Verona In 14/2007

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14 - MARZO 2007 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA



Primo piano

Piazza Isolo con il tempo peggiora

In copertina: Castelvecchio, il Circolo Ufficiali

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Piazza Isolo con il tempo peggiora. Il sarcofago, come l’hanno chiamato, ancora non convince. Veramente non si poteva fare meglio? Qualcuno per giustificare la pietraia spiega che la zona storicamente non era una piazza, che quindi va vista con occhi diversi. Sarà, ma anche dopo aver consultato un valido libro di storia e nonostante un buon paio di occhiali, con il massimo dell’impegno continuiamo a vedere solo un mare di aridi lastroni. Come qualcun’altro ha spiegato c’erano i vincoli per la presenza del parcheggio sottostante, ma con una battuta vien quasi da pensare che prima siano state comperate le pietre, contribuendo alla devastazione del paesaggio prealpino, e poi sia stato fatto il progetto. Oppure che gli interessi privati legati alla costruzione del parcheggio alla fine abbiano prevalso sui necessari paletti che il Comune avrebbe dovuto porre in fase progettuale per tutelare uno degli spazi più belli di Verona. Torniamo a parlarne perché alla bruttezza, dovuta anche al fatto che non si trova sorta di continuità con l’ambiente circostante, si aggiungono altri elementi che il tempo inclemente evidenzia. Iniziamo dalle pozzanghere che si formano quando piove. In alcune zone il livello della pavimentazione non è perfetto e qui l’acqua piovana si raccoglie rendendo difficile l’attraversamento. Dei problemi legati alla temperatura delle pietre durante il solleone dei mesi estivi si è già parlato. Un’al-

tra novità sono invece le erbacce che crescono negli interstizi della pavimentazione contribuendo non poco al danno estetico. Infine, trattandosi di lastre grezze, anche le caviglie sono a rischio perché la superficie non è uniforme, ci sono delle buche. La parte a nord della piazza è a dir poco ridicola. Meglio sarebbe stato non averli messi quegli ulivi che danno più che altro l’idea della precarietà, così soffocati in contenitori ristretti per delle piante che per vocazione sarebbero centenarie e lì condannate a una vita di stenti. Anche il labirinto che ospita gli arbusti è di una tristezza infinita. E infatti lì non c’è mai nessuno. Infine un cenno lo merita il monumento a Daniele Comboni. Tolta la patina del tempo, a cui hanno contribuito le polveri inquinanti, è diventato anacronistico con quel padre bianchissimo, imponente, e quei negretti così piccoli e neri. Sarebbe interessante sentire cosa pensano a riguardo gli abitanti della vicina Veronetta. L’idea del Comboni di salvare l’Africa con l’Africa fu certo una felice intuizione, ma oggi questa statua rende giustizia al suo illuminante pensiero? O non c’è piuttosto il rischio che sia oggetto di interpretazioni che vanno esattamente nella direzione opposta? Forse è giunto il tempo di collocare il glorioso manufatto nel giardino della vicina casa generalizia dei Comboniani, a San Giovanni in Valle, dove avrebbe un senso come testimonianza storica. Si potrebbe però indire un concorso per una nuova scultura

in Piazza Isolo, che sostituisca la vecchia, più attuale, che traghetti nella modernità l’idea di questo grande missionario. Una sola raccomandazione viene spontanea (e non è poi così scontata): che l’opera non sia realizzata in pietra di Prun. g.m.

«Salvare l’Africa con l’Africa». Il monumento a Daniele Comboni, con quel grande padre bianco che stringe i due piccoli negretti, rischia di comunicare esattamente l’opposto di quella che fu l’intuizione del grande Comboniano. Per questo forse è tempo di indire un concorso per una nuova scultura, che traghetti nella modernità il pensiero del missionario veronese

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Attualità IL MANICOMIO DI SAN GIACOMO

Le voci dei «sepolti vivi» Raccolti in un archivio i documenti dell’ex casa di cura per i malati mentali. Maria Vittoria Adami ha riportato alla luce le drammatiche lettere dei soldati della Prima guerra mondiale internati nella struttura. Lettere mai spedite

Il materiale cartaceo è custodito in una delle poche tracce edilizie rimaste a testimoniare la presenza del manicomio nell’area dove poi è sorto il Policlinico di Verona. Si tratta di un basso edificio giallo, sede del Centro di Psichiatria e Psicologia Clinica. Qui lavorano il dottor Renato Fianco e la dottoressa Fedele Ferrari

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di Elisabetta Zampini Se è vero che la ricerca storica si è sempre dedicata allo studio sistematico delle fonti, alla lettura e interpretazione dei documenti, è vero anche che si registra negli ultimi tempi un incremento di progetti significativi tesi al recupero e riordino di materiali risalenti al secolo da poco concluso. Documenti solo in apparenza «minori», fondamentali per dare una maggior completezza di angolature e di punti di vista nella restituzione di un’epoca, di un momento di storia vissuta. In tal senso emblematico è il caso dell’Archivio storico del manicomio di San Giacomo. Questo materiale cartaceo, prima disperso in varie sedi e mala-

mente conservato, ora è ospitato in una delle poche tracce edilizie rimaste a testimoniare la presenza del manicomio nell’area dove poi è sorto il Policlinico di Verona. Si tratta di un basso edificio giallo, sede del Centro di Psichiatria e Psicologia Clinica. Qui lavorano il dottor Renato Fianco e la dottoressa Fedele Ferrari, incaricati della gestione della biblioteca del centro e del recupero e riordino di tutto il materiale recuperato. «Si tratta dell’archivio delle degenze», spiega Fianco, «che si affianca a quello amministrativo che si trova ad Occhiobello, fonte utile per ricostruire la storia, il costituirsi e l’evoluzione della realtà del manicomio». Fianco ha dedicato uno studio accurato all’archivio amministrativo pubbli-

cato per la Cierre edizioni con il titolo «L’asilo della maggior sventura» dove si segnano le tappe della nascita e dello sviluppo dell’istituzione manicomiale di Verona, i rapporti non sempre sereni con le istituzioni, le questioni di gestione quotidiana di questa città nella città. «Abbiamo recuperato un numero davvero consistente di cartelle cliniche, di registri di entrata dei ricoverati dall’anno di apertura fino alla chiusura, quindi dal 1880 al 1981», spiega lo studioso. «Le cartelle cliniche contengono poi i materiali più svariati: diagnosi, lettere, fotografie, disegni...». Sta in questa ricchezza e varietà di materiali l’interesse storico dell’archivio. Perciò il progetto di recupero è stato subito accolto e sostenuto da un gruppo importante di partners, l’Università (nello specifico il dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica e il dipartimento di Discipline storico, artistiche, archeologiche e geografiche), la Provincia, il Comune, l’Ulss. «Infatti – continua Fianco – è stato costituito un comitato culturale che ha il pregio di unire competenze e realtà diverse che agiscono sul territorio, sia dal punto di vista culturale e sociale. Questo a testimoniare l’impegno verso la costruzione di una memoria storica per la città. Del resto nelle altre città italiane che avevano ospitato manicomi già da tempo sono iniziati lavori di valorizzazione e di riappropriazione storica dei luoghi; penso ad esempio alla struttura delle isole di San Servolo e San Clemente a Venezia».

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Attualità «L’asilo della maggior sventura» è il libro pubblicato dal dott. Fianco per la Cierre Edizioni dove si spiegano le tappe della nascita e dello sviluppo del San Giacomo e i rapporti non sempre sereni con le istituzioni A fianco: nella cartella clinica di un giovame soldato è stato trovato il progetto del terraereo o currus aereo, un aereo capace di volare e di viaggiare anche a terra che avrebbe deciso in breve tempo le sorti della guerra In basso, nelle due pagine: fronte e retro di una cartolina dell’esercito in cui lo scrivente spiega di non ssere matto nonostante il ricovero in manicomio

I soldati ricoverati erano aggressivi o in preda a continue allucinazioni. Ma la cosa strana è che i medici, nonostante una stretta relazione, non individuavano nella guerra la causa dello stato di questi pazienti

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La disponibilità di un ordinato materiale diventa poi un terreno fertile per studi, ricerche, approfondimenti, riflessioni. L’archivio permette cioè di ricostruire la vita, le giornate, il sentire dei ricoverati e anche di ripercorrere la storia della psichiatria nella sua sempre più legittima evoluzione, dall’utilizzo estremo come strumento di contenimento sociale nei confronti di individui scomodi, alla promozione del benessere del singolo all’interno del proprio contesto sociale ed

umano. Le fonti manicomiali portano inoltre nuovi contributi e arricchiscono quella che siamo soliti considerare «Storia», quella cioè dei grandi eventi. Maria Vittoria Adami ha aperto una finestra in questa direzione con la sua tesi di laurea in Storia, ora pubblicata dalla casa editrice Il Poligrafo di Padova con il titolo «L’esercito di San Giacomo. Soldati e ufficiali ricoverati nel manicomio veronese (19151920)». Maria Teresa ha spulciato con passione, una ad una, le

cartelle cliniche quando si trovavano ancora semi dimenticate in un buio scantinato dell’ospedale di Marzana. E ha trovato un tesoro di testimonianze umane. Molti furono i ricoverati a seguito della guerra. La Grande Guerra fu un dramma, non solo dal punto di vista del numero delle vittime ma anche perché condotta in modo diverso e devastante: «C’era la convivenza forzata in trincea con i vivi e con i morti», spiega la Adami, «interrotta da assalti frontali alla baionetta, l’uso degli aerei... I soldati ricoverati si trovavano per lo più in stati confusionali o depressivi, altri invece erano aggressivi o in preda a continue allucinazioni sempre di stampo bellico. La cosa interessante è che i medici, nonostante questa stretta relazione, non individuavano nella guerra la causa dello stato di questi pazienti, ma facevano risalire il tutto a una predisposizione, a un difetto originario. La causa cioè era nel singolo e non in ciò che gli accadeva intorno. Quasi a volere scagionare la guerra dalle sue responsabilità». Giovanni scrive: «Mia adorata sorella, uscito dall’ospedale il giorno 26 luglio mi mandarono al Manicomio. Figurati, questo era il colpo di grazia, dopo tutto quello che ho passato finora.

