In Aeternum - Anteprima e appendice

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IL PRIMO CAPITOLO E L’APPENDICE


S I LV I A M AT R I C A R D I

IN AETERNUM I fatti non cessano di esistere solo perché noi li ignoriamo

LA SAgA DI ARDIT VoL. III

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Con ordine, affronta il disordine con calma, l’irruenza. Sun Tzu

Silvia Matricardi

Youcanprint 2015

Illustrazione di copertina: opera grafica dell’autrice. Ricostruzione delle sembianze dell’imperatore Nerone e della fanciulla di cera di Lille -4-


R

----Introduzione -----

oma, 1485, tenuta del casale Statuario, fra il V ed il VI miglio della via Appia. gli operai longobardi assunti dai monaci olivetani di Santa Maria Nova, dissotterrano un sarcofago di marmo, sigillato con il piombo. La sepoltura è di epoca romana e risale a quasi 15 secoli prima. gli operai aprono il sarcofago e vi trovano il corpo di una bellissima ragazza, talmente intatta da sembrare appena morta, o addirittura ancora viva e semplicemente addormentata. La notizia ha un’eco dirompente e decine di migliaia di persone si accalcano nel cortile del Palazzo dei Conservatori per ammirare la prodigiosa meraviglia. Il corpo scompare misteriosamente, dopo una breve esposizione, lasciando la folla a bocca asciutta. Roma, 2006, il Ministero dei Beni Culturali acquisisce la tenuta di Santa Maria Nova, sull’Appia antica, e la annette al parco archeologico della Villa dei Quintili. L’operazione viene conclusa ad un prezzo stracciato, grazie al fatto che il casale della tenuta sia infestato dal fantasma della fanciulla della via Appia, rivenuta proprio in quel cortile nel 1485. Un fatto storico misterioso ed un evento di cronaca culturale sono i due spunti portanti di questo romanzo. In Aeternum, frase latina che significa per sempre, nasce da un articolo, o meglio, dalle ricerche giornalistiche che ho effettuato per poterlo scrivere, tuffandomi tra le epistole del XV e XVI secolo. Più leggevo e più mi incuriosivo, sentendo la necessità di raccontare questa storia suggestiva in un contesto più ampio. La misteriosa fanciulla visse e morì in un’epoca particolare: fu contemporanea di Nerone, San Pietro e Simon Mago. Il luogo in cui il suo sarcofago fu rinvenuto, nel XV secolo, era di proprietà dei monaci olivetani di Santa Maria Nova, con monastero e chiesa madre ubicati proprio nel punto dove si svolse il leggendario scontro fra Simon Mago e Simon Pietro, oggi Basilica di Santa Francesca Romana. In Aeternum torna indietro nel tempo, fino all’epoca di Nerone, dando un’identità, un volto ed una storia alla misteriosa fanciulla della via Appia, intrecciando la fantasia con le vicende realmente accadute in quel periodo. La narrazione si svolge anche ai giorni nostri e nei venti secoli che separano le due linee temporali, sviluppandosi in un intreccio ricco di mistero e di elementi paranormali, miscelati con ingredienti storici ed archeologici. C’è l’amore, l’avventura, il giallo, in una mescola di generi che corrisponde all’eterogeneità della vita stessa, dove ci accade un po’ di tutto.

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Tra i protagonisti principali troviamo un Nerone inusuale, fuori dai soliti cliché, ma in linea con le ipotesi della storiografia più attuale, di cui fu pioniere il genio inquieto di gerolamo Cardano, nel 1562 con l’ Elogio a Nerone e di cui un recente esponente è Massimo Fini con Nerone: Duemila anni di calunnie. L’imperatore più controverso e calunniato della storia romana è colto nella sua dimensione umana, di visionario, riformatore e grande statista. Al suo fianco un altro grande e misterioso personaggio: Simon Mago, lo straniero citato negli Atti degli Apostoli come consigliere personale di Nerone. Chi era costui? Un corrotto precursore dell’Anticristo o un discepolo della sconfitta corrente gnostica degli insegnamenti di gesù? Si scontrò davvero con San Pietro, in una sfida al miracolo più eclatante? o tale tradizione è puramente un simbolo della sconfitta della componente gnostica del cristianesimo? gli elementi realistici, tratti dalle cronache storiche, si fondono con quelli leggendari, i dati oggettivi con la magia rituale antica e contemporanea, e tutto viene raccordato con l’immaginazione. Sullo sfondo narrativo scorrono le lotte di potere, lo scontro tra i ricchi ed i deboli, tra paganesimo e cristianesimo nascente, tra tolleranza ed intolleranza. In Aeternum non pretende certo di essere un romanzo storico, ma gli si avvicina molto... senza mai abbandonare del tutto il filone fantasy in cui è inserito. Cos’è la storia? Ventotto anni di giornalismo mi hanno insegnato che la storia è una sequenza di fatti realmente accaduti, ma raccontati nel modo che per i vincitori è più conveniente divulgare. Per questo è inevitabilmente carica di calunnie e pregiudizi nei confronti dei vinti e dei potenti deposti. «Il miglior modo di calunniare qualcuno è quello di porre sotto accusa i suoi atti senza considerarne le motivazioni» diceva gerolamo Cardano nel 1562, «È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio» constatava Albert Einstein secoli dopo. In Aeternum prova a guardare oltre la calunnia, fondendo realtà ed immaginazione, storia e finzione, fino a lasciarle sfumare l’una nell’altra, calandosi profondamente tra Roma ed Anzio, passando per Ardea. L’edizione digitale è corredata da una lunga appendice bibliografica, che include una sezione con il testo integrale delle principali epistole del XV e XVI secolo che parlano della fanciulla della via Appia e che saranno, per la prima volta, raccolte in un’unica opera. Silvia Matricardi Dedico In Aeternum a dossier informare (1994-2015), una splendida ed indimenticabile avventura giornalistica ed editoriale, che ha cambiato la mia storia... e non solo la mia.

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I

----Prefazione ----di Andrea Giuseppe Graziano

n Aeternum si snoda come avvincente trama di un romanzo ad inchiesta, tra le note del fantasy più ardito e quelle del romanzo storico documentato, circostanziato. Si crea un’armonia di generi che non sgomitano per farsi strada ed avanzare l’uno sull’altro, ma si fondono in un nuovo genere, il fantastorico di Silvia Matricardi. Camminò in direzione del santuario di Giove Statore, attraversando la Via Sacra. Si sedette sui gradini di marmo bianco dell’edificio dedicato al dio che impedì ai romani di fuggire dai sabini, cercando per un momento di ricordare quale Danui ci fosse dietro quel mito.

ora tale esempio - estratto tra molti- sembrerebbe confluenza in “banda larga” di informazioni recepite nell’Altrove del mondo ideato dall’autrice, ma in realtà la considerazione che si deve porgere è più complessa: siamo sicuri di essere, noi, contemporanei, nel nostro “vero” mondo di cose, di scadenze, di scorni, d’impazienza che fa precipitare nel vortice della deiezione oggettivante? Perché dopo la lettura del Romanzo, si potrebbe cominciare a percepire quel mondo della Roma Imperiale, penetrato dallo sguardo indagatore, curioso, ricercatore, come vero, autentico, storicamente e idealmente connotato, mentre il Nostro, solo come un languore passeggero, di cose che scorrono e non varrebbe la pena che rimanessero. «Inanna non ha discendenza vivente, in base a quanto ne sappiamo - rispose lei ridacchiando - e nessuno degli Anunnaki è noto per la sua dolcezza. A loro confronto, se le storie tramandate sono vere, la tua bestia feroce è un socievole gattino.» «Non mi piacciono i tuoi antenati, preferisco Venere, la soave dea dell’amore, il cui sangue scorre nelle mie vene, secondo Virgilio.» «E non dimenticare Marte, dio della guerra, che sedusse la vestale Rea Silvia. Il suo sangue scorre in tutti i discendenti di Romolo.» Etia si pentì subito di averlo detto, perché l’imperatore la divorò con gli occhi.

Passato e presente (un presente che è anche in alcuni momenti nell’altrove di una dimensione spazio-tempo fantastica), si fondono in una sapiente costruzione che incede con ritmo deciso, alternato. All’inizio bisogna cercare un corpo, una ragazza: non può essere sparita nel nulla. La scelta di incardinare questa

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recherche tra Ardea, il litorale ricco della presenza Neroniana, Roma, e un “presente alternativo” al comodo quotidiano, è stata coraggiosa, difficile da articolare, ma l’autrice ha assolto il compito, ha vinto la sfida. [ … ] Nerone fece scattare la serratura, usando una seconda chiave, quindi spinse il battente e lo aprì: «È un passaggio segreto - le spiegò mentre con un gesto la invitava a precederlo nel nuovo ambiente - che protegge il più segreto dei passaggi, che useremo per incontrare segretamente gli dei antichi.» «Un segreto che protegge un altro segreto - commentò pensieroso Simone che a sua volta conduce a divinità segrete.»

Ecco che come in tutti i fantasy che si rispettino abbiamo un segreto, e un percorso segreto che conduce a divinità segrete, inaccessibili alle menti deboli e abituate a non vedere, a chiudere gli occhi della mente. Poi c’è l’Archeologia, altra succulente prelibatezza per il lettore, avvinto in un intreccio dal motore ben calibrato:

“Straordinaria scoperta archeologica a Roma. Nel giardino del Casale di Santa Maria Nova, nel corso di lavori di sistemazione dei bagni, in vista dell’apertura al pubblico del sito, è stata rinvenuta una necropoli del I secolo dopo Cristo, interamente dedicata alla sepoltura di bambini. Gli archeologi sono elettrizzati. La strage degli innocenti.” Giulio leggeva avidamente la notizia. 83 tombe, tutte attinenti a bambini defunti fra il 53 ed il 63 dopo Cristo, in piena epoca Neroniana. Al di sotto di ogni lapide vi era un’anfora contenente solo il teschio e, cosa ancora più anomala, l’osso frontale di ciascuno recava inciso il nome del piccolo defunto.

È una condizione di esposizione progressiva allo spazio qualificato del racconto, quella che consente al lettore di entrare in qualche modo negli ambienti, scrutare le iscrizioni, le prove, i reperti osservati grazie al particolare “fuoco narrativo” che la scrittrice dona attraverso parole semplici e chiare, essenziali come l’acqua buona di Roma, per procedere nel vitalismo della storia. Ed è in tal senso che Silvia Matricardi acquisisce il merito più significativo, guadagnato sul campo, nella battaglia per la scelta del linguaggio, delle parole più adatte per “far vedere” al lettore, coi suoi occhi, tante meraviglie: si tratta di una speciale grazia illuminante, che ha saputo rendere la Storia un’avventura; proprio la narrazione storica, quella che solitamente sconforta i giovani studenti di liceo, per la quantità degli elementi, per le inserzioni di variabili complesse, per la collocazione di dati, diviene qui un’arte del racconto che danza per la bellezza con i connotati storici elevati al sublime ideale e fantastico. La vicenda di “In Aeternum” è un’aggraziata danza ad anello tra Storia, Mito, Ideale e Dimensione Fantastica: il lettore ne trarrà anche il beneficio di profondo rasserenamento dell’Anima.

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IN AETERNUM Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato. George Orwell

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«Nerone fu uno strano incrocio fra un principe rinascimentale e un teppista, un ragazzaccio voglioso di vivere, aristocratico e plebeo insieme.» Massimo Fini Nerone: duemila anni di calunnie

Nerone. Opera in bronzo di Claudio Valenti, 2010.

Anzio (Rm), Riviera Mallozzi

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----PROLOGO -----

Duemila anni di calunnie

«N

ogni cosa mi è lecita ma non ogni cosa è utile. ogni cosa mi è lecita ma non diventerò schiavo di alcuna. Prima Lettera di San Paolo Apostolo ai Corinzi

Anzio, 29 giugno 2010 erone Claudio Cesare Augusto Germanico, nato ad Anzio il 15/12/37 d.C. con il nome di Lucio Domizio Enobarbo, figlio di Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina Minore, sorella dell’imperatore Caligola. Nel 54 d.C. divenne imperatore per acclamazione dei pretoriani. Durante il suo principato l’impero conobbe un periodo di pace, di grande splendore e di importanti riforme. Morì il 9/06/68 d.C.» giulio lesse a voce alta l’iscrizione incisa sulla lapide marmorea, ai piedi della statua in bronzo che immortalava l’imperatore più discusso della storia, nell’atto di salutare il mare o, forse, di indicare la via. L’uomo sorrise e posò solennemente in terra il mazzo di calle bianche, che aveva con sé, poi si voltò per scrutare gli occhi di cioccolato di Clarissa: «Dici che è merito nostro?» «Che ieri, proprio qui, nella sua città natale, sia stata posta la prima statua al mondo dedicata a lui, dopo la dannazione della memoria? Non ho alcun dubbio.» Sua moglie aveva risposto carezzando con le dita le lettere scolpite, il volto disteso in un sorriso soddisfatto. «Penso che gli sarebbe piaciuta. Non lo ritrae come militare e neanche come uno sgorbio obeso, ed è stata collocata proprio sui resti della sua casa e del porto che realizzò - poi aggiunse sospirando - non era un santo, aveva - 11 -


le sue debolezze ed i suoi vizi, come tutti, ma non meritava duemila anni di calunnie. Ha fatto quello che era necessario per andare avanti ed ha agito come meglio poteva per aiutare la povera gente, considerate le circostanze. Di quanti statisti e politici si può dire altrettanto?» «Mi morde sempre la gelosia, quando parli di lui in questo modo.» «Non provare a giocare questa carta con me, marito, io cosa dovrei dire? Scommetto che la sogni ancora.» «Scommessa persa, moglie - la rimbeccò ridendo - non la sogno più da quattro anni. Esattamente da quando è tutto finito.» «Guarda un po’ chi c’è laggiù, vicino al parapetto...» giulio l’abbracciò e si voltò nella direzione che lei indicava. Non fu troppo sorpreso di scorgere un uomo molto alto, interamente vestito di scuro, poggiato con la schiena alla balaustra a strapiombo sul mare. Era a braccia conserte e fissava pensieroso la statua di Nerone, le labbra piegate in un sorriso sghembo. «Ti chiedi mai chi sia davvero il nostro amico con gli occhi blu?» domandò ricambiando il cenno di saluto che l’uomo abbozzò, non appena si rese conto che lo stavano guardando. «Preferisco evitare - chiarì Clarissa - è troppo, da accettare, perfino per me. Il suo aiuto è stato decisamente utile e non ci ha chiesto niente in cambio... non voglio sapere altro. Ci tengo a quel minimo di integrità mentale che mi resta.» Scoppiarono entrambi a ridere, mentre osservavano quell’uomo enigmatico infilarsi le mani in tasca ed andarsene via, col passo lento e fluido di un felino. «Secondo te, hanno avuto la pace? Stanno bene?» Domandò giulio, tornando serio. Una lieve folata di vento si levò dal nulla, portando con sé un turbine di candidi petali di rosa che, dopo aver vorticato alcuni istanti intorno a loro, si posarono delicatamente in terra. Con gli occhi sgranati e la bocca aperta, giulio osservò quel soffice tappeto floreale che li circondava, stentando a credere che fosse reale. «Mi sembra una risposta più che esplicita alla tua domanda» commentò Clarissa con un sorriso soddisfatto. - 12 -


----CAPITOLO PRIMO ----Carpe viam

S

I fatti non cessano di esistere solo perché noi li ignoriamo. Aldous Leonard Huxley

Ardea, 10 maggio 2006 profondato in una poltroncina di simil-pelle, sorprendentemente comoda, giulio sfogliava, come un automa, le pagine consunte del quotidiano in dotazione ai clienti del bar. Lo sguardo era piacevolmente annoiato, mentre scorreva pigramente da un titolo all’altro, assaporando, sorso dopo sorso, un ottimo espresso: l’unico che si sarebbe concesso per tutta la durata della mattina. «Gradisci qualche altra cosa, bellezza?» La barista cinguettò dal bancone, sospirando rumorosamente. Era una ragazza magrolina, piena di piercing e con i capelli viola. giulio piegò la bocca in un mezzo sorriso e scosse il capo: «Sto bene così, grazie.» In quel preciso istante tutta la sua attenzione fu improvvisamente calamitata da un articolo specifico. Dimenticò di bere il suo prezioso caffè, scordò il lusinghiero apprezzamento della graziosa ragazza ed ogni altra cosa lo circondasse. Perfino i rumori di fondo del bar sparirono, come per magia. Lesse avidamente fino all’ultima riga, lo sguardo concentratissimo, le pupille dilatate. Quando giunse alla chiosa finale fu preso dalla frenesia e cercò un altro quotidiano, sfogliandolo rapidamente fino a trovare la medesima notizia. Si morse le labbra e tamburellò le dita sul tavolino, mentre leggeva tutto il pezzo da cima a fondo. Era come se fosse scattato un interruttore dentro di lui: doveva saperne di più. Estrasse dal taschino della giacca la sua inseparabile Montblanc a sfera ed usò un tovagliolino di carta per - 13 -


annotare alcuni riferimenti, quindi si alzò, depose una moneta da due euro in bella vista sul piattino del caffè ed uscì quasi di corsa, lasciando nella tazzina addirittura la metà del suo contenuto. Con una smorfia di profonda delusione la barista lasciò il bancone per rassettare il tavolino. Recuperò il denaro, prese i due quotidiani e cercò di capire cosa avesse attirato l’attenzione del suo cliente più bello ed affascinante. A quanto pare si trattava di una notizia di cultura: il casale ed il terreno di Santa Maria Nova, a Roma, lungo la Via Appia Antica, erano stati acquisiti a patrimonio pubblico ed annessi al parco archeologico della Villa dei Quintili. Lesse le prime righe: “C’è forse anche l’involontaria complicità di un fantasma nella riuscita trattativa per rilevare il fondo di Santa Maria Nova. Una storia che risale al 1485, quando proprio lì, davanti all’attuale casale, i monaci Olivetani dissotterrarono un sarcofago romano...”. La ragazza sospirò di nuovo e, scrollando le spalle, ripiegò i giornali, tolse la tazzina e raggiunse la cassiera, passandole i soldi: «Legge e si esalta per roba vecchia, cose di archeologia, non fa per me.» «Quello non fa per nessuna - commentò l’altra lapidaria, restituendole il resto per il fondo mancia - levatelo dalla testa e basta.» «Dici che è gay?» «Dico che è strano. Ha sempre quegli occhioni verdi arrossati, come se avesse pianto. Forse sta attraversando un brutto momento, oppure è proprio suonato.» «Lo consolerei tanto volentieri... è così bello che sembra un attore, quello che interpretava l’ex tennista nell’ultimo film di Woody Allen, per essere precisa, hai presente?» «Match Point?» «Sì, proprio quello, brava! Il protagonista. Come si chiama?» «Jonathan Rhys-Meyers - proclamò prontamente la cassiera, col volto trasfigurato da un’espressione di estatica ammirazione - Sono andata a vedere il film solo per lui. Odio Woody Allen, ma Jonathan... - sospirò e si fece vento con le mani - comunque hai ragione, ora che mi ci fai pensare, vedo che la somiglianza c’è davvero.» ~•~

