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Primo piano In copertina foto di Francesco Passarella

«La linfa che attraversa le mie pagine non è fatta di inchiostro, ma di voglia di vivere. C’è un filo prezioso che lega gli argomenti, il passato e il presente e che va oltre le parole»

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Mi avete visto nelle librerie, nei bar del centro. I più fortunati mi ricevono anche per posta. Il mio babbo mi ha fatto come Geppetto ha fatto Pinocchio: si sentiva solo e aveva bisogno di amici con cui parlare di cose non banali. Così sono nato io, Verona In, figlio del rifiuto della banalità. Sono di cellulosa ma ho un cuore e un cervello e questo piace ai redattori che impiegano molto del loro tempo a istruirmi e a darmi un vestito presentabile, perché mi troviate sobrio ma distinto. Un giorno ho sentito che mi chiamavano “giornalino” e pensavo fosse a causa dei calzoni corti, perché ero nato da poco. Sembra invece che dipenda dal fatturato: io sono gratis. Ci sono rimasto male, ma subito il mio babbo mi ha detto che anche se sono piccolo di pagine non sarò mai un nano se saprò guardarmi da Lucignolo e Mangiafuoco. Nella mia città siamo fortunati, ma non si sa ancora per quanto tempo. La fortuna è questa: io vivo perché ci sono gli sponsor che fanno la pubblicità. Quando arriva la reclame si fa sempre una grande festa e cominciano subito a riempirmi di parole. Ci sono sponsor che vogliono bene alla città e che sanno ancora dare il giusto valore alle cose; per alcuni invece Verona o Marte cambia poco o nulla: c’è chi addirittura ha detto che per centrare il target dovevo cambiare completamente pelle. Altri hanno accarezzato le mie pagine, mi hanno visto piccolino ma convinto e hanno messo una buona parola: gente con figli, che guarda avanti e vede tanta nebbia, gente stufa di isole e fratelli. Non che noi si risolva questo tipo di problemi, ma siamo eternamente grati per questo genere di sfoghi. Un giornale è ciò che pubblica e io certamente morirei senza continue trasfusioni di parole. C’è

una pubblicità in televisione, dice che migliaia di caratteri fanno la comunicazione. Non è vero: si possono scrivere montagne di parole e dire assolutamente nulla. La linfa che attraversa le mie pagine non è fatta di inchiostro, ma di voglia di vivere. C’è un filo prezioso che lega gli argomenti, il passato e il presente e che va oltre le parole. Mi piace tutto ciò che è creativo, intelligente, spiritoso, delicato, onesto, piccolo o grande che sia. Mi piacciono gli amici con queste qualità, ricchi o poveri che siano. Così in questi mesi ho scoperto che abbiamo molte risorse, alcune poco considerate, altre stoltamente seppellite, indispensabili per tenere viva una città e risolvere qualsiasi genere di problemi, anche quelli finanziari. Ho imparato che gli anziani non sono tutti rimbambiti e che i giovani non sono tutti strampalati, che anche i ragionieri hanno un’anima, così come i politici, e che alcuni artisti sanno anche essere pratici, quando serve. Questa energia va individuata nel marasma generale, coltivata, valorizzata e finanziata perché anche i fiumi prima di diventare tali sono dei limpidi torrenti di montagna. Ho visto che c’è tanto da scrivere per raccontare una Verona messa a torto un po’ ai margini, dove chi non segue le lusinghe del Gatto e della Volpe rischia di essere considerato un perdente anche se ha delle qualità, mentre è vero il contrario. Infine un appello (i giornali servono anche a questo). Andare a teatro, al cinema, visitare un museo, una mostra, ascoltare un concerto, leggere un libro,

spostarsi per assistere a un evento, tornare sui banchi di scuola: sono occasioni che abbiamo per sentirci non banali e un po’ più vicini gli uni agli altri in un mondo di griffe e di solitudine. Quindi non ci resta che prendere l’abbecedario sotto braccio e imboccare la strada indicata da papà Geppetto, semplice falegname con le idee molto chiare. Verona In

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Cultura AFRICA OGGI

Quando l’integrazione si fonda sulla cultura Dopo l’esperienza in Mali nel villaggio Dogon, l’associazione Metis Africa propone a Verona incontri spontanei tra culture differenti. Un vero momento aggregante e anche una proposta politica e sociale di grande forza

Metis Africa nasce nel 2001 dopo il viaggio in Mali di Marco Gay e Giulia Valerio, psicanalisti junghiani che vivono e lavorano da anni a Verona

di Rita Bartolucci e Valeria Saddi “Confluenze” è il suggestivo titolo del progetto che ha animato una Piazza Isolo irriconoscibile, finalmente viva, straripante di persone, suoni, colori, profumi, parole e che ha aperto una nuova scommessa per il futuro. Nel maggio scorso, l’associazione Metis Africa ha infatti proposto, nel cuore di Veronetta, quartiere simbolo della convivenza interculturale a Verona, una particolare iniziativa per dare visibilità al punto d’arrivo di un lungo percorso che per mesi ha visto susseguirsi laboratori teatrali, musicali, incontri di parola e di festa. Metis Africa è un’associazione di volontariato nata nel 2001 a Verona. L’occasione è il viaggio nel paese Dogon, nella regione di Shanga nel Mali, di Marco Gay e Giulia Valerio, psicanalisti junghiani che vivono e lavorano da anni a Verona, desiderosi di approfondire lo studio dei sistemi

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“Confluenze” 2004

di cura e dell’interpretazione del sogno in altre culture. Lo stretto legame con il paese Dogon si concretizza con diversi progetti che sostengono, di volta in volta, la costruzione di una scuola elementare in un’area rurale, l’allestimento della mensa durante l’anno della carestia, la costruzione di un laboratorio per le donne artigiane di Bandiagara e il potenziamento delle risorse dell’acqua per la coltivazione di orti e di piante medicinali. Contemporaneamente inizia l’attività di Metis Africa in territorio vero-

nese per far conoscere le straordinarie ricchezze di un paese, l’Africa, troppo spesso immaginato dagli europei solo come luogo di dolore e di bisogni estremi. Verona è ormai una città dalle molte culture e dai molti volti, ma l’incontro con l’altro sconvolge e riordina l’universo: le proprie convinzioni, le proprie fragili sicurezze si sbriciolano, in un disorientamento tanto doloroso, quanto necessario e carico di possibilità di rinascita. Ecco perché secondo Metis Africa è importante e urgente agire sul

territorio, promuovendo la conoscenza reciproca, il dialogo, l’incontro: un modo intelligente per affrontare i conflitti, cercare di prevenire il disagio, scardinare i pregiudizi. Per realizzare questo incontro-scambio tra i cittadini alcune modalità si rivelano efficaci: l’espressione artistica, la festa intesa come momento che sprigiona le energie più profonde, la parola. Incontri spontanei, gratuiti e informali che diventano anche una proposta politica e sociale di grande forza, un vero momento aggregante.

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Cultura Non a caso per “Confluenze” l’ispirazione è arrivata dal Teatro dell’Oppresso di Augusto Boal. Un dibattito in forma teatrale, nato in Brasile negli anni bui della dittatura come modalità di incontro e riflessione, reso possibile dalla presentazione di scene nelle quali le quotidiane difficoltà di convivenza tra le diversità, e i conflitti che ne nascono, appaiono come irrisolvibili: il pubblico, chiamato in causa dall’autenticità delle situazioni rappresentate, si trova ad intervenire direttamente sulla scena e a interagire con gli attori, in una ricerca comune di nuove prospettive e inaspettate possibilità di soluzione. Il dialogo teatrale invita alla riflessione, alla partecipazione, all’assunzione delle proprie responsabilità di esseri umani e di cittadini, e genera una reazione a catena di dibattiti, discussioni, accesi confronti. In una parola, genera incontro. In quest’ottica di racconto e condivisione Metis Africa ha organizzato anche altri eventi a Verona. Come quello con i danzatori della Società delle Maschere di Sangha: una ventina di uomini appartenenti a una delle più potenti società segrete del paese Dogon hanno regalato al teatro Camploy uno straordinario spettacolo di danze tradizionali, legate ai rituali funerari, dalle quali sprigiona tutta la forza e l’incanto del mondo segreto delle Maschere. Oppure l’incontro con Apam Dolo, guida di Sangha e testimone della tradizione e della cultura orale del suo popolo, che torna ogni anno per raccontare il complesso sistema di simboli e significati del mondo Dogon, nel corso di intense giornate di seminario, in un ritmo lento che cattura e affascina, e anche in alcune scuole elementari veronesi dove conosce i bambini, racconta miti e tradizioni. Apam svela così tutte le nostre difficoltà d’ascolto, la fretta di comprendere e di catalogare subito ogni cosa. Una nuova occasione di incontro è la collaborazione con l’associazione Sunitle, con l’invito a una sfilata di moda senegalese sulle passerelle milanesi. L’obiettivo comune è dare il via a una serie di eventi che promuovano in Italia l’uso dei tessuti africani, e forni-

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“Condor-danza delle Maschere”. Progetto di intercultura realizzato dal Museo delle Maschere di Mamoiada (Nuoro), Metis Africa e la Compagnia Awa Dancers di Sangha

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di Maria Pia Cottini

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scano in tal modo un aiuto concreto alla produzione artigiana locale, tramite una rete di stilisti, laboratori artigiani in Africa e punti di vendita in Italia. Recentemente si è svolta anche la “Condor-danza delle Maschere”, progetto di intercultura realizzato dal Museo delle Maschere di Mamoiada (Nuoro), Metis Africa e la Compagnia Awa Dancers di Sangha. Per un mese, danzatori africani, soci e amici di Metis Africa, antropologi, psichiatri e un intero paese del centro della Sardegna hanno vissuto insieme, conoscendosi attraverso seminari, feste di piazza, spettacoli delle rispettive

tradizioni in luoghi antichi e colmi di suggestione. Continuamente si ha la conferma che nell’osservare la cultura dell’Altro si scoprono i propri limiti, paure ed errori e si intravede un’autentica possibilità di cambiamento. Tutti i progetti di Metis Africa promuovono perciò non solo lo scambio tra le diverse culture ma anche il mescolarsi delle varie generazioni e di bambini di diverse età, in modo che i più grandi possano assumersi la responsabilità di accudire i più piccoli sotto l’occhio apparentemente distratto, ma in realtà vigile, di un gruppo di adulti o di anziani. Un gruppo di bambini di

diversa provenienza culturale intento ai propri misteriosi “traffici”, totalmente autonomo, ma reso sicuro dalla presenza, dall’altra parte del giardino, degli adulti che conversano e svolgono insieme le mansioni quotidiane, tutto questo è ciò che forse noi europei possiamo chiamare “grande famille”. Nella primavera prossima tutte queste realtà in movimento si incontreranno nuovamente in Piazza Isolo. Per rinnovare la scommessa: il confluire di persone, storie, destini in un travolgente fiume in piena che muta, per sempre, il paesaggio e lo costella di nuove meraviglie.

Per una città delle differenze “La città delle differenze” è il titolo del progetto che sarà presentato a Verona in gennaio, proposto da associazioni e realtà impegnate nel dialogo, l’incontro e lo scambio tra culture lontane e diverse. Le premesse e le finalità hanno un carattere molto concreto. Partono infatti da uno sguardo attento sulla città di Verona che si mostra mutata per l’arrivo di molti uomini, donne e bambini che l’hanno scelta come propria casa dopo aver lasciato i paesi d’origine. Lo scopo è quello di creare degli strumenti di conoscenza reciproca per evitare atteggiamenti sociali di chiusura e intolleranza. Cestim, Centro Missionario Diocesano, Fondazione Cum, Luci nel Mondo Onlus e il Vicariato per l’Evangelizzazione della Diocesi hanno promosso questo progetto per creare le premesse verso una città-cantiere, luogo del dialogo, della novità che nasce dall’incontro delle differenze. A patrocinare l’iniziativa intervengono il Comune

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di Verona, il CSA (ex Provveditorato agli studi) e l’Università. A livello operativo il progetto si sviluppa in due momenti. Il primo è la vera e propria “ricerca sul campo” per raccogliere suoni, immagini, parole che raccontino i nuovi modi di abitare la città da parte delle varie culture. In un secondo momento saranno realizzati un video reportage di 30 minuti, che metterà in luce la vita di tutti i giorni in città, quattro storie di immigrazione, un cartone animato per i bambini e, infine, un momento teatrale al Camploy. La diffusione e la sensibilizzazione saranno affidate alle televisioni locali, a una mostra fotografica, a un laboratorio teatrale e a un conferenza sul tema dell’immigrazione in Italia e a Verona, prevista per il prossimo 15 marzo al Polo Zanotto.Tutti i materiali potranno essere richiesti e utilizzati da scuole, enti, realtà culturali e sociali del territorio. (E.Z.)