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I confini mai definiti della psichiatria di Alessandro Norsa Nel mio lavoro di psicologo, parte della pratica professionale la svolgo nel I Servizio di Psichiatria della città diretto dal Prof. Nicola Garzotto. Uno degli argomenti della riunione di équipe di questa mattina riguardava il disordine causato dall’ingresso in reparto per il ricovero di un alcolista in stato di «agitazione psicomotoria» e la difficoltà ad arginare il disagio causato da questo agli altri pazienti. Per iniziare a comprendere il complesso mondo attuale della psichiatria è necessario fare un passo in dietro, al momento in cui la malattia mentale è stata istituzionalizzata. Nel 1600 il problema psichiatrico si inseriva in un importante fenomeno storico-politico destinato a modificare radicalmente il panorama sociale dell’intera Europa: la segregazione della non ragione. Per «non ragione» si intendeva un insieme di soggetti, normalmente appartenenti alle fasce sociali meno abbienti, che pur non essendo veri e propri criminali, in un modo o nell’altro turbavano l’ordine costituito e la tranquillità sociale. Dorner nel libro «Il borghese e il folle, storia sociale della psichiatria» scrive: «Mendicanti e vagabondi, nullatenenti, disoccupati, sfaccendati, delinquenti, individui politicamente sospetti ed eretici, donne di facili costumi, libertini, venivano in tal modo resi inoffensivi, e, per così dire, invisibili insieme con sifilitici e alcolisti, pazzi, idioti e stravaganti, nonché mogli odiate, figlie disonorate e figli che sperperavano il loro patrimonio». In questo periodo quindi a lato dei Lazzaretti per i malati fisici, che con le loro malattie potevano contagiare i sani, nacquero i Lazzaretti per contenere, o meglio isolare le persone socialmente inaccettabili. La vastità di queste strutture, sempre maggiori per l’ingresso crescente di persone, le faceva assomigliare a delle vere e proprie città nella città; talmente grandi che il medico (chiamato generalmente per i problemi di natura fisica) si spostava al loro interno con un calesse. Questo stile permase nel XVIII e XIX secolo e, nonostante tali strutture incominciassero a chiamarsi ospedali generali o, in seguito,

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manicomi, rimasero istituti che in parte assomigliavano al carcere, in parte all’ospizio. A distanza di un secolo, il dottor Fiorio, attualmente Responsabile del Centro Diurno di Salute Mentale «Lessinia» dove lavoro, che è all’interno dell’ospedale di Marzana, ricorda che la popolazione dei pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici italiani all’orlo dell’approvazione della legge 180 (che prevedeva la chiusura dei manicomi) era composta da persone per il 50 per cento affetti da disturbi alcol correlati, e in essa erano grandemente rappresentati i pazienti con patologie come ritardi mentali, cerebropatie, sociopatie e persone che nel tempo erano state inserite per diversi motivi sociali, e che, come i primi, non avevano nulla a che fare con la sofferenza mentale. In questi ultimi decenni, fortunatamente, i progressi in ambito farmacologico, uniti a dei programmi riabilitativi volti al reinserimento dei pazienti sul territorio (come quelli che portiamo avanti nel nostro Centro di salute mentale), hanno dato una svolta decisiva alla cura della sofferenza mentale. Dal punto di vista dell’immagine che le persone hanno delle patologie psichiatriche, però si è rimasti a una concezione aderente a canoni ottocenteschi. Ciò che produce o che comunque aggrava questo è una non sufficiente cultura delle malattie mentali in generale e della possibilità di distinguere ciò che è psichiatrico da quello che non lo è. Forse una concausa può essere individuata nei media, che effettivamente potrebbero essere uno strumento potentissimo per una buona informazione, ma in realtà negli ultimi anni hanno fatto grande propaganda di un certo tipo di «psicologia da salotto», e che poi in pratica crea confusione, utilizzando ad esempio la parola psicotico (malato grave) invece di fobico (pauroso). Così la tendenza attuale è quella di far passare tutto come comportamento deviante, e anche quelli che potrebbero essere considerati aspetti delinquenziali o malvagi vengono interpretati come conseguenze di aspetti psicopatologici. Facciamo degli esempi: se una persona è arrabbiata col vicino di casa e gli urla dalla fi-

nestra parolacce è un maleducato o è in uno stato di agitazione psicomotoria? Se un alcolista alle tre di notte con una spranga spacca finestrini delle auto e vetrine ha bisogno della psichiatria o di un servizio di alcologia? Se un migrante riferisce che sente gli spiriti vicino a sé, è malato o quello che dice deve essere compreso negli aspetti riferibili alla sua cultura di appartenenza? Attualmente in un reparto di psichiatria che per legge ha un numero limitato di posti letto (14 ad esempio per il I° Servizio Psichiatrico) e che serve un’area geografica con una popolazione di circa 100mila persone, vengono ricoverati oltre i pazienti effettivamente psichiatrici anche tossicodipendenti, alcolisti, dementi senili e insufficienti mentali. Chiaramente a livello sanitario ciò non deriva solo da confusione e poca chiarezza dei limiti di ciò che è più o meno psichiatrico, ma anche dalla mancanza di strutture predisposte all’accoglienza delle differenti patologie. Ad esempio mancano assolutamente (e questo a livello nazionale) servizi per la ricezione di acuzie alcoliche. Questa confusione e disorganizzazione poi si riflette sulla cura e assistenza di quanti avrebbero diritto alle cure psichiatriche: disturbi alimentari, psicotici e gravi disturbi del tono dell’umore. La conseguenza per un paziente ricoverato per depressione che viene svegliato nel cuore della notte da un alcolista in crisi di agitazione psicomotoria è che non si fa più ricoverare, e forse il medico perderà il contatto con lui, una volta dimesso dall’ospedale, perché si rivolgerà a strutture private. Siamo distanti quindi dall’intravedere una possibile soluzione a questi problemi, però già un passo avanti potrebbe essere quello di non considerare in modo univoco i differenti comportamenti devianti, nella speranza che si possa avere nel futuro, a livello nazionale, risorse che garantiscano servizi operativi differenziati per le diverse situazioni. Naturalmente quanto detto, pur facendo riferimento a fatti e situazioni realistiche, appartiene ad una visione soggettiva delle cose e pertanto non chiede di essere necessariamente condivisa da tutti coloro che operano nel settore.

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Attualità Sentimenti e stati d’animo amplificati d’intensità, dramma e pietà dal fatto che quelle lettere, proprio perché sono state ritrovate nelle cartelle cliniche, non furono mai recapitate A lato: l’inferno così come lo vedeva uno dei ricoverati

Chissà che tengono in testa, date le informazione avute dal Reggimento e dall’Ospedale. Dove i pochi mesi di soldato li ho passati in continue ribellioni come sai. E qui dato tutto questo mi ritengono, forse, un pazzo furioso». E dunque nelle lettere il tema della guerra ritorna come riflessione su ciò che si è visto, provato: «C’era la paura di tornare al fronte», prosegue la Adami, «la paura di essere accusati di diserzione, ma nello stesso tempo anche una sorta di vergogna per non essere riusciti a resistere alla guerra, per non essere stati bravi soldati, così come la propaganda chiedeva. Dall’altra parte c’erano anche quelli che davvero si fingevano matti per evitarla, la guerra; erano i simulatori. I medici avevano il compito di stanarli. Qualcuno si tradì proprio con delle lettere ai familiari in cui si rivelava l’inganno». Comunque sia, simulazione, diserzione o fuga nella follia, emerge un sentimento «dal basso» di rifiuto della guerra, senza i toni eroici o «interventisti» di un certo patriottismo. L’altra faccia della guerra, nella sua cruda quotidianità, nel suo esserci dentro e patirla. E anche il volto dei soldati diventa meno stereotipato e si carica di sentimenti, emozioni, vita. A quei soldati «senza medaglia» viene restituita una dignità umana: «L’orribile guerra – scrive Angelo nel 1917 – continua più che mai la distruzione di cose innocenti... e dove mai si vuol arrivare con questo continuo spargimento di sangue? Auguriamoci che la fratel-

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lanza trionfi sull’egoismo spietato, che è quanto dire: Che l’umanità trionfi sulla barbaria e che ritorni presto la, purtroppo già tardiva, tanto desiderata pace». Nel manicomio di San Giacomo in tanti attendevano la fine del conflitto, molti fornivano personali soluzioni. Come il soldato di 29 anni che progettò una macchina da guerra a suo dire risolutiva. Nella cartella clinica, ripiegato, è stato trovato il progetto del terraereo o currus aereo, un aereo capace di volare e di viaggiare anche a terra che avrebbe deciso in breve tempo le sorti della guerra, ovviamente a favore dell’Italia. Se la guerra terminava, tutti se ne potevano tornare finalmente a casa, questo era il desiderio più grande. Non era sufficiente la terapia che prevedeva il lavoro manuale, specialmente nei campi che circondavano gli edifici di San Giacomo, a far passare la noia della giornate. E le lettere sono indirizzate ai familiari, agli amici e, quando non c’erano altri appigli, al Re, o a altre personalità con ruoli importanti: «Io mi trovo ancora nel manicomio di Verona», scrive di nuovo Angelo con straordinaria lucidità al Primario del Manicomio di Lucca, «e non so né come né quando ne uscirò. Temo di essere vittima d’una misteriosa fatalità... Ad ogni modo conosco bene di essere un misero in pugno ai potenti

e sono rassegnato alla volontà e ai capricci dei medesimi... Avvenisse presto il giorno da me tanto desiderato nel cui potessi allontanarmi da questo continente che mi ha fatto tanto soffrire e ritornare nel mio paese il Brasile fra i miei cari lontani...». Tutte le lettere sono cariche di una umanità commovente in questo desiderio di non perdere i legami con l’esterno, nel rassicurare anche che non si era pazzi davvero, «non mattirò» dichiara Giovannino alla moglie Carmelina, nel sottolineare che presto ci si potrà rivedere, nell’invito a fare qualcosa per farlo uscire, nella preoccupazione per le mogli o i figli, nel timore di essere abbandonati. Sentimenti e stati d’animo amplificati d’intensità, di dramma, o di pietà, dal fatto che quelle lettere, proprio perché sono state ritrovate nelle cartelle cliniche, non arrivarono mai a destinazione. Testimonianze preziose per il nostro sguardo presente, comunque voci senza i loro sperati interlocutori. Dall’altra parte i familiari non sempre avevano piacere che si sapesse in giro dove fosse finito il proprio caro; il manicomio era una vergogna e la cosa veniva il più possibile nascosta: «Una famiglia pregò di non usare “le buste stampate” con l’intestazione di San Giacomo», racconta la Adami, «una ragazza spiegava che aveva spe-

dito al suo fidanzato una lettera non dal suo paese ma da Padova in modo che nessuno potesse scoprire la situazione». Ora invece si registra una tendenza opposta. Un bisogno di riconciliarsi con un parente che era stato ricoverato a San Giacomo, un bisogno di riabilitarlo, di riprendere in mano queste linee di affetti interrotte, volutamente: «Da quando si è sparsa la notizia della sistemazione dell’archivio, spiega la Ferrari, «molte persone sono venute a chiederci la possibilità di accedere alle cartelle cliniche dei familiari, dei nonni o delle nonne. Sentono il desiderio di riappacificarsi con queste figure su cui era calato per lunghissimo tempo il silenzio». Sono ancora in vita alcuni ex pazienti di San Giacomo, alcuni infermieri, delle suore che prestavano servizio nel manicomio, le famiglie dei ricoverati. La prossima tappa di questo recupero di memoria è dedicata proprio a loro, alle fonti orali, alle testimonianze dirette. L’invito è rivolto soprattutto al mondo dell’Università, a future tesi di laurea o di dottorato. Nella direzione di una storia fatta del rigore di un metodo insieme alla vita vissuta e scritta magari in un italiano semianalfabeta o nella lingua di casa, del paese. Una storia, forse, meno lineare e scontata ma più completa, più complessa, più partecipata.

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Attualità DROGA

A Verona “la roba” gira e i giovani ci cascano «Oggi se vuoi sballare ti devi rifornire da tunisini e marocchini, ma se sei donna, i pericoli sono davvero tanti».Un’ex tossicodipendente racconta. Intervista con il Questore Merolla e il capo della Squadra Mobile Odorisio

di Giorgia Cozzolino

Costa poco, ce n’è tanta Alcol e droga è il micidiale mix che sta rovinando le giovani generazioni. Anche Verona, come il resto d’Italia, non sfugge a questa emergenza sociale che trasforma ragazzi e ragazze, apparentemente senza problemi, in soggetti autodistruttivi che spesso finiscono per annientare tutto ciò che li circonda. Gli studi degli osservatori e delle Ulss sono allarmanti: il prezzo della droga al dettaglio è parecchio diminuito negli ultimi anni e al contempo il consumo di sostanze stupefacenti è cresciuto. Con dieci euro si può provare una baby dose di cocaina, l’ultima novità in fatto di marketing dello stupefacente; e pasticche di ecstasy variano da 5 a 15 euro, mentre una dose giornaliera di eroina si aggira intorno ai 50 euro. Il mercato maggiore è quello della marijuana, in Europa si calcola che 65 milioni di persone, vale a dire uno su cinque, l’abbiano provata almeno una volta. In forte espansione è l’uso della cocaina e delle anfetamine, droghe che hanno un forte richiamo anche tra gli adulti. Non è quindi più il tempo dei «Ragazzi dello zoo di Berlino», la moda è cambiata, gli eccitanti hanno preso il posto dell’eroina e agli angoli delle strade non si vedono più giovani con la siringa persi in una trance estatica. Le droghe più gettonate dai ragazzi non sono più quelle che li rinchiudono in una realtà tutta loro, ma al contrario quelle che fanno sentire, una volta tanto, forti, indistruttibili, bellissimi, all’altezza di ogni situazione. Un’illusione così forte, e a tratti così intensa che per tornare con i piedi per terra si ricorre all’eroina. Solo una piccola dose che mitighi e mascheri gli effetti, anche estetici, degli eccitanti. E così si entra in un vortice ingestibile dal quale uscirne diventa sempre più complesso. Un tempo chi entrava in una comunità aveva la sua area di competenza: chi la disintossicazione da eroina e oppiacei e chi invece da cocaina e allucinogeni. Si trattava di due personalità di tossicodipendenti diverse che gli operatori trattavano con i giusti distinguo. Oggi il mix tra sostanze complica anche il recupero e spesso il percorso diventa un continuo balzare da una dipendenza all’altra finendo, quando va bene, nell’alcolismo. Sempre più coinvolte sono le donne, che nell’uso di sostante stupefacenti hanno raggiunto e, in alcuni casi anche superato, gli uomini.