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Ardea, 25 maggio 2006 La bellissima ragazza gli andò incontro. Era vestita interamente di bianco. Il viso e l’attaccatura dei capelli erano ben esposti, anche se indossava un velo, trattenuto davanti al petto con una spilla ed impuntato sulla sommità della testa ad una voluminosa fascia, che costituiva sia il copricapo che l’acconciatura. I capelli d’oro le scendevano sul seno divisi in sei trecce, sulle quali erano attorcigliati dei nastri rossi. Indossava una tunica, una sopravveste ed un mantello. gli occhi erano neri come il carbone e tristi, come una notte senza stelle. Nella sua voce echeggiava la più cupa disperazione. gli parlò in una lingua che gli sembrò essere latino, ma che non fu in grado di comprendere. Lei parve accorgersene e pianse, scuotendo il capo. giulio allungò la mano per toccarla, desideroso di confortarla, ma non vi fu alcun contatto. Lei non aveva consistenza, era composta solo di... aria e dolore. «Chi sei?» Di nuovo le parole di lei furono incomprensibili, pronunciate tra i singhiozzi, tutte tranne una: «Nihil». La vide fare un gesto con la mano, indicando un punto vicino a sé, mentre le belle labbra si piegavano in un sorriso mesto, appena accennato. L’aria si addensò in un’immagine di lei più giovane, quando era ancora poco più di una bambina. Indossava uno sgargiante velo turchese, appuntato sulla sommità di un alto copricapo cilindrico e drappeggiato sulle spalle, come una stola, che scendeva morbidamente senza coprirle né il volto, né l’aderente tunica nera trapuntata d’oro. Mani, braccia, collo ed orecchie erano adorni di gioielli. C’era qualcosa di orientale e di vetusto nel modo in cui si muoveva. Intorno a lei comparvero tre ancelle, intente ad occuparsi delle sue vesti e dei suoi ornamenti, quindi un uomo adulto, con una lunga tunica finemente drappeggiata. Il nuovo arrivato le pose domande alle quali la ragazzina diede pronte risposte, ottenendo in cambio segni di assenso e sorrisi compiaciuti. I dialoghi erano ancora più oscuri, pronunciati in un idioma che tradiva millenni di antichità. La ragazza vestita di bianco indicò la versione di se stessa più giovane e poi si toccò il petto, quindi aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. - 15 -


Quando se ne accorse si portò le mani al viso e pianse.

giulio si svegliò madido di sudore e lacrime, come accadeva ogni volta che la sognava. Perché era ossessionato da quella ragazza? Imprecò e stese la mano verso il tavolino del salotto, afferrando il blocco da disegno e la matita. Si concentrò, sforzandosi di mettere su carta quello che aveva appena visto, prima di perderne i dettagli. Riuscì nell’impresa solo in parte. Il viso di lei, per quanto si ostinasse a recuperarne le fattezze, restava indefinito, sfocato, sfuggente come un miraggio. Si alzò, afferrò lo smartphone ed inviò un sms al suo amico di sempre, in passato sfigato secchione, oggi affermato psicologo: “Devo vederti. Mi serve uno bravo. Urgente.” La risposta fu quasi immediata: “Solo se hai una birra in frigo. Vengo io tra due ore.” Sorrise e digitò la replica: “Ho di meglio.” ~•~ Il citofono scosse giulio dal torpore in cui era sprofondato concentrandosi sulle ricerche online, si alzò e spinse il tasto di apertura del portone, non riuscendo ad impedirsi di sorridere, appena il monitor gli restituì l’immagine di un dito medio sollevato. Lasciò la porta socchiusa e si diresse in cucina, versando due bicchieri di whisky. «Spero che sia importante - si annunciò Marco entrando - perché la tipa a cui ho appena dato buca era notevole.» «Ciao anche a te - lo accolse giulio facendo dondolare il bicchiere destinato all’amico - e questo è un raro Yamazaki, meglio di una birra, direi.» «In tal caso hai tutta la mia attenzione. Dammi quel nettare e dimmi per quale motivo sono qui.» In un baleno Marco si liberò di giacca e ventiquattrore, accomodandosi sul divano in religiosa attesa. «Sto diventando matto - riassunse porgendogli il tumbler - e questa è la tua specialità.» «Senti le voci?» «Mi succedono cose strane. Sono ossessionato da una storia e la vivo anche nei sogni... in continuazione.» - 16 -


«Vai avanti - lo incoraggiò l’amico - ho sentito di peggio. Cristo santo, ma questo whisky è divino!» «Invecchiato 25 anni. Un gradito omaggio di fine relazione.» «Perché quando finisce una storia io ricevo insulti, mentre tu rare bottiglie che costano più di 150 euro? Lascia stare... non rispondere... continua a descrivere quello che ti sta accadendo.» «Non per infierire, ma lo Yamazaki invecchiato di 25 anni costa più di mille euro a bottiglia, amico mio.» «Quindi mi sono già bevuto 50 euro? Ok, non ci voglio pensare. Vai avanti con la tua storia.» «Un paio di settimane fa ho letto un articolo su un quotidiano, al bar. Parlava di un casale sull’Appia Antica che è stato acquisito a patrimonio pubblico ed annesso al parco archeologico della Villa dei Quintili. La particolarità è che nel terreno intorno a questo edificio, cinquecento anni fa, fu rinvenuto il cadavere di una ragazza sepolta in età imperiale. Un cadavere molto particolare.» «È una storia famosa - lo interruppe Marco sorridendo - la fanciulla bellissima che sembrava appena morta, ma che giaceva nel suo sarcofago da quasi quindici secoli. È lei?» «Sì. Esattamente quella storia e quella ragazza.» «Un caso affascinante e misterioso, non si può non rimanerne colpiti.» «Il punto è che io sento l’impulso irresistibile a saperne di più, a scoprire ogni cosa. Ci penso continuamente, trascorro ore ad effettuare ricerche.» «Non esagerare! L’immaginazione è lo strumento con cui ti guadagni da vivere. Ti sei imbattuto in una storia che ti stimola parecchio. Fino ad ora non c’è nulla di rilevante.» «Io la sogno. Sogno la ragazza. La vedo viva. Lei prova a parlarmi, vuole qualcosa da me ed io… sento un impulso irresistibile che mi spinge ad aiutarla. È come se... è... qualcosa che devo fare ad ogni costo.» «Questo impulso ti impedisce di dormire?» «Non particolarmente.» «Il tuo appetito?» «Invariato.» - 17 -


«Ti lavi con la stessa frequenza di prima?» «Direi di sì.» «Questo impulso ostacola il tuo lavoro?» «Sono in ferie.» «Vita sessuale?» «Non ho una ragazza da un paio di mesi.» «E Sonia?» «Si chiamava Irene ed è finita, appunto, un paio di mesi fa.» «E come ti senti rispetto alla fine della storia con... Paola?» «Fra me e Irene non funzionava. Non è stato un taglio traumatico.» «È lei che ti ha regalato la bottiglia?» «Sì e siamo rimasti in ottimi rapporti.» «Descrivimi questa antica romana.» giulio allungò la mano fino al tavolino e recuperò il blocco dei disegni, quindi lo porse all’amico, che iniziò a sfogliare le illustrazioni con molta attenzione. «È bionda - spiegò passandosi le mani tra i capelli - ha gli occhi neri, è piccola di statura, sembra una ragazzina intorno ai quindici anni, forse anche più giovane, ed è semplicemente bellissima.» «Da quando ti piacciono così giovani?» «Odio profondamente le adolescenti e tu lo sai - sbuffò giulio - ma in questo caso è diverso... lei ha solo l’aspetto di una ragazzina, io sono certo che non lo sia. Mi rendo conto che non ha senso, ma è così.» «È un sogno, diavolo, e nel sogno sono consentite tutte le trasgressioni. E poi, se è un’antica romana, all’epoca erano considerate adulte a tutti gli effetti appena avevano la prima mestruazione. Fate sesso?» «No. Lei ha bisogno che io capisca e faccia qualcosa. Ma io non capisco e quindi non so cosa fare.» «Non le hai mai disegnato il volto - osservò Marco perplesso - mentre hai reso gli abiti e le acconciature con grande precisione di dettagli. Perché?» «Non ricordo mai il viso nitidamente, una volta finito il sogno.» «Interessante. Hai detto che è bionda, con occhi neri, è avvenente e di bassa statura... in pratica corrisponde alla descrizione di tutte le ragazze con cui sei uscito. Sbaglio?» «In effetti - ammise sorpreso dalla scoperta - mi sono sempre piaciute - 18 -


così. Forse sono i parametri del mio ideale di bellezza femminile.» «Bene. La tua ragazza dei sogni ti appare con abiti molto particolari. Che mi dici su questo dettaglio insolito?» «È vestita di bianco.» «Da vergine vestale, se vogliamo essere precisi - lo corresse l’amico psicologo, alzando un dito - sacerdotessa del tempio di Vesta, la dea protettrice del fuoco, della città e dell’impero di Roma. “Io sono Colei che è, e nessun uomo ha mai sollevato il mio velo” dice la dea primigenia... ogni sua sacerdotessa era obbligata alla castità assoluta. In pratica fantastichi su una suora.» «Davvero?» «Non ho alcun dubbio - confermò Marco - sono uscito per ben quattro settimane con una conturbante avvocatessa, che nel tempo libero partecipava a rievocazioni storiche dell’antica Roma. Impersonava una vergine vestale e nell’occasione si abbigliava esattamente così... tranne che per la biancheria intima. È un dettaglio interessante...» «La biancheria intima della tua ex?» «No, il fatto che usi simboli molto precisi. Ragazzina, quindi niente sesso, e sacerdotessa intoccabile votata alla castità... altra negazione sessuale netta. Sei represso?» «No, dottor Freud, il sesso non ha attinenza con questa faccenda, mi è capitato di stare ben più di due mesi in bianco e non è mai accaduto niente di rilevante.» «Bene. Meglio così. Questo ultimo disegno mostra un’altra cosa... ha un’aria proprio insolita.» «Non saprei - ammise perplesso giulio - l’ho vista in quel modo solo una volta e sembrava ancora più giovane, una bambina.» «Ho un cliente professore di storia - lo informò recuperando il telefonino dalla tasca della camicia per scattare una foto - gli chiedo cosa ne pensa.» Digitò per alcuni istanti sul touch screen, quindi riprese a parlare: «Mentre aspettiamo la sua risposta, dimmi che programmi hai per domani.» «Passare la giornata a spulciare questa storia.» «Se ti proponessi un paio di giorni con me, a cercare belle donne in carne ed ossa? Magari non sessualmente represse? Dimmi cosa provi - 19 -


all’idea.» «Mi viene da ridere ma sono anche infastidito, perché mi distoglierebbe da... questo. Ti direi di no. Sono molto grave?» Un buffo suono di notifica di un sms li interruppe, giulio si avvicinò all’amico. «Interessante - commentò Marco leggendo il messaggio - il professore dice che si tratta di una nobile mesopotamica del periodo di dominazione dei Parti, con influenze romane di epoca imperiale. Il periodo di Cristo, circa. La tua antica bellezza romana era una vestale, ma veniva dall’Iraq.» «Quanto sono grave?» «Anche se ti conosco da una vita e sono esageratamente bravo, non è che una valutazione approfondita si possa fare in qualche ora. Non potrei comunque procedere, perché siamo vecchi amici.» «Lo so. Ma dimmi se mi devi consigliare un collega oppure no.» «Sei un po’ stressato, sei parecchio preso e completamente assorbito da qualcosa che ti fornisce potenti stimoli immaginali. Ovviamente ci sono degli elementi, in questa vicenda, che colpiscono note importanti del tuo passato, qualcosa che hai sepolto talmente in profondità che stenti a ricostruirne i dettagli. Qualcosa che tu desideri affrontare adesso. Hai dei demoni personali da sconfiggere, come tutti noi. Niente di più e niente di meno.» «Quindi non sono impazzito?» «Siamo tutti folli, amico mio, chi si pone il quesito lo è un po’ meno, chi è assolutamente certo di essere sano di mente è in fase terminale. Il tuo affannarti dietro ad una evanescente creatura dei sogni non è più pazzoide del mio correre dietro a qualsiasi essere umano di sesso femminile.» «Ok. Sono matto ma non troppo.» «Qualcosa del genere. Ed ora versami dell’altro scotch.» «Whisky, Marco, questo non è uno scozzese. Non puoi fare una tale confusione proprio tu!» giulio sbarrò gli occhi, mentre provvedeva ad esaudire la richiesta dell’amico. «Touché.» «Devo insistere ed assecondare l’ossessione?» - 20 -


«Sì, a mio parere - confermò Marco, deglutendo il superalcolico con espressione estasiata - per quel che posso dedurre, il tuo subconscio ha trovato un modo per farti risolvere una vecchia questione. Consideralo come un coinquilino del tuo stesso corpo, che non può avere un controllo diretto ma è in grado di comunicare con te attraverso i sogni, le emozioni apparentemente immotivate e le pulsioni. Hai sempre scelto ragazze con caratteristiche fisiche ben precise, che tornano in questa creatura: anche questo, secondo me, è un segno evidente che siamo davanti ad un suggerimento del tuo subconscio. Ti esorta a scoprire qualcosa di te stesso e del tuo passato.» «Perché gli abiti da vestale romana? O quelli da nobile irachena?» «Simboli, simboli che puntano al passato e che escludono il sesso argomentò alzando le spalle - funziona come nei sogni. Magari hai visto qualche documentario o qualche film storico da bambino, il subconscio ha archiviato le informazioni e le usa come simboli per quello che ti vuole dire. L’innesco è stato leggere quell’articolo.» «Consolante.» «Ne berrei un altro con grande piacere, ma devo guidare. Ti darei il recapito di una persona qualificata - aggiunse rovistando di nuovo sullo schermo dello smartphone - ti ricordi di Clarissa?» «La rossa della sezione C, quella che ti respingeva?» «Già - confermò con un sospiro divertito - l’unica, di tutto il nostro liceo, che non me l’abbia mai data.» «Parli come se fossi andato a letto con tutte le compagne di scuola del plesso... falla finita.» «Con tutte quelle che ho corteggiato. Tranne una. Ero un secchione ma piacevo. Comunque, io e Clarissa siamo rimasti in contatto. In questi anni ha preso cinque o sei lauree, è una specie di genio. Credo tu debba raccontarle questa storia. Io mi considero un materialista con la mente aperta, ma lei ha un approccio... molto più aperto del mio.» «Anche lei strizzacervelli?» «Tra le altre cose» «Ah... allora sono grave...» «Non esercita - lo informò scuotendo il capo - ma assiste le persone con problemi... diciamo... particolari. Il suo settore di intervento è situato - 21 -


oltre il punto massimo dove io sia disposto ad arrivare..» «Sii più chiaro, per favore.» Marco si alzò per recuperare giacca e valigetta, sospirò, mentre si preparava ad uscire e finalmente aggiunse: «Clarissa può considerare il caso anche per quel che sembra essere: il fantasma di una ragazzina irachena dell’antica Roma che vuole comunicare con te. Io non posso e non voglio arrivarci. Io devo parlare solo di subconscio e di simboli. Ti invio il suo recapito e le mando un messaggio di preavviso?» «Fallo - annuì giulio - e grazie.» «Domani vieni in spiaggia con me - lo informò Marco allontanandosi non accetto un no come risposta e ci sentiamo dopo per i dettagli.» ~•~

