistato mediante “battaglie”; ma, nella misura in cui svela il fondamento più saldo e irrinunciabile di libertà ed eguaglianza, è allo stesso tempo anche il valore politico più decisivo che l’Europa moderna, in mezzo ai suoi errori catastrofici, ci consegna come preziosa eredità.


Nella prospettiva di un dialogo originario. Intervista a Bernhard Casper a cura di Bachisio Meloni

Incontriamo il Prof. Bernhard Casper, professore emerito all’Università di Freiburg i.B., considerato uno dei maggiori filosofi della religione viventi. Sintetizzando in breve il Suo lungo e considerevole percorso di studi, da allievo di Bernhard Welte, Lei, Professore, ha condensato la Sua riflessione soprattutto intorno alla filosofia di Heidegger e del pensiero ebraico, con particolare riferimento a Rosenzweig e a Levinas. Scorgendo nelle strutture del pensiero dell’essere un apporto nell’elaborazione di una “fenomenologia ermeneutica della religione”, Lei ha tuttavia ritenuto del tutto insufficiente se non improbabile che lo spazio del religioso possa dischiudersi a partire dalla dimensione della differenza dell’essere heideggeriano; in tal


senso di fronte al rischio del brulichio informe sprigionato dal Sacro Lei ha ritenuto di dover mediare tra la proposta del “pensiero rammemorante” di Heidegger e il “pensiero esperiente” dell’alterità e della relazione di Rosenzweig (mi riferisco alla Sua recente pubblicazione Rosenzweig ed Heidegger. Essere ed evento, Morcelliana, Brescia 2008). Vorrebbe illustrare brevemente i “risultati” di questa Sua fondamentale interpretazione? Grazie a Rosenzweig e in particolare grazie a Levinas, il quale ha portato avanti il pensiero di Rosenzweig in una maniera per noi oggi determinante, è diventato chiaro in che senso il linguaggio, inteso come l’insieme di ciò che accade tra gli uomini (con Heidegger, “La casa dell’essere”), apprende l’orientamento incondizionato dal fatto che io dipendo dall’altro uomo in quanto abbandonato all’altro come l’altro stesso, cioè l’altro nella sua dignità incondizionata nella quale egli è insostibuibile. Io ho bisogno del suo esserci. Ed allo stesso tempo con il mio proprio esserci sono garante (ostaggio) per il suo esserci. Allo stesso tempo in questa relazione fondamentale nella quale già mi trovo, io devo prendere sul serio il tempo, il quale accade tra noi come la storia (cfr. anche il mio saggio “Dal Sacro al Santo. Sul senso ambiguo dell’orizzonte trascendente ‘das Heilige’ ” in: Etica di frontiera. Nuove forme del bene e del male, a cura di Carmelo Vigna e Susy Zanardo, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 99-115). A tale proposito vorrei soffermarmi su uno dei temi eccellenti della Sua interpretazione rosenzweighiana e su uno dei presupposti fondamentali che hanno dato origine e vita al pensiero dialogico (penso alla Sua opera forse più importante, da poco tradotta in Italia, Il Pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner, Martin Buber, Morcelliana, Brescia 2009). Ogni domanda sull’essere (se posta nei termini del “Che cos’è?”) è percepibile come un limite della conoscenza, ridotta a mera spiegazione dell’oggetto o di un dato evento nella sua sostanza e nelle sue determinazioni, ma non nel suo tempo. Domanda che esula da quell’idea del filosofare che, come Lei suggerisce, dando assoluta priorità al linguaggio rispetto al pensiero stesso, è “continuo servizio divino nel servizio della verità”; domanda che posta in questi termini è piuttosto processo tutto interno alle dinamiche della conoscenza. Rosenzweig, come Lei sottolinea, ancor prima di Heidegger, pone la fondamentale questione dell’essere, non solo nella sua veste d’assoluto, ma dell’essere considerato nella sua temporalità. Prevale l’accoglimento non solo dunque di una temporalità legata alle ragioni dell’esistenza propria dell’esserci, ma di una temporalità dell’essere legata piuttosto al “bisogno dell’Altro”. Il tempo accadente storicamente, il “linguaggio nel suo realissimo esser-parlato” (Rosenzweig, Stella p. 186 ), accade non solo propriamente nella mia coscienza, cosi che questo potrebbe essere descritto in maniera esauriente come una “Fenomenologia della coscienza temporale interna” (Husserl). Ancor più il linguaggio accade diacronicamente tra l’altro come se stesso e me come me stesso. In più occasioni Lei ritorna sulla nozione di “preghiera” come atto paradossale di una intenzionalità non intenzionale, come dire: “domanda senza pretese”, e ciò stando anche alla Sua indispensabile interpretazione del pensiero levinasiano alla luce della prospettiva rosenzweighiana. La pre-


ghiera, per Lei, è nozione, atto pratico in grado di condurre l’uomo “al di là dell’essenza”, al di là dell’essere come semplice presenza, a disposizione di… Piuttosto che un’idea di preghiera come atto egoistico volto all’utile o al soccorso dai mali contingenti (in fondo, come Lei più volte ha denunciato, anche l’idea di salvezza o di redenzione soccombono dinanzi ad una malintesa finalità, negatrice dell’infinito) è auspicabile la modalità di preghiera come puro “disinteresse”, come prassi dell’amore e della giustizia, e perciò stesso apertura alla verità autentica. Lei, sulla base della concezione speculativa inaugurata da Rosenzweig – o ancor prima dal suo maestro H. Cohen – identifica l’unità e la differenza o l’unità nella (malgrado la) differenza tra prospettiva filosofica e dimensione teologica. Vorrebbe precisare anche in questa occasione tale tema cruciale, assai presente del resto nell’ambito degli studi filosofici contemporanei, su cui Lei nel Suo percorso di studi e di vita ha così straordinariamente insistito? La tentazione fondamentale, della quale l’autentica relazione religiosa deve occuparsi sempre di nuovo se vuole mantenersi nella sua verità e non capovolgersi nel suo opposto, vale a dire nell’idolatria, è la tentazione di concludere l’intenzionalità degli atti religiosi con un finito mantenere e possedere, di andarsene così quindi di soppiato da ciò che io intenderei chiamare la “differenza latreutica” (“Latreutische Differenz”: dal greco latreuein: venerare, adorare). Intenzionalità dell’atto religioso invece può essere solo quella della risposta a un ascoltare originario. Nella Bibbia si può rilevare questa tentazione nella tentazione di Davide “ad edificare una casa per Dio” sotto autorità della propria procura (2.Sam 7,5; cfr. anche Isaia 66,1-2). Con questa intenzione Davide rovescia il senso fondante (Fundierungssinn) che può definire solo l’autentica relazione religiosa. Si può rilevare questa tentazione di capovolgere il senso fondante della relazione religiosa anche nelle tentazioni di Gesù (Mt 4,1-10). Rosenzweig ha chiamato questa tentazione fondamentale, appartenente essenzialmente alla relazione religiosa stessa, la tentazione della “tirannia del Regno dei cieli”. Alla luce di tale perversione, si può senza dubbio intravedere il rimprovero mosso dalla critica classica delle religioni (Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud) la quale vede come fine ultimo delle religioni l’assoluta auto-affermazione dell’uomo o di un gruppo di uomini. La religione consiste in un egoismo autoponentesi di gruppo. Si mostra come una “nevrosi costrittiva collettiva”. I sistemi totalitari del XX secolo avevano indubbiamente questo perverso carattere religioso. Questo è ciò che ho esperito sulla mia pelle nell’infanzia e nella giovinezza durante il Nazionalsocialismo. Il superamento di questa tentazione non consiste evidentemente nella prassi di un, per cosi dire neoplatonico, esserci privo di mondo. Noi siamo uomini mortali fatti di carne e sangue che hanno bisogni fisici e il bisogno di essere approvati, riconosciuti ed affermati dagli altri uomini. Noi siamo uomini che sono tali grazie ad altri uomini e nei quali è vivo il desiderio di giustizia. Pertanto è abbastanza naturale, e alla luce della relazione fondamentale della “differenza latreutica”, che nasce nella intenzionalità dell’ascoltare, è permesso ed opportuno, pregare per “la gloria dell Infinito” e per “il pane di questo giorno” – come per l’accadere della remissione, per la concreta giustizia in una determinata situazione, per la pace effettiva tra uomini storicamente concreti e determinati, e infine anche per la forza della carità sincera e non simulata del prossimo e perfino del nemico. Come ha giustamente esposto Levinas in uno dei suoi più bei saggi, l’autentico e completo atto fondamentale del pregare, il quale vuole rimanere nella verità, deve consistere in un “pregare senza domanda”. Ma nella