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• ANGELA «Non è più come una volta, l’eroina è tagliata con anfetamine per cui hai sempre un effetto eccitante di fondo, non riesci a entrare nella classica pence, quell’orgasmo chimico che è anche meglio di uno reale». Parla così, senza tanti fronzoli, una giovane ex tossicodipendente che ha quasi terminato il suo percorso terapeutico e sta, faticosamente, riprendendo in mano le

redini della sua vita. Per tutelare la sua riservatezza la chiameremo Angela, dal nome della protagonista del suo libro preferito, ovvero Le ceneri di Angela, di Frank Mc Court. Ha trent’anni ed è stata classificata dai Sert e dalle comunità come una «tossica saltuaria», un caso quasi da studio per i vari psicologi e psichiatri che l’hanno seguita, ma comunque sempre un caso serio di tossicodipendenza. Ha cominciato giovanissima quando di moda andava soprat-

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Attualità Discoteche, pub, locali e le relative piazze che li ospitano sono i luoghi preferiti del commercio al dettaglio di sostanze stupefacenti: laddove cioè c’è la domanda, arriva subito anche una risposta. Basta un’occhiata, due parole per l’appuntamento e, da lì a qualche minuto, si ottiene quanto richiesto

tutto l’eroina, di ecstasy non se ne parlava ancora e il massimo era partire per un viaggio “sintetico” accompagnati dalle note dei Doors. Altri tempi, altra generazione, altre sostanze. «Non esiste più roba buona, la “thailandese”», spiega, «e sono praticamente spariti anche gli spacciatori italiani. Oggi se vuoi della roba ti devi rifornire da tunisini o marocchini, gli italiani che spacciano in casa sono rimasti a Verona in quattro gatti e sono molto diffidenti, hanno clientela molto selezionata e se non si fidano di te non ti danno niente. L’unica alternativa che ti resta è andare alle ex cartiere o, fino a qualche tempo fa, agli ex magazzini generali, ma da lì non sai mai come ne esci, soprattutto se sei donna». Meglio allora riuscire ad entrare nel giro degli italiani, assicurare di non essere una «infame», una di quelle che se beccate dalla polizia fanno la spia. Ma chi sono questi personaggi? Generalmente cinquantenni, a loro volta eroinomani con famiglie sfasciate, che sopravvivono spacciando quel che basta per mantenere la propria dose. L’altra tipologia di pusher è lo straniero, spiega Angela, molte volte un disperato clandestino che campa spacciando. «Sono marocchini o tunisini, hanno il fascino della

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vittima sociale e molte giovani ragazze ne rimangono vittima», spiega. «Raccontano la loro vita di tragedie, partiti da un mondo lontano, sopravvissuti a chissà quanti orribili soprusi, e le convincono che insieme potranno superare tutto; molte di queste sono ragazze giovanissime che non si accettano esteticamente, magari con problemi di alimentazione o rapporti difficili con la famiglia; diventano i loro principi azzurri, i loro salvatori e magari danno loro anche la roba gratis, facendosi pregare perché – dicono – vorrebbero farle smettere. E poi quando queste ragazze sono completamente succubi, si trasformano, diventano violenti e le convincono a prostituirsi o ad aiutarli nello spaccio». «È un mondo vario quello della tossicodipendenza», racconta Angela, «io sono stata fortunata perché alle spalle ho sempre avuto una famiglia che mi ha aiutato, ma in comunità ne ho viste davvero tante; ci sono straniere arrivate dall’Est o dall’Africa e costrette a prostituirsi che si drogano per superare le botte e lo squallore, altre ragazze italiane che si vendono per pagarsi la dose e i vestiti di marca; ci sono poi i giovani sbandati senza nessuno che li aiuti e altri pieni di soldi e incapaci di considerarsi “tossici”. Insomma ce n’è per tutti i

gusti e ognuno è un caso a sé, non esiste una formuletta magica per guarire tutti in un colpo solo. È per tutti un percorso lungo e forse interminabile, è ogni giorno una guerra contro te stesso».

• IL QUESTORE LUIGI MEROLLA «Verona non è più la Bangkok di Italia». Lo sostiene il questore, Luigi Merolla rievocando, insieme al capo della squadra mobile Marco Odorisio, il soprannome che la città si era tristemente guadagnata già a partire dagli anni Settanta. E spiega: «La città non ha più il ruolo che aveva negli anni Ottanta di crocevia e mercato degli stupefacenti perché, purtroppo per noi, la diffusione dello spaccio e dell’assunzione di queste sostanze si sono ampiamente estesi a tutto il territorio nazionale». Tuttavia le aree metropolitane, spiega il questore, si prestano maggiormente ad offrire nelle loro pieghe zone di scambio di questo mercato illecito. «Attualmente due sono i fattori di attrazione nella nostra città», aggiunge Merolla, «quelle aree in cui si è certi di trovare lo spacciatore, come per esempio le ex cartiere, dove periodicamente facciamo dei blitz, e la presenza di

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Attualità

«Sugli stessi canali della droga arrivano anche le ragazze e spesso i proventi della prostituzione vengono reinvestiti nell’acquisto di sostanze illecite»

Alcol e droga: una miscela esplosiva

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spaccio che si polarizza su luoghi di appuntamento e di svago». Discoteche, pub, locali e le relative piazze che li ospitano sono i luoghi preferiti del commercio al dettaglio di sostanze stupefacenti: laddove cioè c’è la domanda, arriva subito anche una risposta. Basta un’occhiata, due parole per l’appuntamento e, da lì a qualche minuto, si ottiene quanto richiesto. Accanto a questa dimensione cittadina vi è poi un polo di attrazione per lo smercio più ampio legato al fattore geografico che richiama persone e traffici da Trento e Bolzano ma anche dal mantovano, rendendo l’area scaligera seconda come importanza a centri come Torino e Milano. Corrieri che percorrono in lungo e in largo la Penisola, magari provenienti dalla Spagna o dall’Olanda con grossi carichi, spesso incappano nelle maglie dei controlli delle forze dell’ordine scaligere; non è un caso che lo scorso anno la questura abbia sequestrato 40 chilogrammi di cocaina. Anche se le indagini di polizia si muovono a 360 gradi, all’ordine del giorno sono i piccoli sequestri, quelli di qualche grammo, magari già separati in confezioni monodose e pronti per le narici dei veronesi, dal ragazzino festaiolo al manager in carriera. Nonostante la fotografia del traf-

fico di narcotici scaligero sia ben nota e chiara alle forze di polizia, non è così facile trovare una formula definitiva che possa smantellare questo mercato. «Vent’anni fa si delinearono gruppi malavitosi locali che capirono il grande affare e realizzarono delle bande di un certo spessore poi smantellate con le varie operazioni “Arena” dirette dal procuratore capo Papalia», ricorda Odorisio. «Scompaginate queste organizzazioni, ma permanendo la richiesta di droga, i vuoti lasciati sono stati riempiti da una miriade di piccoli gruppi formati in prevalenza da extracomunitari», spiega il questore. Tra i piccoli spacciatori ci sono in prevalenza magrebini, mentre i grandi traffici sono gestiti da albanesi e nigeriani che, nella maggior parte dei casi, curano anche il mercato della prostituzione. «Il legame è infatti strettissimo, sugli stessi canali della droga arrivano anche le ragazze e spesso i proventi della prostituzione vengono reinvestiti nell’acquisto di sostanze illecite», aggiunge Merolla. La questura si muove quindi su più fronti, sia con operazioni di spicciolo controllo, sia con indagini di più ampio respiro che servono a smantellare sul nascere l’avvio di nuove organizzazioni criminali. «L’importanza del contenimento di questi gruppi è strategica perché è

stato dimostrato che poi spesso queste organizzazioni finiscono per farsi la lotta tra loro, coinvolgendo in sparatorie anche ignari cittadini, come avviene in altre parti d’Italia. Purtroppo si tratta di un mostro a più teste», ammette Merolla, «e tagliata una, ne nasce subito un’altra». Il fenomeno è quindi vasto, i piccoli spacciatori si spostano in continuazione e spesso hanno addosso solo quantitativi minimi di droga, inoltre la tendenza non è nemmeno più solo giovanile e non è sufficiente monitorare i luoghi d’incontro per debellare il problema. «Nei limiti delle nostre forze facciamo tutti i controlli che è possibile fare, ma ci vorrebbe un esercito. Forse bisognerebbe realizzare situazioni tali da far sì che si assottigli la domanda», sostiene Merolla che, come i suoi uomini non si lascia scoraggiare, anche se spesso ha la sensazione di svuotare il mare con un cucchiaino. «Non ci permettiamo di criticare l’efficacia delle leggi, non è compito nostro», conclude, «dalla nostra parte diciamo che ci servirebbero quanti più strumenti tecnici possibili per individuare queste sostanze, sto parlando di reagenti sempre più raffinati e adatti ad analizzare anche le nuove droghe e, magari, che le pene siano più certe e non debbano, come spesso accade, essere inficiate da vizi e cavilli».