Dall’altopiano della Lessinia all’immensa estensione del Nilo il passo è breve. Basta capire che l’uomo è tale, con le sue attese e speranze, nonostante abbia pelle, lingua e costumi diversi. A scoprirlo, quasi due secoli fa, gettando ponti tra mondi e culture distanti anni luce, è stato un veronese. Parliamo di don Angelo Vinco, nativo di Cerro, pioniere dell’Africa quand’era poco più che un ragazzo. Era nato nel 1819, quando il Veneto da poco si trovava sotto il dominio austriaco. Erano tempi di miseria in cui tanta gente pativa la fame e soltanto pochi potevano studiare: fu proprio in quegli anni che don Nicola Mazza consentì ai ragazzi poveri con “talenti distinti” di studiare. Tra questi anche il giovane Angelo che era cresciuto a Cerro, in una famiglia contadina semplice. Il ragazzo poté proseguire il suo iter scolastico a Verona, nella scuola di don Mazza, dove si aprivano i giovani studenti a una cultura improntata sugli studi classici, ma tesa anche a conoscere il mondo: dalla geografia agli usi e costumi delle varie genti, alle lingue. Era un’epoca di povertà e oppressione ancora per molti popoli, che avrebbe generato numerose rivolte in Europa; ma anche un tempo in cui si guardava a mondi nuovi con un grandissimo interesse sia culturale che economico. Studente brillante, Angelo Vinco scelse di fare il prete e di diventare missionario. Nel 1845, all’età di 26 anni si recò a Roma alla congregazione di Propaganda Fide per prepararsi a questo compito con lo studio delle lingue ma anche dei costumi e delle tradizioni delle terre cui era destinato. Nonostante questo alone di terrore e di mistero che circondava il cuore dell’Africa, o forse proprio per questo, il bacino del Nilo, e in particolare le sorgenti del fiume, furono al centro di attenzione grandissima per geografi, esploratori, mercanti, romanzieri e naturalmente anche per le potenze europee. L’idea della Santa Sede era quella di convertire le popolazioni africane al cristianesimo prima che l’Islam le raggiungesse. Fu per questo che in tempi molto brevi la Congregazione di

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Cultura AFRICA IERI

Verona e l’Africa: una storia antica Prete, antropologo e geografo Angelo Vinco fu interprete della sensibilità del tempo e per il suo ideale sacrificò la vita. Verne lo citò in “Cinque settimane in pallone”

Propaganda Fide decise di stabilire un vicariato lungo il corso del Nilo, nei pressi di Khartoum, dove già in passato era sorta una piccola missione, presto abbandonata. Vinco fu scelto per la prima spedizione africana con altri tre preti, anch’essi ben preparati e, aspetto importante per l’ambiente africano, di fisico robusto. Il viaggio fu lungo, faticoso per il clima e per il fatto di trovarsi in un mondo del tutto sconosciuto, abissalmente diverso da quello europeo. Infatti l’Africa sub Sahariana, che sulle carte era designata con la definizione hic sunt leones (qui ci sono i leoni), ad indicare che era inesplorata, rimaneva ancora un mistero, avvolta nella leggenda dei racconti riportati dai carovanieri. Anche la sua morfologia era tratteggiata in maniera vaga, sulla base di quegli stessi resoconti. L’arrivo a Khartoum avvenne dopo quattro mesi e mezzo, ma il viaggio lasciò il segno: padre Ryllo, che era a capo della spedizione, fu piegato dalle febbri e morì poco dopo l’avvio della missione. Anche Vinco dovette rientrare in Italia per rimettersi in salute e fu in questa circostanza che incontrò per l’ultima volta la sua famiglia e conobbe il giovane Daniele Comboni. Di ritorno a Khartoum, il 13 novembre del 1849, Vinco, il superiore Knoblecher e Pedemonte, un nuovo missionario ligure, decisero di proseguire il viaggio lungo il Ni-

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Angelo Vinco

lo Bianco, perché abitato da popolazioni non ancora convertite all’Islam e perché era l’unica via fluviale veramente percorribile. I finanziamenti per l’impresa i preti se li erano dovuti cercare da sé: ormai Roma, scossa dai movimenti rivoluzionari che percorrevano l’Europa, non pensava più ai bisogni della missione. Knoblecher aveva ricevuto alcuni aiuti dall’Austria, ma in qualche circostanza di emergenza, pur di avere a disposizione barche e vettovaglie per le spedizioni, fu costretto a trattare l’avorio con i mercanti. Nella stessa situazione versò anche Angelo Vinco quando, essendo Knoblecher in Europa, e trovandosi lui nella necessità di risalire il fiume per raggiungere le popolazioni Bari, dovette trattare l’avorio. Questo episodio fu in seguito motivo di accuse e incomprensioni tra il missionario e i suoi superiori.

Dopo il primo contatto con i Bari i missionari rientrarono a Khartoum nella primavera del 1850. In estate Vinco riprese il fiume per tornare presso questa tribù: Angelo Vinco fu il primo bianco a vivere per circa due anni completamente solo tra popolazioni di colore, con usi e costumi del tutto diversi dai suoi. Dovette imparare a comunicare con i Bari, apprenderne la lingua e i modi di vivere. Lontano oltre un mese di viaggio dai compagni di missione, in una terra sconosciuta ed estremamente difficile, egli anticipò un’esperienza che soltanto più tardi, con altri mezzi e altra preparazione, fecero scienziati antropologi. Vinco era partito per la sua missione spinto dal grande desiderio di portare il battesimo a popoli che credeva altrimenti perduti, senza salvezza e il suo intento era quello di far conoscere il Vangelo. Ma egli dimostrò anche una grande passione per le scoperte geografiche e scientifiche: si “innamorò” degli uomini incontrati, della loro cultura che condivise, della loro lingua che imparò a parlare, delle loro tradizioni. Il missionario diventò quindi antropologo e scienziato.

Vivendo tra i Bari la loro stessa quotidianità egli si fece da questi molto amare e stimare, come hanno testimoniato i missionari giunti dopo di lui e come ci fanno comprendere le canzoni che i Bari stessi gli dedicarono sia in vita, sia dopo la morte. Egli si avvicinò anche ad altri popoli nilotici sempre in modo pacifico, con l’interesse dell’uomo che desidera incontrare altri uomini e diventarne amico: essi divennero sue guide e importantissimi compagni di viaggio nell’esplorazione del territorio intorno alle sorgenti del Nilo, dove un insaziabile desiderio di conoscenza continuamente lo portava. Gli fu consentito di segnalare rilievi mai prima individuati e di spingersi dove mai nessuno era giunto, intorno al quarto parallelo nord, fornendo riferimenti esatti dei luoghi esplorati. I missionari, infatti, conoscevano gli strumenti della geografia e li sapevano usare benissimo. In particolare le note lasciate da Vinco furono una documentazione fondamentale per gli esploratori che in seguito scesero lungo il Nilo e il suo nome è citato in quasi tutti i loro diari. Anche Jules Verne lo ricorda nell’introduzione del suo primo romanzo “Cinque settimane in pallone” del 1863, inserendolo nell’elenco dei viaggiatori che si erano coperti di gloria in Africa. La sua impresa venne troncata da una febbre violenta e terribile che il suo fisico forte non riuscì a superare. Era il 1853. Don Vinco aveva appena 33 anni.

Approfondimenti Gianpaolo Romanato, “Daniele Comboni, l’Africa degli esploratori e dei missionari”, Rusconi, 1998. Massimo Gomiero, “Lo sguardo oltre il confine, don Angelo Vinco (18191853) tra missione ed esplorazione”, Nuovi quaderni mazziani, Editrice mazziana, 2004.


Cultura VERONA

Il Teatro dell’Angelo Uno spazio singolare autocostruito, una officina dove parole, gesti, musica, poesia e colori prendono forma. L’attore e regista Gianni Franceschini racconta questa singolare esperienza creativa che fonde spettacoli e momenti conviviali

Un’offerta anche per le scuole dove i ragazzi possono entrare in relazione con le diverse forme d’arte

di Elisabetta Zampini Il paesaggio talvolta si trasforma dall’interno, quasi in maniera invisibile. Succede quando, entrando in un austero capannone industriale a quindici chilometri dalla città, si scopre con meraviglia un teatro che lentamente prende vita. È il caso del Teatro dell’Angelo, voluto e sognato dal noto attore e regista Gianni Franceschini insieme al gruppo di amici-collaboratori che partecipano a questa avventura artistica: Gianni Volpe, Sara Toppan, Valeria Raimondi e Nicola Fasoli. Il teatro si trova a Vallese di Oppeano, poco dopo l’uscita della tangenziale, in via Vivaldi. È sede e “creatura” della Compagnia Viva Opera Circus, nata da poco, nel

2000, ma formata da professionisti che da più di vent’anni propongono significative esperienze di teatro dallo stile ben riconoscibile, dove l’attore anima e dà voce alla storia non solo con il corpo ma anche con figure, fantocci, burattini, marionette, maschere. «C’è stato un forte e coraggioso impegno economico per l’acquisto e per i lavori di sistemazione del teatro – spiega Franceschini – ma sentivamo il bisogno di un luogo in cui le idee e le persone potessero trovare casa». Il Teatro dell’Angelo è del tutto singolare, assomiglia a una officina delle parole, dei gesti, della musica, della poesia, dei colori: un luogo dove mondi diversi prendono forma, in tutti i sensi. C’è un ricco laboratorio di falegnameria dove si creano le sceno-

grafie e non solo. Anche lo spazio dell’attore e del pubblico sono continuamente messi in gioco e in dialogo tra loro. Questo grazie a una indovinata soluzione di elementi modulari quadrati, di legno e metallo, che al bisogno diventano palcoscenico, gradinata per gli spettatori, scala, ripiano. Non è un dettaglio solo di tipo tecnico ma rivela una poetica del fare teatro e del comunicare ben precisa. A seconda di ciò che si rappresenta, a seconda del genere artistico che si ospita (musica, teatro, danza, cinema o altro), la forma del palcoscenico cambia, si rimpicciolisce, si ingrandisce, entra tra il pubblico o si allontana. Esprime cioè una progettualità aperta e dinamica dove lo spazio scenico è spazio creativo e comunicativo assoluto. «È molto importante – prosegue Franceschini – il rapporto tra il pubblico e l’attore. Spesso lo si ignora. Per questo vogliamo riservare un tempo e un luogo per l’incontro con il pubblico prima e dopo lo spettacolo. Si vuole cioè coltivare l’idea di ricostruire una comunità dialogante, che è una funzione tradizionale del teatro. Per ipotesi una famiglia potrebbe venire qui ogni sera, chiacchierare, bere un tè, assistere allo spettacolo. In maniera informale o, meglio, famigliare: una specie di casa-famiglia teatrale. La nostra dimensione, lo si capisce, rimarrebbe comunque piccola e perciò ogni proposta di tipo strettamente commerciale, che si basa sulla sostanziosa affluenza di pubblico, non vi potrebbe trovare posto». Il Teatro dell’Angelo è una nic-

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Cultura

Nelle immagini Franceschini durante alcune sue interpretazioni

«Un percorso di piccoli passi, di tempi lenti, lungo il quale si incontrano storie. Il teatro è soprattutto, come amava dire Peter Brook, una porta aperta» «Qui gli artisti si possono incontrare, autopromuovere, possono mettere in dialogo le proprie idee. Ecco perché il Teatro dell’Angelo non ha un cartellone, una programmazione: nasce mano a mano che si arricchisce del contributo di chi viene ad abitarlo»

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chia non isolata nel panorama italiano. Si stanno diffondendo luoghi come questo: dalle biblioteche, che diventano spazi aperti di animazione culturale, a compagnie teatrali, che fuggono le grandi città per rifugiarsi in teatrini di piccoli paesi di provincia che consentono una relazione e uno scambio di pensiero più autentici. Motivo, questo, che spiega il nome del teatro di Vallese: «È Teatro dell’Angelo perché l’angelo accoglie, protegge sotto le sue ali, offre casa specialmente a quegli artisti che non trovano luogo per dire e dirsi. Penso soprattutto ai giovani e ce ne sono molti che sono anche bravi. Di talento. Ma fanno fatica. Qui gli artisti si possono incontrare, autopromuovere, possono mettere in dialogo le proprie idee. Ecco perché il Teatro dell’Angelo non ha un cartellone, una programmazione: nasce mano a mano che si arricchisce del contributo di chi viene ad abitarlo, “abitarlo poeticamente”, dalla mattina alla sera. È un teatro visibilmente vissuto, luogo da lavori in corso, di incontri: elettricisti, falegna-

mi, attori, musicisti, poeti, bambini, anche enti ed istituzioni del territorio. Insomma un luogo in cui le proposte vengono ascoltate e accolte, certamente con senso critico ma non esclusivo; in ogni caso non si tratta mai di uno scambio commerciale puro e semplice» dice Franceschini. Alcune scuole hanno visitato e sperimentato il teatro per intere giornate condividendo i momenti conviviali e quelli teatrali. Gli stessi studenti di scenografia dell’Accademia Cignaroli di Verona utilizzeranno il laboratorio di falegnameria e un gruppo di anziani ospiti della Pia Opera Ciccarelli di San Giovanni Lupatoto rivivranno qui i momenti del filò. Ci sono infatti tre percorsi ideali che caratterizzano il Teatro dell’Angelo: un’offerta per le scuole, dedicata a bambini e ragazzi che possono trovare tempi distesi in cui entrare in relazione con le arti, un luogo di incontro tra le diverse forme artistiche, con un occhio particolare al teatro d’animazione e alla danza moderna dove ci sono nuovi artisti da promuovere, e infine l’opportunità di ritrovare e conoscere il teatro di strada, la commedia dell’arte, e tutte le altre forme popolari. «Stiamo lavorando molto sul teatro popolare d’arte – conclude Franceschini – dove nuovi linguaggi e forme contempora-

nee del teatro ripescano nella tradizione, nel folklore recuperando, per esempio, figure come quelle del cantastorie o parole dialettali». Una prospettiva dunque di ricerca, sperimentazione e lavoro artistico di passione e qualità senza però isolamento: «La città di Verona negli ultimi tempi si sta sempre più articolando. È sempre più ricca di iniziative e realtà valide. Vedo segni di vivacità. Il Teatro dell’Angelo è una occasione in più all’interno di questo contesto e momento. Non è, e non vuol essere, “il luogo alternativo”– precisa il regista – Adesso è principalmente la sede della Compagnia Viva Opera Circus, ma la sua evoluzione tende al costituirsi di una associazione sempre più composita e autonoma. È un percorso di piccoli passi, di tempi lenti, lungo il quale si incontrano storie. Il teatro è soprattutto, come amava dire Peter Brook, una porta aperta».