luce di questa sua intenzionalità ascoltante e attendente, può annunciarsi anche in una concreta richiesta; una concreta richiesta che si mantiene nell’intenzionalità dell’essere debitore, dell’attendere e cioè una intenzionalità che non vuole opprimere ed in una maniera totalitaria possedere il tempo, ma nel tempo in una maniera venerante ed adorante, cioè “latreutica”, presta testimonianza alla speranza del supremo, il quale ci sfida in una concreta situazione storica. Dalla nostra discussione emerge la sensazione di trovarci di fronte al continuo ed irrefrenabile impegno o tentativo di umanizzare o di eticizzare la dimensione indeterminata dello spazio e del tempo attraverso l’evento del dialogo, del “tra” che “tutto compie”. Le cito un passaggio di Rosenzweig (tratto da un suo saggio dal titolo Fenomenalità trascendentale ed evento eventualizzato) a Lei molto caro: “Aver bisogno del tempo significa non poter anticipare nulla, dover attendere tutto, per ciò ch’è proprio essere dipendenti dall’altro […] La differenza tra pensiero vecchio e nuovo, tra pensiero logico e pensiero grammaticale non consiste nell’esprimersi a voce alta o a bassa voce forte, bensì nel bisogno dell’altro o, che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo”. Per il nuovo pensiero, il tempo diviene “interamente reale. Non che ciò che accade accada nel tempo, al contrario è il tempo stesso ad accadere”. Abbiamo accennato che lo spazio del religioso non può coincidere con la dimensione del neutro, dell’elemento, del darsi (l’es gibt) dell’essere in generale; anche il tempo dell’eterno non può svilupparsi coincidendo con un insieme indistinto ed indeterminato di attimi calcolabili all’infinito ma solo sulla base di un evento o di un “compimento apocalittico” come ragione di speranza che abbia radici nella storia di ognuno, nel tempo che altri porta a costituire. Io non direi “compimento apocalittico”, ma piuttosto “escatologico”, o ancor meglio “compimento messianico come ragione assoluta della nostra speranza umana” Nella tradizione del pensiero dialogico è sorta l’idea di una relazione costitutiva fra l’Io e il Tu all’insegna della “reciprocità”, non tenendo conto spesso – è il caso di Buber – come tale relazione sia in realtà dettata da una forte ed inesauribile disparità e dissimmetria, dove l’io pur nella sua unicità e garanzia di ogni trascendenza è servitore del Tu, dell’assolutamente altro. Mi chiedo, tenendo conto della proposta speculativa levinasiana, se l’inizio della verità “non sia già preghiera gridata dal fondo di una solitudine di dubbio” e di sconcerto. Forse questo con necessità è cosi, ogni volta che noi come uomini in quanto esseri liberi, siamo premiati secondo Nietzsche dal “fiero sapere e dal privilegio della responsabilità” (Sulla genealogia della Morale. KSA 5, 294). Potevamo in quanto noi stessi, come coloro per i quali sono costretti a porre se stessi nelle loro decisioni e a tal proposito in un ulteriore senso soli - ciascuno di noi ‘libero padrone del proprio Ethos’ (Rosenzweig) – avere realmente questa dignità senza questa solitudine di dubbio e di sconcerto? Prof. Casper, vorrei riflettere su una filosofia che intenda ribadire i principi della laicità, pur non disdegnando naturalmente di scandagliare quanto vi è di implicito in termini speculativi ed etici nell’ambito dell’antica e preziosa tradizione biblica e talmudica (e non solo). In questo senso quando ci si imbatte nel mistero di Dio, lo si intende come parola smisurata, come


termine del linguaggio in grado di incidere e di significare per il pensiero che pensa al di là del dato. Una riflessione filosofica siffatta, svincolata dagli spiragli della fede, ma che al pari di ogni fede si stringe al valore della speranza – e fors’anche al bisogno di un qualche appiglio di “salvezza” – è proposta di pensiero che tuttavia difficilmente si riconosce in prospettive messianiche di “redenzione”. Le chiedo, una riflessione filosofica non parte sempre dal presupposto che noi (cito, e forse anche del tutto a sproposito, da J. L. Chrétien, L’indimenticabile e l’insperabile, tr. it., Cittadella Editrice, Assisi 2008, pp. 169-170) “non possiamo e non potremo ricevere nulla” e che l’oggetto della speranza, come suggerisce Kant, è sempre rimesso all’infinito, ad un infinito che paradossalmente nella sua inesauribile ed inafferrabile spinta – se mi è consentita una mia personalissima aggiunta – potrebbe anche non giungere per essere suscitato dall’esistenza (fra memoria ed attesa) di alcuna presenza vivente o dal men che minimo rapporto di relazione? Infatti noi in quanto uomini, siamo esseri paradossali i quali sono nello stesso tempo finiti ed infiniti. La nostra vita consiste essenzialmente in questo, poiché noi siamo in un “Campo da gioco tra finitudine e infinitudine” per citare il titolo di un libro del mio maestro Bernhard Welte. Noi tendiamo sempre oltre noi stessi. Non si può comprendere il fenomeno dell’umanità in quanto tale senza questo permanente transcendere se stessi. Viviamo da sempre in una differenza dall’infinito che ci riguarda nell’incondizionatezza del nostro voler-essere. Come sostiene Blaise Pascal, “L’uomo supera infinitamente l’uomo”. Altrimenti non potremmo per niente percepire la nostra finitezza, la nostra storicità e mortalità; e allo stesso modo neanche la differenza tra il bene e il meglio, e tra il bene e il male. La veracità dell’esserci umano consiste in questo, mantenersi in questa differenza. Spianare tale differenza per esempio con un naturalismo totalitario riduzionista o con un biologismo, fa perdere di vista l’uomo in quanto uomo, vale a dire non solo come l’essere che in quanto essere può volere e intendere, ma anche ciò che come un sé deve temporalizzare se stesso così. Che ciò che noi vogliamo e a cui aspiriamo, ciò verso cui progettiamo in maniera intenzionale, è il bene, cioè ciò che noi nei riguardi della nostra persona e di quella altrui, possiamo affermare come incondizionato, infinito e senza riserve. Questo si rivolge a noi da sempre e fonda in tal modo il nostro essere-uomo come essere-nel-mondo e contemporaneamente come essere-nella storia. L’idea di soggettività, di comunità umana in una “società aperta” appare sempre più percepibile oggi come difficilmente disponibile alla sospensione della ipseità del vivente, sempre più caratterizzata invece per essere in preda quasi ad un movimento centripeto del sé; in un groviglio inestricabile di voci non sembrano emergere più parole degne di ascolto. Nell’evento sempre nuovo richiamato dal bisogno dell’altro gli eventi sembrano susseguirsi fino allo spasimo e il bisogno dell’altro si tramuta in un continuo bisogno d’altro. Qual altra rivelazione degna di questo nome in grado di proiettarci al di là del presente può giungere ancora a salvarci? O quanto meno, a porre rimedio? Nella nostra società contemporanea, nella quale siamo inondati senza pausa da continui nuovi stimoli, da un incessante flusso di informazioni, in una società nella quale gli interessi economici e i fini del potere occupano il singolo