Roma, anno 791 ab urbe condita, anno primo del principato di Gaio Giulio Cesare Germanico, detto Caligola [38 d.C.] «Pessima idea, Kalla - andava ripetendo Simush, mentre consumava il pavimento marmoreo, percorrendone lo stesso tratto ripetutamente, avanti e indietro - davvero pessima. La peggiore che potessi avere.» «Il mio nome romano è Etia - precisò la bambina, per nulla intimorita dal malumore del fratello - e non avevo altra scelta. Sei l’ultimo brandello di famiglia che mi resta e nella terra tra i fiumi il sangue scorre più copioso dell’acqua, ormai...» «Neanche Roma è un luogo sicuro - obiettò puntandole addosso il suo sguardo penetrante - il nuovo Cesare è instabile, sia nel potere che nella mente... e già non riesco a contare le congiure per ucciderlo.» «Anche io penso che il regno di Caligola durerà poco - concordò Etia incrociando le dita delle minuscole e curatissime mani - ma, a dispetto delle lotte di potere, Roma ha ancora una lunghissima vita davanti. Ci vorranno secoli prima che questo gigante tremi davvero e si sgretoli, se mai arriverà quel giorno.» «Tutti gli imperi crollano - le ricordò lui - è solo una questione di tempo.» «È vero - convenne la piccola, sospirando - e dopo il crollo ci sono le guerre sanguinose, le conquiste, le rivolte e le stragi. Lo so bene perché - 22 -


Kiengir è da secoli in questa fase e non credo ne uscirà mai più. La situazione diventa sempre più instabile e non c’è un solo impero che non le rivolga sguardi bramosi. La definiresti un posto sicuro?» «A Kiengir la discendenza divina è ancora rispettata - obiettò con non molta convinzione Simush - per i romani, invece, è... tutto diverso. Chi dichiara di avere antenati nell’Olimpo non ne ha davvero, al contrario, coloro che potrebbero reclamare natali tra i numi, ammantano di segreto la loro natura. I nostri dei sono lontani ed irraggiungibili, i loro si occultano tra le persone ordinarie, ma non sono mai partiti. Non li hanno mai abbandonati. Sorvegliano a distanza, non cercano il potere... sono invisibili.» «Il sangue degli dei non garantisce alcuna protezione dagli eserciti invasori. Lo sappiamo entrambi. Al contrario, entrare nelle maglie della catena di comando dell’impero più stabile del mondo, divenire figure indispensabili, elementi preziosi per chiunque ne detenga il potere... questo sì che ci può tenere al sicuro. E se anche ci dovessero scoprire questi dei nascosti - aggiunse la piccola con un sorriso furbo - nella misura in cui la nostra presenza non susciti instabilità o pericoli per i loro protetti, non avrebbero motivo per farci del male. Siamo più al sicuro qui che altrove. Entrambi.» «Hai ragione, come sempre - ammise abbracciandola - la tua saggezza mi è mancata molto, sorellina.» «Mi sarebbe piaciuto raggiungerti mentre eri nelle terre del nord, quando ti chiamavano Simon Drui.» «Non sono più sicure neanche quelle - rivelò lui sospirando - e la mia longevità, perfino come mago, cominciava a farsi notare troppo. Il gran druido Mog Ruith invecchiava ed il suo maestro no… mi è dispiaciuto andare via, quelle genti sono così interessanti.» «La coppia di patrizi che mi ha portato in città, Etio e la sua sposa, mi hanno adottata legalmente - lo informò, sciogliendo l’abbraccio - sono cittadina romana a tutti gli effetti.» «Ottima precauzione - approvò annuendo compiaciuto - la cittadinanza ti fornisce una certa protezione, la famiglia in questione è antica e prestigiosa, abbastanza estranea alle lotte di potere. Probabilmente Caligola non li farà uccidere, se continueranno saggiamente a non - 23 -


intromettersi nel terreno di scontro.» «Quanta stima ha di te l’imperatore Caligola?» «Per ora mi tiene in grande considerazione.» «Mi risulta che una delle sacre vestali stia per terminare il suo ufficio proseguì Etia soddisfatta - credi di riuscire a convincerlo a nominarmi al suo posto?» «Credo sia possibile - la rassicurò sorridendo - ed aggiungo che è una splendida idea. Quanti anni hanno dichiarato che hai?» «Sei.» «Ne dimostri qualcuno in più, ma sembri ancora una bambina. Perfetta per entrare nel tempio - annuì lisciandosi la barba - ti annoierai per 30 anni, ma la tua... anomalia apparirà come un dono di Vesta, in virtù del quale non solo sarai al sicuro, ma avrai prestigio e potere.» «E tu, invece? Quella barba non funzionerà ancora per molto...» «Sono a Roma da pochi anni - minimizzò Simush - ce ne vorranno almeno altri dieci prima che me ne debba preoccupare. Confido di rafforzare la mia immagine di magus a sufficienza da poter usare i poteri magici come giustificazione accettabile. I romani credono nella magia, la temono e la rispettano.» «È anche vietata e punita. Sei sicuro di non correre rischi?» «Le Dodici Tavole e la Lex Cornelia puniscono l’uso di qualsiasi strumento, inclusa la magia, per procurare la morte o il danno agli altri cittadini ed io non ho alcuna intenzione di prestarmi a questi usi. Non preoccuparti per me.» «Sei mio fratello e l’unico parente in vita che mi resta - obiettò Etia non smetterò mai di preoccuparmi per te. Sono la sorella maggiore, questo è e sarà sempre il mio compito.» «Questo è ciò che sei, ma non ciò che appari - la rimproverò carezzandole una guancia - agli occhi di tutti io sono il fratello maggiore e tu devi parlare come una bambina. Una piccola, dolce romana, ingenua ed ignara della vita.» «Lo so, lo so - confermò sbuffando - essere figli di due madri diverse è una seccatura, neanche immagini quanto volentieri farei a meno della dose aggiuntiva di sangue divino per vedere il mio corpo crescere meno lentamente... ma la vita non ci consente di scegliere tutto.» - 24 -


«Sei la persona più forte e saggia che conosca - la incoraggiò Simush e stai per diventare una donna bellissima. Fra pochi anni sembrerai meno bambina ed incanterai qualsiasi uomo.» «La mia stima è di dieci anni - confermò lei sbuffando di nuovo - ancora dieci lunghi anni per uscire finalmente da secoli di infanzia. Quando terminerò il trentennio da vestale dovrei apparire come una fanciulla di 15 anni. Da quel momento in poi sarà tutto più facile... con un po’ di fortuna... sempre che tu riesca a farmi entrare nel Tempio.» «Me ne occupo immediatamente. Caligola adora l’oriente e la stravaganza. Rivelerò solo a lui che sei mia sorella. L’imperatore tratta i prìncipi Parti non come ostaggi ma quali ospiti di gran riguardo, e cerca la mia compagnia soprattutto per i miei natali esotici. Sono abbastanza fiducioso che gli piacerà l’idea di una vestale con il sangue reale delle antiche dinastie divine.» ~•~

Roma, anno 792 ab urbe condita, anno secondo del principato di Gaio Giulio Cesare Germanico, detto Caligola [39 d.C.] L’imperatore e pontefice maximo che tutti chiamavano Caligola, per via dei calzari militari, che amava indossare fin da quando era bambino, era seduto sul trono del re dei sacrifici, con il capo velato e l’espressione solenne. gaio Cesare, considerato da molti un pazzo, era un uomo altissimo, di bell’aspetto e con un fisico agile. Il velo lo rendeva austero, facendo risaltare gli occhi incavati e penetranti. Non aveva affatto lo sguardo di un folle, ma incuteva sicuramente timore. Etia si avvicinò con passo elegante e sicuro, forte del suo incedere regale, allenato ed affinato in centinaia di anni. Fu scortata dai genitori adottivi fino al punto in cui era previsto che si fermassero, e dove era loro concesso rivolgere un composto e solenne saluto di commiato. Caligola si alzò dal trono e si avvicinò, guardandola negli occhi, quindi si chinò per prenderle la mano, conducendola lentamente nei pressi del trono. Il suo era un tocco sorprendentemente delicato e gentile, rispettoso. Quando le indicò il pavimento con un cenno del capo, Etia prontamente si inginocchiò. - 25 -


«Sarai affrancata per sempre dalla patria potestà, onorata dagli uomini e gradita agli dei - esordì l’imperatore e pontefice maximo, iniziando a pronunciare la formula rituale, inalterata da centinaia di anni - sarai sacra, intoccabile ed inviolabile. Vivrai nell’agio, servita e riverita. Avrai diritti che alle altre donne non sono né saranno mai concessi. Avrai una rendita personale dalle casse imperiali e sarai padrona dei tuoi averi, fino alla tua morte ed oltre, perché potrai disporre testamento. Se morrai da vestale, sarai sepolta entro le mura dell’Urbe, perché il tuo corpo sarà puro e sacro anche dopo la morte. Se morrai dopo il tuo ufficio, sarai sepolta dove desidererai. La tua parola avrà peso, perché Vesta parlerà per mezzo di te. Non dovrai chinare il capo davanti a nessun mortale. Sarai libera di recarti dove vuoi, quando i tuoi doveri te lo consentiranno, e non dovrai spiegare a nessuno la ragione dei tuoi spostamenti o delle tue azioni. Ti è concessa una scorta personale, a tua scelta fra chiunque abbia votato la sua spada a Roma. È un tuo diritto, ma non un obbligo. Sarai una sacra sacerdotessa vestale. Hai compreso i tuoi privilegi?» «Li ho compresi, pontefice maximo.» «Ti si chiede, in cambio, per trenta anni, contati a partire da oggi, di non cercare altra felicità se non nel tuo sacerdozio. Ti si chiede di custodire la tua castità ed il focolare di Vesta, sia in stato di salute che in stato di infermità. Qualsiasi fatto avvenga, a qualunque costo e con qualsiasi sacrificio. Inclusa la tua stessa vita. Non ci sono eccezioni a questi doveri. Acconsenti?» «Acconsento e ne sono onorata, pontefice maximo.» «Sarai novizia e tenuta all’obbedienza alla vestale massima per i primi dieci anni. Risponderai soltanto a lei ed al pontefice maximo. Acconsenti?» «Acconsento e ne sono onorata.» «Trascorso un trentennio potrai scegliere se rinnovare il tuo sacro servizio, di anno in anno, oppure lasciare il Tempio e vivere da nobile ed onorata cittadina romana, decidendo da sola se e con chi contrarre nozze. Acconsenti?» «Acconsento e ne sono onorata.» Il terzo assenso costituiva l’accettazione definitiva e la prova della spontaneità della scelta della - 26 -


vergine, perché la dea non avrebbe mai benedetto una sacerdotessa a cui fosse stato imposto di entrare nel suo tempio. «Mia cara ed amata Etia, figlia di sangue reale del nostro impero, quale sacerdotessa vestale dedicata agli dei per i sacri uffici e per la prosperità del popolo romano io ti accetto e ti prendo.» Caligola le sorrise, tendendole la mano, lei si alzò prontamente e si fece condurre al di fuori della casa regale, attraverso l’atrio di Vesta, fino al giardino della dimora delle consorelle, all’ombra del Loto crinito, l’albero dei capelli. Lì l’attendeva la vestale massima Vibia, in compagnia delle altre quattro sacerdotesse. La decana aveva già completato il trentennio, scegliendo, per due anni consecutivi, di restare al Tempio. Era una donna di bell’aspetto, con lineamenti regolari ed uno sguardo severo. Uno sguardo che in quel momento era posato su Etia, come per leggerle nell’anima. E sembrava trasmettere una nota di rimprovero. «La vergine è presa - annunciò Caligola, ponendo la mano della novizia in quella di Vibia - il sacro collegio è di nuovo completo.» Con la lama rituale le fu quindi tagliata la lunghissima chioma bionda, che venne posta solennemente nelle mani del pontefice maximo. Questi la legò con un nastro rosso e l’annodò ad un ramo pieno di fiori bianchi. «È la prima e l’unica volta che il tuo corpo sarà violato, come pegno e simbolo della vita a cui rinunci» annunciò l’imperatore, concludendo così la cerimonia. «Novizia Etia - proclamò Vibia, ad un cenno di Caligola - benvenuta nella tua casa, benvenuta nella dimora di Vesta.» Senza dire una parola, Etia si incamminò docilmente dietro alla donna a cui avrebbe dovuto obbedire per i successivi dieci anni. “È fatta - pensò sorridendo - ora sono al sicuro.” ~•~

Ardea, 25 maggio 2006 La vestale era seduta sul bordo di un sarcofago di pietra, la cui superficie non presentava alcuna iscrizione né mostrava figure scolpite. Lacrime silenziose brillavano come diamanti sulle sue guance pallide: «Carpe viam» mormorò, guardandolo dritto negli occhi. Fra le mani - 27 -


aveva un fiore bianco, che giulio riconobbe essere una delicata calla. «Chi sei? - le domandò, avvicinandosi timidamente - Come posso aiutarti? Cosa devo fare?» «Carpe viam et susceptum perfice munus» rispose porgendogli il fiore. giulio si svegliò in preda all’angoscia ed alla frustrazione. Annotò sul blocco dei disegni le parole che la ragazza gli aveva sussurrato in sogno, quindi accese il portatile e ne controllò il significato su internet: «Intraprendi il tuo cammino e porta a termine ciò che hai iniziato.» ~•~

Roma, anno 801 ab urbe condita, anno ottavo del principato di Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico [48 d.C.] Tutte le sacre vestali, tranne una, rimasta a guardia del focolare eterno, erano state convocate a palazzo. L’imperatore Claudio desiderava la benedizione della dea e di giove Capitolino sulle sue nozze con la bellissima Agrippina Minore. Il noviziato di Etia era appena finito e la vestale massima Vibia le aveva affidato il compito di preparare sia la mola salsa che la muries con cui cospargere gli animali che sarebbero stati sacrificati per i buoni auspici di tale prestigioso matrimonio. La giovane sacerdotessa era intenta a pestare il sale nel mortaio, mescolandolo lentamente con l’acqua attinta dalla fonte giuturna, quando la decana la raggiunse. «Il forno è pronto?» domandò Vibia, controllando attentamente le terrine con l’impasto schiacciato, regolarmente segnato dai sette raggi rituali. «Le pareti sono bianche - sottolineò Etia - come puoi constatare.» «Allora procedi e non perdere tempo. Il pontefice maximo ci aspetta.» Etia fu sorpresa che la donna non avesse trovato un motivo per redarguirla. Da anni, ormai, la decana era sempre particolarmente scontrosa e rude con lei e sembrava che nulla, di quanto lei facesse, fosse mai adeguato. Etia non riusciva a comprenderne le motivazioni, ma che vi fosse una forte avversione era un dato di fatto. Con pochi e sapienti gesti rituali la giovane sparse il condimento sulle focacce, sigillò le terrine col gesso e le infornò, una dopo l’altra. Attese il tempo dovuto, quindi le estrasse ed iniziò a disporle nelle ceste, domandandosi per - 28 -


quale motivo Vibia l’avesse inclusa tra le sacerdotesse che avrebbero presenziato al rito di nozze e non le avesse, invece, assegnato la sorveglianza al focolare sacro. L’esperienza le insegnava che in simili casi esisteva sempre un motivo e non era mai a vantaggio di chi sembrava favorire. Insomma, Etia si aspettava una trappola di qualche tipo, una strategia della vestale massima per farle fare brutta figura davanti all’imperatore ed alla sua temibile sposa. ~•~ La cerimonia di confarreatio terminò in modo impeccabile. gli sposi si tenevano per mano, mentre la mola salsa veniva offerta a giove Capitolino, dopo aver sacrificato sette buoi e sette pecore. L’auspex esaminò i visceri degli animali e diede il suo silenzioso consenso: gli dei gradivano quell’unione. Agrippina era bellissima, con la chioma rossa acconciata come le vestali, avvolta in un velo di seta color arancione fiammeggiante, decorato con fiori di mirto e d’arancio. Sorrise e fu la prima a pronunciare la formula di rito: «Ubi tu gaius, ego gaia.» L’imperatore Claudio le fece eco subito dopo, meno fluidamente, a causa della sua balbuzie: «U-ubi tu ga-ga-gaia, e-ego ga-gaiuf.» Claudio non era un uomo che colpiva per la sua avvenenza. Aveva già superato i cinquanta anni e sembrava ancora più anziano, zoppicava ed era stempiato, oltre che balbuziente; tuttavia, nel suo sguardo, Etia vide riflessa una spiccata intelligenza, oltre all’intensità dell’amore che provava per la sua bellissima sposa. Per un fugace istante, la giovane vestale sognò di essere guardata in quello stesso modo da un uomo, ma represse subito quel pensiero inopportuno: l’amore era l’ultima delle sue preoccupazioni. Lucio Domizio osservava silenzioso la madre intrappolare l’imperatore di Roma, cercando di dissimulare un sorriso sarcastico, quando il suo sguardo disincantato si posò su una delle vestali. La ragazza aveva i capelli del colore dell’oro e gli occhi neri come il carbone. La pelle nivea la faceva sembrare una ninfa e si muoveva con la grazia di una dea. Lucio non aveva mai visto una fanciulla più bella e dubitò che ne esistessero: «Fa impallidire Afrodite» mormorò. «È una vestale e tu hai solo undici anni» sentenziò il piccolo Britannico, intercettando il suo sguardo e le sue parole incaute. - 29 -


«Cosa vuoi capirne tu, che non hai nemmeno compiuto il settimo anno?» lo rimbeccò Lucio, incrociando le braccia al petto e continuando a fissare la bellissima sacerdotessa. «Capisco che posso dirlo a tua madre, e che sicuramente lei si arrabbierà.» «Un ricatto... interessante. Come posso comprare il tuo silenzio?» «Facendomi salire sulla quadriga, con te.» «Origliavi quello che stavano dicendo tuo padre e mia madre ieri sera?» Si informò Lucio sorridendo. «È possibile che io abbia sentito chi sarà tua moglie.» «Allora, accetto il prezzo del tuo silenzio e rilancio: riferiscimi il loro discorso e ti insegnerò a condurre la quadriga da solo.» «Affare fatto» accettò prontamente Britannico. ~•~

