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10 - MARZO 2006 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA
Primo piano
Storia di una piccola impresa
In copertina: Castelvecchio, accesso al Museo. Foto di Silvia Andreetto
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Dieci anni fa, dopo aver lasciato il mio vecchio lavoro di redattore, aprii uno studio editoriale. Ricordo che la mia prima preoccupazione, dopo essermi licenziato, fu quella di non rimanere inoperoso, anche perché non avevo grandi risorse economiche su cui contare. Siamo poco dopo la metà degli anni ’90 e il computer si stava dimostrando uno strumento eccezionale anche nelle redazioni dei giornali. In particolare mi piaceva, dopo aver scritto l’articolo, titolarlo e impaginarlo direttamente a video. Mentre per tanti miei colleghi questo screditava la nobile arte del giornalismo, per me integrare diverse professionalità significava un maggior controllo dei processi della comunicazione, un arricchimento della mia professionalità e un risparmio di soldi per l’editore. Frequentai dei corsi serali alla Scuola Grafica Salesiana e aprii subito una Partita IVA. Utilizzai la liquidazione per acquistare le attrezzature necessarie, sacrificai una parte della mia abitazione per ricavare un ufficio e mi affannai, tra mille preoccupazioni e notti insonni, a muovere i primi passi come imprenditore. Subito chiesi il sussidio per la disoccupazione, che mi sarebbe servito nella fase di avviamento dell’attività e per pagare l’affitto di casa. Compilai i moduli necessari, ma non ottenni il sussidio. All’Ufficio del Lavoro mi dissero che i possessori di Partita Iva non ne avevano diritto. Spiegai che era stata aperta appena un mese prima, che ero in una situazione di emergenza, affatto diversa da quella di una qualsiasi persona rimasta senza lavoro, ma nulla da fare. Si trattava di una discreta sommetta, più degli otto milioni di fatturato che feci quel primo anno. Avevo oltrepassato la barricata e mi resi conto di essere solo, che
non c’erano sindacati a cui potevo riferirmi, anche se mi sentivo in una posizione di estrema debolezza, con la necessità di essere tutelato. Grazie a persone amiche, durante il secondo anno di attività raddoppiai il fatturato (ricordo a chi non fosse pratico che pagando le tasse e le spese di gestione rimane circa la metà). Alla contabilità ha sempre provveduto un’amica che mi è stata vicina. Il quarto anno non lo dimenticherò mai perché lo Stato, analizzando la mia dichiarazione dei redditi, ritenne impossibile che i guadagni fossero così esigui. Avrei quindi dovuto pagare le tasse non in base al denaro realmente guadagnato, ma secondo quanto, in base a certi parametri, avrei dovuto percepire: una somma quattro volte superiore. Eppure, secondo il Codice Civile, l’impresa svolge un’attività per sua natura a rischio, ed è possibile che un bilancio sia addirittura in perdita, soprattutto nelle fasi iniziali. Avevo allora, e continuo ad avere, una certa avversione per i condoni, ma giunto al quinto anno di attività, con un volume di affari crescente, si prospettava la possibilità di regolarizzare la mia posizione per quelle annate in cui il reddito non risultava conforme alle aspettative dello Stato. Versai qualche migliaio di euro con cui letteralmente comperai la tranquillità necessaria per concentrarmi sul mio lavoro, giusto in tempo per sostituire i computers ormai obsoleti, procurarmi il nuovo software, le scrivanie che sostituirono i pannelli di truciolato poggiati sui cavalletti. Tre anni fa è nato questo giornale, lo studio ha iniziato la collaborazione con case editrici importanti, lo scorso anno ho assunto un’apprendista in base a una legge (la n° 30 del 14 febbraio 2003, Legge Biagi) per cui lo Stato per cinque
anni si impegna a pagare gran parte dei contributi del lavoratore al posto dell’azienda. Finalmente una buona iniziativa, che mi consente, se me lo lasciano fare, di creare i presupposti per riconfermare l’assunzione scaduti i cinque anni e alla mia validissima collaboratrice, che ha 21 anni, di farsi un’idea del mondo del lavoro, all’economia di riprendersi e di creare quindi nuove opportunità di occupazione. Mi resta l’amaro in bocca quando, ripensando alla mia storia, sento indiscriminatamente parlare di questa legge come una normativa che favorirebbe il precariato e lo sfruttamento del lavoratore, perché mi vedo ancora una volta messo dall’altra parte della barricata, come se i miei sforzi fossero indirizzati unicamente ad arricchirmi, mentre la mia idea di impresa è certamente diversa, ma poco riconosciuta proprio da chi la dovrebbero sostenere. g.m.
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Cultura PARERI A CONFRONTO
Musei gratis? Il problema è un altro La sfida lanciata a Bologna dal sindaco Cofferati commentata dagli operatori di casa nostra. «Meglio coinvolgere i cittadini con altre formule e mirare a una politica congiunta che comprenda l’insieme dell’offerta culturale e turistica»
A Verona e provincia, tra grandi e piccoli, noti e meno noti, sono presenti 45 musei. È ipotizzabile non far pagare il biglietto per incentivare le visite? Rispondono il vicesindaco Maurizio Pedrazza Gorlero, Paola Marini, diretttrice dei Musei Civici, Giorgio Cortenova, direttore della Galleria d’Arte Moderna, Alessandra Aspes, direttrice del Museo Civico di Storia e Scienza Naturali e Ledo Prato, presidente della Fondazione Città Italia e di Mecenate ’90
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di Cinzia Inguanta e Chiara Cappellina Entrata gratis nei musei, per tutti: una sfida lanciata da Sergio Cofferati, sindaco di Bologna, che dal prossimo aprile renderà gratuito l’ingresso ai musei della sua città. A Verona e provincia, tra grandi e piccoli, noti e meno noti, sono presenti 45 musei. È ipotizzabile anche qui non far pagare il biglietto per incentivare le visite? Lo abbiamo chiesto a Maurizio Pedrazza Gorlero, vicesindaco e assessore alla Cultura: «Questo sistema da noi non funzionerebbe e non trovo sia quello del biglietto d’ingresso il vero problema. Un conto è l’economia di gestione e il non spreco, ma non si può economicizzare la cultura fino a questo punto». Il vicesindaco spiega che gli strumenti per promuovere la cultura in città ci sono: dalla Verona Card, il biglietto unico di entrata ai musei veronesi, all’iniziativa MuseInsieme, rivolta alle famiglie ogni prima domenica del mese, fino alla recente idea per favorire l’integrazione dei lavoratori extracomunitari, offrendo loro la possibilità di visitare, durante il fine settimana, il Museo di Storia Naturale, il Museo Archeologico e quello di Castelvecchio. «Pensando che i nostri sono musei amministrati dal Comune», aggiunge Paola Marini, direttrice dei musei civici, «mi pare giusto riservare ai proprietari delle ope-
Museo di Castelvecchio
re che vi sono conservate, cioè ai cittadini veronesi e ai loro ospiti, qualche possibilità di ingresso gratuito, come fa l’Amministrazione comunale di Verona, in occasioni particolari come il 2 giugno, le giornate europee del patrimonio, l’8 marzo, e così via, e comunque sempre la prima domenica del mese». Giorgio Cortenova, direttore della Galleria d’Arte Moderna, ritiene che la gratuità dell’ingresso sia un falso problema: «Non so se sia più o meno giusto, ma l’ormai lunga esperienza m’insegna che la cosa non incide sul numero di visitatori. Si tratta comunque di una scelta politica che non attiene alle mie responsabilità. In ogni caso non conosco esempi europei determinanti in tal senso, se non
quello della Tate di Londra. Ma il confronto è improponibile. Londra è semplicemente Londra e la Tate è un enorme contenitore. Chi entra gratuitamente negli spazi della collezione paga poi il biglietto per le mostre in corso». Per Alessandra Aspes, direttrice del Museo Civico di Storia e Scienze naturali, l’importante è trovare strategie d’interazione con la città, il biglietto gratuito da solo non serve. E spiega, ad esempio, che al Museo di Scienze Naturali il biglietto per le scuole è gratuito da 10 anni e da ben 30 si organizzano visite guidate gratuite. E non è tutto, c’è un’attenzione particolare anche per le famiglie che possono organizzare merende o compleanni al museo. Angelo Brugnoli, responsabile della
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Cultura Didattica e comunicazione dello stesso museo, aggiunge che impostare il discorso sull’accesso gratuito ai musei non è il modo giusto per affrontare il problema, e che non è il prezzo del biglietto ad essere determinante per far fronte alle spese di gestione. Il museo di Scienze Naturali, ad esempio, con un approccio dinamico al problema è stato il primo a proporre attività didattiche e di animazione a pagamento, strada che adesso è seguita anche dagli altri musei della città. Per Ledo Prato, presidente della Fondazione Città Italia e di Mecenate ’90: «Il biglietto d’ingresso è una barriera bassa. Spesso chi non visita un museo è semplicemente perché non gli interessa». Il problema è che «i musei sono ancora abbastanza ripiegati su se stessi. Non dovrebbero essere solo un luogo di conservazione, ma di crescita e per aiutarli bisogna cercare modalità appropriate». Quali? Ad esempio attraverso «una modernizzazione degli strumenti di gestione della cultura» suggerisce Pedrazza Gorlero. «Usare lo strumento della defiscalizzazione da un lato, anche con un meccanismo tipo otto per mille, e dall’altro portare i privati a gestire l’arte e quindi le fondazioni. È sbagliata l’idea che la sponsorizzazione nei confronti della cultura sia una forma di mecenatismo senza ritorno. Bisogna fare in modo che i privati abbiano convenienza ad investire in questo settore». E aggiunge: «Sono questi i due pilastri su cui si basa il futuro della cultura anche in una città come Verona. Con l’obiettivo di arrivare ad un unico tavolo governato da pubblico e privato dove venga fatta una politica congiunta». E sulla politica più efficace insiste anche Ledo Prato: «In una città come Verona la politica per e dei musei non va separata da una politica per l’afflusso turistico culturale, ma deve essere parte di un disegno strategico più generale per renderla una città ancora più competitiva a livello internazionale». Ma qual è la situazione dei musei veronesi? Secondo Giorgio Cortenova: «Alle istituzioni culturali appar-
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«Occorre portare i privati a gestire l’arte e quindi le fondazioni. È sbagliata l’idea che la sponsorizzazione nei confronti della cultura sia una forma di mecenatismo senza ritorno. Bisogna fare in modo che i privati abbiano convenienza ad investire in questo settore» Museo di Storia Naturale
tiene il compito di ricerca e studio per offrire occasioni e possibilità di conoscenza, quanto più profonda possibile, dei fenomeni dell’arte. In nessuna città del mondo avanzato si buttano al vento i milioni di euro che si sprecano in certe città italiane per pubblicizzare alcune manifestazioni d’arte, peraltro di nessun rilievo scientifico e culturale. La pubblicità e la comunicazione sono certo necessarie, ma l’eccesso è da condannare. Sono fondi sottratti alla ricerca, alle speranze dei giovani e che incidono perfino negativamente sui bilanci finali delle mostre, sempre in assoluta perdita: anche quelle che si gloriano di un pubblico da grandi numeri. Quanto a noi puntiamo sulla qualità del-
le nostre iniziative didattiche e delle esposizioni, che sono tutte frutto di ricerche e di studi faticosi ed accurati, tali in ogni caso da farci conoscere ed apprezzare da tutte le più importanti istituzioni nazionali ed internazionali, dagli istituti universitari europei e dagli studiosi di ogni parte del mondo». «Premesso che purtroppo mancano le risorse per promuovere l’offerta museale della nostra città e nonostante negli anni 20022004 si sia registrata a livello internazionale una crisi, possiamo dire che a Verona questa è stata contenuta e che nel 2005 ci sono stati piccoli segnali di ripresa», commenta Paola Marini. Nella rete museale comunale di cui si occupa (Museo di Castelvecchio,
«In nessuna città del mondo avanzato si buttano al vento i milioni di euro che si sprecano in certe città italiane per pubblicizzare alcune manifestazioni d’arte, peraltro di nessun rilievo scientifico e culturale. La pubblicità e la comunicazione sono necessarie, ma l’eccesso è da condannare»
Museo Lapidario Maffeiano
Museo Lapidario Maffeiano, Museo degli Affreschi-Tomba di Giulietta, Museo Archeologico al Teatro Romano, Arena, Casa di Giulietta, Torre dei Lamberti, Chiesa di San Giorgeto) i visitatori hanno raggiunto il numero di 1.200.000. Le iniziative culturali del passato (restauri, mostre, pubblicazioni) «hanno potuto mantenere un elevato livello di qualità», sottolinea la Marini, «si è concluso un progetto europeo triennale sul Design, sono proseguiti gli imponenti lavori di restauro che riguardano Castelvecchio e il progetto speciale di conoscenza e valorizzazione dell’opera di Carlo Scarpa sostenuto dalla Regione Veneto». Ma i problemi per i musei rimangono. Innanzitutto quelli di
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Cultura «La vera sfida è quella di avvicinare ai musei il pubblico che non li frequenta. Manca una politica di promozione e comunicazione adeguata ai patrimoni custoditi nei musei. Se faccio una campagna di promozione per una mostra devo mettere chi arriva nelle condizioni di capire la portata dei contenuti. Chi entra non deve sentirsi un ignorante»
spazio. «Castelvecchio è uno scrigno che può far vedere solo una parte dei suoi tesori», chiarisce Pedrazza Gorlero. «Abbiamo collezioni di medaglie, armi, monete chiuse nei forzieri che invece andrebbero messe in mostra. Anche al Museo di Storia Naturale ci sono problemi di spazio, inoltre manca una tecnica moderna di presentazione». Come rimediare allora? «C’è un progetto di ampliamento nell’ala sinistra dell’Arsenale dove il Museo di Scienze naturali troverà una collocazione ideale», dice il vicesindaco. Inoltre ci sono gli interventi «finanziati dalla Fondazione Cariverona che consegnerà alla città un centro per mostre ed esposizioni unico in Italia, dove le collezioni che prima la Galleria d’Arte Moderna era costretta a
smontare troveranno una collocazione permanente e dove si esporrà tutto quello che è stato sacrificato in questi anni. In più, sempre grazie alla Fondazione, Castel San Pietro diventerà un museo e vedremo se potrà ospitare la sede italiana dell’Hermitage». Basterà a rendere Verona più competitiva nella rete museale? Secondo Ledo Prato il vero problema sarà «di avvicinare ai musei il pubblico che non li frequenta. Manca una politica di promozione e comunicazione adeguata ai patrimoni custoditi nei musei. Se faccio una campagna di promozione per una mostra devo mettere chi arriva nelle condizioni di capire la portata dei contenuti. Chi entra non deve sentirsi un ignorante». È necessaria dun-
que una strategia anche sulla gratuità dei consumi culturali. «Musei gratis si o no da solo non significa nulla. Sono contrario alla gratuità intesa come una politica generale per la fruizione del patrimonio culturale. Rimane però la possibilità di inserire la gratuità nei musei dentro una strategia», spiega Ledo Prato. «Si tratta di una scelta che se viene fatta non può essere separata dalla politica generale per la città». Infine, una provocazione: «Se organizzo a Verona una mostra per rintracciare i collegamenti storici della città con la Germania, quando arrivano i tedeschi posso valutare che quella parte del museo sia gratuita per loro. Così la gratuità ha senso, perché è all’interno di una strategia. Se no è demagogia» conclude Prato.