spietatamente, rimanere uomini non è per noi cosi indispensabile quanto l’apprendere una nuova virtù dell’ascoltare. L’ascoltare si apprende nel silenzio. Dobbiamo sviluppare il coraggio per una nuova ascesi. Dobbiamo riuscire ad avere la forza di ritirarci dal frastuono della pseudo-infinitudine delle molte pretese che ci vogliono possedere. Dobbiamo diventare poveri nei confronti di queste pretese per essere aperti alle sfide essenziali che riguardano il nostro esserci umano, per poterle percepire. La religiosità autentica ha preso sempre questa via. Questa consiste nel sospendere la varietà mondana come varietà, e nel cominciare a tacere per ascoltare. L’“epoché” rivendicata da Husserl come atteggiamento fondamentale di un pensiero fenomenologico, ha con questo molto da condividere. Dobbiamo nuovamente imparare la virtù di un silenzioso attendere per poter ascoltare. Solo così posso diventare attento agli altri uomini in quanto tali. Ugualmente, solo così posso trovare realmente me stesso. Proprio in vista dell’esplosiva crescita delle nostre possibilità tecniche, che in particolare possono senz’altro essere utili per noi, ma che nel loro mero infinito sommarsi rappresentano infine soltanto una totalità senza uscita entro l’ambito di una smisurata eppure finita immanenza, è per noi indispensabile ritrovare una nuova cultura del silenzio – ritrovare un nuovo radicamento nella vigile attenzione di un ascoltare originario. (Traduzione di Paolo Vodret)


L’anello di Gige e l’invisibilità del privato di Claudia Baracchi

La giustizia è un patto che in realtà limita le potenzialità del singolo, andando contro l’interesse individuale e la stessa natura umana: l’hanno sostenuto in tanti, a partire dai sofisti antichi. L’idea trova formulazione definitiva in Hobbes (contratto sociale) e varianti ancora in Nietzsche e Freud. La sua intramontabile fortuna è dovuta in non minima parte al fatto che la vita pubblica di ieri e di oggi sembra offrirne ampia illustrazione e conferma. Platone non è tra coloro che della giustizia danno un’interpretazione disincantata. Eppure, da grande maestro dell’arte imitativa, presta voce a questa tesi nella Repubblica, specialmente là dove fa rievocare dal giovane Glaucone la storia dell’anello di Gige (359b-360d). La storia riguarda il far cose senza essere visti: si dice che Gige il lidio, in possesso di un anello che consentiva a piacimento di diventare invisibili, ne sfruttasse il prodigio commettendo ogni sorta di efferatezze ed eccessi, garantendosi così immenso potere. Sullo sfondo dell’antica leggenda Glaucone vuole denunciare lo scandalo della giustizia, l’ipocrisia che ne circonda le pratiche nell’Atene del suo tempo. Nes-


suno, dice, dà valore alla giustizia in sé; tutti la lodano per convenzione e per debolezza (la moralità del gregge, dirà Nietzsche) ma, ogni qualvolta si presenti l’occasione, ognuno si comporta ben diversamente. Questo il testo: “…coloro che praticano la giustizia lo fanno malvolentieri e solo perché sono incapaci di commettere ingiustizia…. E questa, si potrà dire, è la prova decisiva che nessuno è giusto di proposito, ma in quanto vi è costretto: ciò perché nel suo intimo nessuno considera la giustizia un bene, poiché anzi ciascuno, dove crede di poterlo fare, commette ingiustizia. Privatamente ogni uomo giudica assai più vantaggiosa l’ingiustizia che la giustizia…. Supponiamo che uno disponga di una simile facoltà [l’anello dell’invisibilità] e tuttavia non consenta mai a commettere un’ingiustizia e a toccare la roba d’altri: quanti venissero a saperlo lo giudicherebbero disgraziato e sciocco. Eppure nei loro conversari lo loderebbero….” Sono parole facilmente trasponibili nei contesti a noi familiari. Purché non si sia visti, si perpetrino pure le più vili iniquità e crimini inauditi. Ma che non si sappia, appunto: che non si intacchino immagine e reputazione, che non si vada a ledere lo spettacolo ossequioso dei valori istituiti. Non abbiamo cessato di essere testimoni di una dicotomia che, sebbene pervasiva, non dovrebbe sembrarci ovvia: da un lato il teatrino del pubblico, della rappresentazione e della rappresentanza, dall’altro l’invisibilità del privato. L’individuo onora nelle forme il contratto con i molti, ma morde il freno (ciò che vive come freno) e persegue in ogni modo una realizzazione di sé che nulla ha a che fare con relazione, misura, vincoli mondani. Dal testo platonico emerge così un primo dato. La separazione di pubblico e privato e la concomitante finzione della giustizia (“fatta la legge, trovato l’inganno”) sono espressioni di una frattura più profonda, tra individuo e comunità, secondo cui il singolo può solo soffrire del patto con gli altri. Esprimono cioè la convinzione che la natura umana sia essenzialmente non relazionale; che in realtà l’individuo non deva nulla a nessuno; che l’altro vada visto con l’acquolina in bocca o con fastidio, come preda o come ostacolo. Il secondo dato che emerge è la strutturale inevitabilità della menzogna: si fa di nascosto ciò che non si può dire—né agli altri né, al limite, a se stessi. Tra parentesi, qui si trovano già, in nuce, il fondamento dell’interiorità, l’esperienza di sé al limite del dicibile, la problematica della confessione. Dunque il privato si costituisce in questa sottrazione di sé, in questa scomparsa dalla coscienza (collettiva come pure individuale). Tutelato da tale dissimulazione potrà dedicarsi, non visto, alle sue vere finalità. Si dice in inglese: spazzare la polvere sotto al tappeto. Tale sarebbe la logica dell’invisibilità del privato. Come se l’invisibile non importasse, o meglio, se potesse diventare ricettacolo di ogni immondizia. Una sorta di metafisica capovolta: invece di rivolgersi all’invisible con timore, eventualmente con vergogna, si crede di poterne fare la propria discarica. Se non si vede, si può fare. Ci si può fare di tutto. Si può fare finta di niente. La logica dei furbi, insomma. In Italia va molto. Forse non ne abbiamo l’esclusiva, ma certo questo assunto raggiunge da noi altezze (o bassezze) mirabili. Eppure lo sanno tutti che il pubblico è una recita e ben altro accade al riparo dalle indiscrezioni. Per quanto abilmente occultato, il privato non è esattamente un segreto. Ne può sempre trapelare documentazione. Come per un’instabilità nel rapporto tra gli opposti, il privato si dà sempre nella sua potenzialità di non restare invisibile, cioè di non restare privato. Inoltre può anche darsi che l’individuo stesso, sebbene molto si adopri per rimuovere consapevolezze sgradite, sia turbato da un vissuto che tende insopprimibilmente ad emergere, a farsi secernere nella vita cosciente. Questo