Roma, anno 805 ab urbe condita, anno dodicesimo del principato di Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico [53 d.C.] Ritta ed immobile, in piedi davanti al trono del re dei sacrifici, la vestale Etia ascoltava in silenzio le calunnie di Vibia, cercando di rimanere impassibile, con un sorriso sereno ed imperturbabile stampato sul viso. In realtà era tesa come le corde di una cetra, perché la sua vita era in grave pericolo. Forse più di quanto lo fosse mai stata in passato. «Ella ha mancato il sacro obbligo di inviolabilità del suo corpo esclamò la decana con voce greve - ella non ha più la verginità originaria.» La megera proseguì elencando le sue falsità: nella dimora del senatore Marcello, dove Etia si recava spesso, ella consumava abitualmente l’incesto con un nobile ospite, come testimoniato da uno schiavo del senatore. «Mu-muo-vi una un’accu-cufa mo- mollto grave - commentò il pontefice maximo - nei co... nei confronti di u-una fa-facerdoteffa tu... tua conforella. E tu, Etia, cofa rifpondi?» Lo sguardo dell’imperatore Claudio era quello di un uomo intelligente, comprensivo, segnato da una giovinezza di rifiuto e scherno. Un uomo allontanato dalla sua stessa famiglia a causa dei difetti nel parlare e nell’incedere. - 30 -


«Il mio corpo è intatto, esattamente come lo era il giorno in cui entrai nel tempio - esclamò la giovane guardandolo dritto negli occhi - vengo ingiustamente tacciata di aver commesso un crimine che mi è estraneo. Poiché la vestale massima mi accusa, chiedo che una vestale massima parli in mio favore.» «Co-co-conceffo - approvò l’imperatore - entri Marcia, ve-veftale mamaffima di Civita Lavinia.» La vergine Marcia era famosa per aver fermato un terribile terremoto. Lo aveva fatto quando ancora era novizia, gettando il suo velo in terra. Era in servizio da oltre quaranta anni e la terra non aveva più tremato, da quel giorno. Non vi era sacerdotessa più prestigiosa di lei. Etia sorrise e ringraziò la fortuna per l’ascendente che suo fratello Simush aveva sull’imperatore. «Vestale Vibia - esordì la nuova arrivata - lo schiavo che accusa la consorella è stato torturato?» «Come da antica consuetudine e senza violare alcuna legge» segnalò cautamente l’altra, aggrottando la fronte. «È stato torturato prima o dopo aver denunciato l’incesto?» «Prima, naturalmente.» «E la tortura legale è avvenuta in base a quale comportamento sospetto o prodigio nefasto?» «Nutrivo dei sospetti su Etia.» «Motivati da cosa?» «Dalle sue visite nella dimora del senatore Marcello.» «E come sapevi quale fosse la destinazione dei suoi spostamenti?» «Io l’ho controllata.» «E per quale motivo?» «Perché mi insospettiva, come ho già spiegato.» «E cosa ti insospettiva, prima di scoprire dove si recasse?» «Mi sono confusa. Intendevo dire che ho scoperto casualmente che si recava spesso dal senatore e questo mi ha insospettita.» «Grazie, ora è tutto chiaro, per un momento ho temuto che tu l’avessi controllata senza motivo, invece è stato il caso. Molto bene. Una volta scoperta casualmente tale abitudine, dunque, per fugare i tuoi sospetti, hai interrogato lo schiavo e poi lo hai torturato?» - 31 -


«È così. Era mio dovere appurare la verità, per evitare di correre il rischio che mani impure stessero contaminando il Tempio di Vesta.» «Prima di essere torturato, cosa disse lo schiavo riguardo quelle visite?» «Dichiarò che la vestale si intratteneva in lunghissime conversazioni con uno degli ospiti del senatore, fin da quando era novizia.» «Lo schiavo ha riferito dell’incesto solo durante la tortura?» «È così» confermò la donna. «Avete interrogato il senatore Marcello?» «Egli ha confermato le visite.» «Gli hai chiesto di dirtene il motivo?» «Non era necessario disturbare il senatore, costringendolo a fare illazioni.» «Non era opportuno. Comprendo. E chi è, secondo te, il complice dell’incesto di Etia?» «L’ospite più illustre del senatore, il Mago Simone. È lui l’uomo indicato dallo schiavo.» «Vestale Etia - proseguì Marcia, rivolta all’accusata - è vero che dal giorno in cui sei entrata nel Tempio, visiti regolarmente la casa del senatore Marcello?» «È vero - confermò Etia - la visito tanto spesso quanto la dimora dei miei genitori e vi sono, in entrambe, delle stanze a me riservate.» «Quando parli dei tuoi genitori - incalzò Marcia - a chi ti riferisci esattamente?» «Alla famiglia degli Etii, Settimo Etio e Cornelia, che mi hanno legalmente adottato come figlia.» «Chi è a conoscenza dell’identità della tua famiglia natale?» «Lo era il pontefice maximo che mi scelse ed ammise al tempio, ed il cui nome non può essere pronunciato, lo sono i miei genitori adottivi, lo è mio fratello, unico superstite con il mio stesso sangue.» «Come si chiama il tuo unico parente consanguineo in vita?» «Il suo nome romano è Simone il Mago - illustrò Etia - il suo nome pubblico di nascita è Simush, a cui ha il diritto di aggiungere Ziumun e Mahgi, i titoli di grande maestro di vita e giustizia.» «Simone il Mago, tuo fratello per nascita, è ospite del senatore Marcello?» - 32 -


«Il nobile Marcello lo ospita da quasi venti anni.» «Hai commesso incesto con tuo fratello, Simone il Mago?» «Non ho commesso incesto né con lui né con altri - dichiarò Etia - il mio corpo è puro.» «Vestale Vibia - riprese Marcia voltandosi verso di lei - il pontefice maximo, il cui nome non può essere pronunciato, ti mise al corrente dei natali della bambina Etia, prima di sceglierla ed ammetterla nel tempio?» «Mi riferì che la bambina aveva sangue reale - dichiarò la donna - e che legalmente era cittadina romana a tutti gli effetti.» «Chiedo di convocare il Mago Simone» annunciò Marcia, rivolta all’imperatore. Claudio fece un cenno con la mano ed il suo più prezioso consigliere per la politica coloniale entrò nella sala. «Simone - esordì Marcia - sei fratello natale di Etia?» «Siamo figli dello stesso padre» confermò l’uomo. «Siete destinati, secondo le vostre usanze, ad unirvi in matrimonio?» «Tali usanze sono state abolite mille anni fa - specificò serenamente - e si applicavano soltanto per le famiglie reali regnanti, in caso di assenza di altre famiglie reali con cui contrarre matrimoni.» «Ma voi siete di sangue reale, entrambi.» «Di una dinastia deposta da tre secoli - precisò alzando le sopracciglia - senza alcuna possibilità di riavere neanche una piccola parte del regno, giacché non esiste più. Desideravo offrire mia sorella in sposa ad un membro dei reali di uno dei regni attuali, ma hanno la fastidiosa abitudine di morire assassinati prima che si riesca a concludere un contratto nuziale.» «Avete mai condiviso il letto? Vi siete congiunti carnalmente?» «No. Mia sorella è una sacra vergine vestale, se non onorasse la sua castità sarei il primo a volerla vedere morta. La nostra stirpe discende dagli antichi dei, prendiamo molto sul serio un impegno con loro. Il regno è perduto, ma non l’onore. Posso porre io una domanda alla vestale Marcia, una al pontefice maximo ed una alla vestale Vibia?» «Pro-procedi» autorizzò l’imperatore. «Vestale massima Marcia, quanti anni ha Etia, secondo la tua lunga - 33 -


esperienza?» La donna inarcò le sopracciglia e guardò l’accusata, le tolse il velo, la esaminò con attenzione, quindi ipotizzò: «Undici, forse dodici anni, non più di tredici in ogni caso.» «Sommo Cesare, anche per te la stessa domanda.» Il pontefice maximo fece cenno alla ragazza di avvicinarsi allo scranno, la osservò, quindi diede la sua opinione: «Do-do-dodici?.» «Vestale Vibia, è vero che Etia è entrata nel tempio quattordici anni fa, quando aveva sette anni?» «È vero» sussurrò la donna in risposta. Marcia non ebbe bisogno di altro per capire cosa Simon Mago stesse suggerendo ed afferrò la palla al balzo: «Vestale Etia, tu hai ventuno anni?» «Li ho compiuti» confermò la ragazza, evitando in tal modo di mentire in un luogo sacro. «Vestale Vibia - incalzò Marcia con chiaro tono di rimprovero - da quanto tempo hai notato l’evidente segno della grazia di Vesta su questa fanciulla?» «Da più di cinque anni» ammise l’accusatrice. «E ne hai informato il pontefice maximo?» «Volevo prima esserne certa - si difese la donna - appurandone l’irreprensibilità.» «Sommo Pontefice - esclamò Marcia - mi hai chiesto di parlare in favore di questa vestale, se innocente. Mi hai incaricato di scoprire la verità. Di comprendere e fornire anche la mia opinione personale. Io vedo una donna, che in una normale famiglia, già sarebbe troppo anziana per prendere marito, eppure ha l’aspetto di una infante che sta per sbocciare. È un chiaro prodigio di Vesta per sottolinearne la purezza del corpo e dello spirito. Vedo una creatura delicata ed innocente, legata da affetto all’unico consanguineo che le resta, recarsi da lui a dialogare. Il fratello in questione è un nobile principe straniero che è ospite e consigliere stimato da ben due Cesari. Io non vedo crimini.» «Ella ha peccato con il proprio fratello - intervenne Vibia - lo schiavo ne è testimone.» «La mia innocenza può essere provata - la voce di Etia si levò limpida - 34 -


nella sala - ed io desidero essere esaminata.» Il pontefice maximo annuì impercettibilmente, quindi rivolse lo sguardo verso la vestale massima: «Co-colei che accu-cufa co-co-conferma lala la fua accufa?» «La confermo e sono pronta ad esaminare la vestale Etia, per accertarne la verginità» dichiarò soddisfatta la donna. Ma ogni traccia di trionfo scomparve dal suo viso quando l’imperatore scosse il capo ed indicò due anziane donne alle sue spalle, facendo loro cenno di farsi avanti. «Sono Emilia, vestale massima del Tempio di Tibur» annunciò la prima e più anziana, quando si fu avvicinata. «Alba, vestale massima del Tempio di Vesta Aricina» la imitò la seconda donna. «Che fi pro-proceda co-con la pro-prova - ordinò Claudio - che affiftano anche Vibia e Marcia.» Quattro vergini vestali portarono quindi una lettiga vuota e la posarono in terra nelle immediate vicinanze del trono. Ne estrassero delle lucerne, che accesero, ed un telo candido, che dispiegarono disponendosi intorno al giaciglio. Etia raggiunse la lettiga e vi si distese. Le due esaminatrici giurarono di accertare la verità e le si avvicinarono, raggiunte da Vibia e Marcia. Il telo fu sollevato per proteggere la nudità dell’esaminata. «Intatta» dichiarò Alba. «Intatta» confermò Emilia. «Intatta» fu anche il parere di Marcia. Lo sguardo dell’imperatore e pontefice maximo folgorò Vibia, prima ancora che la donna osasse pronunciare il suo giudizio. «Hai accu-cufato una ve-vergine innocente - esclamò alzandosi dal trono del re dei sacrifici - u-una protetta dalla de-de-dea Vefta. L’ira de-de-della de-dea farebbe ricaduta fu Ro-ro-roma e fu-fu-full’impero, per il tuo errore. Riri-riparatela e fpogliatela.» Il telo fu di nuovo sollevato a formare una protezione visiva, Vibia fu portata al suo interno e denudata, quindi venne fatta indietreggiare fino a che la sua schiena fu a contatto con la stoffa. Il pontefice maximo si avvicinò zoppicante al punto in cui il telo mostrava le forme del corpo della vestale massima. Tese la mano e aspettò che gli venisse consegnata la frusta rituale. Sferrò sei colpi consecutivi, intervallati dalle grida di - 35 -


dolore della sacerdotessa e sorrise compiaciuto quando il sangue arrossò il panno; solo in quel momento fermò la sua mano e riconsegnò lo strumento. Quella vecchia invidiosa voleva farlo macchiare della morte di una vergine, che non solo era innocente, ma perfino benedetta dalla più potente delle dee di Roma. Proprio ora che i numi avevano smesso di perseguitarlo. Le frustate le avrebbero insegnato e ricordato che non ci si prende gioco di Cesare. A nessuno era più concesso di farlo. Protetta dal telo, la vestale massima Vibia fu rivestita, con la delicatezza necessaria per rispettare le sue ferite sanguinanti. Quindi tornò al cospetto del pontefice maximo. «Pe-pe-per le proffime tre lu-lune ti farai carico personalmente de-dedelle incombenze di Etia e pre-pre-pregherai pe-pe-per la fua fa-falute» «Sì, pontefice maximo.» «Che il te-teftimone riceva la fte-fteffa punizione e poi fi-fia decapitato, per aver giu-giurato il fa-falfo contro una ve-vergine veftale. Veftale Etia - aggiunse rivolto alla fanciulla - ti dichiaro affolta e pu-pu-pura ed inin-invoco il tuo pe-pe-perdono per quefta accufa in-infamante.» Appiattito dietro la porta della regia, il giovane Lucio Domizio, figlio di Agrippina, adottato dall’imperatore col nome di Nerone, sorrideva soddisfatto: l’idea che la bellissima vestale potesse essere condannata a morte lo aveva riempito di angoscia e di rabbia. Appena udì l’ultimo grido di dolore della vecchia megera, l’erede di Cesare abbandonò il suo punto di osservazione e si affrettò a svanire nel nulla, prima che qualcuno potesse riconoscerlo e riferire alla madre del suo interesse in simili questioni. ~•~

Roma, anno 806 ab urbe condita, anno tredicesimo del principato di Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico [54 d.C.] L’anno 806 dalla fondazione di Roma era iniziato con due prodigi assai infausti: un fulmine aveva colpito le insegne e le tende militari, facendole bruciare; uno sciame d’api si era posato sul tetto del tempio di giove, nel Campidoglio. Qualcosa di terribile sarebbe accaduto: non - 36 -


vi era romano che ne dubitasse. Dal giorno in cui era stata assolta dall’infamante accusa di non aver rispettato l’obbligo di castità, la vita di Etia era diventata più complicata. Il pontefice maximo aveva reso pubblico il prodigio di Vesta su di lei, portando il suo prestigio alle stelle. Le venivano tributati grandi onori e la sua presenza era spesso richiesta dall’imperatore, per dirimere questioni spinose con il giudizio della dea. Nei lunghi secoli in cui aveva vissuto, imprigionata in un corpo da bambina, aveva acquisito una certa esperienza in fatto di complotti, giochi di potere e meschinità umane, una saggezza che sorprendeva i suoi ascoltatori e veniva tributata alla grazia di Vesta. L’imperatore e pontefice maximo era giunto perfino a dirle che vedeva in lei una vestale massima più consona di Vibia, per la quale non nutriva più alcuna fiducia. L’attestazione di stima aveva gratificato Etia, ma aveva anche aumentato la sua prudenza. Quello di Vibia era stato un vero e proprio tentativo di ucciderla, a causa del quale la decana era stata punita ed umiliata. Anziché esserne annientata, la sua vittima ne era uscita più forte. Epilogo che rendeva una spietata vendetta, da parte sua, semplicemente ovvia. Si trattava solo di una questione di invidia ed antipatia personale? Per quanto si fosse sforzata di analizzare l’accaduto, Etia non era riuscita a comprendere fino in fondo il motivo che poteva aver spinto la vestale massima a lanciarle l’accusa di incesto. Ci rifletteva per intere notti, quando toccava a lei attizzare il fuoco sacro, come quella sera. Sicuramente Vibia nutriva dell’astio nei suoi confronti, a giudicare dal numero infinito di servizi notturni che le aveva sempre assegnato. “Ragiona - pensò ponendo un altro ramoscello sul focolare eterno - ha pagato qualcuno per torturare uno schiavo, mettendo in piedi un’accusa confutabile dall’evidenza fisica. Non ha senso. Forse era certa che io non fossi più vergine? O credeva che non mi sarei sottoposta alla verifica? Senza l’intervento delle altre vestali massime sarebbe stata lei a condurre l’esame e nessuno avrebbe dubitato della sua parola. Avrebbe dichiarato che non ero intatta. O magari un esito incerto... ne sarei uscita screditata e punita. Mi teme. Teme che la possa spodestare. Teme il mio prestigio. Quale sarà la sua prossima mossa? Cosa può fare? Farmi stuprare, ovviamente, o far spegnere il fuoco durante il mio - 37 -