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Musica VERONA

Franco Faccio Il celebre direttore d’orchestra nacque in riva all’Adige nel 1840. L’incontro con il maestro Giuseppe Verdi e il suo fido librettista Arrigo Boito diede vita a una unione musicalmente fatale che regalò all’arte un Otello da fare storia

Esordì a Venezia nel 1886 con Il ballo in maschera Francesco Antonio, detto Franco, nacque a Verona l’8 marzo del 1840, studiò nella sua città con l’organista Bernasconi, quindi direzione d’orchestra e composizione al Conservatorio di Milano dal 1855. Si trasferì con Arrigo Boito a Parigi nel ’61 dove, per alcuni anni, si dedicò esclusivamente alla composizione. Qui fu in contatto con musicisti quali Verdi, Gounod, Rossini, Berlioz. Esordì come direttore d’orchestra a Venezia con Il Ballo in maschera nel 1886 e nel 1867-1868 partì per una tournée nei paesi scandinavi tornando a Milano nel ’72 per dirigere la prima rappresentazione alla Scala di Aida. Insegnante al Conservatorio di Milano dal 1868 al 1878, nel ’79 fu tra i fondatori e quindi direttore artistico della “Società della Scala” e nel 1884 riorganizzò a Torino l’orchestra dei Concerti Popolari. Continuò l’attività concertistica fino al 1890, dirigendo nelle principali città italiane e straniere – fra cui Venezia, Milano, Torino, Parigi, Zurigo, Madrid – un repertorio che comprendeva la produzione sinfonica contemporanea e l’operistica romantica. Si prodigò, inoltre, per la diffusione in Italia, delle opere di Richard Wagner, dirigendo, fra l’altro, a Milano (1873) il Lohengrin. Franco Faccio morì a Monza il 21 luglio del 1891.

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di Nicola Guerini «È il 1879. L’orchestra della Scala suona il preludio all’atto terzo de LaTraviata sotto i balconi dell’Hotel De Milan, in via Manzoni, la residenza milanese di Verdi; a dirigerla c’è il giovane compositore e direttore d’orchestra Franco Faccio. Verdi è scosso. Si affaccia al balcone della suite, per ascoltare la propria musica, che ormai appartiene a tutti. Tra il pubblico in strada Arrigo Boito, musicista e librettista di Verdi, e Giuseppe Giacosa, poeta e librettista di Puccini. Il maestro è commosso ma, come sempre, molto riservato». Così riportano le cronache dell’epoca quella magica sera a Milano Ed è così che in qualche modo inizia l’incontro artistico tra il maestro Giuseppe Verdi, il suo fido librettista Arrigo Boito e lo scaligero direttore d’orchestra Franco Faccio. Un unione musicalmente fatale che regalò all’arte un Otello da fare storia. Il veronese, poco più che trentenne, fu tra gli anni Sessanta e Settanta coinvolto nel dibattito sul rinnovamento della musica italiana. In quegli anni le avanguardie musicali rinnegavano la tradizione operistica italiana, da cui Verdi proveniva e che aveva cercato di rinnovare dall’interno. Tra i più fervidi animatori del dibattito erano i due giovani musicisti Arrigo Boito e Franco Faccio, frequentatori dell’ambiente artistico-letterario della Scapigliatura milanese, ammiratori entusiastici della musica strumentale tedesca e, con molte riserve, del teatro di

Franco Faccio

Wagner. Nel 1871 Franco Faccio viene informato dell’intenzione di Verdi di mettere in musica il Nerone da Giulio Ricordi, il quale fa sapere a Verdi che Boito ha scritto un libretto sull’argomento ancora privo di musica. Per dare a Verdi una prova delle capacità del librettista, Ricordi gli invia il libretto di Amleto, messo in scena anni prima da Faccio. Verdi prende tempo, non intende impegnarsi. Bisogna aspettare fino al 1879: prima Verdi assiste al debutto genovese del Mefistofele, poi incontra Boito a Milano, pochi mesi dopo. Quando il libretto di Otello fa il suo ingresso a Sant’Agata, Giuseppina Strepponi, la moglie di Verdi, scrive: «Lo misi accanto al Re Lear del Somma, che dorme da trent’anni sonni profondi e non turbati. Come succederà di questo Otello ? Se sa minga. Vorrei che Verdi potesse lasciarlo dormire come Re Lear per altri trent’anni, e poi musicarlo...».

A Ricordi, che a Milano scalpita, Verdi scrive: «Sarà sempre gradita una vostra visita a Sant’Agata in compagnia di un amico, che ora sarebbe, s’intende, Boito. Permettetemi però che su quest’argomento vi parli molto chiaro, e senza complimenti. Una sua visita mi impegnerebbe troppo ed io non voglio assolutamente impegnarmi. Come sia nato questo progetto del Cioccolatte (Otello) voi lo sapete… Pranzavate meco assieme ad alcuni amici… Il giorno dopo Faccio mi condusse Boito all’albergo… tre giorni dopo lessi lo schizzo dell’Otello, che trovai buono. Fatene, gli dissi, la poesia: sarà sempre buona per Voi, per me, per un altro, ecc. Ora, venendo qui con Boito, io mi troverei obbligato a leggere il libretto che Egli porterà finito. Se trovo il libretto completamente buono io mi trovo in un certo modo impegnato: se trovandolo buono suggerisco delle modificazioni che Boito accetta, io mi trovo anche maggiormente impegnato. Se poi, anche bellissimo, non mi piace, sarebbe troppo duro dirgli in faccia quest’opinione…». L’Otello andò in scena per la prima volta al Teatro alla Scala il 5 febbraio del 1887 con la direzione del maestro Franco Faccio. Qualche mese più tardi, in un’altra epistola, Verdi scrisse a Giulio Ricordi: «Spedisco oggi stretta Finale secondo. Ben inteso, ora diventerà migliore il primo. Procurate che venga eseguito a Venezia; e dite a Faccio che non dica niente a nissuno, chè nissuno forse se ne accorgerà. Senza di ciò si griderà che ho rifatto Otello!»

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I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA

Joe Congress, l’americano che non dimenticò mai Verona di Giuseppe Brugnoli Joe Congress era arrivato a Verona nel 1956, con la prima ondata di militari americani provenienti dalla Germania per dare vita alla Setaf, che doveva costituire a Verona e a Vicenza il primo bastione delle forze Nato, in corso di organizzazione, contro una possibile invasione degli eserciti del patto di Varsavia dalla frontiera orientale. Si era nel pieno della guerra fredda e l’arrivo delle truppe americane in città, con la frenetica ricerca degli alloggi per le famiglie al seguito, e quindi una immediata lievitazione degli affitti su un mercato immobiliare – che ancora risentiva pesantemente delle distruzioni della guerra – provocavano tensioni sociali che si aggiungevano a quelle politiche, visto che i cosiddetti “socialcomunisti”, se pure usciti sconfitti dalle storiche elezioni del 18 aprile 1948, erano ancora forti, radicati e si opponevano pesantemente all’organizzazione di difesa atlantica capeggiata dagli Stati Uniti e a cui aveva aderito, tra polemiche parlamentari e qualche tumulto di piazza, anche l’Italia. Joe Congress vestiva sempre in borghese, con quelle larghe giacche fantasiose e le camicie a scacchi che contrassegnavano irrimediabilmente tutti gli americani in libera uscita per le strade di Verona, anche se si diceva che egli aveva un alto grado nell’esercito americano, forse colonnello o qualcosa del genere, forse come appartenente al servizio di informazioni. Il suo compito era dirigere l’ufficio stampa e relazioni pubbliche del comando USA, tenendo i contatti con le autorità italiane e con la popolazione, in modo da favorire la reciproca conoscenza e ammorbidire i contrasti, inevitabili con la presenza di un così massiccio contingente di militari le cui abitazioni erano disperse per tutta la città. Di sé diceva di essere un ebreo russo, scampato con la famiglia ad uno dei pogrom dell’Europa Orientale e quindi naturalizzato americano, ma del tipico americano aveva tutte le caratteristiche, compreso il vezzo di parlare in italiano, che conosceva meglio di quanto non volesse ammettere, con una pronuncia impossibile alla Oliver Hardy, che mantenne sempre, nonostante i lunghi anni della sua permanenza tra noi.

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Con la sua zazzera rossiccia e il viso spiritato, con un lampo di intelligenza e di ironia che lasciava trasparire dietro le lenti, era diventato un personaggio cittadino, a Verona, anche per il suo approccio tra l’amichevole e l’insolente con chiunque, fosse pure un’autorità. Il suo saluto era consuetamente un «Ciaio, bandito!» berciato a tutto fiato, a cui seguiva una serie di pacche sulle spalle e di bottarelle sulla pancia, ma con quel suo fare istrionico e spesso pagliaccesco si era conquistato la simpatia di molta gente anche autorevole, nel cui ufficio entrava senza bussare e infilando una serie di battute prima di dire qual era lo scopo della sua visita. Un po’ apprezzato, un po’ sopportato, un po’ trattato come uno che non aveva ancora imparato gli usi del mondo, egli aveva comunque raggiunto lo scopo che era tipico del suo mestiere: simpatizzare, familiarizzare con tutti, trovare tutte le porte aperte, coinvolgere nel suo entusiasmo spesso esorbitante. Ma anche le sue iniziative non erano male: portare doni ai bambini degli orfanotrofi, che allora erano tanti, far arrivare la banda della Setaf a sagre e feste paesane, raccogliere soldi in sottoscrizioni per casi umani, fino a comparire vestito da Babbo Natale in qualche dispersa contrada di montagna. Aveva fatto di Verona la sua seconda patria, alla quale era veramente affezionato. Forse la prima, visto che precedentemente, come aveva lasciato trasparire da qualche sua ammissione, la sua vita era stata un poco quella dell’ebreo errante, disperso nel vasto e composito mondo della grande America da cui proveniva, ma che non aveva cancellato le sue radici europee. Poi fu trasferito a Vicenza, dove la Setaf aveva raggruppato il nerbo maggiore del suo contingente. Qui non riuscì ad instaurare la stessa corrente di simpatia: la prima volta che incontrò il sindaco di Vicenza fu alla rappresentazione di uno spettacolo all’Olimpico, ed egli, in giaccia chiara e la camicia aperta in mezzo a tutti quei signori vestiti di scuro, si presentò all’allora sindaco Giorgio Sala battendogli cameratescamente, come era solito fare, la mano sulla spalla e interpellandolo: «Guarda che sindaco piccolino! La mamma non aveva latte?». Mancò poco che non lo buttassero fuori

dal teatro. Si rifugiò allora in un lavoro tutto interno alla grande caserma Ederle, una città nella città, lasciando i compiti esterni a Phil Maselli, un italiano nato a New York, compito e formale, che già li teneva benissimo. Ma si sentiva un po’ estraneo, sia a Vicenza che nella comunità americana, e si era incupito. Finché ne fece una delle sue, che in altri tempi, magari, avrebbe suscitato solo commenti tra l’ironia e la simpatia. Mentre era in fila con altri militari e civili con in mano il vassoio per ricevere il pasto di mezzogiorno, vide il generale comandante la Setaf che bel bello se ne stava andando a farsi dare il pranzo saltando la fila, e lo interpellò a gran voce: «Ehi tu, mettiti in fila come gli altri!». Il generale abbozzò, e si mise ultimo nella coda. Ma il giorno dopo Joe Congress era trasferito alle Hawaii. Mi mandò qualche lettera in cui parlava di Verona, e una cartolina con su scritto: «Guarda che bello verde, pieno di alberi e di foglie. Ma nessuno dice che umidità c’è in queste isole in cui piove sempre!». Poi riuscì a farsi mandare a Washington, dove si imbucò in un ufficio al Pentagono, finché non andò in pensione. Ma aveva sempre in mente Verona. Lo rividi una ventina di anni fa: era ritornato e aveva noleggiato un camper, con cui aveva girato un po’ l’Italia sino a giungere a Verona. Una sera, a cena in una vecchia trattoria di campagna che egli ricordava, mi disse che la moglie Alla era morta, che l’unico figlio si era perso chissà dove per l’America, e che egli si era comperato una piccola casa di legno in riva ad un laghetto presso il confine con il Canada, dove contava di finire i suoi giorni: «Ho passato delle settimane da solo, seduto davanti alla casetta, a guardare le acque immobili del lago e a pensare ai bei tempi di Verona» mi disse amareggiato, «ma pare che quei tempi li ricordi solo io». Mi fece vedere tre voluminosi libroni rilegati in tela, gonfi di cartelle scritte a macchina e di ritagli dell’Arena: «Qui è tutta la mia storia – mi disse – ed è una storia di Verona». Ci abbracciammo a lungo, ripartì con il suo camper. Non lo rividi più, qualche tempo dopo seppi da qualcuno che era morto, non so dove, non so come. E mi parve giusto dirmi che io, ma anche Verona, avevamo perso un amico.