rende necessarie operazioni repressive sempre più energiche per cancellare il presentimento di sé, per negare la realtà, a partire dalla propria, e ricostruirla. Ci si dissocia da sé, da ciò che in se stessi è intollerabile, per tollerarsi e convivere con sé. Ma l’invisibile non è necessariamente impercettibile, e il represso non necessariamente soppresso—e questo presenta un potenziale di destabilizzazione permanente. Così a volte (per ragioni misteriose e quindi degne di meraviglia) il dispositivo del diniego e della menzogna si inceppa. Abbiamo un soprassalto di coscienza. Come se si fosse aperta una fenditura nella diga, fuoriesce copiosamente la realtà fin’ora nascosta, insostenibile e deforme, e si fa strada un dubbio: forse l’egoismo, la rapacia, l’appetito famelico che innegabilmente caratterizzano l’essere umano non ne descrivono esaurientemente la natura; forse c’è in noi qualcosa di irriducibile ai privati stratagemmi del potere; forse ritorna a vantaggio solo di alcuni (gli abili manipolatori del gioco pubblico) convincerci che è da furbi perseguire l’interesse personale ad ogni costo e con ogni mezzo; forse è intollerabilmente brutta, povera, diminuita, la vita spesa così. È questa la breccia che Platone tenta di aprire: farci provare questo dubbio, coltivarlo come un seme vulnerabile e prezioso. Drammaturgo incisivo, ma ancor di più educatore e psicologo, mette in scena Glaucone (suo fratello, nella realtà storica), e per suo tramite i mali che affliggono Atene. Ma Glaucone, che pure sa dar voce alla retorica dominante con efficace cinismo, superando in questo anche i sofisti, questo ragazzo che pure sa giocare il gioco della giustizia ridotta a vuota eloquenza (strumento dei potenti), ne resta ciò nonostante insoddisfatto, si ribella. Cioè diviene egli stesso figura del dubbio. C’è in Glaucone un disagio, un’irrequietezza. I comportamenti e i costumi del suo tempo non lo assorbono completamente e lui vuole altro, vuole essere nutrito diversamente. È questo che provocatoriamente chiede a Socrate nel dialogo della Repubblica: dimmi qualcosa d’altro, desidero che tu mi parli della giustizia, del bene che essa porta nella vita di chi la cerca e la onora al di là delle apparenze. E di questo nutrimento il dialogo si occuperà, tentando una rieducazione delle giovani vite esposte ad uno spettacolo politico deturpante e malsano. Quello che noi traduciamo come Repubblica è in effetti un dialogo sulla costituzione (politeia): non solo e non tanto la costituzione della polis, ma crucialmente la costituzione dell’anima, vera e propria rifondazione psicologica. Anche in questo la psico-politica platonica si rivela eccedente rispetto alle demarcazioni disciplinari che vorrebbero la scienza politica e la psicologia (la scienza del pubblico e quella del privato) reciprocamente estranee. Parte della grandezza di questo progetto è cominciare dalle cose così come stanno: cominciare dalle malattie presenti, farne diagnosi attenta, capirne l’eziologia, e solo su questa base tentare una guarigione. Cruciale è la volontà di capire senza giustificare, anzi capire proprio per poter giudicare, per scegliere e fare diversamente. Così, sebbene nell’intimità con la menzogna si dia il massimo rischio, al contempo vi si indovina (per quanto filiforme e sempre a rischio) un’opportunità. Dinnanzi allo spettacolo della menzogna sempre più caricaturale, insostenibile, si potrebbe rigenerare, forse, la consapevolezza di uno scarto, un sentimento di sé che fa dire: io non sono solo così, non solo quello, non tutto lì. Ecco dunque la fiducia platonica nella potenzialità umana, o meglio, la convinzione che la natura umana rimanga in gran parte ancora da esplorare,


che ogni sua definizione resti necessariamente parziale e dogmatica, ed essa vada pertanto avvicinata nel suo mistero. È questa fiducia smisurata e visionaria che gli fa affermare che, in circostanze propizie, un essere umano mai accetterebbe di confinarsi nell’inganno e sempre si porrebbe nella ricerca della verità. Dice Platone, tramite Socrate: “nessuno volontariamente consente a falsificazioni in quello che è l’elemento principale del proprio io e nei problemi di capitale importanza…. Tu credi … che io dica qualcosa di straordinario. Dico invece che tutti sarebbero ben poco disposti ad accogliere e conservare nell’anima loro il falso” (Repubblica 382a-c). Se e quando il dubbio, l’inquietudine della domanda, si aprono un varco, il desiderio di chiarezza, di disperdere l’errore e comprendere meglio, ne segue: di vitale importanza è tenere aperto lo spazio di questa possibilità. Non dovette sfuggire a Platone che si contano in grande numero coloro che il falso accolgono in sé e nel falso vivono apparentemente per scelta. Ma, si dice molto più avanti nel dialogo, costoro non sono né liberi né in grado di scegliere, bensì prigionieri di se stessi, delle loro stesse pulsioni, automatiche e incontrollabili. Si tratta di anime distrutte, destrutturate e stravolte, che vivono nel conflitto e proiettano il loro disordine nel mondo, con danno tanto maggiore quanto più potere costoro hanno avuto la sventura di acquisire nella pubblica arena. Valga per tutte l’anima del tiranno, disintegrata al punto da non avere più un contatto affidabile con le cose stesse dentro e fuori di sé, e quindi ormai oltre ogni anelito per la verità. È in questa figura che si riassume l’umanità malata. Poiché essere interiormente divisi, vivere nell’abbaglio e nella rimozione, avere perso l’aderenza alla terra e alla sua misura, e al contempo compiacersi del fango in cui si rotola: è questa stessa la definizione di malattia. Che in molti possano pensare questo stile di vita desiderabile, invidiabile—questa è la radice ultima del problema.


Conversazione con Claudio Mancini* condotta da Mario De Caro*

1) Assessore Mancini, a te è affidato un assessorato della Regione Lazio che suona impegnativo già dal nome: “Assessorato allo sviluppo economico, ricerca, innovazione e turismo”. Iniziamo dallo sviluppo economico. La situazione economica è in Italia la più grave dai tempi dei ladri di biciclette del dopoguerra. Immagino che le risorse siano assai risicate. E’ ancora possibile, allora, una progettualità almeno a medio termine oppure le finanze bastano appena a gestire la normale amministrazione? E, in ogni caso, quali sono secondo te le priorità economiche su cui la politica progressista dovrebbe concentrarsi? Nell’Assessorato allo Sviluppo Economico noi abbiamo scelto di unire le competenze sull’innovazione, la ricerca e il turismo, affiancando di fatto dei settori molto diversi ma che riteniamo siano centrali per le politiche di sviluppo. In questo quadro, il problema non è la quantità di risorse disponibili ma la scelta politica su dove collocarle. Nella nostra regione abbiamo investito molto a sostegno delle università, dei centri di ricerca e delle imprese innovative. Lo stesso abbiamo fatto con i fondi disponibili per il turismo. Di fronte alla crisi economica c’è una spinta, del tutto comprensibile, ad aumentare le risorse per gli ammortizzatori sociali. Cosa che certamente va fatta, ma non a scapito delle politiche di sviluppo. Il turismo, per esempio, superata la crisi sarà il primo settore che ricomincerà a crescere in fatturato e occupazione. Per quanto riguarda la ricerca, poi, dobbiamo tutelare gli investimenti programmati, perché sono quelli che ci aiuteranno a uscire dalla