turno... o magari farmi uccidere.” Aveva già una scorta armata: Tito Celio, un legionario professionista che valeva per 10 uomini, in base alle informazioni raccolte da Simush. Era un gigante di origini etrusche che si era particolarmente distinto per abilità belliche e resistenza fisica, oltre che per l’assoluta fedeltà. Si dava il cambio con i fratelli Marco e Quinto, meno imponenti ma altrettanto valorosi e fidati. I tre prendevano estremamente sul serio il loro incarico e la seguivano ovunque un uomo potesse posare il piede. Anche in quel momento, uno di loro era di guardia in prossimità del tempio, al limite della zona interdetta. Le avevano dato una clessidra: ogni volta che la sabbia terminava di riversarsi nel recipiente inferiore, prima di ribaltarla, Etia doveva affacciarsi alla porta del santuario e fare un cerchio con la lucerna. Era il segno che tutto andava bene. Anche le sue ore di sonno erano sorvegliate, Simush aveva acquistato per lei una schiava addestrata per diventare gladiatore e la pagava profumatamente per seguirla come serva personale all’interno della casa delle vestali. Doveva dormire con lei, sia che riposasse con le consorelle, sia che tornasse all’abitazione della famiglia. La donna si chiamava Fedelm ed era di origini celtiche. Etia le aveva permesso di mantenere il suo nome ed aveva depositato nel tempio un documento che ne sanciva la libertà personale al termine dell’incarico. Con una tale scorta si sentiva ragionevolmente al sicuro da tentativi di stupro o di uccisione. Anche per prevenire e fronteggiare possibili azioni tese a far spegnere il focolare, si era organizzata con resine, bastoncini imbevuti e olii speciali, tutti strumenti in grado di generare all’istante la fiamma, se necessario, e li teneva in una tasca segreta della veste. Ungeva sempre la sua legna con dei composti che l’avrebbero fatta ardere in qualsiasi condizione, anche se qualcuno l’avesse bagnata. Cosa altro poteva inventarsi Vibia? Come avrebbe attuato la sua vendetta? Una prima risposta le giunse pochi istanti dopo, quando al silenzio della notte, violato solo dal crepitio delle fiamme, si aggiunse improvvisamente un rumore appena percettibile. Etia verificò la clessidra ad acqua del tempio: il suo turno non era giunto al termine. Era un controllo. Si alzò in piedi e prese un altro ramoscello, gettandolo - 38 -


rumorosamente nel focolare. Livilla, la vestale più cara a Vibia, comparve pochi istanti dopo. «Salute a te sorella - la accolse sorridendo - la notte è fredda, scaldati un po’ prima di tornare nelle tue stanze.» «Grazie, sorella - le rispose - ti ho portato una bevanda calda.» «Sei molto gentile e premurosa - la blandì scuotendo delicatamente il capo - appena finito il turno la berrò volentieri, ho offerto a Vesta la mia sete e la mia fame per tutta la durata di ogni servizio, per almeno una luna.» «In tal caso, la lascio qui.» «Ma puoi servirtene un po’ per te stessa - suggerì con un sorriso smagliante - almeno il suo calore non andrà sprecato!» «L’ho fatto prima di raggiungerti, ora ti lascio ai tuoi doveri.» «Grazie per la visita ed il gentile dono. Ricambierò appena mi sarà possibile, perché io ricambio sempre ogni dono che mi viene offerto.» A quelle parole, solo apparentemente innocenti, Livilla impallidì ed il sorriso falso che si ostinava ad esibire le morì sulle labbra. Senza aggiungere altro, si voltò ed uscì dal Tempio. “Questa era fin troppo facile - pensò Etia torcendo nervosamente le trecce bionde che le ricadevano sul petto - mi crede sciocca, vuole che la sottovaluti o si tratta di un diversivo?” Qualsiasi fosse stata la strategia della vestale massima, non le avrebbe reso l’impresa facile. “Sono stata educata dai migliori strateghi delle terre d’oriente a dirigere l’arte della guerra, sciocca mortale. Mi è stato insegnato a muovere gli eserciti e prevenire le imboscate. Posso giocare al tuo gioco meglio di te.” ~•~ Il fracasso fu terribile e rimbombò, cupo ed assordante, tra i marmi del palazzo. gli schiavi accorsero, precipitandosi nelle stanze dell’erede di Cesare. Il ragazzo aveva una mano insanguinata ed il respiro affannato. La statua in marmo raffigurante sua madre, potente e temuta sposa dell’imperatore, giaceva scompostamente in terra, rotta in mille frammenti. «Uscite tutti!» ordinò Nerone, appena li vide arrivare, ma gli schiavi esitarono. «Ho detto fuori di qui!» Per rafforzare il concetto aveva urlato, facendoli dileguare immediatamente nel nulla. Quando fu di nuovo solo, raggiunse il piccolo altare del re degli dei, cospargendone - 39 -


l’effige col proprio sangue. «Giove Feretrius ti chiamo a protezione di questo mio impegno - proclamò con gli occhi lucidi e la mano tremante - io giuro solennemente che non permetterò mai più a mia madre, né a chiunque altro, di decidere al mio posto o di obbligarmi a compiere empietà che non voglio commettere per mia precisa scelta. E di prendere la vita di chi proverà di nuovo a manipolarmi.» Si lasciò cadere sul pavimento di marmo bianco e nero, concedendosi, finalmente, di piangere l’amata zia. Domizia Lepida, sorella di suo padre. Violenta, spietata e pronta a tutto, ma non con lui. L’unica madre che avesse mai avuto, l’unica ad avergli mai dato un contatto umano. E lui era responsabile della sua morte. L’aveva tradita. «Il potere è questo - aveva detto Agrippina ordinandogli di testimoniare contro di lei - lei non ti ama, ti lusinga per manipolarti, come chiunque ti si avvicini, e tu la punirai per questo.» Si era rifiutato, ovviamente, aveva discusso, aveva perfino pregato la madre di non costringerlo. «Certo che lo farai - aveva replicato lei, sorridendo seraficamente - perché tu non vuoi vedere tuo fratello Britannico morire, vero piccolo? E vuoi che anche le tue nutrici Egogle ed Alessandria possano invecchiare, come anche quei greci, Aniceto e Berillo, i tuoi primi precettori. Io li ucciderò, insieme a chiunque tu ami, chiunque ammiri o ti abbia mai rivolto anche un semplice sorriso, se non testimonierai contro tua zia.» Nerone aveva cercato disperatamente una via d’uscita, ma ogni suo sforzo era stato vano. Così aveva scelto di sacrificare una vita per salvarne cinque. Ed aveva testimoniato che Domizia Lepida aveva pronunciato incantesimi contro Agrippina. E lei era stata condannata a morte. «Sono un assassino ed un traditore.» Non se lo sarebbe perdonato e non l’avrebbe mai perdonato neanche alla madre. «Sarò più astuto e più spietato di lei - si ripromise passandosi la mano insanguinata sui capelli - un giorno la schiaccerò come un serpente.» «Che succede qui?» la voce acuta di Agrippina rimbalzò sulle pareti affrescate e gli penetrò nelle tempie, con la violenza di uno scalpello preso a martellate. Come evocata dai suoi pensieri, lei era arrivata per torturarlo. «Oh, il mio bambino piange per la cara zia - osservò con aria vagamente disgustata - ma è per te stesso che dovresti rattristarti. Se - 40 -


fossi stato un vero uomo, come quella toga virile suggerisce, mi avresti battuta. Invece sei solo un bambino e come tale stai reagendo. Qual è il mio punto debole? Tutti ne hanno uno, idiota. Ma tu non conosci il mio. Per questo non puoi niente contro di me. Il potere funziona così, bambino. Per sopravvivere e vincere devi conoscere le debolezze dei tuoi avversari e le tue. Nel tuo caso è fin troppo facile sopraffarti. Tu vuoi essere amato e ti leghi a chi si dimostra affettuoso con te. Ecco il tuo punto debole.» Nerone la guardò, senza dire una parola. Quella era la donna che lo aveva messo al mondo. I boccoli rosso rame le scendevano lungo la schiena, gli occhi chiari erano sprezzanti. Era la patrizia più bella e spietata dell’impero, ed era sua madre. Quella riflessione fece scattare qualcosa dentro di lui. Le porte del dolore e della paura si chiusero. Indossò la sua corazza mentale ed emotiva, quella che aveva imparato ad usare quando era molto piccolo. “Sono suo figlio - ripeté a se stesso - in me scorre il suo stesso sangue, unito a quello di un uomo che ha stuprato la sua stessa sorella, ucciso bambini per divertimento e liberti perché si rifiutavano di bere quando lui voleva che lo facessero. E che pestava a sangue il suo unico figlio, benché avesse meno di tre anni.” Questo significava che poteva uguagliarla e superarla, sia in astuzia che in crudeltà. “Conosci te stesso - ripeté mentalmente - adattati al mutamento, reagisci come il nemico non si aspetta e non sanguinare davanti ad un predatore.” Distese i lineamenti del volto e le sorrise. Suo padre, gneo Domizio Enobarbo, era stato un uomo che perfino lei aveva temuto. “Usa le sue paure”. Agrippina lo aveva sposato quando era appena tredicenne e non era riuscita, per nove anni, né a dargli un figlio né a manipolarlo e forse neanche a difendersi dalla sua violenza. Poi, finalmente, lo aveva reso padre e, nel giro di pochissimi anni, fatto uccidere. «Da me e da Agrippina non può nascere che una creatura detestabile, un pubblico flagello.» Pronunciò quelle parole ad alta voce, beandosi dello sconcerto dipinto sul volto della madre: era la frase che gneo Domizio aveva ripetuto ogni giorno, da quando sua moglie aveva partorito. Udirla fu sufficiente a confondere la donna e farla impallidire, evocando un periodo in cui aveva dovuto subire ogni angheria. «Goditi - 41 -


la vittoria, Augusta - le suggerì alzandosi, mantenendo il tono della voce basso - la vita è breve e piena di dolori. Hai eliminato un ostacolo sul tuo cammino ed hai fatto di me il tuo strumento di morte. Congratulazioni. Vorrei restare solo, a meditare sulla mia sconfitta. Queste sono le mie stanze private, tu non sei la benvenuta.» Agrippina non si era aspettata quella calma glaciale, né quello sguardo divertito, come se tutto fosse andato esattamente come lui aveva programmato. Stava sottovalutando il figlio? Eliminare la cognata era stato un errore? Cercò di studiare il volto di lui, ma vi lesse solo soddisfazione. «Io sono tua madre, non lei. Io farò di te l’imperatore di Roma, lei non avrebbe mai potuto.» «Giustificarsi è un segno di debolezza. Non insultarmi con queste sciocchezze. È vero che farai di me l’imperatore, ma solo per essere tu a governare - si era avvicinato, senza mai smettere di sorridere - mentre io mi dedicherò all’arte ed agli studi. Questo è il tuo piano ed a me sta bene. Rispetta i miei spazi e governerai indisturbata. Invadili di nuovo e sarò il tuo più crudele nemico.» Si portò la mano ferita alla bocca e leccò lentamente il suo stesso sangue, guardando la madre negli occhi. «Non dimenticare con chi mi hai generato, Agrippina. Una guerra è fatta di molte battaglie.» «Potrei sempre far dichiarare imperatore Britannico.» «Fallo - la sfidò, servendosi della frutta fresca - ed avrai un Cesare malato e debole. Sarei già morto, se davvero lo considerassi una valida alternativa. Non esiteresti neanche un istante ad uccidere il tuo stesso figlio, per avere il potere, figuriamoci un ragazzo come lui. Lo farai morire in ogni caso, perché ai tuoi occhi non ci sono alternative, ma non subito, per non destare sospetti e per usarlo come spauracchio contro di me. Perché credi che io lo ami. Dimentichi però un dettaglio, Agrippina.» «Quale sarebbe?» «Non sono io a volere il trono di Cesare. Sei tu quella con la brama di potere. Questa è la tua forza ed anche la tua debolezza: il potere.» «Tutti vogliono il potere.» «Non io. E questo gioca a tuo favore. Non ti conviene esasperarmi. Rispetta i miei spazi e sarai la prima donna Cesare della storia di Roma, - 42 -


quando deciderai di servire a tuo marito i funghi che lo uccideranno.» Nerone fece una breve pausa e la guardò negli occhi, alzando le sopracciglia. Attese per qualche istante la sua reazione, ma Agrippina si limitò ad un leggero tremito delle labbra carnose. Tanto gli bastò per capire che sua madre non si aspettava che lui conoscesse i suoi piani. «Mi sento generoso e voglio dimostrarti quanto io possa essere valido come alleato. Consideralo un dono - aggiunse sforzandosi di apparire inespressivo - mi giunge notizia che il mio caro zio e padre adottivo, oltre che amato imperatore tuo consorte, abbia intenzione di punirti per i tuoi crimini e trovare una sposa meno pesante, più... sottomessa. Una quinta moglie che non voglia regnare ma limitarsi ad oziare e compiacerlo. Anche se hai ucciso tutte le matrone più belle, pare che qualcuna ti sia sfuggita.» Nerone fece una nuova pausa e finse di essere impegnato a lavarsi le mani nell’acqua di rose. Aveva appena condannato a morte l’imperatore di Roma e non poteva permettersi che lei si accorgesse di quanto quelle parole gli stessero pesando sulla coscienza, di quanto fosse difficile, per lui, agire nell’unico modo possibile. Quando fu certo di avere il perfetto controllo della sua voce, indossò un sorriso sarcastico e proseguì: «Le nobili famiglie sono già in agitazione, per proporre le loro fanciulle più caste ed avvenenti e tu, che sei sempre bellissima, ma, di certo non diventi più giovane, sarai presto sostituita, forse potrai corrompere i giudici ed ottenere un esilio. Vedi? Posso esserti di aiuto o di ostacolo. La scelta dipende da te.» Agrippina sgranò gli occhi e lasciò le stanze, quasi correndo. Aveva sottovalutato suo figlio. Ferirlo, costringendolo a testimoniare contro sua zia, forse era stato un errore. Era stata accecata dalla sua smania di controllarlo, dal suo bisogno di punirlo, umiliarlo e farlo sentire debole ed insicuro. Si era sempre rivelata una buona tecnica per mantenerlo sottomesso. Forse non lo era più. Nerone stava diventando un uomo ed era poco incline a farsi dominare, oltre che più astuto di quanto lei avesse immaginato. Aveva appena posto delle condizioni per lasciarsi manovrare, dimostrando di aver compreso alla perfezione i suoi piani ed i suoi pensieri. Le aveva appena riferito un’informazione che denotava la presenza di una sua personale rete di spie nel palazzo, che erano state più accurate di quelle che lavoravano - 43 -


per lei. Quando si era organizzato? Come aveva fatto, senza che lei ne avesse avuto neanche l’ombra di un sospetto? L’informazione che le aveva fornito era preziosa: Claudio stava per liberarsi di lei. Aveva pochissimo tempo a disposizione per agire e lo avrebbe fatto immediatamente, o tutti i suoi piani sarebbero andati in fumo. Le sue spie non se ne erano accorte, quelle di Nerone sì. Suo figlio lo sapeva e non le avrebbe detto nulla, se lei non fosse andata ad affrontarlo ed umiliarlo. Sarebbe rimasto ad osservare l’evolversi della situazione. Forse contava di restare al fianco dell’imperatore anche senza di lei. Perché aveva deciso di informarla, anziché continuare a tacere e vendicarsi dell’umiliazione che lei gli stava infliggendo? “Non lo capisco - ammise frustrata, affrettando il passo - non riesco a comprendere le sue mosse.” Nerone le aveva detto che potevano essere alleati o nemici. Questo non l’aveva previsto, sperava di avere a disposizione ancora qualche anno, prima di doverlo considerare un’altra forza in campo. Doveva provare con le lusinghe e la dolcezza, ma non ne era capace. La vita le aveva insegnato solo a sopravvivere fra i leoni, facendosi più spietata di tutti. Uccidi per non essere uccisa, seduci per controllare. Non aveva la più pallida idea di cosa fare per conquistare l’affetto di un figlio. “So perfettamente come si annebbia la mente di un uomo - pensò sorridendo - e Nerone è pur sempre un ragazzo. Solo un giovane maschio in una fase in cui il corpo reclama prepotentemente delle attenzioni femminili.”