Alcuni esempi basati sull’interazione con i cittadini A Verona, dunque, niente ingresso gratuito ai musei ma, per fortuna, qualcosa si muove e diverse iniziative si fanno strada. Idee che hanno il merito di avvicinare i cittadini all’arte e alla cultura. • Musei civici, promotori d’integrazione sociale “Il Museo come promotore d’integrazione sociale” è un progetto promosso dall’assessorato alla Cultura e dai Musei Civici di Verona e finanziato dalla Fondazione Cariverona. L’obiettivo è quello di contribuire all’integrazione sociale degli stranieri che si trovano a Verona per lavoro. Il progetto avviato nel 2004, grazie alla collaborazione dell’assessorato alla Cultura delle differenze e del Cestim è ora in piena fase operativa. In questo modo, alcune centinaia di immigrati, durante il fine settimana hanno la possibilità di
Teatro Romano: l’ingresso del Museo Archeologico
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visitare il Museo di Storia Naturale, il Museo archeologico del Teatro Romano ed il Museo di Castelvecchio, guidati da operatori didattici coadiuvati da alcuni mediatori culturali per eventuali traduzioni. • Museo di Storia Naturale. Partire dai più piccoli Il Museo di Storia Naturale, da sempre impegnato nella divulgazione scientifica e nella ricerca di un contatto diretto con la città, offre numerosi percorsi didattici e laboratori rivolti alle scuole primarie e secondarie di primo e di secondo grado. La Sezione Didattica è organizzata in modo autonomo e dipende direttamente dalla Direzione. Il Conservatore per la didattica e comunicazione si occupa di tutti gli aspetti gestionali e organizzativi, costituisce il collegamento costante tra l’attività di ricerca delle sezioni e il pubblico. La Sezione didattica svolge la sua attività con l’aiuto di 20 operatori didattici, in massima parte provenienti dalle sezioni dove già svolgono attività di collaborazione scientifica. Gli operatori propongono progetti che sono l’espressione di una specifica attività di ricerca del Museo, che trova così l’opportunità di essere conosciuta da parte di un pubblico più vasto. Alcuni dei percorsi didattici proposti: Raccontamuseo, La preistoria, Acqua Terra Aria, Chi ha ucciso i pesci di Bolca?, Un mondo d’insetti. Sono proposti anche molti laboratori, che attraverso un approccio sperimentale e ludico aiutano a considerare gli argomenti da un diverso punto di vista. Eccone alcuni: Laboratorio di archeologia, Colori della preistoria, Mondi invisibili, Come si chiamano gli animali: Laboratorio di classificazione, Tutto verde: Laboratorio di botanica, Il mestiere del naturalista, H2O dolce e salata. Quest’anno il museo propone un’interessante novità con Il Museo va a scuola. In questo caso è il museo ad uscire per andare direttamente nelle scuole dove sono allestite piccole mostre. Infine, sono previste anche delle uscite sul territorio per completare i percorsi didattici svolti nel Museo. Per informazioni: www.didamusei.it e info@spazioaster.it
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Cultura STORIA
Tram elettrico a Verona Il primo 100 anni fa Una data importante e di grande attualità per le infinite discussioni sul futuro del trasporto pubblico cittadino e in particolare sulla tranvia. Un tuffo nel passato
1906. All’epoca la città stava crescendo oltre la cinta muraria e si sentiva il bisogno di un servizio di trasporto adeguato, che sostituisse i cavalli con cui venivano trainate le carrozze Verona, 22 febbraio 1908. Inaugurazione del tram elettrico
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di Maria Grazia Marcazzani Ricorre quest’anno l’anniversario dei cento anni dalla nascita dei trasporti pubblici elettrici cittadini. Risale infatti all’11 luglio 1906 il contratto stipulato tra l’Amministrazione comunale e la compagnia italo-belga Des tramways électriques di Verona (Ville) - Société Anonime, per la costruzione e gestione di una rete tranviaria elettrica cittadina. Questa società, nata l’anno precedente l’accordo, prelevò quasi tutte le azioni della vecchia Società Anonima del Tram di Verona.
Un centenario di grande attualità, che ci riporta al presente, alle infinite discussioni consiliari sul futuro del trasporto pubblico a Verona e sulla tranvia, un mezzo di trasporto che a molti ricorda i tram di inizio Novecento. L’Arena del 10 luglio 1906 scriveva: «L’Assemblea della Società dei Tram Elettrici di Bruxelles approvò il contratto con il Municipio per la trasformazione del tram a cavalli in tram elettrico e domani arriveranno da Bruxelles due consiglieri per la firma di detto contratto, il quale verrà poi sottoposto all’approvazione
del Consiglio. A quanto ci consta i patti che si debbono stipulare sono favorevolissimi per il Comune il quale, oltre aver imposto la costruzione di due linee nuove avrà una cointeressenza negli utili e la facoltà del riscatto dopo il decennio a condizioni stabilite assai vantaggiose. Delle due nuove linee, una partendo da Piazza Erbe attraverserebbe il ponte Umberto, costeggiando i muraglioni a sinistra proseguirebbe per le vie S. Stefano e S. Alessio fino a Borgo Trento, l’altra da Castelvecchio arriverebbe fino a S. Zeno. I lavori cominceranno entro il più breve termine sotto la direzione del Presidente della Società Ing. Cav. Paolo Milani». Giuseppe Franco Viviani, nel suo libro 1884/1984 Il trasporto pubblico urbano a Verona, scrive che i termini dell’accordo prevedevano «anche il numero minimo delle vetture in servizio ordinario: venti. Ciascuna doveva esser dotata di freni a mano ed elettrico e disporre di due motori da 30 cavalli elettrici ciascuno. Si stabilì pure l’orario minimo di servizio, la frequenza delle vetture (una ogni 5 minuti sulla linea principale) e il servizio del rimorchi». All’epoca la città stava crescendo oltre la cinta muraria e si sentiva il bisogno di un servizio di trasporto adeguato che sostituisse gli omnibus. L’unica miglioria
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Cultura
fino ad allora apportata (sempre nel 1906) era stato l’inserimento di tariffe economiche per impiegati e operai che prendevano il tram la mattina per recarsi al lavoro. Per questo motivo il sindaco di allora, Antonio Guglielmi, il 24 luglio dello stesso anno, durante un’affollata riunione consiliare, spiegò il progetto alla cittadinanza. Con il vecchio trasporto potenziare il servizio non era servito a renderlo più rapido ed efficiente, i sobborghi dovevano essere uniti alla città. Tutto ciò sarebbe stato risolto dall’elettrificazione e ampliando la rete tranviaria costruendo due linee, una per Borgo Trento, un’altra verso S. Zeno e in direzione del quartiere periferico che si stava sviluppando fuori le mura lungo la strada per Milano. Se il servizio fosse risultato secondo le aspettative, il Comune l’avrebbe riscattato dopo 10 anni, in considerazione del fatto che i primi anni avevano maggiori rischi e minori lucri. Fautori dell’impresa furono l’ingegner Milani (presidente della cessata società dei tram a cavalli) e l’ingegner Donatelli, capo dell’ufficio tecnico comunale, come riporta L’Arena del 3 aprile 1908. L’orario era di 15 ore e mezza d’inverno e 17 d’estate, il costo del biglietto prima delle 9 era di 5 centesimi, poi di 10 centesimi. Sempre nel 1906, da aprile ad ottobre si svolse a Milano l’Esposizione Internazionale, e tra i sistemi di trasporto esposti vi erano i primi esemplari di autobus, chiamati omnibus-automobili, azio-
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nati da diversi sistemi di motorizzazione. «Il tram elettrico quando arrivò a Verona non era una novità per il Veneto poiché aveva fatto la sua comparsa a Mestre un anno prima e dopo Verona fu seguito da Padova e Venezia Lido», si legge
Nelle foto di questa pagina il tracciato della linea tramviaria in Piazza Erbe
I lavori per la rete tranviaria durarono due anni. Le operazioni erano supervisionate dell’ingegnere Fernando Biffis che guidò il primo tram, smentendo chi asseriva che le vetture non sarebbero passate per porta Borsari, a causa delle loro dimensioni
così nella raccolta Tram filovie ed autobus: la storia del trasporto pubblico urbano a Verona dell’Azienda municipale dei Trasporti. Ogni città aveva un tipo di vettura diversa per il tram. Quelle veronesi erano gialle paglierino con filamenti rossi. All’interno c’erano dieci posti a sedere e i sedili erano foderati di velluto (dopo cinque anni erano già a brandelli e si provvide a sostituirli con panche di legno). Si riutilizzarono le vecchie vetture del tram a cavalli come rimorchi da agganciare alle motrici del tram elettrico, per aumentare la capacità di carico nelle ore di punta. I lavori per la rete tranviaria durarono due anni e furono affidati all’azienda tedesca SiemensShukhert che aveva realizzato lavori simili in altre città europee. Tutte le operazioni erano sotto la supervisione dell’ingegnere Fernando Biffis il quale all’inaugurazione guidò anche la prima vettura, smentendo chi asseriva che le vetture non sarebbero riuscite a passare per porta Borsari a causa delle loro dimensioni. Un momento che fu immortalato in una splendida istantanea del fotografo Giuseppe Zannoni, presentata agli illustri com-
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Cultura mensali presenti al pranzo di quel giorno all’Hotel de Londres - Due Torri. Il 21 febbraio 1908, venne inaugurata la tratta Porta VescovoPorta Nuova alla presenza di tantissime autorità e gente comune. Il giorno dopo un articolo su L’Arena decantava il nuovo impianto costruito a Porta Vescovo per la produzione dell’energia elettrica necessaria di cui oggi rimane solo la ciminiera alta 42 metri. L’arredo urbano subì una modifica profonda per la presenza dei fili della rete aerea di alimentazione, come una ragnatela sospesa sulla testa dei veronesi, dei rispettivi pali di sostegno e delle fermate tranviarie. Si decise di non far passare il tram da Piazza Bra perché ne avrebbe deturpato il paesaggio con i fili, suscitando le proteste dei cittadini che non accettarono di buon grado la decisione e mandarono lettere di protesta a L’Arena. Il servizio era in funzione dalle 9 alle 23 con la linea a doppio binario (esclusa via Cappello). Si notò però che le 20 vetture in funzione, in certe ore, per l’enorme afflusso di persone erano perfino insufficienti. Dagli articoli del quotidiano si può notare che i veronesi erano entusiasti
del nuovo servizio di trasporto considerato come un treno che circolava per le vie della città. Il tram divenne quindi il tema delle chiacchiere quotidiane con i suoi ritardi, i suoi incidenti e anche i timori poiché da alcuni era considerato un mezzo molto pericoloso. I vecchi cocchieri dovettero imparare a manovrare queste nuove macchine e furono mandati a Milano a imparare; lavoravano per 10 ore al giorno avendo diritto a un giorno di riposo ogni due settimane. Come scrive Giuseppe Anti sul libro Tram, filovie e autobus: cent’anni di storia dei trasporti pubblici nella città di Verona: «Le carrozze erano senza riscaldamento e i conduttori erano praticamente all’aperto protetti solo da un parabrezza e dovevano essere sempre impeccabili nel vestito e nell’igiene personale con le loro due divise (una estiva e l’altra invernale). Se uno trasgrediva la prima volta veniva sgridato dall’ispettore mentre la seconda era licenziato. Perfino i passeggeri dovevano essere vestiti con lo stesso rigore (un operaio che osò trasgredire e salì in tuta da lavoro volò fuori dal finestrino sul selciato della Bra)». Il 7 marzo 1908 venne allungata
Le carrozze erano senza riscaldamento e i conduttori erano praticamente all’aperto protetti solo da un parabrezza e dovevano essere sempre impeccabili nel vestito e nell’igiene personale con le loro due divise (una estiva e l’altra invernale). Se uno trasgrediva, la prima volta veniva sgridato dall’ispettore mentre la seconda era licenziato
Il doppio binario di via Leoncino. In alto: cartolina anteguerra dell’editrice veronese Vat.
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la linea verso Borgo Trento, con un itinerario che rispecchiava le passeggiate dei veronesi. Intanto la sera prima si registrò il primo incidente di tram. L’Arena riporta che un carretto si era messo sulla linea del tram e nonostante gli avvisi del tranviere, questi non si era spostato perché ubriaco finendo per essere investito. Il 16 febbraio 1910 fu creata anche la figura del controllore che aveva il compito di vigilare sulla regolarità del servizio: il primo fu Vittorio Pontirolli. In 50 anni il tram elettrico subì un’unica modifica, ovvero la sostituzione dei cancelletti d’ingresso con porte ad anta scorrevole. Durante la prima guerra mondiale il servizio tranviario fu essenziale poiché Verona era diventata un centro importante delle retrovie e in città affluivano le truppe dirette al fronte. Fra i soldati che utilizzarono il tram a Verona si annovera anche il presidente della repubblica Sandro Pertini. La gestione della Società italobelga, che nel frattempo aveva ampliato la linea tranviaria alle frazioni, durò fino alla fine della prima guerra mondiale, poi, il 14 aprile 1919, il Comune assunse la gestione dei tram cittadini. Gli ultimi tram furono realizzati nel 1924 (purtroppo nessuno fu conservato e vennero tutti smantellati) quando ormai si stavano affermando i filobus che erano preferiti ai tram perché meno rumorosi e le vetture avevano bisogno di meno manutenzione e poi l’acciaio delle rotaie serviva per l’industria bellica.