crisi economica, disegnando una vera prospettiva di sviluppo. Il Lazio è una regione del tutto anomala. Non esiste un sistema regionale in senso stretto: c’è Roma, la Capitale, ci sono i centri di ricerca nazionali, le università romane che hanno un ruolo di riferimento per tutto il Centro Sud e rapporti internazionali consolidati. Partendo da questa peculiarità, noi abbiamo approvato una nuova legge regionale sulla ricerca, l’innovazione e lo sviluppo che ad esempio ha riconosciuto la funzione che i centri di ricerca nazionali svolgono con la loro presenza sul territorio. Ma noi ci troviamo più spesso nella condizione di accompagnare, con gli interventi regionali, le politiche nazionali, in una realtà che vede uno sbilanciamento tra le dimensioni della ricerca e quelle delle imprese, che sono in prevalenza di piccola e media dimensione. Un quadro complesso, che tuttavia non può prescindere da una scelta decisa sul sostengo all’innovazione e alla ricerca, che soffre da sempre per mancanza di investimenti statali ma che si configura invece come un settore chiave per promuovere lo sviluppo. 2) A te tocca anche di gestire la ricerca e l’innovazione nella regione Lazio: un campo in cui se i governi di destra hanno devastato, anche la sinistra ha colpe non lievi. Come funziona, a livello locale, l’interazione tra la Regione e gli enti di ricerca e l’università? E, più in generale, come pensi che la sinistra dovrebbe sanare il suo debito storico verso il mondo della ricerca e dell’innovazione scientifica e tecnologica? Nel nostro Paese c’è complessivamente una sottovalutazione dell’impatto economico e della creazione di ricchezza che viene dall’investimento sulla ricerca e sull’innovazione. È l’effetto di un provincialismo, di un ripiegamento del Paese, di una scarsa internazionalizzazione delle sue classi dirigenti, che rende poco “popolare” l’allocazione di risorse pubbliche in questi campi. Se c’è un ritardo del centrosinistra italiano, con l’eccezione di alcuni leader, è in un deficit di visione globale. Prova ne è, ad esempio, l’enfasi sulla fuga dei cervelli, quando si parla sempre della necessità di trattenerli, ma mai di attrarli. Il nostro problema non è quanti italiani vanno all’estero a svolgere attività di ricerca, ma quanti ricercatori non italiani siano attratti dal nostro Paese. La regionalizzazione delle politiche della ricerca a volte contribuisce ad alimentare nell’opinione pubblica delle impressioni sbagliate. Ci sono settori di punta della filiera università-ricerca-impresa, penso ad esempio all’aerospazio, per i quali è inconcepibile pensare che ogni Regione possa ospitare un distretto, quando il problema dell’aerospazio è quanto i governi europei nel loro insieme investono su questo settore, nel confronto con gli Stati Uniti o con grandi Paesi come Cina e India. Nel Lazio, dove per la presenza della Capitale si concentrano strutture di rilievo nazionale, questo contrasto è ancora più stridente. C’è bisogno di sprovincializzarsi e di investire, concentrando le risorse sulle nostre eccellenze. 3) Infine il tuo assessorato ha anche la competenza al turismo. In questi anni capita però di vedere come paesi turisticamente meno attraenti ci superino, o stiano sul punto di superarci, nelle classifiche dei paesi a più alta attrazione turistica. Cosa si può realisticamente fare nelle nostre regioni per migliorare la nostra situazione? E cosa pensi del fenomeno del turismo di massa? E’ portatore di ricchezza (di scambi culturali oltre che economici) o è una minaccia per la preservazioni dei tesori artistici e naturali? Non sono d’accordo con la premessa, le statistiche vanno lette con attenzione. Se si considerano turisti quelli che si muovono per affari, l’Italia è certamente penalizzata dal non essere una grande piazza finanziaria o produttiva.


Ma dal punto di vista del turismo per vacanza è indubbiamente il primo Paese al mondo. In Italia la ricchezza prodotta dal turismo corrisponde all’11% del Pil, cosa che dovrebbe portare a maggiori investimenti e a maggiore attenzione per la tutela del paesaggio, dei beni culturali, dell’arredo urbano, dei servizi pubblici. Tutte cose che fanno bene ai turisti ma anche alla qualità della vita dei cittadini. Gli abusi edilizi sulle coste non li hanno fatti i turisti, diciamolo. 4) Quattro secoli fa i due processi a Galileo (e prima ancora la condanna di Giordano Bruno) portavamo al suo apogeo il conflitto tra scienza e religione. Dalle condanne che ne seguirono, e dalla cappa che esse imposero sulla libertà di pensiero e di ricerca, la scienza italiana (che allora ancora dominava in Europa) ha sempre stentato a riprendersi. Oggi, dopo qualche decennio di convivenza pacifica, e talora anche feconda, si avverte nuovamente l’insorgere di conflitti, sempre più aspri, tra la visione laica e quella religiosa della vita politica. Cosa ne pensi? La ricerca scientifica, la formazione, la conoscenza rappresentano un valore costituzionale irrinunciabile, che va sempre tutelato e garantito. Io credo che i conflitti tra il pensiero laico, la razionalità scientifica da una parte e la visione religiosa dall’altra, esplodano quando la politica è debole. Anzi, quando manca la politica. Il nostro Paese ha conosciuto una faticosa fase di ingerenze quando lo Stato non è riuscito a difendersi. Lo abbiamo visto con la procreazione assistita, con il caso Welby, la tragica vicenda di Eluana Englaro. Quando al contrario la legittimazione democratica è forte e riesce a garantire il confronto e la tutela dei diritti, questa contrapposizione si contiene. Una politica dotata di autonomia culturale è in grado di dirimere questi conflitti. Ed è chiarissimo che senza la ricerca non si va da nessuna parte. Si tratta di un bene da tutelare sia dal punto di vista economico che sociale e culturale. Ma una guerra laicista non serve. La politica deve fare la sua parte per contenere le ingerenze e difendere la libertà di ricerca, la scuola, l’industria del sapere dagli appetiti economici. Con l’affermarsi delle nuove società multiculturali e multireligiose, la politica è sollecitata in modo inedito a rispondere alle grandi sfide aperte dai traguardi raggiunti con l’innovazione scientifica e tecnologica, sul terreno delle grandi questioni della bioetica. Il progetto politico del Pd è nato anche per dare una risposta adeguata, su un terreno avanzato, a questi temi. 5) Cinque secoli fa il nostro massimo pensatore, Niccolò Machiavelli, additava nella romana “repubblica tumultuaria” il modello politico concreto, non utopistico, a cui bisognerebbe tendere nella vita politica. A suo giudizio, soltanto se le istituzioni si fanno carico dei conflitti, dando voce anche ai ceti politicamente e socialmente più deboli possono far sì che non insorgano i “torbidi” ovvero che la vita politica non degeneri nella corruzione e nella guerra civile. A me pare che il problema fondamentale della politica della sinistra (non solo italiana, ma soprattutto italiana) sia la sua autoreferenzialità, la sua incapacità di dare veramente voce alle istanze profonde della società. La destra, certo, dà voce solo alle istanze viscerali, becere, razziste, alimentandole e facendosene forza. Ma la sinistra come dovrebbe rispondere? La destra ha vinto perché è riuscita a illudere di saper tutelare meglio i ceti deboli. Certamente lo ha fatto con una retorica populista che ha alimentato le istanze più becere. Ma se questo è stato possibile, se nelle periferie ro-


mane ha preso voti Forza Nuova, è perché, in alcuni momenti, è sembrato che nel centrosinistra avessimo smarrito la capacità di tutelare le fasce più deboli. Questo è uno dei motivi forti della sconfitta e la ragione per cui certe fasce sociali si spostano a destra. Di sicuro il centrosinistra ha attraversato momenti di debacle e ha peccato di autoreferenzialità. Nei due anni che ci lasciamo alle spalle, a partire dalla sua nascita, il Pd è stato prigioniero di una discussione interna e di una fase di travaglio, anche per errori politici e di gestione. Ma un soggetto nuovo non nasce per palingenesi e questo momento preparatorio e di discussione va rispettato. Certo questa fase deve avere un termine e ci auguriamo che ne esca un soggetto politico definito, che sia in grado di leggere la storia del Paese e la società attuale, le sue necessità e le sue istanze. Finalmente, con il Congresso alle porte, stiamo attraversando una prova di democrazia reale. Dalla nascita dell’Ulivo, nel ’96, è la prima volta che siamo veramente chiamati a scegliere tra linee politiche diverse e da questo passaggio uscirà un partito e una classe dirigente che dovranno essere l’anima di un soggetto più forte e culturalmente autonomo. Mario De Caro

* Claudio Mancini è nato il 22 febbraio 1969 a Roma, dove vive insieme alla compagna e ai suoi 2 figli. Inizia il suo impegno politico da giovanissimo nel Pci e nel 1992, a 23 anni, viene eletto Presidente della XVI Circoscrizione. Rieletto nella consiliatura successiva, assume incarichi di direzione nella segreteria della federazione Ds di Roma. E’ direttore della rivista di cultura e informazione politica “La lettera”. Nel 2001 è Assessore della Giunta del Municipio XVI con deleghe all’Urbanistica, ai Lavori Pubblici, all’Ambiente e alla Mobilità. Nell’aprile 2005 viene eletto Consigliere della Regione Lazio nella lista “Uniti nell’Ulivo” e assume l’incarico di Presidente della Commissione Bilancio, programmazione economico-finanziaria e partecipazione. È membro della Commissione Sviluppo Economico, Ricerca Innovazione e Turismo e della Commissione Urbanistica. Dal 31 di luglio 2007 è Assessore allo Sviluppo Economico, Ricerca Innovazione e Turismo della giunta Marrazzo. * Mario De Caro è Professore Associato di Filosofia Morale all’Università Roma Tre.