Agrippina

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----CAPITOLO SECONDO ----Spiriti inquieti

I

La bellezza è mescolare in giuste proporzioni il finito e l’infinito. Platone

Roma, 15 aprile Anno Domini 1485 Monastero dei Monaci Olivetani l priore guardava le vestigia dell’antica Roma dalla piccola finestra della sua stanza. La visione era tornata. I maledetti demoni pagani lo tormentavano ormai da settimane. Vedeva un uomo lapidato da una folla inferocita: sicuramente un Santo Martire ucciso dagli empi pagani. Vedeva le fiamme avvolgere Roma, mentre una fanciulla moriva su un altare. Si fece il segno della Santa Croce più volte: probabilmente era un orrido sacrificio umano compiuto da quegli infedeli per placare l’incendio appiccato dal folle Cesare Nerone. Il primo persecutore dei cristiani, l’uccisore del fondatore della Chiesa, l’imperatore che aveva come consigliere il demone Simon Mago. Di nuovo si segnò per tre volte. I demoni pagani erano ovunque. Sconfiggerli era suo sacro compito: questo era il senso di tali visioni. «Dolce Vergine Maria, dammi la forza» esclamò stringendo il crocifisso di legno che gli pendeva dal collo. Trasse un respiro profondo ed uscì, diretto alla chiesa. Affrettò il passo e raggiunse la sacra reliquia: le impronte delle ginocchia di San Pietro, impresse sul basalto quando l’apostolo pregò gli angeli di far cadere a terra Simon Mago, smascherandone pubblicamente le menzogne. Sotto l’altare maggiore giaceva una seconda reliquia, meno importante ma altrettanto efficace nell’attrarre i pellegrini: il corpo mortale della sorella oblata Francesca Ponziani, vissuta e morta in odor di santità. Il culto era stato già - 45 -


autorizzato con pubblici e solenni decreti, ma se il Santo Padre l’avesse canonizzata nei mesi a venire, come si udiva mormorare, la chiesa ed il monastero di Santa Maria Nova avrebbero avuto un buon incremento di devoti pellegrini e donazioni più consistenti di un calice d’argento e di candele, ogni anno. Per rifare il pavimento in rovina occorreva assai più denaro. «Reverendissimo padre» lo chiamò la voce sommessa di fratello girolamo. Il priore si limitò a guardare il monaco, facendogli un cenno di incoraggiamento col capo. «Abbiamo rinvenuto una lastra di marmo e numerose colonne.» «Bene - approvò tornando ad osservare la reliquia - stiamo scavando proprio per recuperare materiale da costruzione e fondi per abbellire la chiesa. Il Signore è con noi. Sia gloria alla Sua Divina Provvidenza.» «Nella lastra c’è un’iscrizione, reverendissimo padre.» «E cosa dice?» «In questo luogo è morto il grande Mago Simone.» Nel pronunciare tali parole, con voce incerta, il monaco si fece il segno della Croce. Il priore sospirò, stringendo di nuovo il Crocifisso con forza: «Esorcizzatela ed inviatela alla Fabbrica di San Pietro. Colui che ha battuto l’empio una volta, in nome di Dio, lo sconfiggerà per l’eternità. Le colonne, invece, vendetele come al solito.» «Sarà fatto, reverendissimo padre.» «E manda qualcuno dei nuovi operai longobardi al tenimento fuori le mura - aggiunse il priore - ci servono altri materiali da vendere. Questa chiesa ha bisogno di restauri. Occorre una nuova facciata ed il soffitto è da rifare, per non parlare del pavimento.» «Sarà fatto, reverendissimo padre.» «Ti ricordi dove trovammo quella statua di ninfa, lo scorso anno? Mandali in quello stesso punto. Dove c’è un monumento funebre c’è anche un sepolcro.» «Sarà fatto, reverendissimo padre.» Il priore osservò il giovane monaco correre via, per eseguire i suoi ordini. I pensieri tornarono alle visioni. Erano iniziate esattamente un mese prima, il giorno 16 marzo, quando il sole si era oscurato senza che fosse tramontato. L’ombra di Satana attentava la luce di Cristo e la Santa - 46 -


Chiesa era chiamata a combattere. Non vi era alcun dubbio. ~•~

Roma, 16 aprile Anno Domini 1485 Via Appia. Tenimento di Santa Maria Nova Frate giacomo se ne stava in disparte, seduto sul tronco di un albero caduto, a sgranare il rosario. I suoi occhi vispi non si staccavano, neanche per un istante, dal lavoro dei quattro operai, che si davano da fare con pale e picconi, intorno ai resti di un’antica fontana. Si trovavano nel punto esatto dove, un anno prima, altri braccianti come loro, avevano estratto dalla terra una bellissima statua di ninfa. Il monaco annuì e ringraziò la dolce Vergine Maria, quando finalmente riuscirono ad allentare e spostare il blocco principale che formava la vasca: sarebbe stata un magnifico fonte battesimale, oppure avrebbe fruttato molti baiocchi da spendere per i lavori di abbellimento e sistemazione della chiesa e del convento. Proprio in quel momento la terra franò sotto ai loro piedi ed il povero frate giacomo gridò: «Oh Signore Benedetto!» Si alzò e corse verso la voragine che si era così aperta e ringraziò gli angeli ed i santi del Paradiso, perché udiva i borbottii dei braccianti, provenire dalle oscure viscere della terra. «Vieni giù, monaco! - lo invitò uno di loro - Abbiamo trovato un sarcofago di marmo.» «C’è altro?» si informò frate giacomo, guardando perplesso e timoroso quella voragine che pareva la bocca di Lucifero. «C’è terra franata… si vede solo questo.» «Allora non occorre che venga giù io, portatelo fuori.» Non sarebbe mai sceso in quel buco oscuro, in quel sepolcro pagano infestato dai demoni. Non era luogo adatto ad un semplice monaco timorato di Dio. Ci vollero almeno tre ore, affinché i braccianti si organizzassero con leve e funi, ma poi, finalmente, il sarcofago fu portato proprio davanti al tronco dell’albero dove frate giacomo era stato seduto per tutta la mattina. ormai il cielo iniziava ad arrossire, annunciando che di lì a poco sarebbe calata la sera. Era necessario aprirlo subito e verificare se contenesse materiale prezioso. Frate giacomo avrebbe deciso il da farsi - 47 -


solo dopo aver controllato l’entità della scoperta. Diede l’ordine e rimase a guardare ad una rispettosa distanza, mentre con una sbarra metallica, uno scalpello e molti sforzi, la piombatura veniva vinta e la lastra di copertura scivolava di lato, per poi essere adagiata in terra. «Non rompetela, fate attenzione - si raccomandò il monaco - integra vale assai di più.» Si era avvicinato, nel pronunciare tale esortazione, e restò sbigottito nel notare che dall’interno del sarcofago si espandeva una chiara luminosità, non forte, ma abbastanza intensa da essere visibile ancor prima del crepuscolo. «Signore Dio Altissimo!» gridò con voce stridula, mentre la reazione degli operai fu assai meno cristianamente devota. Stringendo saldamente il rosario con una mano e brandendo la croce che aveva al collo con l’altra, il povero frate giacomo vide quella luce affievolirsi e sparire, e tanto gli bastò per trovare la forza di avvicinarsi. Ciò che riuscì ad osservare lo lasciò ancora più sconcertato. «Santa Vergine Maria... madre di Dio Santissimo...» gridò di nuovo. Il sarcofago era per metà riempito di una sostanza aromatica di colore blu, che aveva una incredibile trasparenza, al punto da lasciar vedere chiaramente il corpo di una fanciulla, che vi era immerso. L’aroma, che sembrava simile al profumo della mirra, dell’aloe e di altre rarissime spezie orientali, era fortissimo. Ma non era quello a sconvolgere il giovane monaco. La fanciulla era nuda, completamente nuda, ed era di una bellezza paragonabile solo a quella degli angeli del Paradiso. Non che il povero frate giacomo avesse mai visto fanciulle svestite, ma gli parve una creatura meravigliosa e perfetta. Ed era integra, incorrotta, al punto da sembrare addormentata, anzi… gli occhi erano un poco aperti, quindi pareva sveglia e viva. Frate giacomo si fece il segno della croce. Una santa… doveva essere una santa. «Tiratela fuori da lì - ordinò non riuscendo a distogliere gli occhi da quella meravigliosa nudità femminile - adagiatela sul coperchio. Uno di voi vada ad avvisare sia il Priore che i Conservatori.» Un operaio corse via, mentre altri due afferravano la fanciulla, per i piedi e per le ascelle, e la estraevano dal sarcofago, per deporla sul coperchio. “Non può essere una Santa - pensò frate giacomo ammirandone le gambe snelle e sode - la statua sopra al suo sepolcro era dell’epoca - 48 -


pagana o forse dei primi anni dopo la nascita di Nostro Signore. In effetti poteva essere anche una devota vergine al seguito del Santo Apostolo Pietro. Una nobile fanciulla convertita e redenta dal fondatore della Chiesa. Ma per quale motivo fu sepolta senza alcun vestito? Completamente nuda, priva perfino di un sudario?” «Siamo sicuri che sia antica? - domandò quello che l’aveva presa per i piedi - Sembra proprio appena morta. Non sarà sacrilegio?» «No, non può essere appena defunta - chiarì il monaco, scuotendo il capo - ella giace nella sua cassa di pietra da almeno quattordici secoli, forse quindici. Ci sono segni di Cristo Redentore?» «Non ci sono scritte sul sarcofago e neanche sul coperchio» garantì uno degli altri operai, togliendosi la camicia ed usandola per ripulire il viso della fanciulla dal denso strato di fluido aromatico, che lo ricopriva come una crosta. Quella misteriosa mistura stava indurendo a contatto con l’aria ed il colore, da blu trasparente, che era stato inizialmente, diventava man mano sempre più scuro. «Certo che era proprio bella» commentò l’uomo, rimirandone il volto, appena ebbe finito. I lineamenti erano armoniosi, le orecchie minuscole, la fronte bassa e le sopracciglia nere. gli occhi erano di forma vagamente orientale, ombreggiati da lunghe ciglia e socchiusi, così come le labbra rosee e carnose, che lasciavano intravedere denti piccoli e bianchissimi. L’operaio le toccò una guancia con un dito e la pelle di lei reagì arrossendo. Le sfiorò le narici e quelle vibrarono, quindi le aprì la bocca e tirò fuori la lingua, e questa ritornò al suo posto. «Mai visto niente del genere - commentò l’uomo, grattandosi la testa neanche quando ho lavorato per i beccamorti. Sembra addormentata, non di certo morta. Che prodigio è mai questo?» «Ha i capelli biondi come la fascia dorata che li trattiene - osservò l’altro operaio - e indossa un anello d’oro. Era ricca.» A quel punto infilò la testa nel sarcofago: «Ci sono gioielli qui dentro, in mezzo al condimento odoroso - li informò - e c’è anche una lucerna. Forse era da lì che veniva quella luce stregata.» «Non toccate niente - esclamò frate giacomo - è tutto di proprietà dei monaci Olivetani e della Chiesa di Santa Maria Nova. Ogni cosa. Siete pagati per non toccare niente.» - 49 -


«Non abbastanza, monaco» puntualizzò quello con un ghigno, estraendo gli oggetti preziosi con entrambe le mani. Il frate fece per avvicinarsi ma fu circondato e poi, senza che riuscisse a rendersi conto di chi l’avesse colpito, sentì una gran botta sulla nuca e crollò a terra, privo di sensi. Frate giacomo riaprì gli occhi che la sera era ormai calata, aveva un forte male alla testa e sentiva lo stomaco rigirarsi. La prima cosa che vide fu lo sguardo severo del priore: era ritto in piedi, davanti a lui, con una lucerna in mano. «Reverendissimo padre - piagnucolò - gli operai longobardi...» «Inutile dire ciò che appare evidente» lo azzittì il priore. Il monaco lesse nei suoi occhi il rimprovero e la delusione e ne fu affranto. Non si era mai vergognato così tanto, nella sua vita. «Questa antichità va portata al Palazzo dei Conservatori - dichiarò solennemente una voce - poi deciderà il Santo Padre.» «Se questa è la volontà del Santo Padre...» commentò il priore, ancora più infastidito. «Aspettate ancora un momento - li pregò un uomo ben vestito, che era giunto insieme agli inviati dei conservatori - pochi istanti ed avrò terminato.» Si riferiva ad un disegno, che stava realizzando velocemente, per fissare i particolari della straordinaria scoperta. «Messer Della Fonte, avrai modo di dilettarti col tuo disegno anche al Palazzo dei Conservatori. L’ora è tarda.» Il priore aveva parlato lasciando intuire il suo scontento. Da quella spedizione i monaci non avrebbero ricavato nulla. Tutto tempo perso. Almeno non avevano pagato gli operai in anticipo. «Ecco, ho finito» annunciò Della Fonte. Frate giacomo osservò sconsolato i messi dei Conservatori caricare il coperchio di marmo col corpo della fanciulla e poi il sarcofago sul loro carro e sparire. «Andiamo - lo esortò il reverendissimo padre - l’ora è tarda.» «Permettetemi di fare un poco di strada insieme a voi - insisté il disegnatore - vorrei porre qualche domanda a messer il monaco.» «Purché risponda ai tuoi quesiti senza, per questo, arrestare o rallentare il passo» concesse il priore. - 50 -




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In Aeternum Bibliografia essenziale • Gerolamo Cardano, Elogio di Nerone, a cura di Marco Di Branco, Salerno Editrice, 2008

• Carlo Pascal, L’incendio di Roma e i primi cristiani, Ermanno Loescher, 1900

• Michaela Valente, Tra storia e politica. L’Elogio di Nerone di Girolamo Cardano, Leo S. Olschki editore, 2005

• Massimo Fini, Nerone Duemila anni di calunnie, Tascabili Marsilio, saggi, 2013

• Richard J. Samuelson, Nerone Un visionario al potere, La case books, 2014

• Gianluca Di Muro, Nerone, il principe venuto dal mare che aprì la strada alle riforme, www.fiscooggi.it, 26.10.2011

• Ludovico Antonio Muratori, Annali d’Italia Venezia, 1843, Edizione elettronica Liber Liber

• Massimo Gusso, I processi alle vestali accusate di violazioni dei loro doveri, Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche, Quaderni del XX anniversario, febbraio 2003

• Franz Cumont, L’iniziazione di Nerone da parte di Tiridate d’Armenia, Giovanni Chiantore, 1933

• Giorgio Casanova, Tra comete, globi e “travi infuocate”, l’osservazione del cielo e i suoi misteri in antichi documenti. - I -


• Francesco Cancellieri, Le sette cose fatali di Roma antica, Per Luigi Perego Salvioni, 1812

• Giuseppe Genovese, Istituti, costumi e riti degli antichi romani, Gaetano Rusconi, 1843

• Pietro Montini, Eventi della storia italiana

• Luigi Canina, Descrizione storica del foro romano e sue adiacenze, 1834

• Giovanni Antonio Riccy, Dell’antico Pago Lemonio in oggi Roma Vecchia, pel Fulgoni, 1802

• Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Giunti, 1566

• Giulio Ossequente, Prodigiorum liber, traduzione del Liceo Scientifico “Torelli” di Fano sotto la supervisione del prof. Stefano Lancioni

• Elifas Levi, Cristo, la Magia e il Diavolo, a cura di Giuliano Kremmerz, Napoli, 1898

• Andrea Nini, Ritualità funeraria nell’antica Roma

• Pietro Serra, La Villa dei Quintili: scavi e scoperte lungo il V miglio della Via Appia

• Fabrizio Vistoli, Saggio bibliografico sull’antica Via Appia, Società Magna Grecia, 2013

• Atti dei Beati Apostoli Pietro e Paolo

• Enrico Fabiani, Notizie di Simon Mago, Roma, 1860

• Giuseppe Lancisi, Istoria di tutte le eresie descritta da Domenico Bernino, Venezia, 1737

• Danilo Fracescano, Nerone, il principe che vinse un’Olimpiade, Storie di Sport, 2012 - II -


• Marisa Uberti, Simone mago Chi era costui?

• Centro studi La Runa, articoli dell’autore Musashi

• it.wikipedia.org

• cronologia.leonardo.it

• Adolf von Harnack, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero. Una monografia sulla storia dei fondamenti della Chiesa cattolica, Genova – Milano, ed. Marietti, 2007.

• Alessandra B.Romagnoli e Giorgio Picasso, La canonizzazione di Santa Francesca Romana, Edizione del Galluzzo, 2013

• Vita di Santa Francesca Romana, fondatrice dell’oblate di Torre de’ Specchi, Angelo Bernabò, 1675 • www.castruminui.it

• www.romanoimpero.com

• Emerico Amari, Supernovae nella storia, Centro Osservazione e divulgazione astronomica Siracusa

• Zosimo di Panapoli, Storia nuova, BUR Rizzoli, 2007

• Procopio di Cesarea, La Guerra gotica, a cura di Domenico Comparetti, Istituto storico italiano, 1895

• Marco Valenti, Tesi di Laurea Trasformazione dell'edilizia privata e pubblica in edifici di culto cristiani a Roma tra IV e IX secolo, 2002-2003

• Mariano Armellini, Le chiese di Roma, 1887

• Francesco Lamendola, Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d. C., Poggibonsi (Siena), Antonio Lalli Editore, 1984.

• A.G. Frigerio, Storia delle vestali romane e del loro culto, 1821 - III -


• Luigi Pruneti, Il volto oscuro dell’Urbe, Magia, stregoneria, leggende e superstizioni nell’antica Roma, Archeomisteri. I quaderni di Atlantide, a. II, n. 8, Aprile 2003

• Sandro Lorenzatti, Vicende del tempio di Venere e Roma nel Medioevo e nel Rinascimento, Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte, 1990

• Paolo Cremisini, Roma fantastica - La Roma dei fantasmi e delle leggende, www.imagoromae.com

• Nica Fiori, Roma Arcana. I misteri della Roma più segreta, Edizioni Mediterranee, 2000 • Fantasmi di Roma, www.fantasmitalia.it

• Manuela Ferrari, Fuscus, un auriga dell’antica Roma, www.honosetvirtus.roma.it

• Saffo, Poesie • Ovidio, Fasti • Ovidio, Epodi

Per quanto riguarda la Fanciulla della Via Appia, oltre a quanto si riporta integralmente, nelle pagine a seguire:

• A.V. van Stekelenbulg, Dept. of Latin, University of Stellenbosch, De Puella Romae Reperta, A renaissance Poem Inspired by a remarkable find in the year 1485 A.D., Akroterion XXXIX, 1994

• Silvia Urbini, La fanciulla di cera, www.somniiexplanatio.it

• Luciano Gianfranceschi, Gabriele La Porta, Itinerari magici d’Italia, Edizioni Mediterranee • www.artemagazine.it • www.parcoappiaantica.it • www.lamoneta.it

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Danilo Maestosi Il Messaggero, 10 maggio 2006 «C'è forse anche l'involontaria complicità di un fantasma nella riuscita trattativa per rilevare il fondo di S. Maria Nova. Una storia che risale al 1485, quando proprio lì davanti all'attuale casale i monaci dissotterrarono un sarcofago romano. Dentro, il corpo incredibilmente ancora quasi intatto di una fanciulla, un diadema d'oro sul capo, un profumo di balsamo che si sprigionava dalla lastra scoperchiata. Una scoperta che fece scalpore. La mummia, cui furono con evidente forzatura attribuiti l'identità e il nome, Tulliola, di una figlia di Cicerone, fu messa in mostra in Campidoglio. I romani che le sfilarono davanti rimasero incantati, un pittore dell'epoca ne abbozzò anche un disegno: una fanciulla bellissima. Durò due giorni, poi il cadavere esposto all'aria dopo tanto letargo si dissolse. Si gridò al miracolo. E cominciarono a girar voci che si trattasse di un fantasma. Il ricordo di quello spettro saltò fuori nel 1968, quando il casale fu comprato da una coppia di americani, gli Ewan Kimble: lui Evan uno storico; lei Elena una facoltosa ereditiera. E comiciarono - ha raccontato la signora Kimble - strani fenomeni. Voci di bambina e canti che la destavano nel sonno, inspiegabili dispetti che turbavano gli ospiti della tenuta. Un gotha di nomi eccellenti, come Grace di Monaco, Brigitte Bardot col marito Roger Vadim. Per qualcuno certo quello spettro capriccioso era, forse,un attrazione in più. Ma alla lunga la misteriosa presenza deve aver reso sempre più cupa l'atmosfera di quel casale isolato, sempre più difficile la vita di quella coppia. I due hanno divorziato e poi abbandonato la tenuta; lui tornato negli Usa, lei in una villa in Spagna. E dopo dieci anni hanno deciso di disfarsi, senza alzare il prezzo, del podere. Fantasma compreso, s'intende.»