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UNIVERSITÀ

Biotecnologie: le piante vinceranno le malattie L’ateneo scaligero al centro di un importantissimo progetto internazionale. Aids, diabete, rabbia o tubercolosi potrebbero essere confinate nei libri di storia sfruttando i temuti Ogm, gli organismi geneticamente modificati

di Giorgia Cozzolino Immaginate di scongiurare per sempre l’insorgere del diabete mangiando un semplice pomodoro, oppure sconfiggere l’Hiv sgranocchiando una normale pannocchia di mais. Sembra fantascienza, ma è proprio quanto stanno per realizzare gli studiosi di biotecnologie dell’Università di Verona insieme a 38 gruppi di ricerca di undici nazioni europee e Sudafrica. Malattie come Aids, diabete, rabbia o tubercolosi potrebbero finalmente diventare un ricordo, ed essere confinate nei libri di storia, sfruttando i principi dei tanto temuti Ogm, gli organismi geneticamente modificati. Il progetto per il quale l’Unione

Europea ha stanziato 12 milioni di euro si chiama Pharma-Planta e ne fanno parte tre laboratori di ricerca italiani: quello del professor Mario Pezzotti dell’ateneo veronese, di Eugenio Benvenuto del Centro ricerche Casaccia dell’Enea e di Alessandro Vitale dell’Ibba, l’Istituto di biologia e biotecnologia agraria del Cnr di Milano. Entrati all’interno del Centro ricerche di Verona, ci siamo fatti accompagnare da Pezzotti in un viaggio attorno ai prodigi della natura sapientemente “aiutata” dalla scienza. Il Dipartimento scientifico e tecnologico dell’Università di Verona, che si occupa delle biotecnologie agroindustriali è un nodo centrale in questo consorzio di ricerca in-

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Scienza ternazionale, che entro i prossimi cinque anni conta di produrre, grazie a piante geneticamente modificate, alcune molecole di interesse farmacologico da sperimentare clinicamente sull’uomo. I due obiettivi principali di PharmaPlanta sono infatti di creare farmaci non ottenibili attraverso i tradizionali sistemi di sintesi e di abbattere i costi di produzione. Ma cosa si sta realizzando concretamente all’interno dei laboratori di Ca’ del Vignal? Parlando in parole povere, e cercando quindi di volgarizzare tutti i tecnicismi, si può dire che gli studiosi di casa nostra lavorano per costringere una pianta a produrre una proteina umana utile alla prevenzione del diabete mellito. Questa sostanza si chiama Gad 65 e funziona da “bersaglio” disorientando così la malattia che va tendenzialmente a colpire le cellule del pancreas, il “generatore” di insulina. Con una buffa metafora, si potrebbe dire che questa proteina funziona come una sorta di clown da corrida che distrae il toro impazzito intenzionato a infilzare il torero. Il Gad 65 è un elemento al quale il nostro corpo si può “abituare” e quindi trasformarsi con il tempo in uno scudo naturale all’insorgere del diabete autoimmune. Facendo delle ipotesi, si potrebbe supporre che mangiando fin dai primi anni di vita ortaggi geneticamente modificati per contenere la proteina umana in questione, ci renderemmo automaticamente immuni all’insorgere della malattia. Basta quindi con quei vaccini iniettati attraverso una siringa e, visto il costo basso della produzione della pianta, si potrebbero facilmente vaccinare milioni e milioni di bambini nel mondo. I ricercatori veronesi hanno già impiantato questa proteina di origini umane in un vettore, che in scienza si chiama agrobattericum tumefacens, il quale ha introdotto il Gad 65 all’interno del cromosoma delle piante di pomodoro e tabacco. Sono così nati dei vegetali nuovi che contengono in sé un altissimo potenziale scientifico. Per ora, a un anno dall’inizio del progetto, i piccoli arbusti producono ancora una quantità poco elevata di proteina necessaria al vaccino, ma presto gli scienziati riusciran-

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Il prof. Mario Pezzotti in laboratorio con alcuni studenti. In basso le serre

no ad ottenere la giusta dose di Gad 65 per ogni pomodoro e potranno poi cominciare la sperimentazione fino a testare il vaccino anche sull’uomo. «L’approccio multidisciplinare consentirà di affrontare tutti gli aspetti della sperimentazione connessi all’impiego di piante geneticamente modificate con particolare riguardo alla sicurezza ambientale e umana» spiega Mario Pezzotti che argomenta anche come, mentre la produzione di molecole farmacologiche in altri sistemi biologici geneticamente modificati è ben consolidata e documentata, non ci siano dati sullo stesso tipo di processo produttivo delle piante. Le potenzialità di una tale ricerca sono enormi. I metodi finora utilizzati per la produzione di farmaci richiedono la modificazione genetica di cellule umane o di microrganismi come i batteri. Tutte tecniche laboriose e costose che spesso producono in quantità limitate le molecole di interesse. «Le piante» evidenzia Julian Ma del St. Geourge’s Hospital di Londra, coordinatore scientifico del progetto «hanno il vantaggio di poter essere coltivate con facilità e a costi accessibili e, se modificate per esprimere un gene relativo a un prodotto farmaceutico, di poterne produrre grandi quantità». Una vera rivoluzione in ambito

farmaceutico che potrebbe rendere disponibili nuovi medicinali per i paesi del terzo mondo, dove il costo è spesso proibitivo. Un altro punto importante del progetto è la sicurezza. Il gruppo di ricercatori mira infatti a tracciare delle linee guida che stabiliscano, in modo chiaro ed esauriente, come vanno coltivati questi particolari Ogm, onde evitare contaminazioni con altri raccolti. Nel progetto Pharma-Planta, Verona assume un ruolo di spicco, non solo dal punto di vista scientifico, ma anche in ambito di controllo e divulgazione delle nuove scoperte. Su proposta del professor Pezzotti è stato eletto come membro esterno del comitato esecutivo il dottor Giorgio Pasqua. Il

suo compito è quello di osservatore pubblico e garante per la valutazione scientifica del progetto, ma anche quello di avvicinare alla gente comune il lavoro dei ricercatori. «Pasqua è un esponente di un mondo in estremo sviluppo economico mal supportato scientificamente» spiega Pezzotti «Ed è anche tra i primi industriali del vino di Verona sensibile al tema della ricerca». Infatti, insieme ad altri produttori della provincia, Pasqua prenderà parte ad un progetto di ricerca coordinato da un altro professore dell’ateneo scaligero, Massimo Delledonne, del valore di un milione di euro, di cui 600 mila messi a disposizione dagli industriali. L’obiettivo è quello di comprendere i processi di maturazione e submaturazione dell’acino d’uva. Il frutto prediletto da Bacco, rientrerà quindi tra i progetti scientifici dell’università veronese che ne studierà gli sviluppi per favorire una migliore coltivazione o una raccolta adatta a ciascun tipo di vino. Intanto però, prosegue con determinazione lo studio che, anziché sollazzare i palati, potrebbe portare ad una vera rivoluzione nella sanità globale. Pharma Planta lavora in sordina da quasi un anno e tra non molto avrà dei risultati da mostrare al mondo. Tra il 7 e il 9 gennaio del 2005, al Polo Zanotto, l’intero gruppo internazionale di ricerca si riunirà per fare il punto sul primo anno di lavoro. Un evento importante che non mancherà di innescare curiosità e dibattiti e metterà Verona al centro di una nuova espressione del transgenico.


Scienza MUSEO CIVICO DI STORIA NATURALE

Il mistero del Basilisco Ha un corpo somigliante a quello di un rettile, una coda irta di spine, dai fianchi escono appendici che sembrano ali e il capo presenta un’ampia bocca irta di denti sopra la quale grandi e maligni occhi fissano il vuoto

di Angelo Brugnoli Tra gli oggetti naturali che fanno parte delle collezioni storiche del Museo Civico di Storia Naturale di Verona, ci sono tre animali imbalsamati veramente curiosi: hanno un corpo somigliante a quello di un rettile, con una coda irta di spine, dai fianchi escono appendici che sembrano ali e il capo presenta un’ampia bocca irta di denti sopra la quale grandi e maligni occhi fissano il vuoto. Sono montati su basette di legno tornito ed uno di essi porta persino un elegante nastrino al collo. La pelle di color bruno o giallastro appare secca, legnosa e l’animale nel suo complesso ha un aspetto strano e orrido. Sono rarissimi esemplari di basilischi, animali che la leggenda descrive come nati dall’accoppiamento tra un gallo e un serpente e che con il loro sguardo possono uccidere un uomo. In realtà i nostri strani basilischi sono tutto meno che pericolosi. Osservandoli con attenzione, si nota che gli animali sono un artefatto, una creazione dell’uomo. In tutti e tre i casi l’autore di questa eccentrica “frode” ha utilizzato un pesce della famiglia delle razze, al quale sono state praticate abili incisioni nel corpo e con una serie di manipolazioni è stato messo in evidenza l’apparato boccale. Disseccato o affumicato, il pesce così conciato è stato abbellito con due globi oculari di pasta vitrea e montato su di un supporto adatto. La loro fabbricazione sembra risalire tra il XVI e il XVII secolo per soddisfare lo straordinario interesse per gli animali strani e bizzarri che iniziavano a giungere in Europa a seguito della scoperta delle Americhe. Animali imbalsamati o parti di essi andavano ad alimentare il ricco commercio che si stava formando intorno all’esotico, sostenuto da quanti iniziavano proprio allora a “musealizzare” la natura in gabinetti delle meraviglie, specie di musei antiquari, organizzati nelle abitazioni di ricchi nobili o di qualche studioso.

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La nascita della nuova moda, la collezione di oggetti naturali, possibilmente rari ed esotici, attivò una passione per il collezionismo che non infrequentemente accettava l’inverosimile, il mitico basilisco appunto, pur di possedere un reperto esclusivo. A Verona, il conte Lodovico Moscardo (1611-1681) fu il proprietario di un Museo, conosciuto in tutta l’Europa dotta del tempo, e del quale egli stesso pubblicò una descrizione in due volu-

Uno dei tre Basilischi conservati al Museo Civico di Storia Naturale di Verona

mi, illustrati con stampe. Il Museo contava più di trecento fra dipinti e incisioni, centinaia di sculture, bronzi e oggetti provenienti da scavi, cinquemila tra monete e medaglie nonché, come dice il Maffei in Verona Illustrata “... cose naturali ottimamente disposte, e venute in gran parte fin dal famoso Museo Calceolario. Serie di gemme, e di marmi, di miniere, e di minerali: coralli, piante, legni, erbe, amianto, calamita, terre, sali, balsami, gomme, cose impietrite, testacei, animali strani, e parti pregiate di essi,

mostri e scherzi della natura, mumie e cocodrilli, e quantità di cose d’India”. E in effetti, nel catalogo a stampa della collezione appare anche la figura di un basilisco, somigliante non poco ad uno degli esemplari di proprietà del Museo. E come per il Moscardo abbiamo notizie di draghi o basilischi presenti nelle collezioni di Aldrovandi e di Calzolari, dotti scienziati di un secolo prima. In realtà già nel XVI secolo si era scoperto l’inganno, ovvero che le mummie dei basilischi altro non erano che contraffazioni, operate per ricavare un buon guadagno dalla vendita di simili oggetti ai vari collezionisti dell’epoca, come il Moscardo appunto. Che il mercato degli animali esotici e favolosi, così come quello dei fossili, fosse diffuso e promettesse buoni affari per ciarlatani e falsari di ogni genere, ce lo racconta anche il Goldoni nella sua “Famiglia dell’antiquario” dove il conte Anselmo, invasato collezionista di antichità ed esoterie varie, si fa bellamente imbrogliare da Arlecchino e Brighella improvvisati “Armeni”, venditori di pattume in cambio di zecchini d’oro. Nella finzione scenica, il conte Anselmo viene buggerato con costosissimi sassi scolpiti rozzamente a forma di pesce, forse un tentativo di acquisizione dei già notissimi pesci fossili di Bolca. Di qualcuno di questi “imbroglioni” abbiamo anche il nome, come nel caso di mastro Leone Tartaglini da Fojano della Chiana che durante il suo soggiorno veneziano confezionò un altro basilisco, ora custodito al Museo di Storia Naturale di Venezia. Questa tecnica di manipolazione delle razze per la creazione di basilischi o draghi è evidentemente di antica e ampia diffusione se ancora oggi è presente nel sud-est asiatico, in paesi come l’Indonesia. Là si confezionano draghi portafortuna per i turisti, utilizzando il medesimo materiale (le razze) e realizzando la stessa figura in posa ad ali spiegate. Completa la replica anche un bel paio di occhietti in vetro o plastica, rigorosamente maligni e scintillanti.

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Scienza ACCADEMIA DI AGRICOLTURA SCIENZE E LETTERE

Francesco Bianchini Erudito di spicco nel panorama della cultura europea del XVIII secolo lo scienziato veronese fu astronomo, storico, archeologo e teologo

di Marzia Sgarbi

Sotto il patrocinio dell’Accademia di agricoltura scienze e lettere di Verona e del Dipartimento di discipline storiche, artistiche e geografiche dell’ateneo scaligero, docenti e studiosi italiani e stranieri hanno recentemente riscoperto e valorizzato la figura dello scienziato

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Astronomo, ma anche storico e archeologo: la poliedrica personalità del veronese Francesco Bianchini è stata il centro del convegno internazionale “Unità del sapere, molteplicità dei saperi. L’opera di Francesco Bianchini tra natura, storia e religione” che si è svolto a Verona alla fine del mese di ottobre. Sotto il patrocinio dell’Accademia di agricoltura scienze e lettere di Verona e del Dipartimento di discipline storiche, artistiche e geografiche dell’ateneo scaligero, docenti e studiosi italiani e stranieri hanno riscoperto e valorizzato la figura di un erudito universale, di spicco nel panorama della cultura europea del XVIII secolo, che Bianchini incarnò con merito in vita ma con pochi onori dopo la morte. Nato nel 1662, Bianchini, che sin da piccolo ricevette un’attenta educazione, ebbe modo di avvicinarsi alla cultura anche grazie al lascito di uno zio, consistente in una somma di denaro da spendere entro i trent’anni “per l’acquisto di libri o altre cose occorrenti”. Studiò quindi al collegio dei gesuiti di Bologna e successivamente frequentò con profitto l’Università patavina, dove conseguì la laurea in Teologia. Per volontà del padre si recò poi a Roma dove si laureò anche in diritto canonico e civile e si integrò agevolmente nel vivace ambiente intellettuale capitolino. Si fermò così definitivamente nella capitale nel 1688 quando divenne bibliotecario della Biblioteca Ottoboniana, senza però mai riuscire a realizzare il sogno di entrare a far parte della Biblioteca Vaticana. Nel

Francesco Bianchini

1699 prese gli ordini minori e, sotto il pontificato di papa Clemente XI, ebbe modo di viaggiare in Europa, di entrare in contatto con la ricca realtà culturale e le celebri menti di quel del tempo, tra cui Newton e Leibniz. In virtù delle sue osservazioni astronomiche divenne nel 1706 uno degli otto soci stranieri della parigina Académie des Sciences. Nell’Europa d’inizio Settecento Bianchini era un personaggio celebre. Morì a Roma nel marzo del 1729. Molteplici furono gli ambiti d’interesse dell’erudito veronese: l’astronomia, la storiografia e l’archeologia. Bianchini, per natura incline alla matematica, trovò nello studio dei moti degli astri e dei pianeti il miglior modo per esprimere la propria attitudine al calcolo. Su nomina di Clemente XI, nel 1701 fu segretario della Congregazione per la Riforma del Calendario e apportò un valido contributo scientifico alla questione con le dissertazioni De Kalendario et Cyclo Caesaris e Solutio problema-

tis paschalis. Realizzò a Roma parecchie meridiane tra cui quella in bronzo e in marmo multicolore che è tuttora visibile nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, e studiò il pianeta Venere, fino ad allora poco osservato, riunendo quindi le proprie considerazioni astronomiche nell’opera Hesperi et Phosphori nova phaenomena. La precisione dimostrata dal Bianchini in ambito scientifico non manca di manifestarsi anche nei suoi lavori di natura umanistica: la precisa cronologia della Istoria universale, monumentale opera rimasta incompiuta, l’esatto indice dei manoscritti dell’Ottoboniana e le Vitae romanorum pontificum perductae cura Atanasii Bibliothecarii ne sono testimonianza. La convinzione che la storiografia si potesse fondare anche su testimonianze concrete del passato e non solo sulle fonti letterarie portò il Bianchini a divenire un appassionato archeologo: condusse, ad esempio, i primi scavi sul colle Palatino che portarono alla luce la Domus Flavia, studiò l’edificio sepolcrale dei liberti di Augusto sull’Appia antica e le sue iscrizioni funerarie. Egli propose al Papa la costituzione di un museo ecclesiastico all’interno dei Palazzi Vaticani, ma l’idea fu approvata per essere subito abbandonata perché troppo dispendiosa. Bianchini quindi continuò la raccolta di preziosi reperti solo per gusto personale, giungendo a ottenere una ricca collezione privata: una parte di questa, dopo la sua morte e per sua stessa volontà, andò ad arricchire la Biblioteca Capitolare della sua città natale, Verona.