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Stuoria

DELITTI E MISTERI

Isolina innamorata finì a pezzi in Adige Mai trovato l’assassino ma pesanti furono i sospetti su un ufficiale degli Alpini

Al momento della morte la ragazza era incinta di quattro mesi. Chi e perché ha compiuto un simile delitto? Comincia la caccia all’assassino

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di Cinzia Inguanta Il 16 gennaio 1900 verso le 7 nelle acque gelide dell’Adige vengono ritrovate diverse parti del corpo di Isolina Canuti, 19 anni. Mancano la testa, le gambe e le braccia. Varie tracce sembrano portare al tenente degli alpini Carlo Trivulzio, 25 anni, amante della

vittima e alla levatrice Friedman. Arrestati, vengono poi prosciolti. L’unica condanna che verrà emessa sarà quella a 23 mesi di reclusione per il direttore del giornale Verona del Popolo, Mario Todeschini, colpevole di aver chiesto giustizia per il fatto. Verona 16 gennaio 1900. Due lavandaie, Maria Menapace e Lui-

gia Marconcini, mentre sono chine ad insaponare le lenzuola nelle acque dell’Adige sotto il ponte Garibaldi, scorgono un sacco impigliato tra sterpi e siepi. «Sarà carne inferior, per frodar el dazio», questo è il primo pensiero delle donne, come risulta dalla loro testimonianza. Quel sacco nasconde invece, come scoprono

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Misteri Nella pagina precedente: il corpo di Isolina è stato gettato nelle acque dell’Adige dal giardino di Villa Canossa. Qui a fianco, dall’alto: nelle prime due immagini il luogo dove è stato ritrovato il cadavere, a Ponte Garibaldi. Nelle foto successive Vicolo Chiodo, dove al civico 9 si è consumato il delitto. Nella pagina accanto: daVicolo Pomo D’oro il corpo di Isolina fu portato nella vicina Villa Canossa, visibile sullo sfondo della seconda immagine. Nelle foto successive il Circolo Ufficiali di Castelvecchio e l’effigie di un volto femminile, visibile all’inizio di Vicolo Chiodo che la tradizione attribuisce a Isolina Canuti

qualche istante più tardi, i resti straziati di una giovane donna uccisa, fatta a pezzi ed infine buttata a fiume come uno scarto qualsiasi. La vittima, una popolana di diciannove anni, è Isolina Canuti, figlia di felice Canuti, impiegato da 25 anni nell’amministrazione di una grossa azienda, la Tressa. Al momento della morte la ragazza era incinta di quattro mesi. Chi e perché ha compiuto un simile delitto? La città è in allarme, la popolazione si sente coinvolta da questo delitto. Comincia la caccia all’assassino. In molti scandagliano il fiume per ritrovare la testa della donna che sarà recuperata solamente il 24 dicembre nei pressi di Ronco all’Adige. Le prime indagini su questo delitto, che tiene con il fiato sospeso tutta l’Italia sono condotte dal questore, cavalier Cacciatori. Carlo Trivulzio, il sospetato, è un tenente del Sesto Alpini, che aveva preso in affitto una stanza in casa Canuti, al 25 di via Cavour, e intrattenuto una relazione amorosa con Isolina. Trivulzio apparteneva a una famiglia nobile di Udine, era ricco e stimato sia dai commilitoni che dai superiori. Il giovane ufficiale ammette di essere stato l’amante della ragazza e di essere al corrente del suo stato di gravidanza, ma respinge ogni accusa e nega anche di averla esortata ad abortire. Dopo ulteriori indagini, che portano alla scarcerazione di Trivulzio, il questore di Verona si dimette, c’è chi vorrebbe mettere tutto a tacere. Perché? Nel 1900 Verona era una città di

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guarnigione in cui i militari, che erano quasi più numerosi dei civili, si sentivano i veri figli della città. Erano anni politicamente difficili. L’Italia era divisa tra ricchi e poveri, nobili e plebei, militaristi e pacifisti, socialisti e conservatori. Era terminata da poco, con una costosa sconfitta, la Guerra d’Etiopia. Scioperi e agitazioni erano repressi violentemente, soprattutto a Milano dov’era avvenuta una vera carneficina durante le quattro giornate dal 6 al 9 maggio 1898 quando il generale Bava Beccaris, per ordine del re Umberto I, aveva soffocato nel sangue i tumulti. Le Università erano state chiuse, come le camere del Lavoro, e in un clima di tensione e repressione il generale Pelloux, chiamato al governo da un re impaurito e tentennante, pensava di dirigere il paese con i poteri speciali e decreti regi. In questa atmosfera di tensione e paura, tutti sembrano voler dimenticare, tutto viene bruciato velocemente. La gente vuole divertirsi e a Verona la situazione non è da meno. La città offre molte possibilità di svago, ci sono ben sei teatri: il Filarmonico, il Ristori, il Manzoni, il Drammatico, l’Arena ed il Gambrinus. Isolina, sarebbe stata presto dimenticata, la sua vicenda sarebbe diventata uno dei tanti casi insoluti, se non fosse per Mario Todeschini, deputato socialista e direttore del giornale Verona del Popolo. Prima con una interrogazione al Parlamento e poi con una serie

«Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato [...] dove esiste il passato, seppure esiste?». «Nei documenti. Vi è registrato». «Nei documenti. E... nella mente. Nella memoria degli uomini». George Orwell

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Misteri di articoli provocatori, Todeschini mette alle strette Carlo Trivulzio costringendolo a uscire dal silenzio nel quale si era rifugiato. Le provocazioni del giornalista insieme alle nuove scoperte sul caso costringono l’ufficiale a querelare Todeschini: non farlo sarebbe stato come ammettere la propria colpevolezza. In questo modo si arriva finalmente a un processo, ma non contro il presunto assassino, bensì per diffamazione contro il deputato socialista. L’opinione pubblica si divide, i giornali si schierano: Il Gazzettino e Verona del Popolo dalla parte di Isolina e del Todeschini, L’Arena, Verona Fedele, L’Adige, Il Resto del Carlino e La Stampa dalla parte di Trivulzio e dell’esercito. Il Corriere della Sera si tiene in una posizione di mezzo, a volte interessato alla scoperta della verità, a volte trascinato dall’onda portante del perbenismo. É una piccola storia quella di Isolina, quasi scontata, quella di una ragazza che rimasta incinta dell’amante, spera di riuscire a sposarsi. Durante una cena alla Trattoria del Chiodo, al 9 di vicolo Chiodo, la giovane donna in stato di evidente ubriachezza, viene fatta abortire con violenza, ma nel corso dell’operazione muore e qualcuno la fa a pezzi. Tutti gli indizi portano a un gruppo di ufficiali, amici di Trivulzio. Lo stesso questore della città è convinto della colpevolezza dei militari. Per far assolvere il Trivulzio, in mancanza di meglio, gli avvocati dell’accusa mirano a far apparire Isolina «leggera», una che la mor-

te se l’è peggio che cercata, «se l’è voluta». A questo bastano una vicina di casa animata da qualche risentimento, i pettegoli, i bigotti, la retorica, i finti moralismi. L’intera vicenda viene così politicizzata, lo stesso Capo di Stato Pelloux lascia intendere di tenere molto all’esercito, e di preferire, lui pure, che tutto venga sepolto. Il processo termina con la condanna per diffamazione nei confronti di Todeschini. Lo stabilisce la sentenza del 31 dicembre 1901: «In seguito a tutte queste osservazioni il Collegio dichiara colpevole l’onorevole Mario Filippo Todeschini del delitto di diffamazione continuata per mezzo della stampa in danno di Trivulzio Carlo, coll’aggravante della recidiva generica e col beneficio delle attenuanti generiche, lo condanna alla reclusione per la durata di 23 mesi e 10 giorni e alla multa di L. 1458. Lo condanna inoltre al pagamento delle spese processuali, della pubblicazione della sentenza, al risarcimento danni». Delitto senza castigo, per il colpevole mai condannato; castigo invece per chi ha mosso le acque. Del resto Isolina è figlia di un impiegato, un poveruomo che s’arrangia dando in affitto qualche camera agli ufficiali di passaggio; Trivulzio proviene invece da una famiglia nobile e ricca, e poi cosa conta la vita di una ragazzina semplice e povera di fronte all’onore dell’esercito? Ed è quello che alla fine viene salvato, contro tutte le evidenze. Isolina vittima in una storia in cui i veri protagonisti sono la ferocia e il conformismo.

L’opinione pubblica si divide, i giornali si schierano: Il Gazzettino e Verona del Popolo dalla parte di Isolina e del Todeschini, L’Arena, Verona Fedele, L’Adige, Il Resto del Carlino e La Stampa dalla parte di Trivulzio e dell’esercito. Il Corriere della Sera si tiene in una posizione di mezzo

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VERONA - FINANZIARIA 2007

Commercialisti in tilt Un fardello di oltre 1.300 commi per la cui comprensione si sono resi necessari un centinaio di regolamenti collegati. Lo sfogo di Giovanni Mazzi

«Comunque la si analizzi, la nuova legge finanziaria presenta incongruenze, appesantimenti burocratici di dubbia efficacia»

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di Massimo Rimpici Gli ultimi provvedimenti presenti nella Finanziaria 2007 hanno fatto «saltare i nervi» anche alle persone più caute, le categorie professionali più equilibrate e responsabili. Si pensava che la classe politica avesse finalmente metabolizzato la necessità di semplificare e invece – si lamentano gli addetti ai lavori – «siamo ripiombati nel tunnel degli adempimenti onerosi, complicati e contradditori». Non è il mugugno di uno spa-

ruto mucchietto di specialisti, o il lamento di una casta alla quale si è tolto qualche privilegio, qui si tratta di un’intera categoria che è stata imbrigliata in un guazzabuglio di incombenze difficilmente comprensibili e spesso inutili, sicuramente sproporzionate rispetto ai possibili (e teorici) benefici. Un fardello di oltre 1.300 commi per la cui comprensione si è resa necessaria la predisposizione di un centinaio di regolamenti collegati. «Cosa serve», esordisce il dottor Giovanni Mazzi, «aver trasferito

l’onere della trasmissione degli F24 (le deleghe per pagare l’Iva e le tasse, ndr) dalle banche ai professionisti? Una volta il cliente o lo studio di consulenza compilavano il modulo, che poi veniva presentato in banca. Successivamente l’Istituto trasferiva telematicamente il risultato nelle casse dell’Erario. Adesso questo compito è stato assegnato di fatto ai professionisti: le piccole e medie aziende spesso non sono in grado autonomamente di compiere questa funzione. Cosa è cambiato dal punto di

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Attualità Riuniti in un Convegno per trovare vie di uscita

vista sostanziale? Nulla, il cittadino paga le tasse come le pagava prima. Cosa è cambiato dal punto di vista formale? Tutto, hanno fatto emigrare l’onere da loro a noi! Mi viene da pensare che le banche abbiamo chiesto un aumento delle commissioni per svolgere questo servizio e che le istituzioni abbiano pensato bene di decentrare l’incombenza sulle spalle di altri soggetti». Comunque la si analizzi, la nuova legge finanziaria presenta incongruenze, appesantimenti burocratici di dubbia efficacia, ma soprattutto apre altri fronti, come la delazione. «I professionisti, insieme agli intermediari finanziari», commenta Luigi Zaccarella, «sono stati arruolati nel sistema antiriciclaggio. Siamo diventati i nuovi controllori, ovvero i delatori del segreto d’ufficio». Perché caricare questa categoria di compiti che sarebbe meglio affidare alle istituzioni preposte a questo tipo di indagini? Con tutte le novità introdotte, gli studi di consulenza o le associazioni di categoria non hanno certo bisogno di ulteriori mandati. «Potrei essere d’accordo», aggiunge Mazzi, «sulla nuova misura che reintroduce la presentazione degli elenchi dei clienti e dei fornitori. Uno dei problemi più seri del nostro sistema è proprio il giro delle false fatturazioni, ma cosa serve aver fissato la data di produzione degli elaborati al 30 di aprile? Se c’è un problema di gettito, che si anticipi il pagamento non la data di presentazione degli elenchi». Insomma una serie di nuovi ob-

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blighi che hanno aumentato a dismisura i compiti da svolgere senza un sicuro riscontro sul fronte delle entrate. «Si potrebbe andare avanti così non dico all’infinito ma quasi», aggiunge sconfortato Giovanni Mazzi. E le categorie professionali non sono le sole a rimarcare le critiche al testo di legge: il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’ha definita «abnorme», due ex Presidenti (Cossiga e Ciampi) «anomala», mentre un senatore dell’opposizione, Mario Baldassarri, «una maionese impazzita di commi». Agli infiniti compiti nuovi si è aggiunto l’uso obbligatorio della telematica: il semplice fruttivendolo di quartiere avrà gli stessi obblighi della multinazionale petrolifera. «Noi – conclude Zaccarella – siamo obbligati a tenere per cinque anni tutto il materiale cartaceo che riguarda la contabilità dei nostri clienti, mentre lo Stato pretende solo ed esclusivamente modulistica elettronica». É sparito il modello di carta, il 740, la dichiarazione dei redditi compilata a mano e consegnata di persona all’ufficio tributi del Comune di residenza. Può il Governo obbligare tutti ad avere il computer? Ad imporre di usare internet a tutti i costi? Chi è contrario a questi provvedimenti sostiene che ci sono modi diversi per affrontare la modernizzazione del sistema. «Non si può predicare la semplificazione, l’uso della rete», concludono i professionisti, «e introdurre contemporaneamente quattro modi differenti per detrarre l’Iva e i costi relativi agli autoveicoli aziendali!».

