Il “De Vulgari Eloquentia” Il De Vulgari Eloquentia è un'opera filosofica e dottrinaria elaborata da Dante negli stessi anni della stesura del Convivio (1303-1304). Se, tuttavia, quest'ultimo era concepito nelle intenzioni dell'autore come una sistemazione generale del sapere del suo tempo, il De Vulgari è, invece, dedicato a un tema particolare: quello della lingua, e quindi delle strutture retoriche e della letteratura. Si può dire che con questo libro, Dante cominci la storia della letteratura italiana, di cui egli racconta le vicende su un piano geografico, più che storico. Protagonista dell'opera è la lingua volgare, che viene definita dall'autore: 1) cardinale, perché deve essere comune tra tutti gli abitanti della penisola; 2) aulico, perché sia parlato anche nella corti più nobili; 3) curiale, perché le sue regole devono essere fissate dalla "Curia", cioè l'insieme dei saggi e dei sapienti d'Italia. Proprio per giustificare l'adozione del volgare e far sì che questa scelta venisse compresa dai suoi interlocutori, Dante scrive il suo trattato in latino, seguendo le regole più severe della trattatistica del suo tempo. L'opera avrebbe dovuto comporsi, da quanto si capisce, di quattro libri; Dante si fermò, tuttavia, al quattordicesimo capitolo del secondo libro, probabilmente per cominciare la stesura della sua opera maggiore: la Divina Commedia, esempio non più teorico della forza stilistica del volgare. Nel decimo capitolo del primo libro, Dante scrive una vera e propria cartina linguistica dell'Italia, che parte da Sud ed arriva a Nord. Nel sedicesimo, la nuova lingua viene metaforizzata nell'immagine della caccia a una pantera, il cui profumo si fa sentire ovunque ma che non si trova in nessun luogo.