Adnkronos/Cultura 9 maggio 2006 «Si amplia il perimetro dell’area archeologica della Villa dei Quintili grazie all’acquisto, da parte della sovrintendenza Archeologica di Roma, del terreno di Santa Maria Nova, lungo la via Appia Antica. I tesori nascosti in questi tre ettari che si vanno ad aggiungere ai 24 dell’area archeologica demaniale, indispensabili per consentire la completa fruizione del complesso della Villa dei Quintili con cui il terreno confina, sono ignoti poiché rimasti finora di proprietà privata, ma vista la storia del luogo e la sua ubicazione ci si aspettano grandi sorprese. Acquistata tramite trattativa privata tra il proprietario Evan Ewan Kimble e l’Agenzia del Demanio, l’iter portato avanti per conto della sovrintendenza - V -


Archeologica di Roma, sebbene atipico, è stato reso necessario dalle voci che prevedevano una possibile vendita a privati del terreno. Così, dopo cinque anni, il 6 aprile scorso è stato stipulato l’atto d’acquisto e oggi, direttamente sul luogo, al numero 251 di Via Appia Antica, è stato mostrato alla stampa il territorio e la costruzione che si vanno ad aggiungere alle proprietà del Demanio. Una procedura inconsueta, dunque, resa possibile dalla disponibilità del proprietario a vendere l’area di grande pregio allo Stato e grazie alla soprintendenza che, ormai in completa autonomia, ha potuto garantire la somma necessaria all’acquisto: 1.394.433,62 euro. Originariamente una proprietà ecclesiastica compresa, nel 997, nel patrimonio Celimontano di S. Erasmo, incorporata nel XII secolo nel fondo di Santa Maria Nova e, dal XVI secolo, proprietà dei monaci Olivetani di Santa Maria Nova, il terreno comprende un casale eretto tra il XII e il XIII secolo che si erige su una cisterna a due piani di età imperiale romana e una torre, in parte romana e in parte medievale. Nel 1889, con il sequestro dei beni della Chiesa, il terreno passò alla famiglia Marfori e poi ai conti Marcello. Proprio dai conti Marcello, i coniugi Elena e Evan Ewan Kimble acquistarono il terreno e il casale dove vissero, dal 1968 al 1975, fino al divorzio che sancì la fine del matrimonio. Quella splendida costruzione che ospitò spesso la principessa Grace Kelly, straordinaria testimonianza del passare dei secoli poiché realizzata con materiali di “recupero” (marmi romani, blocchetti di peperino, mattoni medievali), fu dunque la meravigliosa, quanto misteriosa, dimora degli sposi. Secondo Elena Kimble “quella casa era un posto meraviglioso, una sorta di microcosmo dal quale non avrei mai voluto uscire”: deve essere stata la bellezza di quella struttura immersa nel verde e tra le rovine romane ad averla convinta a continuare a vivere nel casale anche dopo aver scoperto che si trattava di una casa abitata da spiriti. “Spiriti gelosi”, secondo la signora Kimble, che spingevano gli abitanti giù dalle scale e li sottoponevano a ogni genere di dispetti. A quanto riporta la proprietaria, che ora vive in Spagna, “nella casa si sentivano sempre voci, musiche, odori di fiori e la voce di una bambina che cantava filastrocche infantili”. Sarà stata, forse, la voce della bambina alla quale apparteneva il corpo contenuto nel sarcofago rinvenuto, nel 1485, proprio presso il casale, perfettamente conservato e con un diadema d’oro nei capelli? Si disse, ma senza alcun fondamento, che si trattava di Tullia, la figlia di Cicerone, ma quale sia la verità non la sapremo mai, perché il corpo, esposto a Palazzo della Cancelleria, si dissolse improvvisamente a contatto con l’aria. Un mistero accentuato dal fatto che il Quinto Miglio della Via Appia (dove si trova il - VI -


casale), è considerato dagli storici, anche sulla base delle affermazioni di Piranesi, un luogo di purificazione: il terreno ricco di acque benefiche, minerali e calde ospitava probabilmente atti purificatori che precedevano i riti della cremazione. A poca distanza dalla proprietà, infatti, si trova un ustrino, luogo in cui si bruciavano i corpi dei morti.»

Henry Thode Storico dell'arte tedesco. Durante un soggiorno a Lille nel 1881 visita il museo cittadino e resta affascinato da un busto in cera e terracotta raffigurante fanciulla. Si convince che l’opera sia un manufatto fiorentino eseguito alla fine del Quattrocento, nella cerchia del Verrocchio, sulla base di un calco in cera del cadavere della fanciulla romana della Via Appia. Espone questa teoria e ricostruisce la storia del rinvenimento in: Die Römische Leiche vom Jahre 1485. Ein Beitrag zur Geschichte der Renaissance, 1883. «Il 18 aprile 1485 in un terreno del convento di S. Maria Nuova, sulla via Appia, oltre il mausoleo di Cecilia Metella, fu ritrovato da alcuni muratori lombardi, all’interno di un monumento funerario, un sarcofago marmoreo ermeticamente chiuso, in cui si trovava, conservato miracolosamente con un aspetto vitale, grazie a una particolare mistura, il corpo di una gioFanciulla di cera di Lille e vane fanciulla tra i 12 e i 15 anni, il cui nome dettaglio del disegno originale era indicato in un’epigrafe come «Julia filia del cadavere della Via Appia realizzato dal vivo nel 1485 Claudi». Aveva capelli biondi, sostenuti da una specie di cuffia o benda, occhi e bocca leggermente aperti, denti bianchi, colorito vivo, guance carnose e le membra ancora mobili. Esposta pubblicamente sul Campidoglio nei giorni successivi, suscitò grandissimo scalpore non solo a Roma ma anche in regioni lontane, e provocò un vero e proprio pellegrinaggio, fino a che, divenuta nera a causa dell’effetto dell’aria, per ordine di Innocenzo VIII, per il quale era divenuto increscioso il culto quasi pagano nei suoi confronti, venne segretamente sotterrata fuori di porta Pinciana.» - VII -


François Joseph M. Noel, P. Figlio Dizionario delle invenzioni, origini e scoperte, relative ad arti, scienze, commercio ec, 1850 «Si citano altri esempi di lampade perpetue trovate nelle tombe, e segnatamente quella di Tulliola figlia di Cicerone, il di cui sepolcro fu scoperto in Roma nel 1540: si dice che ivi si rinvenisse una lampada accesa, la quale si spense appena entratavi l'aria.» Walter Scott Il canto dell’ultimo menestrello, 1841 «Dicesi che fu trovata una di queste lampade perpetue nel sepolcro di Tulliola figlia di Cicerone. Se ne suppose il lucignolo di amianto.» Ab. Declaustre Dizionario Mitologico, 1834 «...il più famoso è quello di Tulliola figliuola di Cicerone, il cui sepolcro fu scoperto a Roma nel 1540. Dicono che vi si trovò una lampada accesa, la quale si estinse tostochè vi penetrò aria.» Jacques Roergas de Serviez Storia della vita delle imperatrici Romane e delle principesse del loro sangue con note storico-critiche, 1830 «Verso il principio del secolo decimosesto fu scoperto, in quella pubblica strada, non molto lungi da Terracina, la quale da' Romani soleva chiamarsi Via Appia, un sepolcro, dentro cui si trovò il cadavere d'una giovane donna, il quale nuotava in un liquore non conosciuto. Aveva i capelli biondi, raccolti ed uniti da una fibbia di oro, ed era così fresco, come di una persona che ha vita. A' di lei piedi si vedeva una lampada accesa, la quale si estinse nello stesso punto che nel sepolcro entrò l'aria. Da certe iscrizioni, che si trovarono, si comprese che quel corpo era stato ivi collocato mille cinquecent'anni addietro, e si volle conghietturare quello esser il cadavere di Tullia figliuola di Cicerone. Fu trasportato a Roma, ed esposto nel campidoglio, ove tutti correvano in folla per rimirarlo. Ma perchè certe anime troppo credule giudicavano dover essere quello il corpo di qualche santa donna, perchè non lo vedevano a corruzione soggetto, il pontefice, con opportuno provvedimento, lo fece in tempo di notte gettare nel Tevere.» - VIII -


Barone di Kossin L’eroismo ponderato nella vita di Alessandro il grande, 1741 «Racconta di più Guido Panziroli nelle sue cose antiche, d’essersi nel pontificato di Paolo Terzo, trovato sulla Via Appia il sepolcro di Tulliola, figliuola di Cicerone, nella quale era una lucerna, che più di mille cinquecento anni bruciava: ma poi esposta all’aria, perdette il suo lume. Il corpo di quella signora era intiero; ma essendo stato toccato, andò medesimamente subito in polvere, talche non ne rimane altro che qualche ornamento d’oro dell’abito, e la rete d’oro, nella quale si vedeva la di lei capilliatura intrecciata, che poi quello fosse il corpo della figliola di Tullio, lo manifestò la lapida del Sepolcro (...) Sulla medesima Via Appia, al tempo di Papa Alessandro Sesto, fu al ragguaglio di Giovanni Astolfi, trovata un’antichissima sepoltura di marmo, nella quale nuotava sopra un pretioso liquore aromatico il corpo d’un altra vergine di rara bellezza, con capelli biondi in cerchio d’oro, ed havea a piedi una lucerna accesa, che all’aprirsi del sepolcro toccata dall’aria, subito s’estinse. E Leandro Albertini nella deferizione della Campagna di Roma, raccontando l’istessa cosa, asserisce che quanto si poteva conoscere dalle lettere intagliate in quel sepolcro, erano già passati anni mille, e trecento, che quel cadavero era quivi seppellito.» Pierre Le Brun, Zannino Marsecco Storia critica delle prattiche superstitiose, 1745 «Essendochè, nell'aprire qualche antico sepolcro, come quello della figliuola di Cicerone, si erano trovate delle Lampade, che sparsero un po' di lume per alcuni istanti, ed anche per alcune ore.» Conyers Middleton Storia della vita di Marco Tullio Cicerone scritta dal signor Conyers Middleton dottore in teologia e primo bibliotecario dell'Università di Cambridge per Pietro Palumbo, 1745 «Celio Rodigino ci racconta che a tempo di Sisto IV si ritrovò sulla via Appia dirimpetto la tomba di Cicerone un cadavere di donna, i capelli della quale erano trenati d'oro, e che dall'iscrizione si riconobbe esser Tullia figliuola di Cicerone. Era ella stata sì bene imbalsamata, che si era il di lei corpo conservato intiero, ma che tre giorni dopo si ridusse in polvere [...] non se ne rapporta l'iscrizione nè alcuno Autore ha mai accennato, che Cicerone abbia avuta una tomba nella via Appia.» - IX -


Luigi Moreri Dictionnaire, 1674 «...si dice nondimeno che sotto papa Paolo III, a metà dell XVI secolo, si scoprì nella stessa strada di Appio, un’antica tomba con questa iscrizione: Tulliolae filiae meae; e nella quale vi erano le spoglie mortali di una donna che al primo soffio d’aria, si ridusse in polvere, con una lampada ancora accesa, che si spense all’apertura della tomba.» John Donne The good night, 1613 Come nella tomba di Tullia un lume bruciò chiaro e immutato per 15 secoli possano i lumi d’amore che accendiamo in calore, luce e durata, uguagliare la divinità Alessandro D’Alessandro Geniales dies, 1522 Mentre dimorava in Roma, fra i sepolcri della Via Appia «fu scavato un cadavere molto antico di una fanciulla, che aveva il volto, i capelli, gli occhi, le narici e tutti i lineamenti affatto incorrotti, se non perché li avanzi de’ liquori, e degli unguenti, on’era stato condito sembravano di freschi aromi. Non v’era iscrizione da cui si potesse arguire il nome della defunta.» Conrad Celtis De Puella Romae reperta (1459 - 1508) Per più di mille anni ho riposato imprigionata in questa tomba, ora, liberata dalla mia sepoltura, parlerò al popolo di Roma: Non vedo più Quiriti né l’antica moralità romana, quegli uomini eccelsi nella giustizia e nella compassione, ma vedo solo tanta tristezza e rovine desolate, meri ricordi degli uomini di un tempo antico. Se dovessi vederti ancora una volta, trascorsi cento anni, sono certa che la stirpe romana sarebbe scomparsa del tutto - X -


Stefano Infissura (Scriba del Senato e del popolo di Roma) Diario della città di Roma Citato dal Muratori in Rerum Italicarum Scriptores

16 aprile 1485. «In questo giorno i frati del monastero di Santa Maria Nova, ordinarono uno scavo in un loro pezzo di terra, situato lungo la Via Appia, approssimativamente al quinto o al sesto miglio oltre Porta Appia. Dopo che ebbero totalmente distrutto un monumento funerario situato vicino alla strada, approfondendo lo scavo ne individuarono le fondamenta e vi rinvennero una cassa marmorea coperta da una lapide marmorea sigillata, una volta aperta, vi trovarono un corpo femminile intatto, avvolto in una mistura aromatica: aveva una cuffia d'oro in capo e i biondi capelli sulla fronte e dal colorito della carne pareva viva. Gli occhi e la bocca erano semi aperti: tirando in fuori la lingua, questa tornava al posto suo appena lasciata. Denti bianchi e solidi, le unghie delle mani e dei piedi bianche e fermissime. Le braccia si potevano sollevare e abbassare, come se non fosse morta. Rimase per molti giorni nel Palazzo dei Conservatori, dove, a causa dell’aria, il suo colorito mutò a tal punto che il volto si fece nero, tuttavia non si decomposero né la carne né il grasso. I Conservatori avevano esposto il corpo nel suo sarcofago, in un luogo vicino alla cisterna, nel cortile dell’edificio. Su ordine di Papa Innocenzo il corpo fu rimosso di notte e trasportato in un luogo ignoto al di fuori e non lontano dalla Porta Pinciana, dove scavarono una fossa e lo seppellirono. Si credette che il corpo appartenesse a Giulia, figlia di Cicerone. Durante questi primi giorni in cui fu rinvenuta e portata al Palazzo dei Conservatori, suscitò un tale afflusso di visitatori che tutto il cortile e la piazza erano piene di venditori di olii ed essenze, che molto commerciarono. Stando a quanto fu detto, la mistura fortemente odorosa che ricopriva il suo corpo era composta di mirra ed olio d’oliva, oppure, secondo altri, di aloe e olio di trementina, i quali hanno odori così forti da poter stordire. In molti credono che in tale sepoltura vi fosse una gran quantità di oro, argento e pietre preziose; tale sospetto è da imputare alla scomparsa di tutte le persone coinvolte nello scavo. L’età della ragazza, a quanto potei vedere, era fra i dodici ed i tredici anni, ed era così leggiadra e bella che a mala pena si può spiegare in iscritto o a parole, e se anche si dicesse o giurasse, chi leggesse, senza averla vista personalmente, non vi potrebbe credere. In molti accorsero per vederla, anche da molto lontano, e per dipingere la sua bellezza, ma non fu possibile, poiché al loro arrivo ella era scomparsa, trasferita in un luogo segreto. Queste per- XI -


sone tornarono a casa scontente. Il sarcofago di marmo nel quale era stata sepolta originariamente, fu poi riportato nel cortile del Palazzo dei Conservatori. (...)» Bartolomeo della Fonte Epistola a Francesco Sassetti, maggio 1485. Collezione Prof. B.Ashmole, Oxford

«Bartolomeo Fonte al suo amico Francesco Sassetti salute... Mi hai pregato di dirti qualcosa sul corpo di donna trovato di recente presso la Via Appia. Spero soltanto che la mia penna sia in grado di descrivere la bellezza e il fascino di quel corpo. Se non ci fosse la testimonianza di tutta Roma il fatto sembrerebbe incredibile... Nei pressi della sesta pietra miliare dell'Appia, alcuni operai, in cerca d'una cava di marmo, avevano appena estratto un gran blocco quando improvvisamente sprofondarono in una volta a tegole profonda dodici piedi. Rinvennero colà un sarcofago di marmo. Apertolo, vi trovarono un corpo disposto bocconi, coperto d'una sostanza alta due dita, grassa e profumata. Rimossa la crosta odorosa, apparve un volto di così limpido pallore da far sembrare che la fanciulla fosse stata sepolta quel giorno. I lunghi capelli neri aderivano ancora al cranio, erano spartiti e annodati come si conviene a una giovane e raccolti in una reticella di seta e oro. Orecchie minuscole, fronte bassa, sopraccigli neri, infine occhi di forma singolare sotto le cui palpebre si scorgeva ancora la cornea. Persino le narici erano ancora intatte e sì morbide da vibrare al semplice contatto di un dito. Le labbra rosse, socchiuse, i denti piccoli e bianchi, la lingua scarlatta sin vicino al palato. Guance, mento, nuca e collo sembravan palpitare. Le braccia scendevano intatte dalle spalle sì che, volendo, avresti potuto muoverle. Le unghie aderivano ancora alle splendide lunghe dita delle mani distese. Petto, ventre e grembo erano invece compressi da un lato e dopo l’asportazione della crosta aromatica si decomposero. Dorso, fianchi e il deretano invece, avevano conservato i loro contorni e le forme meravigliose, così come le cosce e le gambe che in vita avevano sicuramente presentato pregi anche maggiori del viso. In breve, deve essersi trattato della fanciulla più bella, di nobile schiatta, del periodo in cui Roma era al massimo splendore. Purtroppo il maestoso monumento sopra la cripta è andato distrutto molti secoli or sono senza che sia rimasta neanche un'iscrizione. Anche il sarcofago non porta alcun segno: non conosciamo né il nome della fanciulla, né la sua origine, né la sua età.» - XII -