I professionisti arrivano alla spicciolata, trafelati. Il tempo di bere un caffè, poi di corsa in viale delle Nazioni, al Centro Servizi, per guadagnarsi un posto a sedere. A dieci alle nove, l’auditorium dove si svolge il convegno è già affollatissimo. Sguardi sgomenti, cellulari che suonano, mentre si cerca di trovare l’ultima poltrona libera. La sala è confortevole ma non sufficiente a contenere gli oltre cinquecento operatori fra commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro. Qualcuno si fa prestare una sedia dal personale che assiste i convenuti, altri – sconfortati – non trovano di meglio che sedersi per terra, sulla moquette. Più che ad un convegno finanziario, sembra di assistere a un grande evento: tutti molto concentrati, attenti a esaminare le parole del relatore in cerca di sicurezze, di certezze, di risposte ai mille dubbi alimentati da questa Finanziaria. Ma il meeting – organizzato dalla società Aldebra, che durante l’anno ne pianifica almeno altri due per la categoria – non è ancora iniziato e mentre si aspettano gli ultimi ritardatari c’è il tempo per scambiare quattro parole con l’amico-collega. Una battuta sull’ultimo provvedimento approvato dal Governo o su quanto si è letto il giorno prima sul quotidiano economico. Due parole che servono a rinfrescare vecchie amicizie, a rinvigorire quelle più recenti o ad organizzare un fine settimana con l’ex compagno di studi. Iniziano le presentazioni del padrone di casa, quindi l’immancabile pubblicità dell’operatore di telefonia mobile che sponsorizza il congresso. Finalmente il conferenziere prende la parola ed inizia a sciorinare commi e articoli; gabelle che si frappongono ad altri balzelli; tasse che sostituiranno altre imposte; sistemi di calcolo che rimpiazzeranno i vecchi conteggi; norme che subentreranno ad altre regole. «Un ginepraio» le definisce durante il simposio il relatore, Antonio Gigliotti. Uno dei timori maggiori è quello di non poter rispettare le scadenze: tutto è molto ravvicinato, è nuovo, non collaudato. La telematica aiuta moltissimo, ma ormai anche con quella si fa molta fatica a rispettare i tempi. «Se badassi a tutto quel che c’è da fare – si confessa sconsolato un ragioniere – non potrei più fare la pausa di mezzogiorno». La materia è diventata talmente farraginosa che non se ne viene più a capo, se non con molta fatica. Oltre ai numerosi commi sempre più incerti, il fattore tempo sta diventando quello più angosciante: riuscirò a fare tutto in tempo utile? É la domanda sempre più ricorrente. «Ho rinunciato a gestire alcuni nuovi clienti», confessa amareggiato un altro operatore, «dovrei assumere altri collaboratori, ma come faccio a far digerire ai miei clienti costi sempre maggiori?». Finalmente una pausa: il tempo per andare fuori a fumare una sigaretta, a bere un caffè, o per chiamare al telefono l’ufficio per farsi dare gli ultimi appuntamenti del giorno. Poi la maratona continua, altre novità, altri dubbi, altre gabelle, altri appunti da prendere. Alle dodici e trenta il relatore prende in mano la «montagna» di quesiti che durante la mattina i professionisti hanno presentato al tavolo della presidenza e inizia a rispondere: legge una ad una le domande e a tutte dedica una risposta, anche se breve. Terminato il convegno ci si appresta a ritornare in ufficio o a consumare una frugale colazione al bar più vicino. Volti tirati, sguardi spaesati, qualche bottone della camicia che non ha retto all’ultima novità in fatto di mancata emissione dello scontrino fiscale e nodi delle cravatte sciolti dopo la constatazione dell’ennesima variazione in materia di indetraibilità delle spese alberghiere. M.R.

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Cultura di Alice Castellani Recentemente ingegneri e antropologi dell’università di Bologna, Pisa e Forlì, supportati dal laboratorio di realtà virtuale e dalla tecnica di facial reconstruction, hanno ricostruito al computer quello che si presume il vero volto di Dante. Questo studio, prosecuzione di quello iniziato negli anni ’20 con la ricostruzione del cranio dantesco, definisce i tratti somatici cui eravamo abituati, come «più psicologici che reali», volti a tramandare lo spirito del poeta. L’iconografia era dunque fedele alla celebre descrizione del Boccaccio, che tratteggiava «il volto lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccoli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato (...) e sempre nella faccia malinconico e pensoso». La ricostruzione tridimensionale ha dunque voluto restituire a Dante la sua umanità, suscitando notevole interesse non solo in Italia, essendo l’Alighieri uno dei padri della patria, il primo grande poeta della lingua italiana, nume tutelare della nostra letteratura spesso definito «il vate», il profeta. Verona, città ricca di monumenti, storia e cultura, vanta i natali, il passaggio e la permanenza tra le sue mura di molte illustri personalità del mondo del sapere, capaci di lasciare il segno con le loro opere e la loro fama, facendone una delle città italiane più conosciute nel mondo. Tra queste spicca quella del sommo Dante, che vi visse sei anni, dal 1312 al 1318, scrivendovi buona parte della cantica del Paradiso, di cui Cangrande della Scala è dedicatario. Sul piedistallo del monumento che celebra l’autore della Divina Commedia, in quella piazza dei Signori a molti nota come piazza Dante, possiamo leggere “A Dante lo primo suo rifugio”. Ai suoi piedi sostano ogni giorno turisti e veronesi, affascinati da una delle più belle piazze cittadine. Però nessuno sa, o quasi, chi ne fu l’autore, non ricordato da alcuna targa sebbene si tratti di un veronese, il pittore e scultore Ugo Zannoni, nato nel 1836 e creato-

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Sul piedistallo del monumento che celebra l’autore della Divina Commedia, in piazza dei Signori, possiamo leggere «A Dante lo primo suo rifugio». Ma non c’è il nome dell’autore

La statua di Dante? Opera del veronese Ugo Zannoni

re di molti altri monumenti cittadini come l’Aleardi nella Chiesa dei SS. Apostoli, il Cardinale Canossa in Duomo, i sontuosi monumenti a Erbisti e Zorzi in cimitero, i busti e le statue in chiese di città e provincia. La statua fu eretta nel 1865 e rappresenta il poeta avvolto nel lucco, magro e austero, reggente la sua opera con una mano, a sostegno dell’altro braccio con un dito al mento, mentre volge la testa assorto in un pensiero profondo: una statua che si caratterizza per compostezza della figura e pensosa severità dell’aspetto, proprio secondo quella linea “drammatica” celebrata da Raffaello nella Stanza della Segnatura in Vaticano. Fu nel 1863, per celebrare il 6° centenario della nascita dell’Alighieri, che l’Accademia di Agricoltura Commercio ed Arti con la Società di Belle Arti decise di erigere una statua in onore «di quel sommo che delle glorie d’Italia è la più fulgida, onore e vanto dell’umanità intera». Fu indetto un concorso – per una spesa preventivata in seimila fiorini – e vincitore risultò l’allora ventinovenne Zannoni, scelto perché il suo modellino «rendeva il vero concetto della grandezza e temibilità di quel sommo e lo ritraeva quale Egli dovea essere in Verona, meditabondo sul passato, nobilmente mesto dei suoi destini e vieppiù di quelli della sua Patria». Zannoni frequentò l’Accademia a Venezia e a Brera, offrendo Milano – più aperta alle espressioni dell’arte della nativa Verona ancora sotto l’occupazione austriaca – più possibilità artistiche. Alla sua morte nel 1919, fu aggiunto al grande Angelo, da lui scolpito nel 1885 per la tomba di famiglia, il suo medaglione con la breve e significativa epigrafe «Ugo Zannoni, anima retta, cittadino munifico, cristiano convinto. Col Dante di nostra piazza iniziò affermando il suo genio, l’ascesa della sua fama d’artista». Gli storici lo definirono «artefice della forma al sommo grado, un vero campione veronese dell’arte tradizionale», e forse quest’uomo, dalle cui mani uscì la rappresentazione del Sommo poeta, merita anche oggi il nostro ricordo.

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DOPO IL BOMBARDAMENTO DEL ’45

La ricostruzione del Filarmonico Con la distruzione del teatro, a Verona veniva a mancare uno dei simboli più importanti della cultura cittadina. Alberto Tantini nel febbraio 1947 fece accelerare la decisione di bandire un concorso nazionale per la ricostruzione

di Nicola Guerini

Sopra, Alberto Tantini con Maria Callas (al centro) e nella pagina successiva con il tenore Mario Del Monaco

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Alberto Tantini nacque a Verona nel 1894 da una famiglia borghese amante dell’arte. La madre, Anna Gallizioli, buona pianista dilettante, gli trasmise la conoscenza della musica e soprattutto la passione per il melodramma. Alberto Tantini ebbe un grande impatto emotivo prendendo parte, a Milano, ai

funerali di Giuseppe Verdi, cui la madre lo condusse. Dopo il liceo classico, s’iscrisse alla facoltà di Ingegneria al Politecnico di Torino, ma gli studi furono interrotti dalla Grande Guerra, alla quale partecipò come ufficiale di artiglieria sul Carso, rimanendo in trincea a Nova-Vas dal 1915 al 1918. Tornò a Verona nel 1919 dopo un anno trascorso a Napoli per diret-

tive imposte, ottenendo poi l’onorificenza di «Cavaliere di Vittorio Veneto». Si laureò a guerra terminata ed esercitò la professione anche in collaborazione con lo Studio dell’architetto Ettore Fagioli, con il quale collaborò per le scenografie areniane. Nel 1931 si sposò con Ada Cesari ed ebbe due figlie. Il sentimento forte che lo legava alla passione del teatro lo portò a oc-

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Storia cuparsi dell’attività del Filarmonico, a fianco del presidente, al tempo Luigi Amistà, nella carica di direttore e, successivamente, in quella di presidente dell’Accademia Filarmonica tra il 1940 e il 1973, anno della morte. Durante la seconda guerra mondiale Tantini fu richiamato alle armi ma provvide a mettere in salvo l’archivio e il prezioso patrimonio musicale dell’istituto e a dargli più tardi la giusta sistemazione nella sede ricostruita. É interessante sapere che sono stati pubblicati i Diari di Monsignor Turrini, bibliotecario della Capitolare e dell’Accademia, nei quali viene descritto l’impegno, l’angoscia e la preoccupazione, divisa con Tantini, per salvare dai bombardamenti le centinaia di libri della Biblioteca. Ne riportiamo qualche episodio tratto proprio da quelle testimonianze preziose. Alberto Tantini, su richiesta di Turrini, fece costruire, infatti, un ripostiglio nel sotterraneo del palcoscenico del Teatro per poi trasportarvi, nell’autunno 1943, gran parte del materiale della biblioteca dell’Accademia. Ma dopo l’inverno del 1944 l’apprensione per il pericolo dell’umidità fu superata da quella per le incursioni aeree. La stazione non lontana di Porta Nuova era ripetutamente bersaglio di aerei nemici, poi la vicinanza della sede del Comando delle SS (di fronte alla chiesa di San Luca) e la presenza del deposito di benzina, con vasca sotterranea, dietro la canonica di San Luca costituivano un pericolo grandissimo per il materiale custodito sotto il palcoscenico del Filarmonico. Monsignor Turrini pensò che non fosse prudente lasciare il patrimonio della Biblioteca ancora in quel luogo e, in accordo con Alberto Tantini, si volle trasportare tutto alla Capitolare. Per mancanza di spazio nella sede della biblioteca, fu lasciata nel ripostiglio del Filarmonico tutta la musica del XIX secolo insieme a una raccolta di quadri che ritraevano Accademici illustri del passato. Purtroppo l’incendio del 23 febbraio, del 1945, provocato da una bomba, distrusse completamente l’intero Teatro e il materiale conservato, mentre il bombardamento che ridusse in macerie la Capitolare, per un miracolo, non danneggiò i volumi e tutto il materiale messo al riparo.