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Cultura
MARIA CALLAS
Callas, il desiderio di essere madre Prima il matrimonio con il veronese Giovanni Battista Meneghini, poi la relazione con Aristotele Onassis. Il figlio di questo amore, nato e morto il 30 marzo 1960, è l’unico aspetto poco noto di una relazione drammatica
di Nicola Guerini Maria Callas si è sempre descritta come una vittima, vilmente sfruttata e tradita da tutti quelli che le stavano intorno. Pare che questo sentimento le derivasse dall’infelice rapporto con la madre Evangelia, con la quale rifiutò di parlare per gli ultimi ventisei anni della sua vita. Maria, che aveva un aspetto non raffinato e un difetto grave di miopia, era la figlia minore di una fredda arrampicatrice sociale che attraverso il suo precoce talento vocale avrebbe voluto conquistare la ricchezza, una posizione sociale e
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l’indipendenza da un marito che disprezzava. Per tutta la vita la Callas è stata convinta che nessuno la stimasse per ciò che era, ma che tutti si preoccupassero solamente della diva, della sua voce eccezionale e del profitto che avrebbero potuto ricavare. La sua carriera di cantante aveva avuto un difficile inizio in Grecia, a soli quindici anni. Due anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, senza un soldo, si era fatta prestare del denaro ed era partita alla volta dell’Italia per cantare all’Arena di Verona con un ingaggio che le avrebbe fruttato solo 240 dollari per
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Cultura quattro recite. Qui incontrò un uomo d’affari veronese appassionato di lirica che aveva il doppio dei suoi anni e si chiamava Giovanni Battista Meneghini. Le fu prima amico, poi la sposò, l’aiutò a raffinare l’immagine e ne guidò la carriera finché Maria diventò la grande diva della Scala di Milano. Il giorno in cui Meneghini conobbe Maria, il 29 giugno 1947, aveva cinquantatré anni, trenta più della cantante alle prime armi, ed era noto a Verona come patrono e mecenate di aspiranti cantanti lirici. Sebbene l’anziana madre e i fratelli non approvassero la sua relazione con una “donna dello spettacolo”, Battista si interessò alla carriera di Maria fin dal loro primo incontro. Dedicò tantissimo tempo e denaro per procurarle audizioni, convincendola a rimanere in Italia anche dopo che fu respinta all’audizione della Scala. Meneghini racconta, nelle sue memorie (Maria Callas mia moglie), che la prima volta che gli presentarono la Callas, lei era seduta al tavolo del ristorante sopra il quale lui abitava e quando la ragazza si alzò «…mi fece pena. Dalla vita in giù era sformata. Le caviglie erano gonfie, grosse come i polpacci. Si muoveva goffamente, a fatica». Meneghini insistette per invitarla in qualche gita; ma solo in seguito, in una visita a Venezia, lei confessò di aver sempre rifiutato gli inviti per il fatto di non possedere altri abiti oltre quello che indossava al momento del loro primo incontro. Successivamente, come riportato nelle memorie, l’amicizia sbocciò e nel timore che le sue intenzioni fossero equivocate, il futuro sposo della Callas le fece una proposta: «Mancano sei mesi alla fine dell’anno. Per questo periodo provvederò io a tutto quello che le occorre, albergo, ristorante, sarta, tutto. Lei deve preoccuparsi solo di cantare e studiare con maestri che le sceglierò. Alla fine dell’anno valuteremo i risultati; se saremo entrambi soddisfatti stipuleremo un accordo che regolerà i nostri futuri rapporti di lavoro». Anche se con qualche incertezza iniziale la Callas ottenne in seguito il suo grande successo e Meneghini si
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dedicò a tempo pieno alla sua carriera. Perfezionò tecnicamente la voce e il suo timbro inconfondibile le permise di resuscitare opere che erano state trascurate per decenni a causa della mancanza di interpreti adeguati. Poi, nel 1953, perse quasi trenta chili trasformando il suo pesante portamento in un’esotica e carismatica bellezza che presto attirò l’attenzione non solo degli amanti del bel canto, ma anche del mondo della moda e dell’alta società. Maria era sempre stata timida, si sentiva a disagio in pubblico, e il marito che parlava solo italiano con un pesante accento veronese, le era di scarso aiuto in quelle occasioni. Tuttavia, incoraggiata dalla nuova snellezza e dai primi grandi successi, la Callas cercò di entrare nelle simpatie di Elsa Maxwell, che allora dettava legge sull’alta società internazionale. Ogni autunno il ballo di Elsa Maxwell segnava il culmine del festival cinematografico di Venezia, e fu a una di queste feste, il 3 settembre 1957 all’Hotel Danieli, in onore di Maria, che la settantaquattrenne Maxwell, presentò la già acclamata diva della lirica all’armatore greco Aristotele Onassis. «I due greci più famosi del mondo»: Aritotele Onassis, che aveva allora cinquantatre anni, e Maria Callas, che ne aveva trentatre. A quel tempo nessuno pensava che fosse stato gettato il seme di una storia d’amore che avrebbe sconvolto la vita dei due amanti. Fin dalla prima volta che si parlarono, i due celebri greci scoprirono di avere in comune molto di più che la lingua: entrambi erano partiti da zero ed erano arrivati al successo solo grazie alla volontà e al talento. Non brillavano di luce riflessa ma la emanavano. Nei giorni seguenti di quella che Elsa Maxwell chiamò “la settimana della Callas”, Maria e il marito furono visti ovunque in compagnia di Onassis e della moglie: all’Harry’s Bar, a pranzo al Caffè Florian, a passeggio al Lido, con Henry Fonda e consorte, e sul magnifico yacht dell’armatore greco Christina. Il momento più importante, riportato spesso con molta imprecisione, della storia tra Onassis e
la Callas è la crociera sullo yacht, iniziata il 22 luglio1959, quando Aristotele e la moglie Tina Onassis invitarono Maria e il marito Giovanni Battista Meneghini per una vacanza di tre settimane con ospiti celebri come Sir Winston Churchill e la moglie, lady Clementine. Nel corso di quest’odissea Maria e Aritotele si innamorarono e i matrimoni di Meneghini e Onassis si dissolsero sotto gli occhi allarmati degli altri passeggeri e dell’equipaggio. Nella lettera inviata alla Callas prima di salpare per la crociera, Elsa Maxwell scrisse: «…Da questo momento godi ogni istante della tua vita. Prendi (e questa è un’arte delicata) tutto. Dai (non è arte delicata ma importante) tutto ciò che puoi permetterti di dare: questa è la via verso la vera felicità che devi scoprire nel deserto del dubbio. Tu sei già grande, e lo diventerai anche di più». La crociera terminò il 13 agosto a Monte Carlo, e nelle sue memorie Meneghini scrisse: «Alle 14 arrivammo a Monte Carlo. Due ore dopo eravamo all’aeroporto di Nizza. Alle 17 giungemmo a
Fin dalla prima volta che si parlarono, i due celebri greci scoprirono di avere in comune molto di più che la lingua: entrambi erano partiti da zero ed erano arrivati al successo solo grazie alla volontà e al talento. Non brillavano di luce riflessa ma la emanavano
In basso: dopo la morte di Onassis, la Callas rimase settimane intere senza uscire dalla sua casa a Parigi Nella pagina a fianco, in alto a sinistra: Maria, segretamente uscita, sorpresa da un fotografo a Parigi In alto a destra: La Callas all’Hotel Danieli (Venezia), con Elsa Marxwell al pianoforte, la sera in cui incontrò per la prima volta A. Onassis In basso a sinistra: Maria e Aristotele Onassis
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Cultura Milano. Fra noi, per tutto il viaggio, ci fu un silenzio glaciale». Onassis aveva iniziato l’avventura con la Callas convinto che sarebbe diventata la sua nuova amante ma che il resto della sua vita, vale a dire il rapporto con la moglie e con i figli, sarebbe rimasto immutato. Maria, dal canto suo, una volta legatasi ad Aristotele voleva porre fine tanto al legame con Battista quanto alla carriera di cantante, per dedicarsi totalmente al nuovo compagno. Gli avvenimenti correvano velocissimi sulle testate dei giornali che avevano reso pubblico il legame tra la cantante e l’armatore, e nonostante le suppliche di Meneghini a Maria, il loro matrimonio terminò presto con il divorzio. Poco dopo anche Onassis cedette al divorzio chiesto dalla moglie Tina. Anche se i riflettori del successo continuavano a celebrare il talento di Maria, si notava un progressivo deterioramento della voce. Molti ritengono che la causa sia da ricercare nella drastica perdita di peso; altri sono convinti che il responsabile fu Onassis, perché il rapporto con lui distrasse Maria dalle lunghe ore di esercizio alle quali si era dedicata ogni giorno. Ma è certo che Maria aveva già cominciato a perdere il controllo del registro acuto prima di incontrare Onassis, e lei lo sapeva. Anche la stampa si raffreddò nei suoi confronti pubblicando dichiarazioni fortemente critiche sul suo comportamento di artista e di donna. Nonostante la relazione sia stata senza dubbio tempestosa, fu per entrambi il sentimento più profondo e duraturo della loro vita.
Nonostante la relazione sia stata senza dubbio tempestosa, fu per entrambi il sentimento più profondo e duraturo della loro vita. É difficile riassumere in breve quello che, a partire dal 1968, accadde nella vita dei due amanti greci, ma sicuramente gli eventi distrussero piano piano quell’idillio che li aveva stregati E la dedizione non fu solo dalla parte di Maria, come comunemente si crede. Per confermare il vittimismo che la caratterizzava, la Callas parlò agli amici più intimi di un aborto cui fu indotta nel 1966 da Onassis, dopo il ripetuto e crudele rifiuto di sposarla. Ma questo è falso perché ciò che la diva non raccontò e che nessun biografo aveva scoperto è che alle 8 del 30 marzo 1960 a Milano, otto mesi dopo aver fatto l’amore per la prima volta con Aristotele, durante la crociera sul Christina, Maria diede alla luce con un parto cesareo un bambino vivo. Il neonato, prematuro, era in pericolo di vita, e lo si dovette trasferire d’urgenza in una clinica più attrezzata. Durante il trasporto sull’ambulanza un’infermiera lo battezzò con il nome di uno degli zii preferiti di Onassis. Il piccolo morì il giorno stesso della nascita, ma prima di essere sepolto nel
Le ceneri di Maria vennero disperse nell’Egeo
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La famosa fotografia di Maria abbracciata dai due uomini che l’amavano
cimitero di Milano fu fotografato. Dopo la sua morte, per mesi Maria fece visita alla tomba e negli anni successivi, quando viveva a Parigi, volò a Milano con la fedele domestica Bruna Luppoli per pregare davanti alla tomba. Il figlio dell’amore di Maria e Aristotele, nato e morto il 30 marzo 1960, è l’unico aspetto della storia della loro drammatica relazione che non sia stato mai raccontato. Maria ne parlò solo a tre persone: i fedeli domestici Bruna Luppoli e Ferruccio Mezzadri, e la pianista greca Vasso Devetzi, che negli ultimi anni di vita a Parigi diventò la sua più cara amica. Da questo momento la sua vita si svuotò del desiderio di diventare madre e, nonostante la sua grande forza, le rimase un dolore incolmabile. É difficile riassumere in breve quello che, a partire dal 1968, accadde nella vita dei due amanti greci, ma sicuramente gli eventi distrussero piano piano quell’idillio che li aveva stregati. Onassis che era conosciuto per essere un grande seduttore di donne altolocate tra cui Evita Peron, Veronica Lake e Greta Garbo, invitò sul Christina l’appena vedova Jackie Kennedy che corteggiò per interesse sotto gli occhi di Maria. Ormai consapevole della nuova relazione di Onassis, la Callas, che aveva sempre sofferto di insonnia, diventò dipendente dai farmaci per poter affrontare la notte e, solo dai giornali, fu informata del matrimo-
nio lampo fra Onassis e la Kennedy. Il colpo di grazia però fu la morte dello stesso Onassis che già dal 1973 lottava contro i sintomi sempre più allarmanti della miastenia che gli distrusse i muscoli facciali. Dopo la morte dell’uomo che aveva tanto amato, il 7 marzo 1975, Maria andò inesorabilmente alla deriva: la Divina era scomparsa e Maria era rimasta molto sola nella sua casa a Parigi. Nel libro di Nicholas Gage, Fuoco greco, viene riportato un importante informazione di una telefonata che la Callas fece ad un amico, il 16 settembre 1977 a tarda notte, poche ore prima di morire: «….non crederesti quanto sono dimagrita! Un miracolo!». Forse la terapia per un dimagrimento veloce prima di voler ritornare in pubblico aveva interferito con il Mandrax dal quale era dipendente, con conseguenze fatali per il suo cuore già indebolito. Infatti alzandosi dal letto debolissima fece pochi passi e cadde a terra urtando un mobiletto. Quando il medico arrivò Maria Callas era già morta. In un articolo pubblicato dopo la sua scomparsa sul Time C. Schonberg scrisse: «La sua carriera fu breve, e verso la fine mostrava solo i brandelli della sua voce… ma per circa quindici anni, dopo il 1947, fece impazzire il suo pubblico». Maria Callas fu cremata e le sue ceneri furono disperse nel Mare Egeo.
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Cultura ANNIVERSARIO
“Piccoli missionari” da ormai 80 anni La storia del mensile per ragazzi edito dai Comboniani la cui formula ha ispirato iniziative analoghe in tutto il mondo. Come si è trasformato rendendo attuale un messaggio che affonda le radici nella tradizione cristiana
1927. «Nessuno che porti il nome di cristiano, deve rifiutarsi di cooperare all’appagamento dei desideri di Gesù per la conversione delle innumerevoli anime infedeli. E in questa santa battaglia missionaria non dovete, non potete mancare voi, giovani e fanciulli...»
di Pablo Sartori Tutto ebbe inizio una sera d’ottobre del 1926. A Verona, un gruppo di giovani studenti missionari, sull’onda degli entusiasmi suscitati dalla prima Giornata Missionaria Mondiale voluta da papa Pio XI, si chiedeva se fosse possibile lanciare anche in Italia l’esperienza editoriale della rivista inglese per ragazzi “My Little Missionary”. Il gruppo, guidato dal comboniano padre Agostino Capovilla, inizia a lavorare sodo alla produzione di una rivista da affiancare alla già matura Nigrizia, per sensibilizzare i più piccoli al mondo delle missioni.