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Spettacoli MILANO-PICCOLO TEATRO

Le Rane di Aristofane Eschilo, Euripide e i vizi di una società al tramonto Dal 28 febbraio al 24 marzo. Dopo Prometeo incatenato e Le Baccanti è l’ultimo atto del trittico dedicato dal regista Ronconi ai classici greci: di fronte alla corruzione dei politici, all’opportunismo di demagoghi imbonitori e alla volgarità dilagante, non resta che rifugiarsi nel ricordo degli antichi valori di un perduto senso del vivere civile

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Dopo il tutto esaurito della scorsa stagione torna in scena allo Strehler di Milano (dal 28 febbraio al 24 marzo) Le rane di Aristofane, ultimo atto del trittico dedicato dal regista Ronconi ai classici greci. «La scelta di mettere insieme Prometeo Incatenato, Le Baccanti e Le Rane – spiega Ronconi – è quella di un viaggio attraverso un processo di progressiva desacralizzazione del divino e del mondo. Un altro legame è lo stile “basso” che fa apparire Eschilo, Euripide e Dioniso, personaggi in un mondo non più primigenio, ma tutto urbanizzato, civilizzato e ormai disincantato». È così che il regista descrive il suo tuffo nel teatro greco. Dopo la celebre tragedia di Eschilo e del suo titano Prometeo, colpevole di aver donato il fuoco agli uomini rubandolo agli dèi, e il dramma di Euripide che mette in scena la tremenda vendetta di Dioniso, Luca Ronconi con Le Rane ha voluto immergersi nella commedia che meglio si presta a facili paragoni sulla vita politica e sociale attuale. Tra le macerie di una città degradata, ridotta a cumuli di immondizie e a rottami di automobili, prende il via il tragicomico viaggio nel regno dei morti di Dioniso e del suo servo Xantia. Atene è ormai al culmine del decadimento. I governanti sono corrotti, non esiste più nessuna speranza di tornare agli antichi splendori e tutto sembrerebbe perduto. In particolare, la poesia tragica che, morto Euripide e da poco anche Sofocle, è giunta a un punto di non ritorno. Dioniso, che qui appare non più come il tremendo vendicativo delle Baccanti ma come un avvinazzato dio pancione, decide di scendere negli Inferi per riportare in vita il suo tragediografo preferito, quell’Euripide che tanta gloria gli aveva regalato proprio con Le Baccanti. Accompagnato dal fido servo Xantia, Dioniso affronta un viaggio costellato da esilaranti intermezzi che si conclude con l’arrivo di Euripide e di Eschilo che stanno litigando furiosamente. Sotto l’egida di Ade, ovvero l’Oltretomba, inizia tra i due una gara che stabilirà il poeta migliore. Dioniso viene prescelto come il giudice che collocherà il supremo tra i due tragediografi sul trono del regno dei morti. Inizia lo show: Euripide accusa Eschilo di ri-

dondanza, di poca chiarezza, viviseziona ogni parola del prologo, secondo le tecniche sofiste, ed è spalleggiato da un gruppo di malfattori che da lui hanno imparato a tradire, uccidere ed evitare i doveri. L’autore dell’Orestea, sdegnato, rimprovera Euripide di aver corrotto gli ateniesi con i suoi esempi immorali e di ripetere ad oltranza le stesse strutture metriche. Scritta da Aristofane negli anni in cui Atene, un tempo capitale politica e culturale della Grecia, andava incontro alla rovina, la commedia è per il suo autore lo spunto per una vivace discussione intorno ai vizi di una società al tramonto: di fronte alla corruzione dei politici, all’opportunismo di demagoghi imbonitori e alla volgarità dilagante, non resta che rifugiarsi nel ricordo degli antichi valori di un perduto senso del vivere civile. In questo contesto, tuttavia, il pregio della poesia si misura in una gara “a chi la spara più pesante”, su un ring che tanto ricorda uno studio televisivo e dove il verso viene “inzuppato”, dalle agitate acque di un fiume, solo per pesare di più sulla bilancia predisposta dal giudice Dioniso. Si assiste dunque all’assalto comico, ma inesorabile, nei confronti dei cattivi governanti: il tema, che percorre tutta la commedia, trova la sua naturale realizzazione finale nella scelta di Dioniso. Sceso nell’Ade per riportare tra i vivi Euripide, il dio greco si rende conto che alla città in deriva serve più un Eschilo dai grandi valori che un Euripide fumoso e corrotto. Lascia così il secondo sul trono dell’Oltretomba e porta in trionfo sulla terra, anelante di buoni esempi, Eschilo.

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«Cessi l’antifona. Le urlate in contrattempo. L’arte sta in questa massima: “Rubar con garbo e a tempo”». Che Falstaff, squattrinato gentiluomo di Windsor, avesse o meno ragione, l’arte di Giuseppe Verdi era di certo garbata e a tempo. In quanto al “rubar” ci pensò Arrigo Boito sottraendo il protagonista scespiriano, Sir John Falstaff, alle Allegre Comari di Windsor per farne il libretto dell’ultimo dei capolavori verdiani. Sarà il teatro Filarmonico, dall’11 al 19 marzo, a ospitare la commedia lirica in tre atti diretta da Yoram David per la regia di Nicolas Joel con l’allestimento scenico del Théâtre du Capitole de Toulouse. Torna quindi a Verona, dove fu rappresentato solo tre volte, la prima al Teatro Nuovo nel 1899, lo spettacolo che lo stesso Giuseppe Verdi definì una «Commedia: musica, nota e parola, non cantabili, movimento scenico e molto brio». Il compositore di Busseto concluse la carriera con la sua unica opera comica nella quale, nonostante la veneranda età e un trionfo come l’Otello alle spalle, si lanciò come in un’ulteriore sfida musicale e artistica. Il Falstaff, si trasformò infatti in un evento culturale di dimensioni europee che andò in scena, per la prima volta, il 9 febbraio 1893 al Teatro alla Scala di Milano, con esito trionfale. L’avvincente trama, sviluppata con un linguaggio musicale di spiccata e sorprendente originalità, si snoda durante il regno di Enrico IV d’Inghilterra, nell’osteria della Giarrettiera a Windsor. Il vecchio e grasso Falstaff è a corto di denaro e architetta di sedurre Meg e Alice spedendo a ciascuna la medesima lettera d’amore. Le due ricche donne si conoscono e per caso, raccontandosi della lettera ricevuta da Falstaff, si accorgono che le due missive sono identiche. Decidono quindi di vendicarsi ideando un piano insieme all’amica Quickly. La complice raggiunge Falstaff e gli comunica che Alice, approfittando dell’assenza del marito, lo aspetta a casa sua. Nel frattempo Bardolfo e Pistola, i due servitori di Falstaff, tradiscono il loro padrone e informano Ford, marito di Alice della tresca. Quest’ultimo, fingendosi il signor Fontana, un innamorato respinto

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Giuseppe Verdi

Spettacoli

TEATRO FILARMONICO

Falstaff In scena dall’11 al 19 marzo. La commedia sarà diretta da Yoram David per la regia di Nicolas Joel con l’allestimento scenico del Théâtre du Capitole de Toulouse

si offre di pagar le spese del primo tentativo consegnando subito un anticipo. Falstaff accetta, rivela a Ford di avere un appuntamento con Alice e si allontana per raggiungerla. Arrivato a casa di Alice, inizia a corteggiarla, quando, come da piano per spaventare Falstaff, sopraggiunge Meg ad avvisare l’amica che suo marito sta arrivando furioso per la gelosia. Ma Ford arriva sul serio e le tre amiche si trovano costrette a rinchiudere frettolosamente Falstaff nel cesto della biancheria sporca che, nel turbinio dei giochi, viene poi gettata fuori dalla finestra. Alcuni giorni dopo la disavventura, Falstaff riceve nuovamente la visita di Quickly che lo convince a recarsi nel bosco a mezzanotte, per incontrare ancora Alice. Questa volta le amiche, con l’aiuto dei servi dello stesso Falstaff, hanno architettato di apparirgli travestite da fate del bosco. Dal momento che chi le guarda muore, al loro arrivo Falstaff si getta a terra terrorizzato. Viene così malmenato, ingiuriato e costretto a pentirsi delle sue colpe, fino a quando riconosce Bardolfo, a cui è caduto il cappuccio, e capisce di essere stato beffato. Ma non è il solo: nella mascherata finale, che secondo il disegno di Ford dovrebbe vedere le nozze del dottor Cajus con sua figlia Nannetta, vi è l’ennesimo scambio di ruoli: Cajus viene benedetto in coppia con Bardolfo, e Nannetta con l’agognato amante Fenton. «Tutto nel mondo é burla, l’uom é nato burlone, la fede in cor gli ciurla, gli ciurla la ragione» recita la morale finale e a Ford non resta che accettare il fatto compiuto invitando tutti a cena. Tocca a Falstaff intonare il finale della vicenda, seguito da tutti i componenti della beffa: «Tutti gabbati! Irride l’un l’altro ogni mortal. Ma ride ben chi ride la risata final».

dall’integerrima Alice, propone a Falstaff, seduttore irresistibile, di tentar l’impresa; una volta espugnata, la “fortezza” s’arrenderà anche al signor Fontana, che intanto

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Spettacoli TEATRO NUOVO

Alice, una meraviglia di paese Il Paese delle Meraviglie è un po’ il nostro mondo, tante volte simile a un gioco illusorio e a sua volta così ricco di paradossi e controsensi che diventa lecito cogliervi dell’insensatezza, come in quello inventato da Carroll

Dall’1 al 6 febbraio. «Il viaggio di Alice nella non realtà ci mostra parte del non senso che si cela dietro il senso comune» spiega l’attrice-autrice Lella Costa

in VERONA

di Alice Castellani Lo spettacolo Alice, una meraviglia di paese, di Lella Costa e Giorgio Gallione, andrà in scena al Teatro Nuovo di Verona dall’1 al 6 febbraio 2005, all’interno della Rassegna “Il Grande Teatro” promossa dall’assessorato allo Spettacolo del Comune di Verona. Questa Alice è «il simbolo di tante cose che hanno popolato i sogni e i viaggi di molti esploratori contemporanei e di tante avventure» spiega l’attriceautrice Lella Costa. La piéce è infatti costruita sull’inseguimento di tracce che non portano in nessun posto e su regole fatte solo di eccezioni: il Paese delle Meraviglie, ma anche un po’ il nostro mondo, tante volte simile a un gioco illusorio e a sua volta così ricco di paradossi e controsensi che diventa lecito cogliervi dell’insensatezza come in quello inventato da Carroll. Anche il regista cinematografico Woody Allen ha visto in Alice (1991) il punto di partenza per l’esplorazione di quel Paese delle Meraviglie che può essere la nostra stessa casa, se la guardiamo con gli occhi del sogno; cinema e teatro si fanno – attraverso le avventure di Alice – finestre sul nostro mondo, di cui c’è ancora di che meravigliarsi. Con il suo spettacolo del 1988, Alice, una fantasia per Lewis Carroll, pure Lindsay Camp esplorò con una favola-balletto quella smania maliziosa di “andare a vedere” che caratterizza l’entusiasmante curiosità di Alice. Il suo viaggio nella non realtà ci mostra parte del non senso che si cela pure dietro il senso comune. Nel 1992 il regista Bob Wilson e il musicista Tom Waits firmarono un’Alice do-

ve veniva più che altro rappresentato il rapporto tra il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, nome secolare di Carroll, e la sua pupilla Alice Liddel, piccola ispiratrice del romanzo e prima destinataria delle meravigliose avventure sottoterra, inventate e trascritte per suo desiderio. Alice era la figlia del decano del collegio universitario di Christ Church dove Dodgson visse, insegnando matematica e logica, dal 1851 al 1898, anno della sua morte. Rimase sempre la bimba preferita di Carroll, che amava non solo raccontare storie alle bambine e godersi la loro spontaneità e innocenza, ma pure fotografarle e inventare per loro giochi, poesie, indovinelli e rompicapo, basati spesso sulla matematica e sulla logica, che è un po’ una geometria del pensiero. Carroll, stimolatore della creatività, sollecitatore di agilità intellettuali e sovvertitore di pregiudizi, amava meravigliarle, avvincerle in modo istruttivo. Alla base dei suoi capolavori sta un principio di capovolgimento, meglio ancora di sabotaggio di entità fondamentali per la stabilità della società e del suo sistema, in primis della lingua e delle scienze esatte. Alice, sottoterra come nella casa dello specchio, guarda, osserva e fa le sue riflessioni senza sconvolgersi davvero di nulla, sebbene di cose, personaggi e vicende assurde ne veda parecchie. È pronta ad accettare le cose più folli e impossibili con quella fiducia totale che conoscono i sognatori; è follemente curiosa ed avida della vita come tutti dovremmo essere e per lei Peccato e Dolore non sono che nomi, parole vuote che non significano nulla.