Appunti per il Congresso del PD di Marco Filippeschi e Carmelo Meazza

Mentre Bersani introduce la sua mozione congressuale con un noi, quasi con un atto pubblico di fede, “noi crediamo - scrive - nel progetto cresciuto sulle radici dell’Ulivo”, Franceschini sceglie invece l’intimità della prima persona singolare: “Quando ho pensato al mondo in cui si muove il Partito Democratico, la mia mente è stata assalita da una quantità di immagini,(...), con l’aria mesta e raccolta di un educato diario. Marino, il terzo candidato alla segreteria, fa addirittura campeggiare, in testa al suo piccolo manifesto programmatico, un logo, un po’ superbo, surrogando quello del PD, dove una freccia con la forza di un fulmine indica la strada da percorrere. Diversità di storie e di biografie impresse nello stile di scrittura di queste mozioni congressuali. Il noi di Bersani è naturale e coerente con la sua storia. Nessuno, tuttavia, può pronunciarlo senza tremare. Che cosa o chi evoca infatti il noi? Noi, chi? verrebbe da chiedere subito a Bersani. Chi è questo popolo che dice noi, sapendo, in vario modo, che tutti i più seri problemi non solo delle sinistre, dei progressisti, dei riformisti, ma in generale delle democrazie in Occidente si concentrano proprio qui: chi è o che cos’è il noi nella società in cui viviamo e in cui sempre più andremo a vivere?


Potremmo rispondere noi tutti, tutti coloro che vivono entro certe frontiere, in un certo paesaggio storico e geografico, noi tutti con una medesima lingua, noi che abbiamo sedimentato forme e figure antropologiche, alcune delle quali per primi detestiamo, ma che fanno parte di un ambiente la cui familiarità ci coinvolge nel bene o nel male. Dovremmo dire noi italiani. Il noi di Bersani potrebbe allora declinarsi così: il Pd è il partito di tutti gli italiani, in quanto italiani, nasce per migliorarne le condizioni, il benessere, per proteggerne passato e per promuoverne il futuro. Nasce per difenderne gli interessi nel mondo, per tutelarne l’economia, le imprese, i talenti. Nasce per svolgere un servizio al Paese, all’Italia di oggi. Il noi dunque sarebbe l’interesse dell’Italia e degli italiani. Per Bersani è il punto di partenza e di arrivo e questo fa la differenza. Tuttavia in questa giusta retorica qualcosa non funziona, gira a vuoto, resta senza fiato, delude le attese più autentiche. Questo noi resta ancora troppo generico e confuso e non risponde a troppe domande. La prima difficoltà è che gli italiani sempre meno si autopercepiscono come un noi. Sempre meno si si riconoscono nell’identità di un comune destino. Ricondurre tutto questo, come si sente fare in questi giorni, esclusivamente a quel deficit risorgimentale che ha reso sempre problematica l’identità nazionale e statuale dice solo in parte la verità. Questa spiegazione non è sufficiente a raccontare compiutamente la difficoltà di riconoscersi in un noi, neppure se la aggiornassimo con gli ultimi capitoli di una questione settentrionale diventata leghismo con la sua cultura di secessione diffusa sempre più come un veleno, o il fallimento di tutte le stagioni del meridionalismo con il declino di capitali storiche della questine meridionale e la loro incredibile trasformazione in un leghismo siciliano. Questa crisi dello stato e della nazione rende difficile riconoscersi dentro il noi di un destino comune e mobilitare per un bene comune, per un bene dell’Italia. Naturalmente non è sbagliato fare appelli al senso di responsabilità nazionale, richiamare le memorie. Tuttavia per questa strada si può perdere di vista qualcosa di essenziale. Il noi da tempo si è spostato fuori dai confini degli stati e delle nazioni, oppure si è immiserito, ristretto a piccole patrie, spesso senza riferimenti profondi alla storia, spesso come soggezione alla disgregazione sociale, vertigine per le trasformazioni più repentine o, come sterile pulsione per sfuggire al peggio che trascina un paese al declino, anche alle incrostazioni burocratiche delle democrazie e alle dissipazioni dei welfare. Ci limitiamo ad evidenziare un aspetto che ci pare molto importante. Un partito che oggi si concepisse dentro il perimetro dell’ordinamento statuale o all’interno di ciò che ancora resta dell’identità nazionale compirebbe un passo nella direzione sbagliata, inversa rispetto a quella che sarebbe necessario per farsi interpreti del noi di cui parla Bersani. Se il riformismo di cui tanto si discute vuole avere efficacia, se vuole davvero attraversare gli incroci decisivi del nostro tempo, dovrebbe sapersi collocare in un centro radicalmente diverso rispetto a una lunga tradizione. Questo nuovo centro dev’essere la comunità dell’Europa. Naturalmente occorrerebbe subito distinguere l’Europa dalla retorica dell’europeismo a cui siamo abituati. Dovremmo subito aggiungere: l’Europa non è ciò che si sta realizzando nel nostro continente, e se continua così la sua unità politica sarà un obiettivo sempre più remoto. Se il riformismo non vuol essere una parola vuota e impotente non può che


coniugarsi con un’idea forte e radicale dell’Europa, capace di spezzare molti legami, anche con una certa violenza, edificandone altri, completamente nuovi, consapevoli, ripetiamo che le forze dominanti non spingono in questa direzione e non è sufficiente anche una forte consapevolezza dell’urgenza di tutto questo per renderlo possibile. L’Europa non è ineluttabile come forse è ineluttabile un certo declino con cui dovremo sempre più misurarci nei prossimi decenni. Non sorprende più di tanto il modo con cui le élites dell’Occidente stanno elaborando la crisi profonda dell’economia capitalistica. In qualche modo sono espressione esse stesse della crisi di cui dovrebbero essere coscienza critica e questo forse spiega perché prevalgano le formule più consuete, gli scenari di sempre, le nozioni più familiari e rassicuranti. La stessa cultura della tradizione critica appare cauta e guardinga, ha nella memoria l’enfasi di una retorica della crisi su cui ha costruito la militanza e le profezie nel corso di oltre un secolo e preferisce tenere bassa la voce e guardare non oltre i confini di casa, con uno sguardo sindacale più che con uno sguardo politico. Eppure basterebbe solo un po’ di disincanto per cogliere l’ampiezza, la profondità e soprattutto la novità di questa crisi. Intanto bisognerebbe partire da un’osservazione di fondo: una crisi come questa accade per la prima volta in Occidente. Nella lunga storia del capitalismo in quella parte del mondo che denominiamo Occidente, per la prima volta si pone il problema della perdita del primato mondiale. Non era mai accaduto prima e questa novità dovrebbe essere accolta in tutta la sua dirompenza, insieme con il sistema di effetti che porta con sé. Il capitalismo ha vissuto tante volte un crisi di sistema, in tante circostanze è entrato in contraddizione con se stesso portando alla rovina ordinamenti statuali e sociali, redistribuendo poteri e ricchezze, riconfigurando l’equilibrio tra le classi sociali, di volta in volta promuovendone alcune ed emarginandone altre. Si è giunti persino a pensarne l’esaurimento storico, la sua inevitabile fine, la sua eterogenesi in una società finalmente liberata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Il capitalismo conosce bene la natura della crisi, anzi l’ha conosciuta così a fondo da autoconcepirsi, almeno nella elaborazione delle ideologie in cui afferma la sua egemonia, come il sistema più adatto a trasformare la crisi in progresso, così come i vizi privati in pubblica utilità. La crisi è stata sempre comunque interna al capitalismo e il capitalismo a sua volta è stato organico e comunque espressione del primato economico, culturale e tecnologico di un blocco di nazioni, a loro volta espressione di una civilizzazione che ha avuto la sua matrice in quella complessa combinazione di fattori che nel centro del Mediterraneo hanno condotto le culture ebraiche, cristiane, islamiche, greche ad incontrarsi in forme e figure che non hanno cessato di espandersi e in vario modo di imporsi. Fino a ieri le crisi del capitalismo stavano all’interno di questo orizzonte, stavano all’interno cioè di questo primato. Da alcuni anni non è più così. Il declino viene per la prima volta da una forza il cui cerchio è assai più largo dall’orizzonte che ha dominato negli ultimi secoli di storia mondiale. In questa forza c’è qualcosa di estraneo che facciamo una enorme fatica a delineare e che pone problemi e sentimenti completamenti nuovi. Le potenze asiatiche, e in particolare la Cina non sono semplicemente una eco amplificata del capitalismo occidentale, non sono semplicemente un boomerang. In ogni caso almeno per ora smentiscono un assioma ideologico del capitalismo e cioè che il ciclo della valorizzazione sia possibile solo esclu-