Gli obiettivi di questo ambizioso progetto apparvero nel primo editoriale della rivista intitolata “Il Piccolo Missionario”, del 1° gennaio 1927, quando il direttore rivolgeva ai giovani lettori queste parole: «Non avete udito la parola accorata di Gesù, che ricorda le numerose pecorelle erranti lungi dall’ovile? (…) Nessuno che porti il nome di cristiano, deve rifiutarsi di cooperare all’appagamento dei desideri di Gesù per la conversione delle innumerevoli anime infedeli. E in questa santa battaglia missionaria non dovete, non potete mancare voi, giovani e fanciulli, pei quali Gesù ebbe sempre le sue predilezioni. Per alimentare nei vostri cuori la fiamma dello spirito missionario, incomincia oggi la sua vita questo periodico, desiderato e chiesto da molti di voi. Esso vi porterà relazioni, racconti che vi divertiranno e vi commuoveranno: vi istruirà sul problema missionario, recherà le vostre lettere, e risponderà alle vostre domande…». MISSIONE E VOCAZIONE Il periodico, quindi, viene alla luce con un’impronta dichiaratamente missionaria e vocazionale, sotto la protezione del “Cuore Santissimo di Gesù e della cara sorellina dei missionari Santa Teresa del Bambino Gesù”. Si propone di alimen-
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tare nei giovani cuori “la fiamma dello spirito missionario” mediante le modalità editoriali proprie di un “Mensile Illustrato della Gioventù”, come recita il sottotitolo di allora. In realtà, di illustrazioni non se ne vedono molte: la rivista apre con sole 16 pagine, con molto testo, alcune foto e pochi disegni al tratto. Ma ciò è sufficiente a far sì che il Piccolo Missionario, nel corso dei suoi primi 20 anni di pubblicazione, riesca a suscitare vocazioni nei cuori dei ragazzi e a diffondere nelle case degli italiani i primi elementi di conoscenza di popoli, culture e tradizioni del continente africano. E gli Italiani dell’epoca rispondono all’invito della rivista con altrettanto ardore missionario e interesse “imperiale” per l’Africa, nera e coloniale. Nel 1948 appaiono le prime tavole a fumetti e aumenta il numero delle illustrazioni. L’annuncio della fede e la vita, spesso avventurosa, dei missionari, sono i temi trattati nei primi fumetti del giornalino, come appare ne “Il mistero del Fiume Bianco”, “cinestoria” a puntate del 1949 dedicata all’opera del missionario veronese don Angelo Vinco, con testi di padre Cirillo Tescaroli e disegni di Borellini. Nel 1951 inizia la collaborazione del famoso disegnatore B. Jacovitti (allora 27enne) con il suo personaggio il moretto Chicchirì, al quale fa seguito una schiera di
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Cultura 1993. Nasce Mondo PM, fatto di mostre itineranti su tematiche proprie dei Paesi del Sud del mondo; corsi di educazione alla mondialità e all’intercultura in scuole e parrocchie dove bambini e ragazzi comunicano tra loro attraverso giochi di ruolo e dinamiche di gruppo
giovani e promettenti disegnatori e sceneggiatori quali Pescador, Arletti, Tosi, Peroni (Perogatt), Frascoli (Taner), Brasioli. Negli anni ’60 la rivista comincia a colorarsi. Aumenta progressivamente il numero delle pagine, cambia di tanto in tanto il formato (piccolo, grande, di nuovo piccolo ecc.) e la periodicità della pubblicazione, con brevi parentesi come quindicinale nei primi anni ’70. Si consolida la formula delle storie di fumetti-verità in cui si racconta l’epopea eroica dei missionari impegnati nell’annuncio del Vangelo ad gentes (gli “infedeli” di una volta sono adesso diventati “pagani”…) ma anche la forza e le lotte dei testimoni “laici” che trasmettono ai giovani valori importanti quali la mondialità, la giustizia, la pace, la solidarietà internazionale, il rispetto dell’ambiente, delle culture indigene e dei diritti umani. Gli azzeccati cambi editoriali e grafici, accompagnati ad una instancabile opera di diffusione promossa nelle scuole e nelle colonie estive di tutta la penisola da giovani ed entusiasti missionari, fanno schizzare verso l’alto il numero di abbonati. Dalle 45mila copie su abbonamento del 1962 si arriva al picco massimo delle 140mila nel 1978: un aumento sbalorditivo che conferma la bontà delle scelte operate dall’editore – i Missionari Comboniani – e motiva l’adesione al progetto Piemme (il nuovo nome della te-
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stata in quegli anni) di tantissimi sceneggiatori, scrittori, giornalisti, disegnatori e illustratori come Simioni, Busato, i fratelli Oneta, Aldegheri, Capitanio, G.B. Carpi, Prosdocimi, Ziche, Bighignoli, Lo Monaco, Fiorin, Ongaro, Ottaviani, Grossi, Gentile, Francescato, Bacilieri, Zampollo e molti altri ancora che condividono il modo in cui la rivista cerca di comunicare con i ragazzi e le ragazze di quegli anni. Una strategia vincente a tal punto da essere esportata e “co-
piata” dai fratellini minori del PM (il logo ufficiale attuale) che si chiamano Aguiluchos (riviste missionarie per ragazzi di Spagna, Messico, Perù e Cile, Ecuador e Colombia), Audacia (Portogallo) e Zikomo (Malawi). MONDO PM «Una rivista come la nostra, con una “rotazione” altissima di lettori e lettrici per ovvie ragioni demografiche, ha bisogno di
stendere e alimentare di continuo una rete di collegamento con i gruppi, le scuole (cattoliche e non), gli amici, i simpatizzanti». Con queste parole, giusto 10 anni fa, fratel Gianni Albanese, primo direttore della rivista in versione moderna “tutto colore”, formato 17 x 24, del 1993, indicava le linee strategiche elaborate dalla redazione di allora per il rilancio della pubblicazione. Nascono così le attività extra redazionali della rivista, a carattere missionario e culturale, attività che costituiscono il variegato “Mondo PM”, fatto di mostre itineranti su tematiche proprie dei Paesi del Sud del mondo; corsi di educazione alla mondialità e all’intercultura in scuole (molte) e parrocchie (poche), dove bambini e ragazzi comunicano tra loro attraverso giochi di ruolo e dinamiche di gruppo; laboratori a carattere artistico e musicale, per cogliere le ricchezze di culture e popoli del Sud del mondo spesso sconosciuti e ignorati. E si delinea la peculiarità del PM nel panorama dei media italiani: comunicare in modo semplice e diretto con bambini/e e ragazze/i dagli 8 ai 15 anni, attraverso uno strumento di formazione e informazione che da 80 anni continua a scommettere sulle capacità delle nuove generazioni di capire il mondo (in senso ampio: culture, popoli, differenze, tradizioni, attualità). Una volta capito e apprezzato il mondo – compreso il Sud – in quegli aspetti positivi che i mezzi di informazione nostrani sistematicamente ignorano, questa rivista, che si definisce “piccola ma con grandi ideali”, cerca di mettere le basi per un impegno dei bambini e delle bambine nella costruzione di un’umanità “diversa” e senz’altro migliore. Accetta quindi la sfida di voler valorizzare il contributo dei piccoli nella costruzione di rapporti fra persone e popoli che siano all’insegna del mutuo riconoscimento e del dialogo tra uguali. Lo fa prendendo posizione e dichiarandosi apertamente “di parte”: dalla parte dei bambini e dei ragazzi che, spesso, sanno riconoscere i veri amici, quelli che li aiutano a crescere con la testa e con il cuore.
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Cultura Paradiso: l’incontro di Dante e Beatrice
di Elisabetta Zampini Nel marzo del 1304 Dante Alighieri probabilmente lasciava Verona. La città fu tra i primi luoghi di rifugio e di sosta del poeta dopo la condanna all’esilio avvenuta alcuni anni prima e che gli impediva di tornare a Firenze dove pendeva una condanna a morte. Il dubbio sulle date è d’obbligo, perché gli anni del vagabondare forzato in Italia sono difficili da ricostruire con esattezza. Certo è che Dante aveva un legame importante con Verona, con Bartolomeo della Scala e poi con Cangrande della Scala nel suo secondo soggiorno nella città. L’esilio però divenne anche il segno di una nuova vocazione letteraria di Dante e il terreno in cui fiorì la Commedia. Proprio a Verona, non molto tempo prima il passaggio di Dante, visse Iacomin da Verona de l’Orden dei Minori. Questa firma aveva lasciato il frate francescano, nella seconda metà del Duecento, su uno dei due poemetti per cui ancora oggi è ricordato. I lunghi titoli tradotti dal latino sono La Gerusalemme celeste la sua bellezza e le gioie dei santi e La città infernale di Babilonia e la sua turpitudine e da quante pene siano incessantemente puniti i peccatori. Gerusalemme e Babilonia sono, lo si capisce, rispettivamente Paradiso e Inferno. Due visioni quindi dell’oltretomba. Impossibile allora non pensare a Dante. Non a caso studiosi come Cesare Segre considerano le opere di Giacomino da Verona come anticipatorie di Dante. Giacomino da Verona scrive deliberatamente in volgare. Nella lingua veronese del Duecento. Perché le sue intenzioni, in linea con lo stile francescano, sono divulgative. Vuole essere ascoltato. Vuole essere efficace. Vuole convincere l’uditorio. Impressionarlo, catturalo. Per favorire una conversione morale, di costumi, di comportamento. Attraverso la visione della beatitudine celeste o delle terribili torture infernali invitava a un agire sulla terra che favorisse una gioia eterna nell’aldilà, accanto a “lo Creator del cel” e a “li angeli e li santi”. Certo Giacomino da Verona non è un caso isolato. Accanto a lui bisogna ricordare altri autori che trattarono temi simili nella loro lingua lo-
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Il veronese che ispirò la Divina Commedia Iacomin da Verona, precedendo il sommo poeta, scrisse poemetti che avevano come tema Paradiso e Inferno cale: Uguccione da Lodi e Gherado Patecchio di Cremona, Bonvesin da la Riva e Pietro da Barsegapè di Milano e il cosiddetto Anonimo Genovese. Si tratta di un’area geografica di provenienza ben delimitata e nella quale, nel corso del Duecento, si concentra un vivo interesse per una letteratura ispirata a intenti di proselitismo. I loro scritti testimoniano gli sforzi per mettere in iscritto le parlate dialettali, nobilitandole secondo l’esempio delle lingue letterarie, nel caso specifico il latino. A livello sociale generale queste scelte linguistiche e di contenuto corrispondono a un fermento culturale e politico che trova forma nella nascita dei Comuni e nella sempre maggiore affermazione di una ricca borghesia urbana, di artigiani e mercanti. Costoro sono desiderosi di sapere ma per lo più ignoranti di latino, lingua legata alla cultura della tradizione, aristocratica e clericale. E questa nuova borghesia costituisce il principale pubblico degli scritti morali e didattici in volgare. A questo si aggiunga tutto il movimento di rinnovamento spirituale,
sia quello ortodosso che quello definito eretico, che attraversò tutto il secolo diffondendo l’esigenza di un rinnovamento morale attraverso il ritorno alla povertà evangelica. Lo stesso Giacomino, nel De Babilonia, chiede indulgenza ai rappresentanti della cultura ufficiale, quasi delle scuse per la scelta del volgare e per il livello divulgativo della sua opera, ma non manca di accennare polemicamente alle sottigliezze dei teologi. È dunque un tempo di incontroscontro e convivenza dinamica tra il nuovo e il vecchio. E nascono nuovi tentativi, nuove letterature per dire nuove parole e nuovi pensieri. Sentimenti veri e idealità pure. La potente personalità poetica, però, che seppe in maniera determinante far incontrare visioni del mondo, tensioni etiche e bellezza artistica in un opera letteraria venne dopo e fu Dante Alighieri. Tuttavia Giacomino da Verona, tra gli esponenti della poesia religiosa e didattica dell’Italia settentrionale, fu certo una figura significativa. Di
lui, della sua vita si sa poco, anzi nulla. Perciò lui è la sua opera e la sua rappresentazione dell’oltretomba. Si ispira all’ Apocalisse, alla letteratura francescana e al vastissimo repertorio dei frati predicatori. È un linguaggio fortemente descrittivo, preso dalla semplice esperienza quotidiana: ci sono città, case, strade, acqua, alberi, fiori. Tante le immagini grottesche, triviali, anche comiche o oggetti preziosi, di splendida bellezza, amplificati nella loro rarità; frequenti i paragoni con situazioni abituali. Il mondo ultraterreno è della stessa materia del mondo terreno, percepibile con i sensi, per niente astratto. Valga questo particolare della descrizione della città celeste: “ D’oro e d’arïento è le foie e li fusti/de li albori ke porta quisti sì dulçi fruiti,/floriscando en l’ano doxo vexende tuti, né mai no perdo foia né no diventa suçi.” (Alberi d’oro e d’argento con frutti dolcissimi e che fioriscono dodici mesi all’anno). E così come tutto ciò che di più bello, prezioso, soave, raffinato, meraviglioso c’è sulla terra è trasferito nel paradiso, così tutto ciò che su questa terra è brutto, fastidioso, ripugnante, puzzolente trova posto nell’inferno. Molto colorita è la descrizione delle pene infernali, inflitte con soddisfazione da diavoli orribili. Il dannato, dopo vari tormenti, viene cucinato da Belzebù: “sovra ge ven un cogo/ ke lo meto a rostir,/ com’un bel porco, al fogo…”. Una salsa fatta di acqua, sale, fuliggine, vino, fiele, aceto forte e veleno rende più appetitoso il piatto. E come al ristorante si rimanda indietro la bistecca poco cotta, così Lucifero, infuriato, rispedisce al cuoco il dannato non ben cucinato. Non è certo che Dante abbia letto tutte le opere letterarie sulle visioni e sui viaggi d’oltretomba che circolavano al suo tempo. Certo è che non poteva evitare il confronto con questo materiale nel momento in cui progettò un’opera del tutto nuova che li superava. E si può immaginare che forse in uno dei suoi passaggi a Verona ebbe la possibilità di leggere di persona i poemetti di Giacomino.
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I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA
Per Giuseppe Silvestri nemmeno una via di Giuseppe Brugnoli Qualche tempo fa su “L’Arena” comparve un articoletto che rievocava, a grandi linee in piccolo spazio, la figura e un po’ anche l’opera di uno scrittore e giornalista, Giuseppe Silvestri, la cui prima pubblicazione, dedicata a “La Valpolicella” in cui Silvestri si riconobbe sempre dalla nascita alla morte, e anche nel suo lungo periodo di giornalista a “Il Corriere della Sera” di Milano, ebbe il singolare onore di essere citata con larghi apprezzamenti da Benedetto Croce, il grande filosofo napoletano che si dilettava anche di critica letteraria. “La Valpolicella” del Silvestri era infatti un libro che per la prima volta, almeno dalle nostre parti, non si soffermava su estemporanee e gratulatorie celebrazioni di questo o quel monumento o personaggio, né si addentrava in preziosistiche e parcellari ricerche archivistiche, ma presentava un completo panorama storico, artistico e ambientale dell’intero territorio: pregio indiscusso per quei tempi, e per molti aspetti anche per i nostri, nel quale si assiste ad un’abbondante fioritura di pubblicazioni dedicate a questo o quel Comune, a questo o quel paese, che il più spesso hanno soltanto il non disprezzabile ma limitato requisito di essere ispirate da un grande, indiscusso amore per la terra natale. Anche Giuseppe Silvestri fu spinto da questo sentimento ancestrale, che sottende a tutta la sua ampia narrazione e che fu rilevato anche da Benedetto Croce, al quale il libro fu mandato nel 1952, due anni dopo la pubblicazione, da Angelo Messedaglia, ma l’ammirazione filiale per la Valpolicella in cui era nato e aveva vissuto tanta parte della sua vita intensa e laboriosa non fu mai genericamente encomiastica e non gli impedì ancora nella prima edizione, e più largamente e con accenti più forti nella successiva, pubblicata nel 1969 e largamente rivista, di indicare i pericoli ai quali il territorio andava incontro con l’urbanizzazione e la profonda modifica delle attività tradizionali. Ecco un esempio, nella prefazione dello stesso Silvestri alla seconda edi-
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Il suo libro “La Valpolicella” fu apprezzato da Benedetto Croce. Uscendo dalle consuete logiche celebrative lo scritto, ispirato dall’amore per la terra natale, presenta un completo panorama storico, artistico e ambientale dell’intero territorio. Fu imprigionato agli Scalzi, nella cella vicina a quella di Galeazzo Ciano; fu trasferito all’Ospedale militare dove trovò l’amico Berto Barbarani zione, che puntualizza quanto l’autore da sempre andava dicendo: “Vent’anni sono trascorsi dalla comparsa del volume, e molte cose sono cambiate in Valpolicella. In primo luogo il paesaggio, deturpato, specie nella fascia collinare mediana, da una esplosione edilizia abnorme e indisciplinata, nella quale né le amministrazioni locali (tutte carenti in materia di piani regolatori), né gli organi di tutela delle bellezze naturali hanno provveduto a mettere ordine”. Oggi, passati altri 35 anni, i guasti cominciano ad allarmare anche l’opinione pubblica più generica. Ma Silvestri, come non fu ascoltato in vita, fu subito dimenticato dopo la sua scomparsa. Era in effetti un personaggio scomodo, con il suo carattere scontroso e rubesto, e la sua assidua e fiera battaglia in difesa delle bellezze naturali e artistiche, non solo in Valpolicella ma anche in giro per la provincia veronese, non era fatta per attirargli simpatie. Per cui si capisce perché, quando si decise finalmente di dare un nome al nuovo liceo scientifico di San Floriano, che sorge ad un tiro di schioppo dalla casa di Valgatara in cui lo scrittore abitò e lavorò per una vita, e che ancora raccoglie per merito della nipote Antonella alcuni dei suoi ricordi, libri soprattutto, non ebbe alcun seguito la proposta di intitolarlo a Giuseppe Silvestri, che fu certa-
mente il valpolicellese doc più illustre dell’ultimo secolo. L’istituto fu nominato Primo Levi, come tante altre scuole in giro per l’Italia. Del resto, neppure Verona gli ha dedicato un modesto pezzo di stradella periferica, e si capisce: con commissioni per la toponomastica da sempre infarcite di professori di scuola media, una miriade di strade veronesi è intitolata a modesti letterati e poeti di tutte le risme e di tutte le regioni che si studiavano, o meglio di cui era imposto conoscere i nomi, nelle scuole della prima metà del secolo scorso: spariti anch’essi dalla circolazione, ma rimasti su qualche cantone delle strade veronesi. Eppure, anche Verona dovrebbe avere qualche motivo di riconoscenza per Giuseppe Silvestri. Non solo per il suo assiduo girovagare per i cantieri della ricostruzione, ad impedire la scomparsa di vecchi capitelli o la distruzione di superstiti bifore veneziane, ma anche perché, quando tra i primi ponti fatti saltare dai tedeschi in fuga fu rifatto il ponte Navi, con una frettolosa e cerea piattaforma di cemento armato dall’una all’altra riva, egli tanto tempestò Comune e Soprintendenze che costrinse a rivestire l’informe manufatto di rossi mattoni, perché meglio si accordassero con i conci rossi e i bianchi tufi dell’abside di San Fermo. Dobbiamo questo ricordo a Giorgio Gioco, che lo ospitò fino ai suoi ultimi giorni al “12 Apostoli” divenuto la sua casa veronese, e che ancora cita una sua affermazione, secondo la quale “buona cucina è un’idea di cultura: non vale meno di un paesaggio o un’opera d’arte” e che ricorda quando Silvestri, imprigionato all’“Albergo agli Scalzi” nella cella vicina a quella di Galeazzo Ciano, riuscì nel gennaio del 1945 a farsi ricoverare all’ospedale di Verona, che allora era nella vecchia maternità a Santo Stefano. E qui trovò, febbricitante, Berto Barbarani, il quale gli chiese: “Bepi, se vede l’Adese, de qua? ” E Silvestri gli rispose: “Sì, ma dalla terrazza del quarto piano”. Al che Barbarani commentò: “Alora, mi no lo vedarò più”.