Allora, parafrasando Macbeth e il suo “la via… è una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di furia, e senza senso”, anche la vita, vista razionalmente e senza illusioni di sorta, può apparire come una storia senza senso raccontata da un matematico anomalo, dal momento che il nonsense, così caro a Carroll e tipico dell’umorismo vittoriano, è per lui un aiuto al ragionamento logico, mentre lo sguardo puritano non sa vedere oltre gli specchi. Non a caso l’umorismo e la logica di Carroll sono stati cari a tanti pensatori e filosofi, da Breton a Russell e Wittgenstein, e la possibilità di contestare il mondo offerta dalle avventure di Alice continua a stimolare chi crede importante attraversare i paradossi e i controsensi del mondo contemporaneo per svelarne follia e mancanza di senso, come nel caso dello spettacolo della Costa e di Gallione.

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Mostre BRESCIA

Monet, la Senna, le ninfee Al Museo di Santa Giulia esposte 112 opere, cinquanta dipinti di Monet, dieci di Corot e Daubigny e oltre quaranta quadri di Pissarro, Renoir, Sisley e Caillebotte

La mostra resterà aperta al pubblico fino al 20 marzo 2005. Il percorso si snoda attorno alla Senna, fiume che resta come un vero filo rosso entro l’opera di Monet, maestro dell’impressionismo, segnandone le svolte più importanti e decisive

Il battello-studio di Monet (1874)

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di Maria Grazia Tornisiello «Il soggetto ha per me un’importanza secondaria: io voglio rappresentare quello che vive tra l’oggetto e me». È questa l’essenza del pensiero di Claude Monet (18401926), uno fra i più amati pittori di tutti i tempi e tra i maggiori esponenti della corrente impressionista che si sviluppa in Francia verso il 1870. Per i pittori impressionisti nessun oggetto vive da solo, ma è parte di un contesto reale. La rivoluzione estetica data dall’impressionismo si fonda sul primato della luce e sulla sua supremazia sugli elementi che compongono l’immagine. Ed è proprio a Claude Monet, uno dei massimi esponenti dell’impressionismo, che è dedicata la mostra dal titolo “Monet, la Senna, le ninfee”, attualmente in corso a Brescia nel Museo di Santa Giulia. La mostra, che resterà aperta al pubblico fino al 20 marzo 2005, rientra nell’ambito del progetto

“Brescia, lo splendore dell’arte”, ideato da Marco Goldin. L’iniziativa racchiude una serie di eventi espositivi di richiamo internazionale, ospitati nel Museo di Santa Giulia e in altre sedi della città, che proseguiranno sino al 2008. “Monet, la Senna, le ninfee” si compone di una serie di 112 opere, tra cui cinquanta dipinti di Monet, dieci di Corot e Daubigny e oltre quaranta quadri di Pissarro, Renoir, Sisley e Caillebotte. Il percorso della mostra si snoda attorno alla Senna, fiume che, fin da certe prove degli anni Sessanta del XIX secolo, resta come un vero filo rosso entro l’opera di Monet, segnandone molto spesso le svolte più importanti e decisive. Otto le sezioni che ricompongono l’affascinante percorso creativo dell’artista. Con un inizio illuminato dall’opera di Corot e Daubigny, due straordinari precursori di Monet, si passa attraverso la cerchia dei quattro grandi amici impressionisti del pittore, che più di ogni altro hanno dipinto lungo la Senna: Pissarro, Renoir, Sisley e Caillebotte. Vanto assoluto della sezione sono le tredici opere di Gustave Caillebotte, un nucleo di dipinti importantissimo che viene qui esposto per la prima volta grazie alla collaborazione avviata con gli eredi del pittore francese. La terza sezione della mostra, invece, è dedicata agli anni d’esordio per Monet, anni in cui, ancora bambino, lascia Parigi per andare a vivere con la famiglia a Le Havre. Risalgono a questo periodo: Il promontorio della Hève con la bassa marea, la Marina al chiaro di luna riconosciuto dalla critica come il più bel

notturno impressionista e Il Quai du Louvre del 1867. Con la quarta e la quinta sezione si entra nel vivo della mostra: in primo piano le opere realizzate durante la felicissima stagione di Argenteuil, durante la quale l’artista si avvale del famoso bateau-atelier che, proprio per questa occasione, è stato ricostruito in scala naturale. Monet, infatti, nel 1872, acquista a Rouen, il suo bateau-atelier, così da poter dipingere la Senna non più guardandola da lontano, ma standovi nel mezzo. Nella sezione dedicata al periodo di Vétheuil, anni difficili della vita di Monet, segnati da gravi problemi economici e dalla morte della moglie Camille, osserviamo come, stranamente, nella sua pittura non ci sia alcuna traccia di tristezza, anzi vi sia un’esplosione di colori e serenità come non mai. Tra le quindici opere di cui si compone la penultima sezione, vi sono alcuni quadri dei primi anni Novanta, tra cui i Mattini sulla Senna e quella che probabilmente è la prima ninfea dipinta, del 1897, proveniente dal museo di Los Angeles. Una sola opera, infine, per l’ottava e ultima sezione dedicata a Monet e il riflesso capovolto: si tratta dei Glicini. Dipinto dall’artista ormai ottantenne, l’opera raffigura la fioritura dei glicini in un dilagante cielo azzurro, sospesa su uno stagno di ninfee che ormai non si riconosce più e di cui rimane solo la sostanza di un colore, di un profumo e di un silenzio: un riflesso capovolto. Per informazioni e prenotazioni 0438 21306 biglietto@ibiscusred.it.

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Mostre La partecipazione a Europalia 2003 Italia, la pubblicazione del Catalogo generale delle opere, una serie di importanti mostre in Italia e all’estero: è quanto si sta facendo attorno alla figura del veronese Giuseppe Flangini, artista eclettico scomparso nel 1961 che all’arte ha dedicato la sua esistenza. Il prossimo appuntamento con il maestro scomparso nel 1961è a Pavia, dal 12 maggio al 2 giugno 2005. La città che lo ha ospitato nel 1959 gli dedica infatti una significativa mostra dove saranno esposte pitture, opere teatrali e locandine, oltre a foto e lettere di celebri personaggi del tempo legati all’artista veronese da rapporti di stima e d’amicizia. In mostra anche inediti, tra cui alcuni disegni dell’Archivio Storico del Corriere della Sera realizzati negli anni di collaborazione con la testata milanese. A breve la presentazione del Catalogo generale realizzato a cura dall’Associazione culturale Giuseppe e Gina Flangini e con l’intervento di Giovanni Stipi. La pubblicazione cataloga circa 900 opere, con 64 tavole a colori per un totale di 205 pagine, risultato di una ricerca decennale condotta presso gallerie d’arte e collezioni italiane, belghe, austriache, francesi e americane. Artista di forte carattere e acuta sensibilità, Flangini si impegna per molti anni nella scrittura: pubblica numerose opere teatrali, racconti brevi e articoli di quotidiani. La sua attività di drammaturgo lo porta alla realizzazione di quattordici drammi conosciuti anche all’estero. A Verona molti ricordano la rappresentazione Sua maestà il denaro, al Teatro Stimate, noto in quegli anni per il ricco calendario delle opere in programma. Flangini si dedica soprattutto alla pittura, suo interesse fin dal secondo decennio del Novecento. Le prime opere, recentemente ritrovate presso collezionisti veronesi, risalgono infatti al 1916-18. Nel 1924, a soli 26 anni, esordisce Sopra: Verona, Piazza delle Erbe (1960). Olio su tela A destra: Chatelineu, La giostra (1958-1960). Olio su tela

in VERONA

PAVIA

Flangini: una vita per l’arte A Pavia dal 12 maggio al 2 giugno una mostra dell’eclettico artista veronese scomparso nel 1961

Flangini si dedica soprattutto alla pittura, suo interesse fin dal secondo decennio del Novecento. Ma nella città scaligera si ricorda ancora Sua maestà il denaro, rappresentazione messa in scena al Teatro Stimate, noto in quegli anni per il ricco calendario delle opere in programma

come pittore alla Biennale Nazionale d’Arte di Verona, dove torna a esporre, quasi ininterrottamente, fino alla sua morte nel 1961. Fa parte della Società delle Belle Arti di Verona, conosce e frequenta giovani artisti come Ora-

zio Pigato, Albano Vitturi, Pio Semeghini e Arturo Martini. Alla fine del 1944 si trasferisce a Milano, dove continua la sua attività d’insegnante e fa parte del Centro artistico San Babila e del gruppo La Colonna. Alle iniziative promosse da La Colonna, tra cui il Premio ceramica, prendono parte anche Guttuso, Migneco, Zigaina, Birolli e Sassu. Flangini li conosce e frequenta, ma la sua ricerca si sviluppa in modo autonomo. Artista versatile e colto, approfondisce la letteratura, la cultura e l’arte del centro-nord Europa con soggiorni all’estero soprattutto in Francia, Belgio e Olanda. Negli anni ’50 la pittura di Flangini vede la nascita di un nuovo cromatismo riconducibile alle esperienze dei fauves e di Vlaminck in particolare. Un’ulteriore svolta è rappresentata dall’esperienza vissuta nel 1955, quando il regista Minelli lo incarica di ritrarre personaggi e scene del film Brama di vivere, racconto della vita di Van Gogh. Quest’incarico diviene l’occasione per approfondire la sua ispirazione espressionista intesa come qualità distintiva della sua produzione. Flangini partecipa alle più importanti esposizioni del tempo, numerose sono però anche le sue personali. Le più recenti sono quelle tenute presso La Fondazione Stelline a Milano, la Galleria di Palazzo Todeschini a Desenzano del Garda, la Chiesa di Sant’Agostino a Pietrasanta, le Cercle Municipal in Lussemburgo, Palazzo Te a Mantova. Nel 2003 il ministero degli Esteri ha scelto Flangini per rappresentare in Belgio l’arte e la cultura italiana, nell’ambito della manifestazione internazionale Europalia 2003 Italia.

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Mostre VERONA

Giuliana Traverso agli Scavi Scaligeri Nel 1968 fondò a Genova “Donna fotografa”, la prima scuola di fotografia nel mondo riservata a sole donne

di Wilma Quartarolo È contagiosa e invasiva la passione per la fotografia. Si dice che chi comincia, anche per il semplice gusto di farlo quasi un po’ per gioco, si trovi prima o poi a riprovarci, a farlo con più determinazione e misurata convinzione che tutto sommato il risultato non sia male. C’è poi chi il carisma e il talento se lo ritrova per davvero, così la fotografia gli entra nel sangue, decide allora di farne una professione e dietro l’obiettivo ci spende una vita intera, perché la fotografia a quel punto la sente come una missione. Giuliana Traverso è uno di questi esempi. Per lei la fotografia non è mai stata una semplice esperienza artistica, è stata prima interesse, poi passione, tormento, lavoro e anche vocazione. Lo testimoniano senza mezzi termini le opere che verranno esposte, a partire dal 25 febbraio prossimo, negli ampi spazi espositivi degli Scavi Scaligeri, in una particolare rassegna organizzata dal Comune di Verona. Le sue opere sono il riflesso di una società italiana che attraversa i difficili tempi della contestazione del ’68, frammenti di un’epoca segnata da profonde lacerazioni ideologiche e generazionali, forti tensioni politiche, terrorismo e stragi. Giuliana Traverso, figlia di una generazione che delle conquiste sociali ha fatto la propria bandiera, si afferma nel panorama della foto-

in VERONA

grafia al femminile proprio a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Si preoccupa soprattutto di affermare il ruolo della donna come protagonista della società. Non a caso nel 1968 fonda nella sua città natale, Genova, “Donna Fotografa”, la prima scuola di fotografia nel mondo riservata a sole donne e riuscirà qualche anno più tardi nella stessa ardita impresa anche a Milano. Dai suoi corsi sono uscite moltissime autrici al femminile tra le più valide e impegnate della fotografia contemporanea. Una conquista che vale per così dire un pareggio, visto che l’arte della fotografia non è mai stata, nella sua storia, molto generosa di protagoniste al femminile. I grandi nomi

della pellicola stampata che hanno segnato il tempo del secolo scorso, infatti, da Kapa a Bresson, da Brassai, ad Avedon o Helmut, tanto per citarne solo alcuni tra i più noti, sono stati per l’appunto uomini. E questo soprattutto per ragioni storiche, sociali ed economiche. Non si possono dimenticare, è chiaro, esempi indelebili di eccellenti fotografe che hanno saputo imprimere il loro carisma sul negativo: una per tutte, basti pensare a Margaret BourkeWhite, celebre fotoreporter americana la cui opera è oramai considerata documento fondamentale per il reportage mondiale socialmente impegnato. Ma le donne hanno sempre dovuto lot-

tare non poco per affermarsi, soprattutto nei primi decenni del secolo scorso. Tutta l’opera di Giuliana Traverso testimonia perciò l’autorità morale che le deriva dalla consapevolezza che ogni individuo ha il diritto-dovere di interagire con il mondo che gli sta attorno. Lei per prima. Per questo motivo nel corso della sua carriera organizza numerosi Workshop sul linguaggio fotografico in molte città italiane ed estere. Diventa a poco a poco uno dei più rappresentativi esperti insegnanti dell’arte fotografica tanto da essere insignita di numerosi premi e riconoscimenti, tra cui, nel 1988, il titolo di “Maestra di Fotografia” dalla Fiaf di Torino e, nel 1993, la laurea honoris causa di Lettere e Filosofia alla St. Paul’s Chapel della Columbia University di New York. Le viene assegnato infine il titolo di “Fotografa dell’Anno 2000”. Come un vero pioniere del media fotografico, armata di pellicola e obiettivo, ha spesso oltrepassato i confini europei ed è arrivata in Cina, in India, nell’America del Sud per documentare e raccontare con intensa capacità di analisi e personalità la quotidianità spesso tragica di genti e paesi lontani. Il numero delle mostre collettive nelle quali è stata richiesta la sua partecipazione supera il centinaio e le sue opere sono state esposte nelle principali capitali europee, in America e in Estremo Oriente. Tra poco anche a Verona.