sivamente nel quadro di istituzioni liberaldemocratiche e comunque nelle coordinate di un mercato aperto e concorrenziale. Ciò che sta accadendo costringe a ripensare alcuni luoghi comuni e si potrebbe iniziare a riflettere sul fatto che nello spirito del capitalismo cinese non si può trovare, nel suo fondo, un’etica protestante le cui varianti innumerevoli, in vario modo, hanno marcato l’antropologia dell’homo economicus europeo e americano; per la prima volta nella storia degli ultimi secoli una straordinaria generazione di valore economico e tecnico-scientifico non ha una memoria ebraico cristiana, viene per così dire da un’altra radice, da un innesto di radici che non capiamo facilmente. Così come dovremo riflettere sul fatto che la forza imperiale di un’espansione economica e commerciale avrà come Umwelt, un codice linguistico non facilmente assimilabile, certamente non esposto, confidenziale e saccheggiabile come è stato ed è l’anglo-americano. Avremo a che fare dunque con una potenza dominante che utilizzerà l’angloamericano ma non parlerà in angloamericano e non possiamo dire oggi quali effetti potrà generare questo retroterra così difficilmente accessibile. In ogni caso sono questioni e temi che meriterebbero di stare al centro della riflessione generale; in ogni caso sono più che sufficienti ad evidenziare l’enorme ritardo e debolezza della cultura politica europea a rispondere alle grandi sfide del nostro tempo. Se dunque la crisi non è una semplice caduta congiunturale le risposte non possono essere di tipo tradizionale. Il punto fermo sembra essere il seguente e lo dimostra tra l’altro la stessa forza dell’economia cinese: la politica avrà un ruolo sempre più indispensabile e reclamato per affrontare le sfide di un mondo globalizzato e nell’immediato per affrontare gli effetti devastanti della crisi economica e sociale. Le risposte risolutive non potranno arrivare né dal mercato né da una rinnovata ideologia neocapitalista. Proprio in Europa tuttavia la politica esprime l’impotenza e la crisi della democrazia. Come sappiamo questa impotenza ha molte cause ma la più importante di tutte è data dallo squilibrio tra la globalità dei problemi, la necessità di risposte che spesso devono ribaltare qualità e finalizzazione della crescita, facendo fruttare l’aderenza delle politiche all’ispirazione di un’etica della responsabilità che chiede politica, democrazia funzionante, e la regionalità o la territorialità spesso inerme delle istituzioni della politica. Questo squilibrio è particolarmente acuto e grave proprio in Europa. Se questo squilibrio non verrà sanato al più presto, immaginando nuove istituzioni della politica, le conseguenze per i paesi più deboli come il nostro potranno essere devastanti. In fondo, le risposte nuove di Barack Obama sono possibili perché espresse in un paese grande, saldato in un patto federativo forte, retto da una democrazia funzionante, seppure quel paese sia epicentro e motore primo della crisi. Basterebbe questo per motivare un riformismo radicale. Mentre la crisi economica è così impetuosa e detta un’agenda di interventi immediati, in una situazione nella quale gli Stati nazionali sembrano riacquistare un nuovo vigore può sembrare fuorviante e persino dilatorio questo riferimento all’Europa. Potrà sembrare una inutile distrazione dalla concretezza immediata dei problemi del momento. E invece si dovrebbe trovare la forza per dimostrare esattamente il contrario. Ri-centrare il noi di Bersani in una idea radicale d’Europa significherebbe impegnarsi in un ordine di priorità in cui alcune proposte dovrebbero guadagnare una speciale urgenza anche quando potrebbero apparire distanti, inattuali, irrealistiche, o persino impossi-


bili. Se le generazioni che ci hanno preceduto avessero immaginato il loro presente e il loro futuro con il coraggio e l’audacia con cui noi immaginiamo il nostro presente e il nostro futuro non avremmo avuto la divisione del potere, le istituzioni parlamentari, il suffragio universale, il voto alle donne, per citare quasi a caso alcune conquiste di cui non siamo disposti a fare a meno. Se oggi avessimo il medesimo coraggio e la stessa audacia chiederemmo che i cittadini europei votino per il Parlamento europeo fuori e oltre le quote nazionali, dentro collegi che rompano finalmente con i confini degli attuali Stati. Chiederemo con forza, con un po’ di forza rivoluzionaria, che questo Parlamento eletto a suffragio universale europeo esprima un governo di tutti e per tutti, produca politica e politiche per tutti, dia risposte nuove a bisogni fondamentali nuovi. Un pensiero radicale dell’Europa implica anche, tra le altre cose, una riforma dei partiti, una loro dislocazione e un’apertura senza precedenti almeno per la recente storia; implica, in altri termini, un’effettiva transnazionalità di iscritti e di classe dirigente. Un partito dell’Europa non può che essere un partito europeo. Qualcosa di più, di molto di più rispetto alle logiche di semplice coordinamento con cui gli attuali partiti si organizzano. Tutto questo presenta ostacoli formidabili, sono lì evidentissimi, e tuttavia è l’unico concreto orizzonte di un riformismo responsabile ed efficace. Dobbiamo convincerci che solo un partito ricentrato nell’orizzonte di un’idea radicale d’Europa sarebbe capace di interpretare al meglio un ruolo non subalterno nella crisi della democrazia italiana. Non dovremmo dimenticarci mai che l’Italia appartiene a quelle aree del Continente che subiscono il contraccolpo più pesante dell’impotenza europea. Da noi gli effetti di un’Europa che si limiti alla logica di Bruxelles sono molto più destabilizzanti e incontrollabili. La dimensione del noi nel nostro Paese è sempre più precaria, logorata e instabile e non basteranno certo le celebrazioni per il prossimo anniversario dell’unità d’Italia per rimediare. Nel riformismo socialdemocratico europeo non ha mai avuto molta rilevanza l’unità dell’Europa. Il grande compromesso tra capitalismo e democrazie si è realizzato sul terreno stabile dello Stato nazionale dove la lotta di classe poteva essere abbandonata in cambio di un lavoro stabile, tutelato, professionalmente gratificante, con una pensione dignitosa in un quadro in cui poteva apparire realistica una progressiva estensione del diritti di cittadinanza e di mobilità sociale. Il riformismo socialdemocratico è stato tra gli attori principali di questo grande compromesso il cui presupposto risiedeva nella possibilità di un intervento efficace da parte dello Stato sulle variabili fondamentali di economie in espansione e in crescita. Esso dunque si è in gran parte concepito entro l’area di coincidenza di statualità e nazionalità ed è naturale che il tramonto di questo quadro di riferimento comporti una sua crisi profonda e drammatica. L’impotenza della politica ad affrontare le crescenti emergenze non può che incidere sulla forma stessa della democrazia parlamentare destabilizzando gli stessi equilibri costituzionali. Questa impotenza generale in Italia si somma come sappiamo ad un degrado generale delle realtà della politica nel suo complesso fino al punto che la stessa costituzione di un partito come comunità politica con una comune appartenenza dal Nord al Sud del paese non è scontato e incontra ostacoli formidabili in particolare in quella regionalizzazione del potere di cui si parla troppo poco, destinata a crescere in intensità e in forza destabilizzante. Le sovranità si trovano a non avere istituzioni e molte istituzioni sono senza sovranità. L’emergenza continua determina una costante disponibilità all’eccezione che Berlusconi