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Sanità L’Italia è la nazione più anziana d’Europa. Nel bel paese si vive di più, le donne superano gli 83 anni e gli uomini sfiorano i 78. Secondo l’Istat, il rapporto tra la popolazione anziana e quella giovane è del 137,7%, il che significa che ci sono mediamente 137 anziani oltre i 65 anni ogni 100 ragazzi sotto i 15 anni. Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità sono almeno 5 milioni gli italiani che soffrono di sintomi di depressio-
Un fenomeno in crescita ne (8 per cento uomini e 15 per cento le donne), ed è in crescita anche il numero di adolescenti tra 15 e 17 anni colpiti da tale patologia. Nel 2020, avverte l’Oms, sarà la seconda patologia più diffusa nel mondo dopo le malattie cardiovascolari. La depressione colpisce il 15 per cento della popolazione anziana ed è la più comune forma di malattia mentale
fra le persone di età avanzata. Si stima inoltre che la depressione si manifesti maggiormente nei soggetti istituzionalizzati (nelle case di riposo) rispetto a coloro che vivono da soli o in famiglia. Per capire meglio il mondo degli anziani della città scaligera abbiamo incontrato Luigi Grezzana, primario del dipartimento di geriatria all’Ospedale Civile
Maggiore di Borgo Trento e il professor Nicola Garzotto, direttore del servizio di psichiatria del dipartimento di Salute Mentale di Verona. Due esperti che ci aiutano a entrare nell’universo della cosiddetta terza età, configurando il ruolo dell’anziano nella società moderna e mostrandoci come esso possa essere una risorsa possibilmente da non relegare in case di ricovero ma da valorizzare quotidianamente.
TERZA ETÀ
Anziani e depressione Un geriatra e uno psichiatra ci parlano di questo male ancora poco conosciuto che colpisce soprattutto chi lascia le pareti domestiche per la casa di riposo
di Francesca Paradiso Come vivono i nostri anziani? In che misura sono colpiti dalla depressione? Questa malattia è in generale un livellamento in basso del tono dell’umore che persiste nel tempo con un insieme di conseguenze come demotivazione a vivere e perdita di iniziativa. Soffrono di depressione un anziano
Il professor Garzotto durante l’intervista
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su quattro over 65 ed è quindi la malattia più importante della senilità. In generale si caratterizza con senso di debolezza, mal di testa, palpitazioni, dolori e vertigini. Si manifesta come una tristezza cristallizzata con alterazioni del tono d’umore che si presentano più volte l’anno e in episodi di lunga durata. Se depressi ci si ammala di più, perché si indebolisco-
no anche le difese immunitarie del corpo. È una malattia decisamente sottostimata, sottodiagnosticata e sottotrattata, poiché la sua identificazione non è sempre facile e spesso i primi sintomi sono collegati a problemi fisici legati all’età. La depressione tende poi a confondersi con altre malattie, alcuni farmaci ne nascondono le avvisaglie, si maschera con parvenze di malattie somatiche, come ad esempio patologie d’organo. Il professor Nicola Garzotto chiarisce la terminologia legata a questa malattia distinguendo il cervello dalla psiche: «Per quanto riguarda la depressione ci dobbiamo confrontare da un lato con le molteplici spiegazioni, interpretazioni psicologiche; dall’altro con le evidenze derivate dalla ricerca biomedica e più specificamente con la scoperta di alterazioni nei sistemi neurotrasmettitoriali. La depressione si deve curare con farmaci antidepressivi, perché tale approccio mostra risultati veloci e soddisfacenti, è però da asso-
ciare a un supporto di natura psicologica. Nella cura dell’anziano, inoltre, non ci stancheremo mai di ripetere quanto sia importante una buona relazione con il suo curante, dove per relazione non dobbiamo intendere necessariamente una competenza specialistica, quanto piuttosto disponibilità, rispetto e soprattutto capacità di ascolto». È opportuno anche distinguere tra disturbo depressivo e il sintomo depressivo. Il primo, spiega Garzotto, «indica proprio la depressione maggiore riscontrabile con diagnosi clinica, il secondo è solo un sintomo della sfera depressiva molto più lieve e tendenzialmente passeggero». Il prof. Luigi Grezzana spiega che la depressione appare ancora come un tabù: i farmaci per la cura ci sarebbero, soprattutto se accompagnati da un valido sostegno psicologico, ma sono poco utilizzati. «I sintomi si accentuano nei pazienti istituzionalizzati, fino ad aumentare del 50 per cento rispetto ai soggetti che vivono a casa loro.
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Sanità Gli anziani si sentono disorientati in queste strutture nuove, circondati da “sconosciuti” e perdono parte della loro autosufficienza». Infatti l’anziano, nella sua casa, può cucinare, ricevere visite comodamente seduto sul proprio divano ed è circondato dal calore delle cose di sempre. Le pareti domestiche sono per l’anziano un prolungamento di sé, dove poter vivere con i propri ritmi e le proprie abitudini. «Non bisogna pensare che l’anziano da solo stia male, in realtà la sua sofferenza deriva dal sentirsi abbandonato». Una posizione condivisa anche dal professor Garzotto che evidenzia come nel trasferimento in una struttura protetta avvenga «una spersonalizzazione che richiede grandissime capacità di adattamento». Generalmentea la solitudine dell’anziano si associa alla “sindrome abbandonica” che è la costante paura di essere abbandonati; questa sensazione deriva dal sentirsi impotenti, non autosufficienti, con una perdita progressiva di sicurezza. In tali situazioni non è raro che la persona assuma atteggiamenti regressivi, come il bambino che adotta comportamenti capricciosi per richiamare l’attenzione dei famigliari. Questa condizione può essere fattore precipitante per l’arrivo alla depressione. Grezzana provocatoriamente afferma: «Se fossi il presidente del Consiglio, per prima cosa mi preoccuperei di chiudere tutte le case di riposo. Ogni famiglia ha le sue esigenze e necessità sulle quali non si può esprimere un giudizio, ma talvolta sono proprio i parenti che avrebbero bisogno di essere curati. Con questo non voglio sottovalutare il lavoro svolto da queste strutture, sminuire l’impegno delle persone che vi lavorano, ma per l’anziano la soluzione migliore è certamente un’altra». Secondo Grezzana «Verona risulta all’avanguardia per quanto riguarda la geriatria e, anche se rimangono margini di miglioramento, la città si pone come un’isola felice, perché si è investito moltissimo. Ma deve essere la famiglia il naturale punto di riferimento, a cui occorre affiancare un ospedale competente, attrezzato e con ottime figure professionali. Gli anziani ben curati mantengono l’autonomia e
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sono più felici, così come saranno più felici i loro famigliari mentre diminuirebbe il costo sociale per la terza età». Il geriatra propone un concetto allargato di famiglia, che includa non solo i parenti ma anche il viciIl geriatra Grezzana durante l’intervista nato, il borgo dove sia ancora possibile costruire rela- di salute e hanno bisogno di assizioni, amicizie, incontrare altre stenza sanitaria continua. Ma non solo, ospitiamo, in regime residenpersone. Sarebbe poi da smitizzare la no- ziale o semi residenziale, anche distalgia per un mondo contadino, versi anziani autosufficienti, 120 su dove gli anziani avrebbero vissuto un totale di 775. in modo ideale. «Non dimenti- Rubini conferma come negli anchiamo che in passato la scolarità ziani ricoverati in forma stabile vi era inferiore, come lo era la durata sia una tendenza all’isolamento e al della vita e i vecchi non pensavano ritiro emotivo e affettivo, questo certo di essere una forza. La vita soprattutto in ospiti con reti sociali oggi è migliorata, soprattutto gra- deboli, che non usufruiscono di vizie a migliori condizioni igieniche site frequenti di amici o familiari e ai progressi della medicina» ri- (spesso perché anch’essi in età avanzata), accentuando così una corda Grezzana. È invece vero che nella società pa- condizione sfavorevole che può triarcale gli anziani vivevano con portare alla sindrome depressiva figli e nipoti, svolgendo un impor- conclamata. La struttura propone tante ruolo educativo ed erano però attività di stimolazione copunto di riferimento per l’intero gnitiva e di animazione, come la nucleo famigliare. Oggi invece la creazione di un coro, uscite di considerazione per la persona gruppo e partecipazione ad eventi uscita dal ciclo produttivo dimi- che però hanno sui pazienti effetti nuisce progressivamente costrin- limitati se non sono sostenute da gendo l’individuo alla fatica di ri- una cerchia famigliare e amicale cercare nuovi ruoli per non sentirsi abbastanza stabile. Per evitare la sindrome depressiva è quindi indidisorientato». Ma se la depressione colpisce in spensabile mantenere le relazioni misura maggiore gli anziani non affettive con i propri cari e crearne significa che la condizione della di nuove anche con gli educatori terza età sia da considerare in mo- professionali e con il personale di do negativo o allarmistico. Infatti, assistenza. spiega Grezzana, «in questi decenHa collaborato Matteo Ferrari ni ci sono stati molti cambiamenti in positivo: gli anziani hanno preso coscienza di essere un fenomeno di massa, hanno molte cose da fare, non sono più impauriti e spaesati. Oggi essere vecchi non è una sfortuna ma un diritto. È sbagliata l’equazione che associa il termine anziano a quello di malato». Roberto Maria Rubini è il presidente dell’Istituto Assistenza Anziani di Verona, una delle realtà meglio organizzate della provincia. «Le nostre strutture» spiega Rubini, «sono diventate nel corso degli anni l’ultima risorsa per gli anziani che si trovano in gravi condizioni
Gli anziani a Verona • Il numero complessivo di anziani ultrasessantacinquenni risulta attualmente di 52.751; • dal 1971 ad oggi, la popolazione residente nel Comune di Verona ha fatto registrare un progressivo ed accentuato processo di invecchiamento: la classe d'età dai sessantacinque anni ed oltre ha visto raddoppiare il proprio peso, passando, nella media, da un'incidenza pari al 10,84% ad un'incidenza attuale pari a circa il 22% della popolazione, dato che conferma un trend di crescita più accentuato di quello stimato dall'Osservatorio Regionale per la popolazione anziana (che al 2010 prevedeva una presenza del 22,5%); • il totale della popolazione anziana, 16.685 unità risultano costituire famiglie unipersonali (pari al 31.6% della popolazione anziana); • nel territorio comunale il 34% dei cittadini ha un'età superiore ai 55 anni ed il 22% superiore ai 64 anni; • l'indice di vecchiaia è pari a 169. Ciò significa che ogni 100 giovani sotto i 15 anni vi sono 169 persone oltre i 65 anni; • il peso di questa classe d'età è sensibilmente più accentuato nell'area del centro storico (caratterizzata dalla presenza di una popolazione mediamente anziana, con minore presenza di famiglie con figli in giovane età), rispetto al resto del territorio comunale ed in particolare rispetto alle aree più esterne.