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L’impegno di Alberto Tantini fu davvero lodevole insieme alla dedizione che lo legò a tutti gli episodi della ricostruzione della città. Appena terminata la guerra fu attivo nel partito repubblicano e divenne sindaco di Roncà, oltre a ricoprire la carica di Censore della Banca d’Italia. Gli incarichi politici però, non impedirono mai di coltivare la grande passione per la cultura e la musica. Conobbe e fu amico di molti artisti e musicisti tra i quali Berto Barbarani, Lionello Fiumi, Renato Simoni, Arnaldo Fraccaroli, Guido Trentini, Giuseppe Zancolli, Italo Montemezzi e Sergio Failoni (vedi pagina a fianco), noto direttore d’orchestra veronese, sostituto di Toscanini, al quale fu molto legato. Nel 1948 venne a mancare il tenore Giovanni Zenatello, che la storia ricorda come il primo Radames nell’Aida del 1913 e per due anni come Sovrintendente del costituito Ente Lirico dell’Arena. Alberto Tantini fu designato, su fiducia del sindaco Aldo Fedeli ad assumerne l’eredità. Quattro furono le stagioni che egli guidò, dal 1949 al 1952, nel corso delle quali il livello artistico degli spettatori e la gestione amministrativa dell’Ente segnarono notevoli progressi anche attraverso allestimenti insoliti e coraggiosi: Lohengrin di R. Wagner (1949), Mefistofele di A.Boito (1950), La Walkiria di R.Wagner (1950), I Pescatori di perle di G.Bizet (1950), Manon

di J.Massenet (1951), Boris Godunov di M.P.Musorgskij (1952) e La Gioconda di A. Ponchielli (1952) in cui cantava, sotto la direzione di Antonino Votto, una delle voci destinate poi a diventare tra le più famose della lirica: Maria Callas. Con il bombardamento del 1945 non rimaneva solo la grande amarezza per aver perso il teatro, ma soprattutto veniva a mancare uno dei simboli più importanti della cultura cittadina. Tantini nel febbraio 1947 fece accelerare la decisione di bandire un concorso nazionale per la ricostruzione del Teatro, che fu aperto a tutti i professionisti italiani. «Non è pensabile una ricostruzione dell’antico ma si darà vita a un bel teatro moderno... Il Filarmonico risorgerà», si legge su L’Arena del primo maggio 1947, mentre nel testo si precisa che «per la soluzione sarà lasciata ai progettisti massima libertà». Il lavoro della commissione per lo studio del bando, guidata dall’ingegnere Tantini, si concluse il 21 maggio. Datato 20 maggio 1947, il testo recitava: «Bando di concorso per il progetto architettonico del Nuovo Teatro Filarmonico della città di Verona». La scelta fu decisamente lunga ed ardue furono le difficoltà per raggiungere il progetto definitivo. Nell’assemblea generale del 14 febbraio 1955 venne infatti annunciato da Tantini che «si sta concretizzando lo studio del progetto esecutivo», il cui autore

ebbe un nome solo nella riunione del 12 ottobre. Infatti, il 15 ottobre 1955 L’Arena presentò con un lungo articolo, il progetto di Vittorio Filippini con le foto del plastico e i disegni. I lavori per la ricostruzione furono lenti e travagliati e solo con la seduta di presidenza del 2 ottobre 1968 venne stabilita finalmente la data di inaugurazione, anche se non era ancora possibile rappresentare un’opera o ascoltare un concerto dal momento che non era ancora agibile il palcoscenico. Ma ecco l’idea: da un verbale del 24 giugno 1968 Tantini riporta di «...aver ricevuto una telefonata di una persona amica del regista Zeffirelli, che avrebbe l’intenzione di dare a Verona il film in anteprima assoluta “Giulietta e Romeo”. Per tale film nessun altro ambiente si presterebbe meglio che il nostro Teatro Filarmonico. Sono convinto – continua il presidente – che ciò costituirebbe per tutta la città di Verona un avvenimento di eccezionale portata». L’idea fu accolta con entusiasmo dall’assemblea degli accademici e il 19 ottobre dello stesso anno fu organizzata la grande serata di Gala per l’inaugurazione del Teatro con l’anteprima mondiale del film di Zeffirelli, che ottenne un calorosissimo successo. Alberto Tantini si spense il 17 novembre del 1973 senza avere la legittima e meritata soddisfazione di vedere inaugurato ufficialmente con un’opera quel Teatro Filarmonico, alla cui ricostruzione egli si era interamente e amorosamente dedicato. La lapide marmorea che si trova ora nel foyer del Filarmonico lo ricorda come una figura fondamentale per la rinascita del nostro teatro, ma soprattutto per aver preservato la fedeltà allo statuto dell’Accademia tuttora impegnata solo sul piano culturale, così come l’avevano concepita nel 1543 i soci fondatori. È significativo ricordare le parole con cui il presidente Tantini chiuse l’assemblea generale dei Filarmonici, il 31 maggio 1957, alla vigilia dell’inizio dei lavori del teatro: «...gli uomini passano e non contano: quello che conta è che Verona riabbia il suo magnifico Teatro e che, nel tempio risorto, l’Accademia possa riprendere e continuare la sua splendida tradizione d’arte».

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ANNIVERSARIO

A 60 anni dalla morte, un profilo del grande direttore Sergio Failoni di Nicola Guerini Alberto Tantini fu molto amico del Maestro Failoni, un direttore d’orchestra che attraverso una vita artistica molto intensa, ottenne riconoscimenti importanti nei teatri più prestigiosi del mondo. Sergio Failoni nacque a Verona il 18 dicembre 1890 in vicolo Fontanelle Duomo. La determinazione a intraprendere la carriera musicale si manifestò nell’autunno 1901, quando decise di inscriversi alla Scuola d’Istrumenti ad Arco di Verona (oggi Conservatorio di musica Dall’Abaco) dove iniziò lo studio del violoncello. Quando nel 1908 si diplomò, egli cominciò a subire il fascino della direzione d’orchestra e il polo d’attrazione divenne Milano e quel Teatro alla Scala sul quale regnava Arturo Toscanini, l’idolo dell’Italia musicale di quegli anni. Ad affascinarlo era soprattutto il repertorio wagneriano e in particolare una recita del 1907 del Tristano und Isolde di Wagner, diretto appunto dal maestro parmense. Con il trasferimento della famiglia a Milano il giovane Sergio si iscrisse al Conservatorio Giuseppe Verdi dove frequentò i corsi di composizione e di direzione d’orchestra e dove conobbe, proprio in Conservatorio, Victor De Sabata, di cui divenne un grande amico. Dopo le prime esperienze, in America Latina, come direttore, nel 1921 entrò al Teatro alla Scala come maestro sostituto del temutissimo Toscanini e ricevette poi l’ingaggio al teatro Carlo Felice di Genova dal 1924 al 1928. Questo episodio fu decisivo per la formazione professionale di Failoni che si dimostrò preziosa quando, nel 1928, accettò dall’Opera Reale di Budapest l’incarico di primo direttore di quel teatro. Il rapporto invece con la stagione estiva dell’Arena di Verona fu di grande collaborazione e durò per diversi anni. Nel 1925 proprio all’Arena diresse il Mosè di Rossini e la Gioconda di Ponchielli. «...questo figlio nostro di cui dobbiamo andar orgogliosi», scrive il cronista del giornale locale L’Arena,

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«la cui memoria ha del prodigioso in quanto non ha bisogno di spartito per regolare i movimenti della sua magica bacchetta, e che concerta e dirige come ben pochi – anche tra i migliori – sanno». La tensione politica italiana e il suo sentimento antifascista, nonostante l’appoggio di un influente sostenitore come Gabriele D’Annunzio, gli crearono non poche incomprensioni e difficoltà. Appena dopo gli esordi e fino all’apice della carriera rimase infatti confinato all’Opera di Budapest tornando in Italia solo per fulminee esibizioni concertistiche a Roma e alla Scala di Milano. In Ungheria divenne amico di Kodaly e molto di Bartok, che accompagnò il 13 dicembre del 1934 nel Concerto n°1 in do maggiore per pianoforte e orchestra di Beethoven. La sua attività musicale ungherese fu molto rilevante e riguardò soprattutto Verdi e Wagner, senza mai trascurare la musica contemporanea e il vastissimo repertorio sinfonico in cui primeggiava Beethoven. Quando i tedeschi entrarono a Budapest il 19 marzo del 1944, Failoni non salì più sul podio in Ungheria poiché gli fu revocato ogni incarico all’Opera. Solo dopo la parentesi della seconda guerra mondiale egli tornò a dedicarsi alla ricostruzione della vita musicale budapestina senza però trascurare i numerosi inviti di altri teatri italiani, tra cui il Filarmonico e l’Arena di Verona. Con il bombardamento del 1945 il teatro veronese fu ridotto in macerie e Failoni le visitò nel 1946, quando tornò a dirigere in Arena e poi inaugurò la prima stagione lirica, nel 1975, del nuovo teatro Filarmonico con la direzione del Falstaff di Salieri. Arrivò ben presto un incarico triennale (1947-49) dal Metropolitan di New York dove incontrò Toscanini e dove rimase per qualche tempo. Quando si trasferì nella Grande Mela con la seconda moglie Nelly, gli organizzatori fornirono tutto il necessario per il soggiorno, compresa una baby-sitter per la figlia Donatella. È curioso soffermarsi su quest’ultimo particolare in quanto di quella domestica greco americana, restata in casa loro per alcune settimane, Failoni non si occupò

fino a che, una sera, a sorpresa, rivelatasi una cantante, questa non gli domandò un’audizione in quel contesto famigliare. Si trattava di Maria Kalogeropoulos e Failoni, sorpreso dalla voce della cantante, provvide a raccomandarla al tenore Zenatello che stava organizzando la stagione 1947 dell’Arena di Verona. La quasi esordiente fu accettata e, con il nome di Maria Callas, fu protagonista di Gioconda di Ponchielli diretta da Tullio Serafin. Prima di iniziare la stagione a New York Failoni tornò in Europa per i numerosi appuntamenti artistici e il 7 giugno 1947, durante la prova della Nona Sinfonia di Beethoven, fu colpito da un ictus che lo rese inabile a qualsiasi attività. Dopo un breve miglioramento e numerose speranze, si spense il 28 luglio 1948 a Sopron. I funerali a Budapest furono solenni e la salma fu sepolta nel cimitero centrale della città. In Ungheria divenne subito una leggenda, mentre nell’Italia tumultuosa del dopo guerra il suo nome fu presto dimenticato. Sul Corriere dell’Informazione (6 agosto 1948), in un articolo, Franco Abbiati accusò i farisei nostrani di aver perseguitato lo scomparso: «...a New York avrebbero perdonato, come giù a Budapest. Ma a Roma, a Milano, a Peretola i farisei della musica sono inflessibili». A Verona gli verrà intitolata una via e nel 1990 a distanza di oltre quarant’anni dalla sua morte, un’orchestra formata dai giovani strumentisti dell’Opera di Stato di Budapest ha chiesto di assumerne il nome.