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Ambiente

PROGETTI PER VERONA

Il bastione di S. Spirito Legambiente propone di andare avanti sistemando bastione dopo bastione. Dopo quelli di San Zeno e San Bernardino ora tocca a quello dell’ex zoo

Un itinerario turistico di prima grandezza, con meta la basilica di San Zeno, ma soprattutto legato al nome di Michele Sanmicheli

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di Gino Montemezzi Nel muro scaligero del Bastione di S. Spirito (ex zoo) si apriva la porta del Calzaro dove era collocata la lapide, datata Gennaio 1325, conservata oggi a Castelvecchio. Calzaro era il magister murarius che, su incarico di Cangrande, sovrintese alla costruzione della nuova cinta. Non doveva essere stata un’impresa da poco, se gli venne intitolata la porta principale della città, che smistava il traffico sulle attuali via Scalzi, Marconi e Valverde verso le porte della più antica cinta comunale. Nel primo Cinquecento la porta

fu inglobata in una delle prime rondelle costruite a rinforzo delle mura, il “torion di Calzari”, come si legge su alcune mappe e come lo chiama ancora Sanmicheli nella relazione del 1546. “Segue il bastion di Santo Spirito, benché rotondo non è niente men formidabile de’ moderni... in ciascun de’ fianchi tre cannoniere e tre altre coperte sotto il cordone, e due più basse pochi piedi sopra il pian del fosso: spaziosi son gl’ingressi della parte interiore” scriveva Maffei. Dopo le mine napoleoniche segue la ricostruzione di Radetzky e Von Scholl, del 1836. Il bastione asburgico, con

terrapieno e muro distaccato alla Carnot, rimane intatto fino all’inizio del secolo scorso. Nel 1926 nuovo uso e nuovo nome: questo tratto di mura diviene parco urbano e col vicino bastione dei Riformati anche il nostro diventa “Giardini Regina Margherita”. Ma non c’è rispetto nemmeno per le regine, perché nel 1940 viene aperta una grande breccia tra i due bastioni, per far passare una nuova strada di penetrazione. Nel 1944-45 le poterne, le gallerie di contromina e le caponiere dei bastioni vengono usate come rifugio antiaereo, e il bastione di Santo Spirito, per la vicinanza alla stazione, viene colpito in più punti. I danni non vengono riparati: c’è ancora qualche cratere e la caponiera con la copertura sfondata. Negli anni Sessanta, con un nuovo cambiamento, il bastione diventa zoo e poi ex zoo. Infine, per qualche anno, ospita un centro recupero rapaci, che in assenza del sostegno della Provincia, cui spetta il compito di tutela

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Ambiente

faunistica, la LIPU è costretta a chiudere. I segni di questa storia sono ancora ben visibili: il muro di Cangrande sporge sopra il terraglio con cui era stato rafforzato, l’innesto della rondella cinquecentesca si riconosce per il caratteristico toro di pietra, il cavaliere sanmicheliano coperto di edera e mascherato dalla grande gabbia dell’avvoltoio, conserva ancora l’aspetto imponente dell’antica fortificazione. Legambiente vorrebbe poter riportare alla luce ognuna di queste tracce del passato, fino a quelle più nascoste: dalla rampa in contropendenza che serviva alle sortite dell’esercito asburgico, fino al bunker antiaereo nella poterna si-

in VERONA

nistra. Sono cose che cominciano a interessare un certo numero di veronesi e che potrebbero richiamare più di un turista. «Non sappiamo se basti per incuriosire l’opinione pubblica e a far affluire i finanziamenti per un restauro – dice il presidente di Legambiente Michele Bertucco –. Speriamo sia così, ma sapendo che non sarà facile e cercando di prevenire obiezioni in senso contrario, proviamo a cercare un approccio più dinamico». Secondo gli esperti il restauro funziona se è inserito in un contesto che lo valorizza, che crea valore aggiunto, altrimenti produce scarsi effetti, poco visibili o troppo diluiti nel tempo. «La storia ci dice che il luogo di cui ci stiamo occupando è al centro di un sistema – continua Bertucco –. Per questo vogliamo proporre un itinerario turistico di prima grandezza, con meta la basilica di San Zeno, ma soprattutto legato al nome di Michele Sanmicheli: Porta Nuova, cavaliere di Santo Spirito, Porta Palio, una deviazione su San Bernardino e la cappella Pellegrini, cavaliere di San Giuseppe, porta San Zeno, per arrivare infine alla basilica del Patrono, con l’ipotesi di proseguire fino a Porta Fura e al bastione di Spagna. Non va sottovalutato il fatto che i bastioni sono anche una grande area verde, l’unica del centro urba-

Il bastione di S. Spirito comprende un’area vasta e assai variegata

no di Verona, potenzialmente, un corridoio naturalistico che potrebbe collegare in un sistema altre zone come il parco dell’Adige. Inoltre, con un gioco di parole, che allude alla necessità di rovesciare l’immagine negativa dei bastioni e nello stesso tempo di provare a farne un luogo di “trasgressioni” positive, abbiamo chiamato “Bastion contrario” l’i-

dea di realizzare, in uno degli orecchioni e nel vallo delle mura, uno spazio per lo spettacolo e la musica, da affidare in autogestione ai gruppi giovanili. Il posto più adatto, perché lontano dalle abitazioni e servito da parcheggi, è proprio l’orecchione destro del bastione di Santo Spirito, con la vasta area prativa fuori dalla porta di sortita.

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Territorio Lessinia

Arte popolare in Lessinia

Roveré Veronese, contrada Scrovazzi

Colonnette, tavolette, steli e guglie avevano spesso un carattere propiziatorio. Il capitello era quasi sempre eretto nei crocicchi, sui dossi, abituali itinerari legati al credo popolare delle strie, delle fade intese quali forze malefiche Si contano a centinaia le costruzioni legate al credo religioso

Campofontana, contrada Pagani

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di Carlo Caporal La cultura di un popolo si riconosce senza dubbio anche dalle espressioni artistiche che la storia ci ha consegnato. L’altipiano lessinico è stato fucina del modo di esprimersi delle popolazioni autoctone che hanno abitato le col-

line e la fascia montuosa della città scaligera. Colonnette votive, edicole, capitelli architettonici e pitture murali hanno segnato la Lessinia, fornendo quelle letture che ancora oggi distinguono il territorio. Volendo affrontare un discorso sull’arte popolare in Lessinia legata alla scultura, dell’arte cosiddetta “cimbra”, dovremmo innanzitutto aprire il tema con la formula “espressione di fede con carattere propiziatorio”. Nella metà del ’500, vediamo nascere particolari sculture localmente dette “colonnette”, una sorta di piccoli pilastri terminanti a edicola, dove erano raffigurati la Beata Vergine, il Santo Bambino al centro, San Rocco e San Sebastiano ai lati, santi preposti alle malattie da contagio. Le prime tavolette in tufo nascevano infatti in funzione apotropaica, che allontana cioè gli influssi malefici, in particolar modo la peste. Il fatto artistico, che si apre nel 1539 (in una tavoletta in contrada Venchi di Sotto a S.Bortolo), si chiude verso la prima metà del secolo successivo, per lasciare il posto alle famose “colonnette del madonnaro”, dove nell’immagine scolpita si identifica solo la Vergine con Bambino. Troviamo Madonne molto grandi con santi molto piccoli e viceversa, figure di Cristo morto infantili sulle ginocchia di Madonne sproporzionate. Un altro tipo di espressione arti-

stica del territorio lessinico sono gli steli e le guglie, particolari strutture in pietra sormontate da una piccola croce in ferro battuto. Nella zona di Azzarino noteremo quasi esclusivamente le cosiddette “croci della Passione” individuabili perché riportano appunto i simboli della Passione di Cristo. Esempi di sculture cosiddette “popolari” le troviamo anche in mensole per poggioli ed acquai, o in certe “teste da portòn” o su stipiti di porte e finestre. I temi di queste opere minori non sono certamente religiosi, come sino ad ora intesi, ma sono temi ornamentali e qualche volta magici. Difficile riconoscerne gli autori: pochi sono i nomi conosciuti, come il Tinelli lapicida delle grandi croci, Benigno Peterlini da Giazza, Francesco Gugole e per ultimo certo Giorgio Griso detto Giorgio “signore” da Campofontana, famoso per le sue lapidi. Parlando di questo specifico tema è doveroso citare lo studio fatto da Lanfranco Franzoni che ha catalogato diverse opere sul tema. Tra i morbidi dossi e i verdi pascoli, tra una contrada e l’altra, sull’altipiano veronese si ergono, quasi come sentinelle del passato, i capitelli. Abitualmente l’etimo popolare identifica come tali piccole architetture qualsiasi immagine sacra che sporga da un muro, qualsiasi segno di fede che il “credo” abbia posto in qualche luogo. Il capitello architettonico

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Territorio così inteso, composto da uno zoccolo su cui sia inciso uno spazio epigrafico, una piccola nicchia ospitante l’immagine sacra e un timpano che sovrasti l’insieme, nasce certamente da diverse motivazioni personali o comunitarie e la sua funzione sarà sempre quella legata alla protezione. I capitelli dell’area lessinica, pur esprimendo innanzitutto una genuina religiosità popolare, sono rappresentativi spesso anche di un certo gusto estetico legato al momento storico, alle condizioni socio-economiche del committente e logicamente alla maestria dei lapicidi, dei madonnari che operavano sovente con mezzi che reperivano in loco. Il capitello, quasi sempre è eretto nei crocicchi, sui dossi, abituali itinerari legati al credo popolare delle strie, delle fade intese quali forze malefiche. La finalità apotropaica del capitello, eretto davanti alle contrade, è evidente: si spiegano così anche i diversi simboli scolpiti spesso sulle chiavi di volta, sul timpano e sulle spallette del monumento, che diventano magiche grafie del bene e della fecondità. Volendo enumerare queste piccole architetture vedremo un numero che tocca quasi il mezzo migliaio, ciò definisce la sacralità del territorio preso in esame. Questa tipologia di immagine si riscontra anche nell’architettura romana, la tradizione vuole infatti la nascita dei capitelli cristiani nei lumicini che

Campofontana, contrada Pagani

in VERONA

A sinistra: Selva di Progno, frazione di Giazza, contrada Zagaroa In basso: “Madonna su nuvole”, Badia Calavena, contrada Riva-Cucio (l’immagine è stata recentemente distrutta)

La quasi totalità delle opere murali, realizzate ad affresco o tempera, rappresenta la figura della Beata Vergine nelle iconografie classiche. Meno numeroso è il tema cristologico: Cristo, rimane l’assoluto, l’inavvicinabile più legato al tema della croce di cui ci si deve caricare fin dal XII secolo venivano posti negli angoli bui delle contrade e delle strade, oltre che per illuminare anche per proteggere e rassicurare i viandanti contro eventuali agguati. Affinché la luce non splendesse a vuoto, dietro il lumicino si pensò di porre un’immagine sacra che nel contempo avrebbe intimorito anche i malvagi. Nel corso dei secoli, la semplice immagine illuminata si trasformò in edicola e tempietto, così come oggi si presenta all’occhio del frettoloso passante. Una veloce giaculatoria, un segno di croce, un’Ave Maria recitata con voce sommessa, ed ecco subito “garantita” la giornata, anche nel rispetto del vecchio adagio: “Preti, dotori e capitèi, levève el capei e rispetèi”. Tra le espressioni legate alla manifestazione visiva, quella che si

evidenzia, sia per il numero di opere, circa quattrocento, che per molteplicità dei contenuti, riguarda le pitture murali che erano un essenziale mezzo di comunicazione ed espressione: in sostanza, un linguaggio. Le pitture murali, realizzate ad affresco o tempera, rappresentano oltre alla testimonianza di un tipo di arte particolare, anche un sinonimo di fede, di fiducia cieca in tutto ciò che la sacralità esprimeva. La quasi totalità delle opere rappresenta la figura della Beata Vergine nelle iconografie classiche. Meno numeroso è il tema cristologico: Cristo, infatti, rimane l’assoluto, l’inavvicinabile. Le poche immagini che lo raffigurano diventano l’espressione della sofferenza della Croce, quella che ogni giorno ci si doveva “caricare”. Nelle rappresentazioni pittoriche la Beata Vergine è spesso accompagnata dai Santi adiutores, tanto cari al popolo, come ad esempio San Bovo e Sant’Antonio Abate, protettori degli animali; San Rocco e San Sebastiano, contro le malattie da contagio; Santa Barbara, per il bel tempo; Santa Barbara e Santa Margherita, per un parto sereno; San Vincenzo, contro la siccità; San Biagio, per i mali della gola e Sant’Antonio da Padova, il “santo” per antonomasia. Le opere che ancora si possono leggere non sono databili a prima della seconda metà del XVII secolo e non superano mai la prima metà del XX secolo. Purtroppo

rare sono le firme dei pittori, localmente detti “madonnari”, che in cambio di un pasto e di un alloggio, lasciavano la loro opera. Qualche nome significativo: Giosuè Casella, Francesco Gugole, Benigno Peterlini, il Pilloni e un certo Celestino Dal Barco che ha operato fino alla fine dell’Ottocento.