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Spettacoli Nell’ambito dei festeggiamenti per i 250 anni dalla nascita di Mozart, il Teatro Filarmonico, in collaborazione con i Teatri Reggio Emilia, ha deciso di festeggiare questo straordinario compositore proponendo tutte e tre le sue opere liriche, Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte, dal 2 al 9 aprile, con un nuovo allestimento. Fra queste il lavoro definito uno dei massimi capolavori mai scritti nella storia della musica è Don Giovanni (il cui titolo originale era Il dissoluto punito ossia Don Giovanni), che sarà messo in scena il 5 e il 9 aprile. Finora al Filarmonico è stato rappresentato solo una volta, nel 2002. Come si può non conoscere le arie che hanno reso celebre il Don Giovanni a livello mondiale, come Là ci darem la mano? L’opera fu rappresentata per la prima volta a Praga il 29 ottobre 1787, poiché era stata richiesta dal direttore del Teatro Nazionale dopo un concerto che aveva tenuto Mozart in quella città, che aveva riscosso molto successo. L’artista scrisse il Don Giovanni con il librettista Antonio da Ponte, con il quale collaborò per tutti e tre i suoi lavori, con la consulenza di Giacomo Casanova, amico di Da Ponte. I tre avevano loro stessi la fama di essere dei don Giovanni, e forse anche per questo motivo ne risultò un capolavoro. L’opera non ha momenti “morti”, grazie alla vis comica, ai colpi di scena e all’equilibrio tra i personaggi che catturano l’attenzione dello spettatore anche per le arie memorabili che la compongono. La storia non è nuova in letteratura, dato che per la prima volta fu messa per iscritto da Tirso da Molina nel 1630, anche se la trama circolava già da tempo, e fu rielaborata da Molière e Goldoni. Si racconta di Don Giovanni, un nobile libertino, che passa la sua v ita a sedurre le donne. Mentre sta cercando di conquistare la sua ultima “vittima”, Donna Anna, il padre di questa, denominato “il Commendatore” affronta il seduttore mascherato ma viene ucciso in duello. Don Giovanni riesce a dileguarsi aiu-
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FILARMONICO
Don Giovanni torna a sedurre L’opera in cartellone dal 5 al 9 aprile nell’ambito dei festeggiamenti per i 250 anni dalla nascita di Mozart
«È tutto amore! Chi a una sola è fedele, verso l’altre è crudele: io che in me sento sì esteso sentimento, vo’ bene a tutte quante. Le donne poiché calcolar non sanno, il mio buon natural chiamano inganno»
tato dal servo Leporello, mentre Donna Anna giura vendetta. Viene poi raggiunto da Donna Elvira, un’altra delle sue conquiste, perdutamente innamorata di lui. Ma Leporello la avvisa che per il suo padrone è solo una delle tante. Durante la festa di nozze tra due contadini che vivono nei possedimenti di Don Giovanni, quest’ultimo si invaghisce della sposina Zerlina, che riuscirà a sfug-
girgli per l’intervento di Donna Elvira. Intanto Donna Anna, aiutata dal fidanzato il duca Ottavio, insegue Don Giovanni che riesce a evitare i due grazie allo scambio di vestiti con Leporello. Si rifugia così al cimitero, dove si trova la statua del Commendatore ucciso, che come per magia parla e avvisa il seduttore che prima dell’alba il suo divertimento si concluderà per sempre. Questi beffardamente la invita a cena. La statua-fantasma accetta e quando arriva al castello di Don Giovanni lo esorta a pentirsi, ma lui si rifiuta. È l’ora fatale: la terra si squarcia e Don Giovanni viene inghiottito tra le fiamme. Infine Zerlina e Masetto celebrano le loro nozze, Donna Anna e Don Ottavio progettano la loro unione, Donna Elvira annuncia di volersi ritirare in convento e Leporello va all’osteria, «a cercare padron miglior». Ma perché Don Giovanni è ancora attuale? Prima di tutto perché è l’antesignano di tutti i seduttori e anche se Mozart lo condanna, alla fine il personaggio è amato per la sua sfrontatezza: invidiato dagli uomini per la sua abilità e dalle donne perché, anche se per poco tempo, le fa sentire uniche. Molti altri Don Giovanni ebbero fortuna in letteratura e al cinema; basti ricordare nella vita reale Giacomo Casanova (anche se con sfumature diverse); Valmont (sia al cinema che in letteratura con Le relazioni pericolose di Laclos) e ultimamente Johnny Depp in Don Juan De Marco (qui Don Giovanni è in versione moderna e va dallo psicologo per curare questa sua “ossessione” per le donne). Per ciascun seduttore mille, spesso poco innocenti, “prede” che mantengono immutato il fascino dell’attraente mascalzone. A un Leporello, più candido e compito, che domanda: «E avete core d’ingannarle poi tutte?», egli risponde con la migliore delle giustificazioni: «È tutto amore! Chi a una sola è fedele, verso l’altre è crudele: io che in me sento sì esteso sentimento, vo’ bene a tutte quante. Le donne poiché calcolar non sanno, il mio buon natural chiamano inganno». Ha collaborato Maria Grazia Marcazzani
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Spettacoli ARENA
Cavalleria Rusticana e Pagliacci Dal 24 giugno al 27 agosto in scena le opere di Mascagni e Leoncavallo, le più attese dell’84° Festival lirico La Cavalleria rusticana fu messa in scena la prima volta il 17 maggio 1890. Pagliacci il 21 maggio 1892. Le due rappresentazioni tornano in Arena dopo 11 anni con un nuovo allestimento. Il direttore sarà Vjekoslav Sutej, che nel 2002 ha diretto i Pagliacci al Filarmonico. Il regista è Gilbert Deflo, mentre le scene e i costumi sono di William Orlandi
«Io sangue voglio, all’ira m’abbandono. In odio tutto l’amor mio finì...». «Va, non meriti il mio duol, o meretrice abbietta, vo’ ne lo sprezzo mio schiacciarti sotto i piè!!». È con queste parole dure e violente che Alfio, marito beffato della Cavalleria Rusticana e Canio, saltimbanco accecato di gelosia dei Pagliacci, portano in Arena l’eterno mito della gelosia e il legame indissolubile amore-morte. L’84° Festival lirico, dal 24 giugno al 27 agosto, sarà infatti caratterizzato dal ritorno di queste due opere del Mascagni e di Leoncavallo, entrambe musicate da Verdi, dopo ben 11 anni di assenza con un nuovo allestimento. Il direttore sarà Vjekoslav Sutej, che nel 2002 ha diretto i Pagliacci al Filarmonico. Il regista Gilbert Deflo e le scene e i costumi di William Orlandi (l’anno scorso presente ne La Bohéme). Le due opere, entrambi brevi, sono rappresentate congiuntamente: La Cavalleria Rusticana si svolge in un atto, i Pagliacci in due, uniti insieme da un intermezzo. Qui Verdi abbandona le teste coronate e rappresenta l’ambiente popolare in tutta la sua drammaticità e passione. • La Cavalleria rusticana fu messa in scena per la prima volta a Roma al Teatro Costanzi il 17 maggio 1890, quando Pietro Mascagni era pressoché sconosciuto. La storia è ambientata in Sicilia alla fine dell’800 e narra di Turiddu,
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In alto: Cavalleria Rusticana in Arena (1993). Sopra: l’edizione 1972
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Spettacoli Amore tradito e vendetta apriranno quindi la stagione areniana in un gioco di specchi che riflette i due lati opposti di un medesimo sentimento. Un conflitto vecchio come il mondo che si ripropone quotidianamente anche sulla scena della vita Da sinistra: Cavalleria Rusticana (1967) e Pagliacci (1993)
Pagliacci (1993)
innamorato di Lola ma, quando torna dal servizio militare, la trova sposata con il carrettiere Alfio. Cerca così di consolarsi con un’altra donna, Santuzza, promettendole perfino di sposarla ma non resiste al fascino di Lola e intesse con quest’ultima una relazione clandestina durante le lunghe assenze del marito. La vicenda ha il culmine la domenica di Pasqua quando Santuzza, a casa della madre di Turiddu (mamma Lucia), viene a sapere da Alfio che il suo fidanzato non è a Francofonte a fare provvista di vino, come era stato detto alle due donne, ma è stato visto dal carrettiere in paese. Ciò accentua in Santuzza i sospetti che aveva sulla relazione fra Turiddu e Lola, che rivela
anche a Mamma Lucia, la quale, scossa dalla notizia, si reca in chiesa. Santuzza ritrova Turiddu sulla piazza del paese e gli chiede spiegazioni sui suoi sospetti ma questo gli risponde in modo evasivo e, dichiarandosi profondamente offeso, se ne va in chiesa seguendo Lola. Santuzza decide così di rivelare tutto ad Alfio, che la minaccia di morte se l’ha ingannato e promette di vendicarsi entro la stessa giornata. Terminata la messa, Alfio raggiunge Turiddu e gli morde l’orecchio, segno, nella tradizione siciliana, della sfida a duello. Turiddu ammette le colpe ma Alfio non lo perdona e gli dice che l’aspetta dietro l’orto. Egli fa appena in tempo ad affidare Santuzza alla madre e poi fugge via consapevole del suo destino. Dopo poco giunge il grido delle donne: «Hanno ammazzato compare Turiddu». • La prima rappresentazione dei Pagliacci avvenne il 21 maggio 1892, al Teatro dal Verme di Milano, sotto la direzione di Arturo Toscanini, allora venticinquenne. La storia dei Pagliacci racconta di un gruppo di saltimbanchi che arriva in un pomeriggio d’agosto in un paese calabrese per una rappresentazione teatrale con Arlecchino e Colombina. Il capocomico Canio sospetta che la moglie Nedda abbia una tresca con Tonio, il pagliaccio gobbo. Questi infatti dichiara il suo amore a Nedda, ma lei lo respinge frustrandolo e deri-
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dendolo perché lei è innamorata di Silvio con il quale progetta di fuggire dopo lo spettacolo. Tonio, umiliato dal comportamento di Nedda, decide di vendicarsi e avverte Canio che la moglie lo tradisce. Quest’ultimo quindi cerca di cogliere i due amanti sul fatto ma quando arriva sul luogo non riesce a vedere l’innamorato, che era appena fuggito. Intanto comincia lo spettacolo con Nedda che fa la parte di Colombina, ma Canio (il pagliaccio) accecato dalla gelosia, cerca di indurre la moglie a confessare il nome dell’amante in scena. Finzione scenica e vita reale si mescolano: Nedda si rifiuta di confessare così Canio la uccide accoltellandola. Silvio, assistendo alla scena, cerca di difenderla ma a sua volta viene colpito a morte. La tragedia è compiuta e il Pagliaccio mormora ad una platea sconvolta che «la commedia è finita». Amore tradito e vendetta apriranno quindi la stagione areniana in un gioco di specchi che riflette i due lati opposti del medesimo sentimento. Un conflitto vecchio come il mondo che si ripropone quotidianamente anche sulla scena della vita e che si manifesta nel dualismo racchiuso in Canio: «Ridi, Pagliaccio… e ognun applaudirà! Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto; in una smorfia il singhiozzo e’l dolor... Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol t’avvelena il cor!».
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STUDIO
e
DITORIALE Giorgio Montoll i
LA DIFFERENZA NEL FARE LE COSE.
Redazione e impaginazione di libri e giornali Comunicati stampa Progetti editoriali
045.592695 - 320.4209663 Lungadige Re Teodorico, 10 - 37129 Verona
Spettacoli NUOVO
di Alice Castellani Dal 4 al 9 aprile, al Teatro Nuovo, per la rassegna Il Grande Teatro andrà in scena Questi fantasmi! di Eduardo De Filippo, con Silvio Orlando nel ruolo che fu di Eduardo, a sessanta anni dalla prima rappresentazione della pièce a Roma. Il teatro puro che Eduardo creò, anche attraverso divertenti trovate solo in apparenza farsesche, qui rivive nell’abile e sagace regia di Armando Pugliese, che sa rendere l’opera altamente leggibile alternando con sapiente orchestrazione la risata al momento di riflessione, cercando quasi di rincorrere insieme allo spettatore il senso stesso della morale dell’opera. Una commedia dal retrogusto amaro, che scava nel lato pirandelliano della psicologia della cultura da realismo napoletano, con un tratteggio da commedia degli equivoci a bagno nella superstizione. Protagonista della commedia è Pasquale Lojacono, un uomo fallito che la vita ha costantemente deluso e che si aggrappa alla speranza di poter salvare un amore in realtà già da tempo perduto. Magnetico e trasversale, Silvio Orlando offre una magistrale interpretazione dell’ingenuo marito, un uomo qualsiasi fino a quando non accetta la sfida di andare ad abitare con la moglie Maria in un appartamento di lusso di un palazzo settecentesco che si crede frequentato da fantasmi e spiriti maligni. Pasquale è un piccolo borghese convinto che i doni dell’amante della moglie abbiano una provenienza ultraterrena e per questo li accetta con riconoscenza. In realtà i fantasmi non ci sono, semmai ci sono i cosiddetti scheletri negli armadi. Equivoci e coincidenze si scontrano con fragore in un meccanismo dopo l’altro, e tutto diventa il contrario di tutto. Pugliese rende il testo scorrevole senza lasciare nulla al caso, avvalendosi non solo del linguaggio verbale ma anche dei movimenti, dei transiti dei personaggi, dell’ambientazione senza troppi scenari tecnologici ma piena di una razionale furbizia: un maestoso
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«Questi fantasmi!» l’umorismo amaro di Eduardo De Filippo Con Silvio Orlando dal 4 al 9 aprile Silvio Orlando
Protagonista della commedia è Pasquale Lojacono, un uomo fallito che la vita ha costantemente deluso e che si aggrappa alla speranza di poter salvare un amore in realtà già da tempo perduto
scorcio di arcate di una casa benestante, spoglia di arredamenti ma imponente. In scena Orlando ha l’aspetto tra spaesato e clownesco che contraddistingue gli alter ego eduardiani. Da testardo il protagonista si illude di trovare un po’ di tranquillità offrendo alla moglie qualche agio, è disposto a credere l’impossibile e a sperare che la ruota della Fortuna incominci a
girare nel verso giusto grazie ad una specie di patto con il Diavolo. La comicità fantastica e la forza della commedia vengono dall’ambiguità della situazione e dello stesso protagonista, che s’innesta su quella generale dei personaggi eduardiani ma è qui accresciuta dalla situazione paradossale in cui Pasquale è collocato. La commedia vive delle sue spinte contraddittorie ed è progettata in funzione di esse: la corrente alternata di distacco e simpatia che distingue il rapporto dell’autore-attore con il protagonista consente allo spettatore di ridere di Pasquale, ma anche di compatirlo. Questi fantasmi! eduardiani non insidiano soltanto un rapporto di coppia, sembrano anche annunciare una problematica storico sociale così che l’ambientazione quasi surreale, nel barocco appartamento infestato da spiriti antichi e moderni, traduce in spazio e in clima scenico il presentimento di una ricaduta nel passato e una riflessione sulla condizione umana. • Per l’Estate Teatrale Veronese 2006 si sta lavorando per un cartellone che avrà il suo punto di forza nel Festival Shakespeariano, con messe in scena non solo italiane e probabili presenze internazionali, con possibili contaminazioni tra musica e prosa mentre forse non ci saranno allestimenti goldoniani o ruzzantiani. Per la danza, più che sul balletto accademico più volte privilegiato, quest’anno si punta su eventi maggiormente fruibili da un vasto pubblico come quello proposto nel 2005 dalla compagnia di Gades: danze di derivazione folclorica come quelle russe o il tango o il flamenco, con presenze internazionali. Al conservatorio dall’Abaco verranno proposti spettacoli di prosa e danza contemporanea, sempre nel segno di Shakespeare. Infine per il jazz il Teatro Romano ospiterà 3 o 4 serate all’insegna della contaminazione con Mozart, nel 250° anno dalla nascita, mentre il 10 luglio il talento di Eric “manolesta” Clapton sarà in Arena, ultima delle tre tappe italiane del suo nuovo tour europeo.
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Lettere In merito all’articolo “Quale teatro?” pubblicato sul numero di otttobre 2005 di questo giornale abbiamo ricevuto e pubblichiamo su richiesta la seguente lettera.