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ANNIVERSARIO

Cultura

Tre secoli dalla nascita di Carlo Goldoni

Carlo Goldoni

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di Oreste Mario dall’Argine Quest’anno, definito “anno goldoniano”, l’Italia sarà percorsa da chissà quante perfomance oratoriali e professionistiche, considerando che anche la televisione delle veline non si dimenticherà di ricordarlo. Venezia ha affidato ad un teatrante esperto e abile quale Maurizio Scaparro, la direzione del programma delle manifestazioni dedicate al grande veneziano; quindi ci auguriamo che qualcosa di dignitoso e serio la capitale veneta sia in grado di offrirci. Corre voce che Scaparro stia preparando uno dei capolavori goldoniani “Sior Todaro Brontolon”, affidando la parte del protagonista a quel preparato, schivo e serio attore che è Giulio Bosetti; uno dei pochi rimasti della vecchia scuola e che avrebbe potuto, alcuni anni or sono, se la solita superba insipienza di alcuni politici non glielo avesse impedito, dare al Teatro Stabile del Veneto quella dignità e professionalità che le tradizioni teatrali della nostra regione meritano. Goldoni “avvocato stimatissimo” e autore teatrale che superò i confini del suo paese per assumere soprattutto in Francia, con l’amicizia di Voltaire, una fama degna del suo intelletto, nasce a Venezia il 27 Febbraio 1707. Il padre medico lo avvia agli studi giuridici ed egli si laurea a Padova nel 1731. Nel 1716, a nove anni scrive una sua prima commedia aspramente censurata, come opera copiata, da un suo precettore. Nel 1729, 1730 scrive gli intermezzi “Il buon padre” e “La Cantatrice”. La sua vita è un continuo girovagare; passa per Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Parma, Casalpusterlengo (anche Sanguinetto, nel 1739, dove scriverà “Il Feudatario”), segue la Compagnia del Capo Comico Giuseppe Imer, si sposa nel 1736 con Nicoletta Conio figlia di un notaio. Nel 1744 è a Pisa dove intende accasarsi ed esercitare l’avvocatura. Ma il suo destino è legato alle tavole del palcoscenico; perché qui nella città toscana conosce un impresario allora molto importante, Giacomo Madebach, che lo strattona dalla scrivania piena di codici e pandette e lo convince a sottoscrivere un contratto come «poeta» della sua Compagnia. Nel

1756 è poeta di corte del Duca di Parma. L’anno cruciale è il 1750 quando, al Teatro Sant’Angelo di Venezia, va in scena con grande successo “La Famiglia dell’antiquario”. Un insuccesso, “L’Erede sfortunata”, lo destina sul cammino della sua riforma teatrale, impegnandosi con Madebach a scrivere per la stagione seguente ben sedici nuove commedie. Il successo e la fama incattiviscono i suoi detrattori Chiari, Baretti, i così detti “controriformisti”. Dopo aver scritto e rappresentato in tutta Italia le sue più belle commedie, oltre più di cento certamente, contemporaneamente ad alcuni libretti per opera, tra cui “La finta semplice” musicata da Mozart, mentre Antonio Salieri mette in musica “ la Locandiera”, nel 1762 è a Parigi per impegnarsi con la “Comediè Italiene”. La sua vita nella capitale francese alterna fortune e sfortune; gli attori italiani Camillo Bertinazzi e Camilla Veronese recitano con successo le commedie a soggetto “Les Amours d’Arlequin et de Camille”, “La Jalouisie d’Arlequin”,“ Les Inquietudes de Camille”. Gli eventi politici ostacolano la sua esistenza fino a che, povero e malato, “come ogni favola bella”, muore nel 1793 in terra francese, povero e dimenticato. Ma chi è stato veramente questo genio teatrale che ebbe l’intuito e l’intelligenza di puntare, ai suoi tempi, in Italia, la patria di Gozzi e Metastasio, la culla della commedia dell’arte, ad una riforma del teatro che si impose come quella di Wagner nel modo del melodramma? Silvio D’Amico, Raul Radice, altri grandi studiosi e critici teatrali fra i quali il nostro Simoni, hanno sviscerato la riforma goldoniana che aveva intuito l’evolversi dei tempi sociali e culturali e da qui l’esigenza di dare al teatro una consistenza e una verità scenica che fosse vicina al vero dello spettatore. Dice Renato Simoni, recensendo nel 1921 “Il Ventaglio”, protagonista un mostro sacro del teatro italiano Dario Nicodemi: «...Ora che cosa fa il riformatore che l’esperienza e la lontananza dalla patria e la mite adattabilità ha reso docile! Prende la commedia dell’arte così come è e si limita a popolarla di uomini; la immette nel suo tem-

po; fa correre per i meandri del suo canovaccio labirintico, non più i mascherotti che sono convenzioni fuori dal tempo, ma i suoi stessi contemporanei, riprodotti con squisito senso della verità... Dove c’era la follia stemperata, il lazzo pazzo, il gergo imputridito, fa entrare l’umile e la semplice vita quotidiana. E scrive un capolavoro... Riformatori di tutti i tempi, il segreto è questo; ed è facile! Nel teatro, di dove la vita è uscita, uccisa dalla maniera, riconducete la vita!... tutti i riformatori hanno fatto questo. Nessuno di essi pensò di portare nel teatro che muore, al posto degli uomini che non ci sono più, le maschere goffe come quelle di una volta o lugubri come quelle che usano adesso». Così Gigi Lunari, in uno dei suoi approfonditi studi sulla riforma goldoniana, scrive: «Ecco il Goldoni vero che esce dai fondali carnevaleschi della commedia dell’arte, per fare delle maschere, senza tradirne l’origine e le virtù, “caratteri e persone”». Da qui il vero teatro goldoniano che quest’anno ci apprestiamo a celebrare e con il quale tutti i più grandi attori italiani si sono incontrati. Credo infine che si debbano ricordare alcune persone che all’opera dell’Avvocato veneziano hanno dedicato la loro e vita teatrale. Primi fra tutti i fratelli della famiglia Micheluzzi, dalla cui scuola sono usciti gli interpreti più famosi della commedia goldoniana. Poi Cesco Baseggio, insuperabile Sior Todaro, che riuscì ad avvincere intere platee televisive. E da ultimo, ma non ultimo, il veneziano Giovanni Poli, studioso e ricercatore della commedia dell’arte che, spinto da Giovanni Calendoli, si addentrò nei meandri delle trame goldoniane per rappresentare a Parma nel 1953 al Festival Internazionale del Teatro Universitario, un’edizione memorabile della commedia in versi “Le Massere”. Il suo nome oggi è legato al teatro veneziano “A La Vogaria”. Ed è giunto il momento di terminare la nostra chiaccherata con tre battute de “La Bottega del Caffè”: Ridolfo, il caffettiere: “Oh via, andate a tostare il caffè, per farne una caffettiera di fresco. Trappola, garzone: “vi metto gli avanzi di ieri sera?”. Ridolfo: “no, Fatelo buono!” .

Marzo 2007



Personaggi di Guido Gonzato Paolo Vignola

Lo scorso dicembre, durante le feste natalizie, sotto la stella tre signori, in un pittoresco anche se un po’ ingenuo travestimento da pastori, suonavano zampogne e cornamuse. Non si trattava di zampognari provenienti dal sud Italia, bensì di appassionati veronesi. Abbiamo così fatto conoscenza con Paolo Vignola, Marcello Degani e Paolo Nicolis: un trio di musicisti dilettanti che intendono fare rivivere la tradizione di uno strumento antico e affascinante. Per i non esperti le cornamuse sono tutte uguali e vengono spesso indicate col termine generico di «zampogna». In realtà ne esistono letteralmente decine di tipi diversi, spesso legati alla regione o alla provincia di origine. Paolo costruisce pive (cornamuse con una sola canna di canto, o chanter), ispirate ai modelli emiliani, e zampogne di tipo molisano. In queste ultime il suonatore suona due diverse canne con ciascuna mano e può produrre armonie di accompagnamento. Di solito le cornamuse non si trovano in negozio, ma devono essere ordinate a un artigiano costruttore. Alla mia domanda su chi avesse costruito i loro strumenti, i suonatori hanno puntato il dito: «L’è sta’ lù!» indicando Paolo Vignola. E qui la mia sorpresa è stata grande: i costruttori italiani di cornamuse sono pochissimi e non pensavo proprio che ce ne fosse uno anche a Verona. Paolo Vignola è un tornitore in pensione e sfrutta la sua esperienza per fare rivivere la tradizione di uno strumento popolare che si è praticamente estinta con la seconda guerra mondiale. Mi racconta che ha iniziato a costruire i suoi strumenti alcuni anni fa, a partire da una zampogna molisana che aveva provato a riprodurre. Il suo primo strumento aveva incontrato un tale successo che gli amici gli avevano chiesto di costruirne altre. Era nata così la banda di cornamuse di Pedemonte. Paolo ci accoglie nel suo laboratorio, ricavato nel garage di casa. Ci aspettavamo un’officina piena di polvere e disordinata, e invece... un piccolo tornio, un trapano a

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A Verona un trio di musicisti dilettanti intende fare rivivere una tradizione antica. Paolo Vignola, tornitore in pensione, nel suo garage costruisce questi affascinanti strumenti

Cornamuse e zampogne

colonna, un banco da lavoro per gli attrezzi e alcuni scaffali pieni di parti di cornamusa. Basta osservare la precisione dei dettagli, la cura nella realizzazione di questi chanter e bordoni, per capire come Paolo lavori bene. A parte la sacca di pelle usata per immagazzinare l’aria, una cornamusa non è altro che un oboe primitivo e utilizza un’ancia doppia. Come molti costruttori moderni, Paolo le realizza in plastica. Presa da una scatolina una vecchia scheda telefonica curvata a caldo, ne ritaglia due lamine, le giustappone su un tubicino di plastica, le lega con filo da calzolaio trattato con la pece, aggiusta il tutto... in pochi minuti, e con visibile familiarità, ecco pronta un’ancia. Per testarla la monta su un chanter già pronto: funziona al primo colpo. “Un caso, dice lui: occorre molta precisione e non tutte vengono bene”. Mi mostra poi un alesatore che si è costruito a partire da una lima in acciaio: questo strumento gli serve per il foro interno delle canne di canto, che è conico. La parte più affascinante è la lavorazione al tornio. Paolo inizia col trapanare un ciocco di legno stagionato, che poi sgrossa con l’accetta e posiziona sul tornio. In un turbinio di trucioli, come per magia inizia a prendere forma la canna conica. Mostrandomi numerosi chanter sugli scaffali, Paolo mi parla della differenza del suono prodotto a seconda dei legni che utilizza: pero, melo, mandorlo, olivo, pruno... tutte piante della nostra campagna. Resto colpito dalla precisione della lavorazione e dalla potenza del suono. Abbiamo avuto il piacere di assistere a due serate di prove del trio di cornamuse. Non sapppiamo ancora quando si esibiranno, ma di sicuro non ci perderemo il loro concerto. Non sappiamo come ringraziare Paolo Vignola per il suo lavoro. È per merito di persone come lui se antiche tradizioni riescono a non scomparire del tutto. Speriamo che anche in Italia possa succedere il miracolo che abbiamo visto tante volte all’estero: giovani e anziani che, in piazza o nelle osterie, cantano e suonano musiche tradizionali accompagnandosi con gli stessi strumenti dei nostri bisnonni.