Queste immagini, affidate spesso a muri mal calcinati e qualche volta anche a mani poco esperte, ci trasmettono un contenuto destinato a sparire. In alcuni casi, ai piedi di queste immagini si possono notare alcuni motti, che invitano alla preghiera e alla riflessione. Tutto ciò a dimostrare quanto il pensiero artistico abbia sempre accompagnato il viaggio anche intellettuale della nostra popolazione, che nonostante guerre e carestie, ma anche “anni di grazia”, ha sempre espresso la propria fede.

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Viaggiare MAROCCO

Fès, la città labirinto e i deserti di Allah Solo il richiamo del muezzìn riesce a sovrastare il vociare dei vicoli che sembrano dotati di vita propria, fino a cingere i fianchi del forestiero e condurlo suo malgrado in prossimità del suk

di Michele Domaschio «Narrano gli uomini degni di fede (ma Allah sa di più) che nei tempi antichi ci fu un re delle isole di Babilonia che riunì i suoi architetti e i suoi maghi e comandò loro di costruire un labirinto tanto involuto e arduo che gli uomini prudenti non si avventuravano a entrarvi, e chi vi entrava si perdeva». Entrando nella Medina di Fès, la parte storica di questa città che l’Unesco ha classificato come patrimonio dell’umanità, sembra di addentrarsi nel magico labirinto descritto nelle Mille e una notte. Fès è una delle quattro città imperiali del Marocco, assie-

I due re e i due labirinti Si conclude così la storia del labirinto attribuito al genio del re di Babilonia, secondo la narrazione delle Mille e una notte (qui nella versione riportata da Jorge Luis Borges nella sua raccolta di racconti, L’Aleph). «Quella costruzione era uno scandalo, perché la confusione e la meraviglia sono operazioni proprie di Dio e non degli uomini. Passando il tempo, venne alla sua corte un re degli arabi, e il re di Babilonia (per burlarsi del suo ospite) lo fece penetrare nel labirinto, dove vagò offeso e confuso fino al crepuscolo. Allora implorò il soccorso divino e trovò la porta. Le sue labbra non proferirono alcun lamento, ma disse al re di Babilonia ch’egli in Arabia aveva un labirinto migliore e che, a

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Dio piacendo, gliel’avrebbe fatto conoscere un giorno. Poi fece ritorno in Arabia, riunì i suoi capitani e guerrieri e devastò il regno di Babilonia con sì buona fortuna che rase al suolo i suoi castelli, sgominò i suoi uomini e fece prigioniero lo stesso re. Lo legò su un veloce cammello e lo portò nel deserto. Andarono tre giorni e gli disse: “Oh, re del tempo e sostanza e cifra del secolo! In Babilonia mi volesti perdere in un labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri: ora l’Onnipotente ha voluto ch’io ti mostrassi il mio, dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo”. Poi gli sciolse i legami e lo abbandonò in mezzo al deserto, dove quegli morì di fame e di sete. “La gloria sia con Colui che non muore”».

me a Marrakech, Meknes e Rabat, e all’interno delle imponenti mura ha conservato l’impianto urbanistico originario, risalente al IX secolo dopo Cristo: un intrico di vicoli, oltre nove mila in totale, a cui si accede dalla porta principale, Bab Bou Jeloud. Varcata questa soglia è impossibile dare un senso compiuto alla parola “orientamento”: si è costretti a perdersi nel pantano delle viuzze, così anguste da consentire a malapena il passaggio contemporaneo di due uomini, ma incredibilmente animate dal tramestio di carretti trainati da muli. Nelle botteghe, che sono anche abitazioni, i macellai espongono teste di capretto mozzate di fre-

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Libri sco, e il sangue cola nei rivoli, coperto solo dal puzzo di letame e latte acido, il tutto in mezzo a un nugolo di bambini che si aggrappano alle mani dei turisti implorando qualche moneta e promettendo visite a luoghi altrimenti inaccessibili. Affidarsi a queste improvvisate guide è pressoché obbligatorio per poter scorgere, nel vociare affannoso dei venditori di spezie, la sagoma della Moschea Karouine. A poca distanza, attraversando un dedalo che ripropone a ogni tre passi gli stessi visi, lo stesso aroma pungente di carne di montone e zenzero, i giovani religiosi si riuniscono per la meditazione del Corano nella Medersa el-Attarin. Questa scuola, che ha contribuito nel corso dei secoli alla formazione culturale della nobiltà religiosa del Paese, è un’isola di pace nel magma pulsante della città vecchia. Lo splendido portone intarsiato in legno cela il segreto di una serie di cortili freschi e silenziosi, finemente istoriati da terracotte e piastrelle che ripetono all’infinito il nome di Allah. Fuori, solamente il richiamo del muezzìn riesce a sovrastare il vociare dei vicoli, che sembrano dotati di vita propria, fino a cingere i fianchi del forestiero e condurlo suo malgrado in prossimità del suk, il mercato dei conciatori. Con la schiena piegata, immersi senza alcuna protezione nelle vasche contenenti acqua e calce, questi uomini (ma alcuni hanno poco più di quindici anni) trattano le pelli che saranno poi colorate con le tinture

raccolte in altre tinozze accostate lì a fianco a formare una suggestiva tavolozza a cielo aperto. Il puzzo dei liquami rende davvero insostenibile questo spettacolo a un olfatto occidentale, quindi bisogna riprendere il cammino verso un nuovo luogo d’asilo. È il momento di gustare un tè alla menta dai mercanti di tappeti, che mostrano orgogliosi i capolavori di un’arte antica e segreta. Il refrigerio della bevanda contrasta ferocemente con il fuoco dell’harissa, il concentrato di peperoncino, aglio, cumino e olio che viene spalmato su una minuscola sfoglia di pane e offerto all’ospite in segno di accoglienza e amicizia. L’interno del palazzo ove si svolge la mostra dei tappeti vale sicuramente la sosta: ancora una volta, la ricchezza delle decorazioni acceca la vista, che è assolutamente impreparata a tanto sfarzo ed eleganza. Ma è proprio della cultura araba celare dall’esterno, con facciate dimesse al limite della desolazione, i tesori custoditi nelle stanze più recondite, come gli occhi delle donne che fiammeggiano dietro i veli sono altrettante promesse di un paradiso proibito alla concupiscenza degli infedeli. Quando il sole sta abbandonando l’orizzonte, giunge anche il momento di lasciare la Medina di Fès, uscendo dalla porta che si trova ai piedi della città. E, a pochi chilometri, verso sud, si scorgono le prime avvisaglie del deserto, immenso labirinto che il Creatore ha costituito per dissipare la vanità umana.

Il vino nei classici e negli autori contemporanei Sebastiano Saglimbeni Larga Vina - Vino in abbondanza Nei classici e negli autori contemporanei PianetaLibro Editori Pagg. 65, euro 5 Sebastiano Saglimbeni non è uno di quegli intellettuali fumosi e un po’ inaffidabili che si possono trovare nei “bàcari” veneziani o magari nelle osterie del Piemonte occidentale: è un uomo di cultura, un siciliano che ama il vino come letteratura e come poesia, fonte prima di come esse si sono formate nell’intero occidente, nel mondo greco-romano e poi di nuovo nell’Italia del Rinascimento e dell’Europa moderna. Saglimbeni riunisce meravigliosamente nella propria persona la tradizione classica dei suoi luoghi di origine (la vivacità e l’ironia di Teocrito e in qualche modo la precisione geometrica di Archimede, suoi conterranei) e insieme una intelligente e impegnata vita di insegnante, poeta, narratore ed editore, come quella che ha saputo condurre tra Verona e Mantova, le terre rispettivamente di Catullo e di Virgilio. Saglimbeni, nell’estate 2003, è stato in Val di Cembra, a una mostra internazionale sul Müller Turgau, un vino bianco prodotto squisito e abbondante nelle Alpi trentine. Qui il senso, la passione della gente di comunicare curiosità e conoscenze, in particolare a un pubblico direttamente impegnato nella produzione del vino e nell’innalzamento delle sue qualità, sono state uno stimolo a rileggere con questa lente i classici, per rivedere con essi le varietà più ammirate di vini, quelli della Grecia o dell’Italia del sud e persino quelli della “Rhaetica”, di quella regione cioè a cui il poeta Virgilio si rivolge direttamente in una apostrofe appassionata in Georgiche,II,96. Il latino per Saglimbeni non è stata una conquista agevole, ma un impegno costante, un lavoro fine di traduzione portato avanti di giorno e rifatto la notte. Dopo, negli anni, sono arrivate attenzioni e valutazioni di lettori per le sue versioni delle Bucoliche, delle Favole di Fedro, divulgate dalla editrice romana Newton Compton e ancora per la traduzione, estenuante, dei quattro libri delle Georgiche, illustrate dal fondatore di “Corrente” Ernesto Treccani, ed edite dall’Associazione Concetto Marchesi, fondata da Matteo Steri. Da apprezzare in questo libro le citazioni eleganti e appropriate, frutto di meditazione, di frequentazione, di precisione, non solo provenienti dal mondo antico, ma dalla migliore letteratura medioevale, sino a quella contemporanea. A queste e al denso commento con cui Sebastiano le sa accompagnare, sottoscriviamo volentieri il nostro augurio che possano guidare piacevolmente il lettore in questa avventura fra il culto antico di Bacco e la più raffinata poesia del nostro paese, in una serie di testi e di autori ancora straordinariamente pieni di vita. Mario Geymonat

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Libri Franco Ceradini Di Maddalena e di me Perosini Editore Verona 2004 Pagg. 144, euro 10 Di Maddalena e di me più che un romanzo è una brezza leggera e fresca, con qualche puntina nel fianco. Un acidulo che punge come quella susina verde che cogli nei vegri, che ne senti il sapore nascosto, ed è stimolante. C’è la critica allo scempio del paesaggio ma questo non è l’aspetto primario, poiché l’intento è altro: è l’interiorità dei personaggi, della loro contingenza del vivere. Personaggi che l’autore sa muovere, nelle loro indecisioni, nelle angosce che li attraversano, a confronto con la meschinità e arroganza del mondo in cui vivono. Ma che tuttavia approdano infine, dopo un continuo cercare, alla speranza, alla vita. Come Vittorio Oliosi, 32 anni, caporedattore dell’Eco della Valpolicella, a cui la vita non sembra riservare troppe soddisfazioni: da un lato il lavoro lo avvilisce continuamente, portandolo a sprecare il proprio talento per la scrittura nella redazione di un insulso

«Maddalena se ne è andata, è fuggita con un tecnico delle fotocopiatrici, un uomo dal solido avvenire, stanca di aspettare l’esito dell’inconcludenza di Vittorio...»

Di Maddalena e di me I personaggi sono reali e conducono un’esistenza non facile a confronto con la meschinità del mondo in cui vivono giornale locale, diretto dall’insopportabile e untuoso direttore Lonardoni. Dall’altro, però, anche lui contribuisce a determinare questa sua situazione, sce-

Ceradini: brevi note biografiche

Franco Ceradini (nella foto) è nato nel 1955 e vive e lavora a San Pietro in Cariano, aVerona. È direttore del festival Poesia in Valpolicella e, insieme al maestro Ernesto De Martino, di Sonvs et Vox, rassegna di musica antica che si tiene in estate a San Giorgio di Valpolicella. È animatore del “Gatto Rosso”, Nuovo Circolo Poetico Veronese. Per Perosini Editore, nel 1999, ha pubblicato il romanzo Pulviscolo e curato il libro-intervista con lo scrittore Giovanni Dusi, Il migliore dei mondi possibili. Ha curato la parte poetica del volume di fotografie di Daniele Lira Malghe e malghesi del Lagorai (Curcu & Genovese, 2003). Suoi saggi, poesie e racconti sono usciti su rivista.

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gliendo di non scegliere e mostrando quel carattere rinunciatario e privo di sicurezza. Detto questo, occorre tuttavia sottolineare come, in fondo, la vita di Vittorio Oliosi non sia peggiore di tante altre e, tutto sommato, possa contare anche su alcune certezze in grado di dare un senso a tutto quanto: gli amici, primo fra tutti il musicista De Maria, vero alter ego del protagonista, la buona cucina, le osterie, la gente semplice, la pesca in Adige. Ma, soprattutto, Maddalena, il vero motivo di essere, il perno centrale intorno al quale ruota tutto il fragile microcosmo di Vittorio. Solo che Maddalena ora se ne è andata. Improvvisamente. È fuggita con un tecnico delle fotocopiatrici, un uomo dal solido avvenire, stanca di aspettare l’esito dell’inconcludenza di Vittorio. Al protagonista, non resta che prendere atto del senso di vuoto e di inutilità che la partenza di Maddalena gli ha lasciato in eredità. Tuttavia nonostante cerchi di piangersi addosso, rincorrendo vanamente luoghi e memorie del suo amore perduto, Vittorio non può concedersi troppo alla malinconia sentimentale perché, in rapida successione, gli accado-

no degli eventi importanti che, intrecciandosi tra loro, sono destinati a cambiargli la vita almeno tanto quanto la partenza di Maddalena. Questa è in soldoni, la trama del romanzo, ma la vicenda letteraria di Franco Ceradini non è complicata, turbolenta o drammatica come si pensa talvolta si addica a uno scrittore-artista. Né meteora improvvisata, lanciata nel mondo a imbonirlo, né art pour l’art, ove la forma o la rivoluzione d’essa dovrebbero illuminare: Ceradini è uno scrittore naturale, scrive perché vuole, perché è capace. Egli parla di cose e vicende che conosce, ma non per questo vi si lascia appiattire. Ha una facilità di parole e di discorso, nel raccontare, nel descrivere, nel sondare stati d’animo e turbamenti, specialmente dei personaggi femminili, da fare invidia a certi grandi. Personaggio sfaccettato egli stesso: la filosofia è la sua materia di laurea e di insegnamento, ma Franco è pure nel contempo il creatore del Festival di poesia della Valpolicella, dove ha richiamato il fior fiore dei poeti italiani: Merini, Loi, Roboni, Giudici,Valduga… Ernesto Bussola

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N° 5/dicembre 2004 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.

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