Disegno accluso alla lettera di Bartolomeo della Fonte, 1485 Oxford, Bodleian Libraries

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Messer Daniele da San Sebastiano Epistola del 1485 «Durante gli scavi fatti sulla via Appia per cercare pietre e marmi, in questi ultimi giorni sono state scoperte tre tombe di marmo sepolte a metri 3,60 sotto terra. Una era di Terenzia Tulliola, figlia di Cicerone, le altre erano prive di epitaffio. Una di queste due conteneva il corpo di una ragazza giovane, intatto in tutte le sue membra e ricoperto dalla testa ai piedi da una sostanza aromatica spessa circa 2,5 centimetri. Rimuovendo questo rivestimento che crediamo fosse composto da mirra, incenso, aloe e altre sostanze costose, è comparso alla vista un corpo e un volto così bello, così affascinante, che sebbene la ragazza fosse morta da almeno 1500 anni , sembrava fosse stata deposta quel giorno. La spessa massa di capelli biondi riunita sopra la testa secondo l’ antico uso, sembrava essere stata appena pettinata. Gli occhi erano aperti e le palpebre potevano essere a mano richiuse e sollevate, le orecchie ed il naso erano così ben conservati che dopo essere stati leggermente deformati, tornavano immediatamente al loro posto. Esercitando una lieve pressione sulle guance, il colore roseo scompariva come in un corpo vivo. Si poteva vedere la lingua tra le labbra rosa e se tirata delicatamente fuori, tornava al suo posto; le articolazioni delle braccia, mani e delle gambe e piedi conservavano ancora la loro elasticità. Unici gioielli indossati erano una rete d’oro intorno ai capelli per sorreggerli e un anello nel dito indice della mano sinistra, subito rubati al momento della scoperta. - XIV -


Quasi l’intera Roma uomini e donne fino a circa ventimila presenze ha visitato quel giorno questa meraviglia. (...) Questa ragazza dentro la sua cassa aperta fu portata in esposizione sul Campidoglio e questa meravigliosa reliquia del passato non diede alcun segno di decomposizione, solo dopo parecchi giorni l’aria comincio a provocare i suoi effetti, il viso e le mani cominciarono a diventare neri.»

Antonio di Vaseli Diario, 19 Aprile 1485 «Oggi giunge notizia che è stato rinvenuto un corpo, sepolto un migliaio di anni fa in una tenuta di Santa Maria Nova, nei pressi di Casale Rotondo. (...) Il corpo è stato portato in esposizione nel Palazzo dei Conservatori ed una gran folla di cittadini è accorsa per vederla.» Gaspare Pontani (1449-1524) Il diario Romano Aprile. 1485 «Alli 18. fu trovato in un casale de Santa Maria nova, sopra Capo di Bove, un corpo intiero in un pilo di marmo. Alli 19, Martedì. fu portato lo detto corpo in casa delli conservatori, et andava tanta gente a vederlo che pareva ce fusse la perdonanza, et fu messo in una cassa de legname e stava scoperto; era corpo giovanile, mostrava da 15 anni, non li mancava membro alcuno, haveva li capelli negri come si fusse morto poco prima, haveva una mistura la quale si diceva l’haveva conservato con li denti bianchi, la lengua, le ciglia; non se sa certo se era maschio o femina, molti credono sia stato morto delli anni 1700. » Papi dal 1471 al 1549 Sisto IV (1471-1484) Innocenzo VIII (1484-1492) Alessandro VI (1492-1503) Pio III (settembre-ottobre 1503) Giulio II (1503-1513) Leone X (1513-1521) Adriano VI (1522-1523) Clemente VII (1523-1534) Paolo III (1534-1549) - XV -


Pillole e curiosità storiche

Kiengir Shumer: Nome con cui i Sumeri indicavano la terra compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate (Mesopotamia). Mog Ruith: Personaggio della mitologia irlandese, il più potente druido mai vissuto, secondo alcune leggende medievali fu allievo di Simon Drui.

Simon Drui: Nome assunto da Simon Mago, quando soggiornò in Irlanda, in base a leggende celtiche e templari, divenendo maestro di Mog Ruith.

Incesto: la violazione del voto di castità trentennale di una sacerdotessa di Vesta era definita incesto, ed era punita con la morte, sia per la vestale che per l’uomo colpevole di aver avuto rapporti sessuali con lei. Lo stesso termine veniva usato anche per indicare l’unione sessuale tra persone legate da vincoli di parentela.

Celia Concordia: Il sacro fuoco di Vesta, che ardeva dal giorno della fondazione di Roma, venne spento nel 391 d.C. e Celia Concordia fu l’ultima vestale. In precedenza, in un momento imprecisato, il culto di Vesta si era fuso con quello di Cibele ed il focolare veniva accudito da una sacerdotessa solitaria. Fuscus. Famoso auriga della squadra dei verdi, era un vero e proprio idolo. Morì a 24 anni, collezionò 53 vittorie a Roma, due per la dea Dia e una a Boville. Morì nel 35 dC e sappiamo di lui per via di due iscrizioni commemorative, una rinvenuta a Roma ed una a Boville.

Defissioni (Defixiones). Antiche maledizioni che venivano incise a graffio su lamine di piombo. La tavoletta veniva poi ripiegata o arrotolata e quindi trafitta con una serie di chiodi, da cui il termine defixio. Il “pacchetto” era infine posto in una buca, in una sepoltura, in un tempio o in un luogo consacrato, possibilmente in comunicazione con gli inferi. Man mano che il tempo logorava la lamina, si compiva il destino della vittima dell’anatema. Il testo inciso poteva limitarsi al solo nome del condannato, oppure specificare, anche con formule lunghe e complesse, quale tipo di maledizione dovesse colpirlo. Questa pratica magica, benché proibita a Roma dalle leggi delle XII tavole (V secolo a.C.) e dalla Lex Cornelia (I secolo a.C.), come ogni atto magico in grado di procurare morte o seri danni ad un altro - XVI -


cittadino, era largamente diffusa e tale rimase fino ad almeno il V secolo d.C.. Una defixio, vergata in lingua etrusca, è stata trovata anche ad Ardea, nel deposito votivo di Casarinaccio.

Corse dei cavalli. Nell’antica Roma erano una passione di massa, come il calcio oggi. Gli aurighi romani, generalmente schiavi, erano dei veri e propri idoli. Le loro vite erano brevi e morivano quasi tutti sull’arena, a causa della estrema rischiosità insita nelle corse. L’auriga romano era infatti privo delle protezioni che usavano i greci ed aveva le briglie attorcigliate ripetutamente intorno al corpo, cosa che gli impediva di saltare via. Lo sport richiedeva destrezza, competenza agilità e forza fisica, soprattutto nelle gambe, per restare in equilibrio e non finire trascinato o sotto le ruote di un altro carro. I più famosi aurighi furono un certo Fuscus ed un certo Scorpo. I competitori erano divisi in squadre e le tifoserie erano talmente accanite che spesso si scontravano sugli spalti. Le fazioni più importanti erano i Rossi, gli Azzurri, i Bianchi ed i Verdi ed ognuna cercava di accaparrarsi gli atleti migliori. Il giro di scommesse era immenso, i premi in denaro molto cospicui e per vincere si ricorreva a tutto, incluso l’uso di droghe. L’imperatore Nerone, accanito tifoso dei Verdi, la fazione più amata dal popolo, sovvenzionò tutte le squadre fino a renderle indipendenti dal controllo imperiale. Crocea mors. Morte Gialla. Era la spada di Giulio Cesare, alle cui ferite nessuno poteva sopravvivere. Era custodita nel tempio di Marte Ultore, nel foro di Augusto.

Nomi nell’antica Roma I cittadini romani di sesso maschile, nati liberi, avevano tre nomi: il primo, che veniva ripetuto nei primogeniti, il secondo che indicava la stirpe di provenienza o quella di adozione, ed il terzo, che inizialmente era un soprannome individuale, poi divenne ereditario ed atto a specificare il ramo della famiglia. Ad esempio Nerone, prima di essere adottato dall’imperatore Claudio, si chiamava Lucio, come suo nonno, Domizio, perché parte della stirpe nobile dei Domizi, Enobarbo in quanto appartenente al ramo degli Enobarbo (barba di bronzo), che acquisirono tale appellativo da un antenato, i cui capelli e la cui barba furono mutati da neri in rossi per intervento degli dei Castore e Pollice. Gli Enobarbo, in più di duecento anni, usarono sempre due primi nomi: Gneo e Lucio. Altri nomi potevano essere aggiunti per meriti di carica, di onore o di trionfo. Quando divenne - XVII -


figlio adottivo dell’imperatore Claudio, Lucio Domizio Enobarbo aggiunse ai suoi nomi anche Nerone Claudio. In seguito, con la sua proclamazione ad imperatore, fu anche Cesare Augusto Germanico. Le donne romane nate libere, avevano solo due nomi pubblici, corrispondendi al secondo ed al terzo nome di famiglia. Il primo nome, quello individuale, esisteva ma era un segreto che doveva restare tra i più stretti familiari. Veniva quindi usato un aggettivo di distinzione (prima, seconda, maggiore, minore) per limitare la confusione fra madri e figlie e tra sorelle. Nel momento delle nozze la donna aggiungeva i nomi del marito ai suoi, ma il suo primo nome non veniva rivelato ad altri se non allo sposo. Si tratta di un’usanza antichissima, secondo la quale conoscere il nome di una donna equivaleva ad avere potere su di lei, quindi ad esserne il padre o il marito. La città di Roma, come le donne di Roma, aveva un nome segreto ed una divinità tutelare misteriosa, entrambi non dovevano mai essere rivelati agli uomini. Ne era a conoscenza solo il pontefice massimo, che tramandava l’informazione al suo successore. Eventuali trasgressioni erano punite con la morte. Conoscere il nome segreto di una città e la divinità che la proteggeva significava dare ai nemici il potere di evocare il nume, placarlo con abbondanti offerte e lanciare la maledizione per la sconfitta della città, cosa che si diceva fosse avvenuta per la caduta di Veio e di Cartagine. I romani furono talmente scrupolosi nel conservare entrambi nel più assoluto segreto, che non specificarono mai neanche se la divinità protettrice di Roma fosse un dio o una dea. Gli schiavi avevano solo il nome personale e se venivano liberati, divenendo liberti, assumevano il secondo ed il terzo nome della famiglia del loro ex padrone.

I pignora Erano sette talismani che garantivano la prosperità e l’invincibilità della città di Roma. L’ago di Cibele, la quadriga di Veio, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Iliona, il Palladio e gli Ancilia. L’ago di Cibele era un piccolo meteorite nero di forma conica, una pietra con il potere di essere la dea e non solo di rappresentarla. Il Palladio era un misterioso simulacro di Atena, caduto dal cielo su Troia ed in grado di garantire l’inespugnabilità della città che lo custodiva. Si muoveva, sudava, girava gli occhi e accecava chi lo maneggiava incautamente. Solo la vestale massima era in grado di distinguerlo dalle numerose copie, insieme alle quali era custodito nel tempio di Vesta. - XVIII -


L’ancile era uno scudo donato dal dio Marte a Numa Pompilio, era custodito insieme ad undici copie identiche, nel tempio di Marte. Se gli scudi si muovevano da soli era da considerarsi un presagio di guerra. La quadriga di Veio era una rappresentazione in terracotta del carro di Giove, dotata del potere di garantire la prosperità alla città. Le ceneri di Oreste, il principe costretto ad uccidere la madre per vendicare il padre, garantivano l’invincibilità in battaglia. Lo scettro di Priamo, re di Troia era associato a Giove. Il velo di Iliona era appartenuto a Leda, regina di Sparta amata da Giove e madre dei quattro gemelli divini Castore, Polluce, Elena e Clitennestra. Anche il fuoco sacro di Vesta, la verginità delle sacerdotesse vestali, la segretezza del vero nome di Roma e della sua divinità protettrice, erano parte integrante dei talismani che garantivano la salute e la prosperità della città e dell’impero.

Dannazione della memoria La Damnatio memoriae era una pena, decisa solitamente dal senato, che cancellava ogni traccia della persona condannata dalla vita pubblica. Era preceduta dalla dichiarazione di essere nemico di Roma e costituiva una vera e propria morte civile, che in alcuni casi, fu applicata anche su persone in vita. Il primo nome veniva abolito dalla famiglia del reo e non poteva più esservi tramandato. Il nome completo non poteva essere pronunciato e veniva cancellato da qualsiasi iscrizione che lo contenesse. Ogni sua raffigurazione veniva abbattuta o sfregiata. In altre parole era un decreto di morte su ciò che poteva tramandare la memoria di quella persona alle generazioni future. Per la mentalità romana si trattava di una punizione gravissima.

Il tempo ed il calendario Nell’antica Roma gli storici calcolavano gli anni Ab Urbe Condita, vale a dire dall’anno in cui la città era stada fondata per opera di Romolo (753 a.C.). Prima che lo scrittore Varrone la definisse, i romani datavano gli eventi in base agli anni di regno del re sul trono. Durante la fase repubblicana si indicava semplicemente il console in carica (il consolato era annuale). Durante l’impero tale abitudine proseguì, ma si iniziò anche ad indicare gli anni di principato dell’imperatore al potere o quelli trascorsi dalla salita al trono di Augusto (38 a.C.). Quando l’imperatore Giustiniano, nel 541, abolì i consoli, restò il sistema Ab Urbe Condita, combinato con gli anni di regno del sovrano, affiancato, a volte, da un complicato mec- XIX -


canismo, basato su un modulo di 15 anni, detto Indizione, che partiva dal 313 d.C. Nel corso dell’VIII secolo si iniziò infine ad adottare la cronologia che contava il tempo a partire dal concepimento o dalla nascita di Gesù. Anno ab incarnatione Dominus noster Jesus Christus, anno dall’incarnazione del signore nostro Gesù Cristo e la formula abbreviata Anno Domini, anno del Signore, sono i due nuovi indicatori che compaiono nei documenti. Per quanto possibile e non senza una certa semplificazione, ho cercato di rispettare questo lento mutare del calcolo degli anni, riportando tra parentesi quadre l’anno così come noi lo computiamo oggi.

Nerone era bello o brutto? La dannazione della memoria ed i pesanti pregiudizi che lo hanno perseguitato per duemila anni, non hanno risparmiato neanche l’aspetto fisico di Nerone, che, probabilmente, non era affatto così brutto come siamo stati indotti a credere. Era figlio della donna più avvenente e sensuale di Roma e perfino le fonti antiche, che gli sono profondamente ostili, ammettono che aveva un bel viso, occhi azzurri e capelli tra il biondo ed il rame. Precisano che era di statura normale e godeva di ottima salute. Poi si affrettano ad aggiungere una sfilza di difetti, alcuni dei quali probabili, altri assai inverosimili: il corpo chiazzato e maleodorante, gli occhi deboli, il collo grosso, il ventre prominente e le gambe gracili. Che avesse le gambe gracili, in particolare, non è plausibile, perché gli sarebbe stato impossibile essere un eccellente auriga, qualità che perfino i suoi detrattori gli riconoscevano. Si allenava molto duramente sia nelle corse dei cavalli che nell’esercitazione della voce, dunque aveva assai probabilmente un fisico da atleta, così come appare in questa spettacolare statua esposta al museo del Louvre. Il collo era possente ed anche il torace, sproporzione enfatizzata dai suoi detrattori, come spesso avviene anche ai giorni nostri, quando si vuole abbinare brutto e cattivo. La presunta miopia è probabilmente un altro mito, generato dalla curiosa abitudine che l’imperatore aveva di osservare il mondo attraverso un grosso smeraldo levigato. Un vezzo che probabilmente aveva un significato filosofico o artistico, più che un’utilità pratica per correggere un difetto visivo. Nelle raffigurazioni abitualmente scelte (anche oggi) per rappresentarlo, appare sistematicamente obeso e col doppio mento. Ma non sono le uniche esistenti. In alcune appare asciutto e con il viso sgonfio. Il collo, invece, è quasi sempre molto grande. Poiché Nerone si fece sempre ritrarre in modo realistico, dobbiamo quindi dedurre che abbia sofferto di una certa tendenza a prendere peso, che lo portava, probabilmente quando non poteva - XX -


allenarsi, ad ingrassare. Un andamento a fisarmonica, come si direbbe ai nostri tempi, che si nota anche nel suo profilo, così come appare nelle monete che lo rappresentano e di cui curava personalmente la cesellatura. Riguardo il suo odore, probabilmente c’è del vero nell’informazione che non fosse gradevole. Mangiava porri in grandi quantità (veniva soprannominato porrofago), per mantenere la voce limpida e le vie respiratorie pulite, e quindi un po’ di alito pesante lo aveva di sicuro. - XXI -




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