Egregio direttore, vorrei intervenire sul tema del teatro a Verona, in riferimento all’articolo apparso sul numero di ottobre della sua rivista. Lo faccio in base alla mia pluriennale esperienza di teatro, dal Teatro Universitario (fondai a Parma, nel lontanissimo 1953, il Festival Internazionale del Teatro Universitario che per primo, fra l’altro, portò in Europa il Living Theatre) al teatro professionale, quale organizzatore (sono stato direttore del Petruzzelli e Piccinini a Bari, Commissario per il Piccolo di Bari, direttore al S. Ferdinando di Napoli con Eduardo, al Regio di Parma, al Verdi di Padova, organizzatore della Compagnia del Teatro Italiano con Sarah Ferrati e Franco Zeffirelli, direttore artistico del Teatro del Vittoriale). Faccio parte della tanto vituperata Commissione dell’Estate teatrale Veronese. La situazione a Verona rispecchia, in grande (non sembri un paradosso), quella che è la crisi del teatro in Italia. Si consideri innanzitutto che il nostro è l’unico comune italiano in cui nella Giunta comunale esiste una separazione tra assessorato alla Cultura e quello allo Spettacolo. A questo poi si aggiunga la delega per i grandi eventi nelle mani del sindaco e quella della Cultura popolare in mano ad un altro assessore. Il teatro fa corpo a sé, diviso dal cinema e da altri avvenimenti culturali: in base a quale logica? Se il teatro non è cultura, mi si dica cos’è! Nell’articolo il primo ad essere intervistato è il dr. Gianpaolo Savorelli, persona degna di rispetto per il suo impegno professionale, la sua esperienza, la sua volontà e la sua capacità di navigare nelle stagioni politiche più diverse. Un nostromo eccellente, costretto però a pilotare la nave non nel grande mare del teatro italiano ma in una palude finanziaria e culturale dove i coccodrilli sono dietro l’angolo per azzannare alla prima scelta sbagliata. L’assessore allo Spettacolo Guerrini, capace, ma troppo mite ed educato per l’arena politica, assieme a Savorelli è condizionato, al limite dell’assurdo, da bilanci ridicoli. La Commissione per l’Estate Teatrale Veronese, di carattere meramente consultivo, così volgarmente attaccata da un mattatore quale il signor Puliero, non può che limitare il suo intervento con proposte d’indirizzo e di scelta che tutelino il nome di quel poco che resta del festival Shakespeariano. Quando Renato Simoni, che poco di politica sapeva ma molto di teatro, s’inventò questo Festival ebbe l’intuizione di una persona di grande cultura ma anche di precisa visione della funzione di richiamo turistico che il Festival avrebbe potuto avere per la città. Ma allora c’erano altri uomini a reggere le nostre sorti, altri talenti a rimettere insieme i pezzi del teatro italiano;
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I mali del nostro teatro «Basta con le polemiche, sediamoci attorno a un tavolo e dialoghiamo» c’erano soprattutto la passione e l’entusiasmo. Se è vero che oggi il mercato nazionale del teatro di prosa offre poche occasioni degne del Teatro Romano, allora perché non affrontare le scelte internazionali che non mancano? Ma a questo punto si tira in ballo la questione della lingua che, naturalmente, condizionerebbe gli incassi, e così si ritorna alla madre matrigna, l’istituzione pubblica veronese, che non può sempre chiamare in causa l’alibi dei tagli statali. Ci sono infatti città, molto meno ricche di Verona, meno grandi, che riescono a programmare stagioni teatrali di grande rispetto. E poi, non siamo in Europa? È vero, è sorto adesso un Piccolo Teatro di Verona, è nata una Fondazione atipica per la sua struttura, la Provincia affida ad un privato la gestione delle stagioni estive sul territorio veronese. Tutto gira attorno ad una persona, rispettabile e degna di stima, cui è legato anche il grande teatro, Paolo Valerio; è evidente che l’intraprendenza premia e va premiata, ma chi verifica gli evidenti conflitti di interessi? Il signor Terribile parla dal suo fortilizio buzzatiano, certo ben gestito, ma con quali legami veri con la cultura internazionale e la città? Il signor Puliero non risparmia offese e contumelie a nessuno, ritenendosi l’unico vero professionista teatrale, l’unico attore di grande richiamo, che considera tutte le compagnie filodrammatiche della città come merce cinese. Bene, si faccia avanti veramente, non solo chiedendo di calcare il palcoscenico del Teatro Romano. Fantasio Piccoli, grande uomo del teatro italiano, quando creò nel dopoguerra il suo “Carrozzone” (nel quale si formarono attori come Romolo Valli, Giorgio de Lullo, Anna Maria Guarneri), ebbe il grande coraggio di girare l’Italia partendo dal teatro di Bolzano, con un repertorio che certamente non comprendeva Caviale e lenticchie. Nell’articolo si accennava anche agli attori provenienti dal piccolo schermo. Paolo Grassi, quando fu eletto presidente della RAI, che credeva di poter riformare e invece gli costò letteralmente la vita, diceva: «Il teatro sbaglia se si aspetta che dalla televisione nascano attori validi per il teatro. La televisione è una macchina che produce fenomeni che durano lo spazio di un mattino. Perché non hanno scuola, carisma, ma soprattutto non credono a quello che fanno.
Solo i soldi li animano. Il legno del palcoscenico li spaventa e non vi saliranno mai e se lo faranno mancherà loro la dignità per chiamarsi “attori”». Bene, allora amici dei palcoscenici veronesi, pubblici e privati, perché non incontrarci, guardarci in faccia, dirci senza ipocrisia quello che pensiamo, e, tutti insieme appassionatamente, senza demagogia, discutere per trovare una linea comune per fare teatro seriamente. Io appartengo alla generazione cresciuta durante la guerra; ne ho visto e conosciuto gli orrori e gli errori. Odio il sentimentalismo delle memorie, odio il reducismo e i suoi nostalgici raduni. Questo non è “un appello agli uomini liberi e forti”, ma l’invito ad aggiungere un posto a tavola. Sono ancora alla ricerca del nuovo, perché mi piacerebbe andare all’altro mondo assistendo ad uno splendido Amleto. Mario Dall’Argine Membro Commissione Estate Teatrale di Verona
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IMPARARE A VIVERE MEGLIO
Voglio questo lavoro... per ieri di Alessandro Norsa
l’attivazione in sé sono non solo utili ma addirittura essenziali nella vita delle persone, se non ci fossero non saremmo reattivi di fronte alle situazioni nuove o ne saremmo addirittura preda. Quand’è allora che l’ansia diventa patologica? Sono due le caratteristiche che la di-
Cambia lo scenario ma la situazione è la solita. Un cliente arriva trafelato all’ora di chiusura del negozio ed ordina un prodotto non presente né lì né in magazzino. Il commerciante ha poche possibilità di spiegare che deve pazientare alcuni giorni perché l’ordine giunga a destinazione e venga fatta la spedizione. Possiamo chiamare questa situazione “l’ansia del tutto e subito”. Colpisce indistintamente uomini e donne e di tutte le classi sociali. Anche a Verona si vedono scene grottesche di signore ben vestite che scendono dai fuoristrada che, troppo ingombranti, parcheggiano in seconda fila, entrano in un negozio ed utilizzano epiteti poco signorili perché il commesso non le sta servendo, o a loro dire, non sufficientemente in fretta o perché devono pazientare qualche giorno per la merce che hanno richiesto. Proprio così, l’ansia del “tutto e subito” spesso è associata a quella del “fare le cose all’ultimo minuto”. Ma cosa è l’ansia? L’ansia è velocità; per comprenderla meglio dobbiamo fare un passo indietro. Le possibilità L’urlo. Edvard Munch, 1893 - Oslo, Nasjonalgalleriet dell’uomo di reagire agli stimoli ambientali sono due: l’una razionale stinguono da una “buona ansia”: la prima e l’altra istintiva. L’aspetto istintivo dipen- è una caratteristica temporale, cioè quande dalla natura comune dell’uomo con il do questo meccanismo si protrae anche “regno animale”. Gli animali reagiscono di dopo la fine di eventi potenzialmente anfronte ad uno stimolo improvviso che li siogeni, o si instaura indipendentemente possa mettere in difficoltà con due tipi di dalla situazione; l’altro è quantitativo comportamento: o di attacco o di fuga; quando l’ansia patologica compromette le che sia l’una o l’altra posizione non im- capacità di giudizio ed operative (parlare porta, comune alle due è l’attivazione. ed agire velocemente, non riflettere prima L’attivazione nell’ansia è sia a livello cor- di agire, parlare prima di ascoltare l’interporeo (battiti del cuore accelerati, aumen- locutore). to della frequenza respiratoria, tensione Che cosa dobbiamo fare se sentiamo che muscolare) che psicologico. Sia l’ansia che la nostra ansia sta eccedendo? Se, come
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abbiamo visto prima, l’ansia è movimento e velocità, per poterla combattere è opportuno che facciamo l’esatto contrario: dobbiamo prenderla con più calma. Se siamo in ansia saranno sì i pensieri ad andare più veloci, ma anche il nostro passo, la nostra voce ed il nostro respiro, sarà allora su questi aspetti che possiamo cercare di lavorare inizialmente. Tra i consigli pratici possiamo cercare di camminare meno di corsa, parlare in modo meno concitato, fermarci dopo aver espresso un nostro parere ed ascoltare quello dell’altro. Se ci accorgiamo per esempio (e con questo mi riferisco alle persone dell’esempio descritto all’inizio dell’articolo) che arriviamo all’ultimo minuto, potremmo cercare di partire da casa un po’ prima o, se non fosse possibile, rimandare o programmare in modo più efficace il nostro tempo. Molto spesso riteniamo che alcune cose siano di fondamentale importanza o urgentissime, in realtà questa è una “scatola mentale” che ci creiamo e di cui poi ci convinciamo, per cui se non riusciamo ad ottenere in quella situazione e a quelle condizioni quello che desideriamo sale l’affanno ed i pensieri ed azioni vanno poi di conseguenza. Si riescono a gestire da soli tutte le ansie del quotidiano? La maggior parte delle volte sì; lo abbiamo accennato prima: l’ansia è anche una condizione normale e se eccede possiamo trovare in noi gli strumenti per farne fronte opponendoci ed adottando uno stile diverso. A volte però non è così semplice, l’ansia diviene così persistente e profonda da trasformarsi in una vera e propria malattia. A questo punto deve essere presa in considerazione come una qualsiasi malattia e come tale va trattata.
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Territorio ESCURSIONE
I fossili di Avesa L’ambiente in cui vissero gli organismi era di tipo marino, non molto profondo, come testimoniano i resti di tartarughe, rari pesci, squali e razze
La scarsa qualità del “tufo” di Avesa come materiale da costruzione deriva dalla sua mancanza di omogeneità, dovuta proprio alla ricchezza di fossili. Quello che i cavatori considerano un difetto, tuttavia, è motivo di grande interesse per il geologo e il paleontologo
In alto: esemplare di Nautilus. Sotto: Echinoide
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di Guido Gonzato Per i veronesi i fossili sono oggetti familiari. Li vediamo incastonati nei monumenti della città, nelle lastre di pietra dei marciapiedi, nei muri delle vecchie case. Da noi i fossili sono così comuni perché i nostri monti sono quasi interamente costituiti di rocce calcaree di origine marina: quello che resta dei fondi fangosi e sabbiosi, brulicanti di vita, di antichi mari scomparsi da milioni di anni. É comunissimo per i veronesi associare, quasi per riflesso, la parola «fossile» con la località Bolca. Giustissimo: il giacimento di Bolca, da cui provengono i celeberrimi pesci e tanti altri fossili, è uno dei più importanti del mondo. Pochi sanno che vicinissimo alla città è presente un altro giacimento di fossili molto meno conosciuto ma di grande importanza: si tratta della vallata di Avesa. Qui è possibile fare interessanti osservazioni e, con un po’ di fortuna, trovare bei fossili. Quando si va a fare una passeggiata sulle Torricelle o sul Monte Crocetta, non è infrequente imbattersi in nummuliti (gusci calcarei di organismi marini appartenenti al gruppo dei foraminiferi), conchiglie o ricci di mare fossili. Le colline intorno alla città sono infatti costituite dalla cosiddetta «Pietra di Avesa», un calcare poroso che i geologi datano all’Eocene medio: circa 45 milioni di anni fa, poco meno dell’età del giacimento di Bolca. La pietra di Avesa, localmente nota col nome improprio di “tufo”, è utilizzata da secoli come materia-
le da costruzione di scarso pregio ma abbondante e facilmente lavorabile. La vallata è segnata dalle cicatrici di vecchie cave, le ultime delle quali cessarono l’attività negli anni Sessanta. Il culmine dell’attività estrattiva avvenne durante l’occupazione austriaca nell’Ottocento; tutte le opere di architettura militare, i bastioni e le fortificazioni realizzate dall’esercito austriaco sono infatti realizzati in pietra di Avesa. La scarsa qualità del “tufo” di Avesa come materiale da costruzione deriva dalla sua mancanza di omogeneità, dovuta proprio alla ricchezza di fossili. Quello che i cavatori considerano un difetto, tuttavia, è motivo di grande interesse per il geologo e il paleontologo, che vi possono leggere informazioni preziose per ricostruire l’ambiente di formazione della roccia. I paleontologi austriaci produssero i primi studi con la descrizione della fauna e flora fossile di Avesa. L’ambiente in cui vissero gli organismi fossili era di tipo marino, non molto profondo, come testimoniano i resti di tartarughe, rari
pesci, squali e razze. Tronchi e frutti di palme ci dicono che dovevano esistere anche tratti di terra emersa. In seguito l’ambiente divenne costiero: ed ecco i fossili di animali che troveremmo sulle rive di qualunque spiaggia tropicale. Piccole conchiglie di decine di specie diverse, ricci di mare, nummuliti e altri Foraminiferi, talvolta grossi esemplari di Nautilus. I contadini che risistemano le marogne sulle nostre colline in genere ne possiedono una bella raccolta. Al momento, per ammirare i fossili di Avesa bisogna recarsi al museo di Camposilvano di Velo Veronese. Infatti, il museo di Scienze Naturali di Verona non dispone attualmente di spazi per esporre la magnifica collezione di fossili di Avesa conservati in magazzino, e bisognerà aspettare l’eventuale trasloco all’Arsenale. Nel frattempo, una passeggiata domenicale fatta con occhio attento può consentire a chiunque di portare a casa un’interessante testimonianza di un mondo scomparso milioni di anni fa.