interpreta, come sappiamo, imponendo una logica di sovranità regale. Guai a non comprendere che essa è insieme un effetto e una causa o si potrebbe anche dire un farmaco e un veleno. Da un lato contribuisce a portare la crisi della politica ancora più a fondo, impedendo, tra l’altro, l’emersione di leadership naturali e dall’altra si risponde nella logica costante di un commissariamento dell’emergenza. Gli italiani però potrebbero preferire tutto questo se l’alternativa è quella di una democrazia impotente, bloccata, dispersa, senza capacità di decisione. Ecco perché non è sufficiente un’azione di semplice denuncia e protesta e diventa necessario porre la crisi della democrazia al centro di tutto, di un progetto di radicale cambiamento che dia un’identità europea forte al partito che lo impersona.


Un nuovo paradigma per un’altra visione del futuro di Nicola Zingaretti

Come penso sia dovere per chi riveste un ruolo politico, ho annunciato per tempo, in maniera trasparente, il mio sostegno convinto alla candidatura di Pierluigi Bersani a segretario del Partito Democratico. L’ho fatto per una ragione molto semplice: penso che il Pd, così come lo vediamo oggi, non vada bene. Che quello che è stato fatto fino ad oggi non basta. E per questo occorre cambiare, dando una chance a chi, come Bersani, ha dimostrato di avere le capacità e la competenza per prendere in mano il lavoro impegnativo di rifondare su basi culturali e politiche solide una proposta convincente con cui presentarsi al Paese. Ma soprattutto ho visto la possibilità che intorno alla sua candidatura possa tornare a coagularsi un’idea di Pd: un Pd che parli all’Italia. Sostenere una mozione congressuale, non significa, tuttavia, smettere di pensare. Non si tratta di indossare casacche, ma di partecipare al dibattito sostenendo in modo trasparente idee e opzioni politiche. Partecipare a un


congresso di partito, essere in campo, significa contribuire ad un importante passaggio democratico. Il momento in cui una comunità di donne e di uomini si confronta liberamente, assume decisioni, misura le opzioni in campo, indica un progetto comune. Di una cosa sono convinto: il successo del nostro congresso risiederà, soprattutto, nella qualità del nostro dibattito. Credo che il problema fondamentale che abbiamo di fronte sia quello di rimanere fedeli al nostro ordine del giorno. Abbiamo fondato questo partito persuasi che solo dall’incontro di esperienze, culture, riformismi diversi potesse nascere una risposta nuova e convincente alla crisi italiana. Chiudere la lunga transizione nella quale ci ha trascinato l’esaurimento delle grandi tradizioni politiche del Novecento, aprire una prospettiva nuova intorno ad un’idea di coesione nazionale, di benessere e di sviluppo che ci consenta di far entrare il nostro Paese a testa alta nelle nuove sfide della competizione europea e globale del terzo millennio.. Oggi, invece, il nostro Paese è immerso in una profonda crisi civile, sociale, produttiva. Una crisi che ha evidenti risvolti pratici e materiali nella qualità della vita dei cittadini ed altrettanto evidenti ricadute etiche nel campo, sempre più inaridito, dei valori condivisi, in un tessuto civico che regge con sempre maggiore fatica ai colpi dei particolarismi, degli egoismi, della paura, delle troppe campagne “contro” che aggrediscono il senso comune. A noi, allora, il compito di dimostrare da che parte stiamo: parte di questa crisi, o capaci di contribuire alla sua soluzione. Il Pd è nato con questa ambizione. È nato, cioè, dalla convinzione che divisi non ce la facciamo, ma insieme si può provare a mettere insieme una forza organizzata, una cultura politica, un pensiero e una capacità di governo. E che questa forza e questa capacità possano incardinarsi in una nuova missione nazionale: ricostruire l’Italia. Troppo spesso, invece, il nostro dibattito è sembrato avvitarsi in una dimensione autoriflessiva: forme organizzative e regole interne. Non solo la sconfitta, ma soprattutto i segni strutturali di arretramento registrati nel voto europeo e amministrativo di giugno 2009 ci consegnano ora un problema immenso. Ce lo fanno misurare, al di là di ogni auto illusione. Il problema è che se quella era la nostra ambizione, non ci siamo riusciti. O quanto meno, non ci stiamo riuscendo. Il mandato che oggi ci viene consegnato non è solo politico, ma culturale. Tornare ad immergerci nella realtà di un Paese profondamente mutato, comprenderne le trasformazioni, indicare un progetto coerente ed efficace per guidarlo fuori dalle secche nelle quali oggi naviga. Troppo spesso, volgendoci attorno, ci troviamo ad osservare un panorama a tratti irriconoscibile, ricerchiamo inutilmente i nostri luoghi comuni, gli appigli tradizionali che non troviamo più. Forse, da troppo tempo, abbiamo smesso di interrogare il nostro Paese, chiudendoci in un illusorio rifugio di certezze. Ho una sensazione chiara, ce lo dice il nostro elettorato. Sull’elenco dei cinque / sei problemi chiave per il futuro dell’Italia – dalla sicurezza al lavoro, dal rilancio dell’economia alla qualità della pubblica amministrazione, dall’immigrazione alla povertà – gli italiani hanno ritenuto, fino ad oggi, che la proposta della destra fosse migliore della nostra. O meglio: fosse l’unica. La nostra non c’è stata, e se c’è stata, non è apparsa sufficientemente credibile. Il consenso della destra, oggi, appare incrinato da un diffuso clima di sfiducia. Eppure, anche in presenza di un malessere carsico di tante categorie che si interrogano sul domani, non siamo noi gli interlocutori prescelti. Avanzano i partiti antisistema, si afferma il radicamento della Lega, il voto di protesta premia l’Italia dei Valori.


Mai come oggi, prima di parlare di alleanze e di alchimie politiche, dovremmo pensare alla nostra alleanza con i cittadini, al patto che dobbiamo tornare a stringere con l’elettorato. Per questo, con molta franchezza, credo che un congresso impiantato su uno schematismo innovazione / conservazione non sia quello che ci serve. Per affrontare la sfida che ci attende, non basta neanche limitarsi ad indicare un programma di governo. È necessario costruire un nuovo paradigma, dare una visione di futuro, lasciare trasparire una tavola di valori dietro ogni proposta specifica. Un’analisi innovativa della realtà sociale, un nuovo linguaggio della politica, una nuova narrazione unitaria del Paese. Come ci ricorda, nel un suo denso e bellissimo contributo offerto a questo congresso Alfredo Reichlin, il terreno di confronto «è il mondo. È la lotta per cambiarlo. Lotta, cioè scontro con una stratificazione di interessi molto potente. Per reggere questo scontro la carta decisiva è un partito di popolo. È, soprattutto, la grande politica, quella che riorganizza le forze sociali, sposta gli interessi, cambia le menti. Questo è il nuovo».



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