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Viaggiare ARGENTINA
Tango e dittatura La geografia dell’Argentina è nei volti della gente: dai meticci delle Ande agli abitanti della foresta sub-tropicale, ai figli e nipoti di una generazione di italiani
di Michele Domaschio Se chiedi a un argentino di Tucumàn di accompagnarti alla “Garganta del Diablo” (la “gola del diavolo”), ti condurrà in una valle arida e desolata, tra rocce color corallo perennemente spazzate dal vento, e poi ti indicherà una fenditura simile a una ferita che stilla sangue; se fai la stessa domanda a un suo connazionale di Misiones, ti consiglierà probabilmente di metterti indumenti leggeri e impermeabili, perché andare sotto la “Garganta” – questa volta – significa ammirare da vicino il più spettacolare salto d’acqua delle cascate di Iguazù. Può bastare questo giochino semantico per dare un’idea della vastità del territorio argentino? Oppure c’è bisogno di prendere un aereo da Buenos Aires a Mendoza, e contemplare dall’alto la sconfinata pianura del Chaco, l’immensa distesa punteggiata da mandrie di bovini e minuscoli villaggi? Considerando solo la parte nord del Pae-
A San Antonio de Los Cobres ai turisti viene offerta una foglia di coca: masticandola lentamente si possono lenire i disturbi provocati dall’aria rarefatta
se si può mutare paesaggio e clima come avviene, di solito, all’interno di un intero continente; se si considera pure il Sud, si sconfina in un mito che ha nome Patagonia. La geografia dell’Argentina è scritta nei volti della gente: ai piedi delle Ande, i visi meticci degli ultimi discendenti delle popolazioni locali; al Nord le contaminazioni boliviane o carioca degli abitanti della
Un pezzo di Valpolicella ai piedi delle Ande C’è un pezzo di Valpolicella ai piedi delle Ande: per la precisione a Tupungato, poche decine di chilometri da Mendoza, dove l’azienda agricola Masi ha acquistato alcuni ettari di vigneti e allestito una cantina tecnologicamente all’avanguardia. Qui si sposano le uve Malbec (ceppo locale di nobile tradizione) con le veronesissime Corvina e Corvinone: il matrimonio pare felicemente consumato, a giudicare dal livello qualitativo dei vini prodotti in loco. Sino all’anno scorso, l’imbottigliamento era effettuato in Italia (il vino, stivato in appositi container, attraversava via nave l’Atlantico), mentre ora anche questa fase della lavorazione viene effettuata in loco. Così, l’annata 2005 dei vini Masi d’Argentina
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è pronta a invadere pacificamente i mercati americani (oltre al sub-continente australe, anche gli Stati Uniti e il Canada). I terreni della regione di Mendoza, d’altro canto, si prestano perfettamente alla coltivazione della vite: dolci pendii con ottima esposizione al sole, clima secco e ventilato, un fondo argilloso che ricorda da vicino proprio quello delle colline veronesi sono le principali caratteristiche della zona. Oltre alle numerose “bodegas” (cantine), abbondano i frutteti, che offrono spettacolari paesaggi ad ogni primavera, durante l’inizio della fioritura. Non per nulla, questa regione è chiamata dalla gente del posto “il giardino d’Argentina”.
foresta sub-tropicale, regno della vegetazione e di mille uccelli colorati; sulle coste atlantiche, i figli e i nipoti di un’intera generazione di emigranti italiani; a Sud, gli sguardi tagliati dal vento di chi è fuggito da ogni parte del mondo per rifugiarsi alla fine del mondo. L’unico luogo rumoroso del paese sembrano essere le larghe avenidas di Buenos Aires, dove sbuffano vecchi autobus e sfrecciano innumerevoli taxi – vero pericolo per i turisti che ciondolano sulle strisce pedonali – pronti ad accompagnarti per pochi pesos da un capo all’altro della città. Non serve nemmeno fare troppa strada, a dire il vero, per toccare con mano il dramma di un popolo che ha vissuto per anni sotto il tallone della dittatura: a pochi chilometri dai lussuosi shopping-center che spuntano come funghi nei quartieri bene del centro, si trova la famigerata sede dell’Esma (Escuela de Mecanica de la Armada) utilizzata come luogo di prigionia e tortura durante il periodo della giunta militare. L’edificio è stato recentemente trasformato in un museo della memoria, ma ancora oggi – essendo situato accanto ad una caserma della Marina Argentina – ne è consentita la visita solamente alle scolaresche, o a gruppi debitamente accompagnati. I giovani che entrano silenziosi ed escono attoniti fanno parte di quella fortunata generazione che – unica nella storia del Paese – può festeggiare il raggiungimento della maggiore età avendo sempre vissuto in presenza di un regime democratico: proprio questo evento vogliono celebrare i manifesti che in-
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vitano tutti gli argentini nati tra il 1983 e il 1984 a prendere parte al concorso d’arte “21 primaveras en democracia”. Nel frattempo, le Madri di Plaza de Mayo – oramai nonne ottuagenarie – continuano a sfilare silenziose, ogni giovedì, di fronte alla Casa Rosada, con i foulard candidi come i loro capelli e gli striscioni che ricordano la tragedia dei desaparecidos. Se l’atmosfera nella capitale può sembrare troppo cupa (ma così non è, basta una passeggiata a Caminito per lasciarsi cullare dalle note del tango), tanto vale cambiare aria e partire per il cielo. Non serve l’aereo, questa volta: è sufficiente prendere posto sul “Tren de las Nubes”, il convoglio che si muove dalla città di Salta per iner-
picarsi in cima alla Cordigliera Andina. Oltre cinquanta viadotti e gallerie – scavate nella roccia con il solo ausilio di pala e piccone all’inizio del secolo scorso – portano il viaggiatore sino alla ragguardevole altitudine di 4.200 metri: si può facilmente intuire la ragione per cui una carrozza del treno sia adibita ad infermeria, con tanto di medico e bombole d’ossigeno pronte alla bisogna. Molto più naturale il rimedio proposto dai discendenti dei mapuche, che abitano il villaggio di San Antonio de Los Cobres e accolgono di buon grado i turisti offrendo a ciascuno una foglia di coca: masticandola lentamente si possono lenire i disturbi provocati dall’aria rarefatta. Tornare alla realtà è un duro colpo,
MOSTRE Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna Ca’ Pesaro Modigliani - La femme à l’éventail dal Musée d’Art Moderne di Parigi Dipinto nel 1919, poco tempo prima della sua morte, La femme à l’éventail – uno dei capolavori del Musée d’Art Moderne di Parigi - è uno dei numerosi ritratti che Amedeo Modigliani fece di una delle sue modelle preferite, la sua amica e confidente Lunia Czechowska e riflette la sua ultima maniera: una pittura che risente delle influenze del cubismo ma anche di quelle della scultura, che l’artista praticò dal 1911 al 1913. Fino al 30 aprile 2006 Info: tel. 041 721127 Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti Palazzo Fianchetti Pontus Hulten La mostra vuole essere un omaggio alla carriera di Pontus Hulten, un portavoce del panorama artistico internazionale che, a cavallo tra la metà degli anni ottanta e i primi anni novanta, ha reso celebre Palazzo Grassi a livello mondiale. L’esposizione veneziana presenta più di cento opere selezionate dalla prestigiosa collezione personale dello storico dell’arte ordinate in tre sezioni che contraddistinguono la tipologia delle sue scelte artistiche e del mondo artistico e culturale che lo hanno accompagnato nella sua vita personale e artistica. Dal 4 marzo al 9 luglio 2006 Info: tel. 041 2407711 Treviso, Casa dei Carraresi La Via della Seta e la Civiltà Cinese. La Nascita del Celeste Impero La Storia della Cina costituisce il grande affascinante quadro dentro il quale si articola questa mostra organizzata dalla Fondazione Cassamarca. Un percorso
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dopo aver sfiorato i nevai dell’Acongaua, a pochi chilometri dal confine cileno. Da lontano, le vette della Cordigliera sembrano molto meno minacciose di quanto dovevano apparire alle truppe di Martin Fierro e Josè San Martin, impegnati a trovare qualche periglioso valico per portare la libertà in queste terre. L’arida pianura punteggiata da cardones (le piante di cactus, alte sino a due metri) oggi non è più teatro di epiche battaglie, al massimo è vittima delle frettolose scorribande di torpedoni carichi di turisti asiatici, onnivori di foto ricordo. Dai pullman posteggiati sul ciglio della strada escono, inesorabili, le note dell’ennesimo, malinconico tango.
a cura di Maria Grazia Tornisiello
sulla nascita e l’affermazione del Celeste Impero, in sinergia con il pensiero dell’Accademia Cinese di Cultura Internazionale. Fino al 30 aprile 2006 Info: tel. 0422 513161 Verona, FNAC Emiliano Mancuso - Terre di Sud Emiliano Mancuso romano, inizia a interessarsi alla fotografia come mezzo espressivo per raccontare storie e per rappresentare la realtà. Sue fotografie sono state pubblicate dai più importanti magazine italiani e stranieri tra cui: New York Times, The Indipendent, L’Espresso, “D” La Repubblica. Le stampe della mostra sono a cura di Daniele Coralli – La Bottega dell’Immagine. Dall’11 marzo al 13 aprile 2006 Info: www.fnac.it Verona, Art Gallery Maria Assunta Karini - Dàm Dàm significa eternita’ in lingua araba e sangue in ebraico. La mostra, curata da Riccardo Fai, e’ composta da due corpi di lavoro: When Blood with Bood is paid (video e fotografie) e 7 inches (video). Il filo conduttore è il cuore “come tenero organo che racchiude immensi poteri o come gigantesca bomba che contiene il sangue del mondo.” Dal 25 marzo al 30 aprile 2006 Info: tel. 045 8035290 Verona, Boxart Franco Fontana La rassegna, che presenta una trentina di opere tra cui molti inediti, raccoglie il meglio degli Asfalti, dei Paesaggi Urbani e dei Paesaggi naturali del fotografo Franco Fontna, dagli anni Settanta ad oggi. Dal 25 marzo al 30 aprile 2006 Info: tel. 045 8000176
Libri segnalati alla redazione Mamma… che fatica!? Come vivere la maternità senza troppe complicazioni Federica Schiavon Il Segno dei Gabrielli Editori pp.180, Euro 12,50 Cosa rende così travagliata la vita delle mamme? Sicuramente non i figli. Le difficoltà nascono dalla mancanza di politiche sociali, dalla scarsa sensibilità verso i problemi delle madri, da una mentalità incapace di evolversi e tenere il passo con il nuovo ritmo della vita delle donne. Nel libro l’autrice tenta di andare alla fonte dei problemi e azzardare delle soluzioni. C’è una chiesa lassù sui monti Piero Piazzola Edizioni La Grafica pp.70 Quando Domineddio ebbe terminato di assegnare ad ogni paese il suo santo protettore, si rese conto di essersi scordato di due paesini di montagna: Durlo e Campofontana. Allora chiamò Santa Margherita e San Giorgio e li mandò subito nelle loro destinazioni. Santa Margherita si fermò a Durlo, San Giorgio, invece, poiché aveva un cavallo, salì a Campofontana. Ma si impegnarono ad incontrarsi almeno una volta all’anno. Ecco il motivo primo delle antiche processioni tra i due paesi… Il libro di Piazzoladà notizie sull’ambiente, la popolazione, le chiese e le manifestazioni religiose dei due paesi della Lessinia. Cuorinellatorment@ Gianfranco Iovino Seneca Edizioni pp. 201, Euro 12,00 Freccia e Ginevra i protagonisti del romanzo trasformano il loro incontro virtuale nell’amore reale di Luca e Carolina. Questo libro descrive anche la trasformazione che è necessaria in ogni rapporto sentimentale: il passaggio dall’idealizzazione dell’amore alla consapevolezza di quello che è. La realtà virtuale, in questo caso quella di una chat, diventa la chiave che apre la porta sulla verità.
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Libri LA CASA EDITRICE
Gemma Edicto Fondata nel 1987 da due giornalisti e due imprenditori valorizza la realtà locale, senza rinunciare al dialogo con le culture del Mediterraneo
Valorizzare la città attraverso gli scrittori locali senza rinunciare al dialogo fra le culture dell’area mediterranea. È questo uno degli obiettivi di Gemma Edicto, casa editrice fondata a Verona nel 1987 per iniziativa dei giornalisti Antonio Felice e Franco Ceriotto, e degli imprenditori Fidenzio Crivellaro e Stefano Wallner. «Si è deciso di chiamarla così perché “Gemma” voleva essere un nome di speranza, un qualcosa di nuovo che sta nascendo e che punta a diventare importante nel tempo; “Edicto”, invece, sta per “editoria” e “comunicazione» spiega Felice. La prima pubblicazione di Gemma Edicto è stata il Corriere Ortofrutticolo, che proveniva dalla casa editrice L’Albero, con contenuti accessibili anche a lettori non specializzati grazie ad articoli non molto lunghi e ricchi di illustrazioni. Dal febbraio 2004 arriva una nuova rivista in inglese e in arabo (con sommari in italiano, francese e spagnolo), il Greenmed Journal, uno strumento di dialogo internazionale che tratta di economia agricola, dei prodotti del Mediterraneo. La rivista per ora è bimestrale, ma diventerà mensile ed è distribuita in quattordici Paesi dell’area. Dal 1997 si è deciso di puntare anche alla produzione libraria, con in media dalle 4 alle 8 pubblicazioni annue. Come sottolinea Felice «lo scopo principale di questa scelta è stato quello di una rappresentazione narrativa della città. Abbiamo notato che nel ’900 Verona non fu descritta co-
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me fecero Bassani per Ferrara e Fogazzaro per Vicenza. Quindi si sono scelti degli autori per produrre opere che abbiano come riferimento la città». Le collane di libri a cui Gemma Edicto ha dato vita sono sei: una narrativa, Dietro la notizia; una saggistica, Città, giornali e giornalisti; due di poesia, Un poeta, una città e Altre vie; una di libri per l’Università, College ed infine una legata alla saggistica sociopolitica, Carte italiane. La distribuzione, visti i temi trattati, è soprattutto locale ed è la casa editrice stessa a curare i rapporti di promozione Dietro la notizia è la prima collana nata, di cui finora sono stati pubblicati quattordici volumi. I libri che hanno ottenuto più successo sono: Chewing Gum di Giuliano Marchesini, Il Porto della memoria e Piazza Bra di Piero
Marcolini. Chewing Gum, che narra di un bambino vissuto a Verona durante la guerra, ha vinto nel 2000 il Premio Castello di letteratura per ragazzi, è stato segnalato come libro del giorno dal Corriere della Sera e dal Gazzettino ed è molto richiesto dalle scuole medie come libro di lettura. Il Porto della memoria racconta l’esperienza di Marcolini durante il periodo bellico. Porto San Pancrazio, più volte bombardato, era il luogo in cui l’autore viveva, . Protagonisti della storia sono gli abitanti del quartiere, i giovani come l’autore, rimasti senza casa e costretti a crescere prima del tempo. Questo libro ha avuto anche una riduzione teatrale di successo messa in scena dalla compagnia AIDA. In Piazza Bra, il libro più venduto, Marcolini, da assiduo frequentatore della piazza, racconta aneddoti e vicende del salotto di Verona. Il libro ha avuto anche un seguito intitolato Ritorno in Bra. La collana Città, giornali e giornalisti comprende saggi sul giornalismo locale e finora sono stati pubblicati cinque titoli, tra cui Ragione e Passione di Giovanni Dusi, una raccolta di articoli inediti sulle tematiche più svariate, e Giornalisti in trincea di Emanuele Luciani, che parla della stampa a Verona durante la Grande Guerra. La collana Un poeta, una città ha un solo titolo, Nel cor de Verona di Giovanni Ceriotto (il padre di uno dei fondatori di Gemma Edicto) e ha come scopo la valorizzazione del rapporto fra i poeti veronesi e la loro terra.
Altre vie invece vuole proporsi come strumento di riflessione attraverso i versi poetici. È composta di una sola opera, Spero di sperare di Francesco Buttuirini. College è la collana di libri universitari, di cui fa parte Le 7 vie dell’Agopuntura di Minelli, ritenuto il trattato più importante pubblicato in Italia sull’argomento. L’ultima collana è Carte italiane composta da Altre libertà di Guido Gonella, che tratta di politica e che ha avuto anche l’onore di essere citato dal presidente Ciampi.
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N° 10/marzo 2006 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.
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