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Personaggi GIOVANI TALENTI

Silvia Cammalleri Ha realizzato allestimenti teatrali all’estero e in Italia: Cavalleria Rusticana, Madama Butterfly, Carmen sono alcune delle sue collaborazioni. Ha lavorato come interprete e accompagnatrice della principessa Hussein di Giordania

primo e lungo lavoro di ricerca sul testo; capire l’epoca, l’ambientazione, il numero dei cambi di scena, gli attrezzi e ogni materiale da usare per ogni singolo momento o abito. Silvia cura ogni dettaglio, lavora sostanze, giustifica con la ricerca le sue scelte: il vetro satinato piuttosto del legno, o ancora il velluto invece della seta. Questa giovane scenografa ha realizzato allestimenti teatrali all’estero e in Italia: Cavalleria Rusticana, Madama Butterfly, Carmen sono solo alcune delle sue collaborazioni. Silvia ha lavorato come interprete e accompagnatrice della principessa Hussein di Giordania e della Duchessa di Borbone, è stata personal shopper buyer per una società di moda italoaraba e recentemente vestilista per le sfilate di Valentino a Milano.

di Francesca Paradiso «Quando inizia lo spettacolo, costumisti e scenografi se ne vanno...». E così fa anche Silvia Cammalleri, giovane talento che lavora alla Fondazione Arena di Verona come assistente della responsabile di sartoria e della direzione costumi. LA LAUREA IN INGHILTERRA

Ventisette anni, molti dei quali trascorsi in giro per il mondo, Silvia dopo il Liceo Artistico a Verona si è trasferita per sette anni in Inghilterra, dove ha conseguito nel 2005 la laurea con il massimo dei voti in Scenografia e costumi, suoni e luci per tv, teatro e cinema. «A diciassette anni è nata la mia passione per l’arte, all’improvviso ho capito che i disegni fatti da adolescente sul diario potevano darmi nella vita qualcosa in più, così abbandonai il Liceo scientifico e mi iscrissi all’Artistico. Poi c’è stata Londra. Sono partita da sola senza conoscere la lingua, avevo deciso di frequentare un corso specialistico e su 4mila iscritti fui scelta tra i 45 che avrebbero costituito la classe». UNA SPLENDIDA OPPORTUNITÀ

Sorride mentre racconta le difficoltà di una città così diversa da Verona: «In Inghilterra ognuno è abbandonato a se stesso, ci sono meno relazioni interpersonali perché ognuno è lì solo per realizzare il proprio progetto e si concentra quasi unicamente su esso. Londra poi è la città degli estremi, con una grande vita notturna che qui a Verona manca, ma è anche la città per eccellenza dove chiunque può cercare di realizzare i propri sogni». Non racconta con malinconia perché «ogni esperienza porta in sé qualcosa di positivo, mentre gli aspetti negativi li cancelli immediatamente». «A Londra ho incontrato molte difficoltà ma non potevo desiderare formazione migliore,

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IL RITORNO A VERONA

Silvia Cammalleri è specializzata in scenografia e costumi, il suo lavoro inizia con il copione in mano e le direttive dei registi, poi a lei spetta la ricerca sul testo per capire l’ambientazione, il numero dei cambi di scena, gli attrezzi e il materiale da usare con corsi teorici ma soprattutto pratici, che per la mia professione sono stati determinanti». Il lavoro di Silvia inizia con il copione in mano e le direttive dei registi, poi a lei spetta un

Il suo curriculum è scritto fitto fitto in quattro pagine, fatte di musical, teatri, città, incontri, fino al ritorno qui nella città di Romeo e Giulietta. «È come se fossi tornata a Verona dopo un lungo faticoso viaggio. Ora qui ho trovato un po’ di stabilità e di pace, anche se non sono sicura sia veramente quello che desidero, perché la passione per il viaggio fa parte di me e la valigia è davvero sempre pronta. Sono in continua ricerca di esperienze lavorative e di vita, ogni giorno imparo qualcosa di nuovo e questo è fondamentale nel mio settore». «Ho la fortuna di conoscere l’inglese molto bene e questo mi apre delle belle possibilità anche qui a Verona, dove giungono tedeschi e americani per ambientare i propri film o videoclip. La cosa più difficile è trovare le autorizzazioni per girare scene in città. Anche per questo è nata la Verona Films Commission di cui sono socia. Si vuole rilanciare Verona grazie ai professionisti originari della città senza necessariamente riferirsi a Roma o Milano, facendo crescere e valorizzando ciò che qui già abbiamo».

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I RICORDI DI UN GIOVANE CRONISTA

Diego Valeri, il mio professore di Giuseppe Brugnoli Una recente telefonata con Marzio Breda, bravo oltre che illustre giornalista de Il Corriere della Sera, l’unico “quirinalista”, cioè addetto a seguire le opere e i giorni del presidente della Repubblica, che preconizzò puntualmente, contro l’opinione di molti altri addetti ai lavori, che Ciampi non avrebbe accettato un secondo mandato, apre una finestra, o forse solleva soltanto un velo polveroso, su una ormai antica, risalente a più di mezzo secolo fa, vicenda personale. «Ti ricordi di Diego Valeri? Ho ancora una lettera di quarant’anni fa che mi dice che un suo allievo, di cui aveva perdute le tracce, un certo Giuseppe Brugnoli, faceva il giornalista a Verona». Ed ecco rispuntare dalle nebbie dei ricordi la cara immagine paterna del mio professore dell’Università di Padova, quello con cui feci la tesi di laurea, che avrebbe voluto pubblicare, e mi diede il massimo dei voti anche se la media non era sbalorditiva, e avrebbe voluto anche che facessi il suo assistente. Non se ne fece niente, come succede normalmente in molti casi della vita: io ero già impegnato a fare una mezza dozzina di collaborazioni giornalistiche, perché anche allora si cominciava con pezzi sparsi, da un giorno all’altro, per questa o quella testata, e mi fa un po’ sorridere vedere che oggi non è cambiato niente, se non il fatto che le lamentele e talvolta le proteste sono più accese. Così, dopo aver frequentato per qualche tempo il Liviano, ritagliando spazi preziosi tra un articolo e l’altro, decisi che la carriera universitaria non era nel mio programma esistenziale e abbandonai il campo ad una mezza dozzina di ragazzone occhialute e fameliche di sapere che già sapevano tutto. «Fai male, mi disse il professor Valeri battendomi una mano sulla spalla: il giornalismo è un mestiere assorbente; non scriverai più niente di buono». E fu così. Non lo rividi più e neppure lo cercai, finché, dopo molti anni, lessi sul giornale che era morto. Ma non potrò mai dimenticare le sue lezioni di letteratura moderna e contemporanea e di letteratura francese nei pomeriggi di mercoledì e di venerdì in un’aula

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di scarsa illuminazione e di pessima acustica della facoltà di lettere. Altri professori, come Stefanini che insegnava storia della filosofia e recitava come un attore, con un eloquio immaginoso e accattivante, o come Fiocco che condiva le sue lezioni di storia dell’arte medievale e moderna con battute e ironie in pretto stile montebaldino, avevano un vasto pubblico fedele e appassionato, e tra gli studenti non era raro cogliere la presenza di qualche signora della Padova bene che si era intrufolata di straforo e che era immediatamente riconoscibile perché teneva il cappello in testa. Ma con Valeri non c’era bisogno di andare in anticipo a conquistarsi il posto. Forse per l’ora infelice delle lezioni nel primo pomeriggio, più consona ad una pennichella, forse per l’esporre metodico e senza inflessioni del docente, forse più ancora perché le sue materie erano complementari, e non davano neppure il beneficio di un voto facilmente generoso all’esame, tanto da tirar su la media, la sua aula era frequentata quasi soltanto da una piccola, anche se compatta, pattuglia di studentesse secchione, intente a stendere freneticamente appunti su voluminosi scartafacci dal primo all’ultimo minuto. Se c’era qualche giovanotto, sembrava fosse capitato lì per caso, e forse era soltanto per accompagnare una donzella. Ma, in quell’atmosfera un po’ distaccata e quasi pericolosamente sognante, in una sorta di estatica complicità tra il docente e gli studenti, Diego Valeri, che allora teneva un corso di italiano sui poeti ermetici e uno di francese sui simbolisti, riusciva ad estrarre con l’abilità quasi rabdomantica di un vero poeta, quale egli era, le perle più preziose nascoste nelle liriche che leggeva e commentava. Erano lezioni di alto spessore critico, di una nativa felicità espressiva, e chissà che qualcuna delle fanciulle che appuntava diligentemente le sue affermazioni non se ne sia servita soltanto per l’esame, e magari le abbia raccolte. Ma su di lui, anche nel mondo accademico di un’università prestigiosa come quella di Padova, pesava l’accusa, mai detta ma spesso evidenziata da un sorriso, che egli fosse un poeta minore. Uno dei danni che fanno le scuole elemen-

tari e medie e le loro antologie, dove le finissime, vibratili liriche di Valeri erano spesso appaiate alle composizioni ritmate di un Angiolo Silvio Novaro. Ricordo quella volta che, andato a mangiare un modesto panino in una fumosa latteria durante la sosta meridiana, sentì casualmente da una radio gracchiante, durante il notiziario, che in Francia era morto Andrée Gide. Appena arrivato al Liviano, trasmisi la notizia al professore, che non ne sapeva niente, e che mi mandò a prendere un libro di Gide nel suo studio al secondo piano. Ne trovai uno solo, un libriccino spiegazzato con “Les nurritures terrestres”. Su quel libretto, tralasciando per una volta simbolisti ed ermetici, Valeri tenne la sua lezione, che durò due ore buone senza intervallo accademico. Fu davvero una grande lezione, su uno dei poeti più difficili, complessi e controversi della letteratura mondiale, senza una sosta, lumeggiando il personaggio con le sue segrete virtù e i suoi vizi pubblici da poco conclamati, approfondendo le sue derive parnassiane e la sua ricerca estenuata e talora febbrile. Un racconto fatto anche di ricordi personali, di episodi e di citazioni, e il francese, preziosamente classico di Gide, risuonava in quell’aula triste con sonorità inaspettate, con il fulgore di una rivelazione. Rividi Valeri per qualche attimo pochi anni dopo. Da buon socialista umanitario, era candidato nelle liste che avrebbero dovuto ridare smalto alle sinistre unite dopo la batosta del 1948. Parlò a Verona al Corallo, di fronte ad un pubblico che avrebbe voluto stentoree affermazioni di riscossa. Ma quando, dopo aver esaltato Nenni e tenuto un po’ in ombra Togliatti, cominciò a dire che anche Saragat e De Gasperi non erano poi male, la gente con le bandiere rosse cominciò a rumoreggiare, e Baldani Guerra fece mettere in fretta il disco con l’Internazionale. Al suono di “Su fratelli, su compagni” l’intera comitiva si avviò verso la vicina trattoria all’Amelia. Lo vidi andarsene così, un po’ ingobbito ma sorridente, in mezzo ad un piccolo popolo speranzoso, e quella mi resta come la miglior immagine del mio professore Diego Valeri.

Marzo 2007


di Alice Castellani Dopo la riapertura con la grande festa di Capodanno e l’avvio della programmazione musicale con nomi di rilievo nazionali ed internazionali nel mese di febbraio, la storica associazione veronese «Interzona», capace di portare a Verona la musica contemporanea e indipendente, affronta il dispiegarsi di una nuova stagione nella nuova sede nel Capannone 22, a pochi metri da quella Stazione frigorifera n° 10, così particolare dal punto di vista architettonico. Da oltre un anno e mezzo l’associazione cercava di riprendere le attività, iniziate nel ’94 quando ancora nessuno sapeva nulla «di schede tecniche, contratti da firmare, rapporti con il comune, finanziamenti, licenze bar, rapporti con le istituzioni e numeri legali», ma la voglia di divenire «un motore propositivo, che colmasse un vuoto, per provare a riempire questa città di tutto quello che non c’era e realizzare un sogno da condividere» era tanto forte da spingere a lottare a tutti i costi pur di avere una sede, con l’obiettivo chiaro di lasciare il segno. Dopo un lungo percorso in salita per ridare slancio e concretezza al progetto, l’idea dei soci è sempre quel-

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Capannone 22 Partenza alla grande per Interzona che nella nuova sede riorganizza il proprio spazio espressivo la di «recuperare spazi da riconvertire, da immaginare per una città diversa», con il Capannone 22 vissuto «quasi come un ritorno a casa», che non segna un arrivo bensì una nuova partenza. Se «l’ex Cella frigorifera era uno spazio eccezionale, pervaso da un’atmosfera particolare quasi sufficiente da sola a far funzionare ogni tipo di evento», il nuovo capannone impone ai responsabili di «proporre spettacoli di qualità che possano reggersi in piedi da soli» perché, per quanto sia luminoso e funzionale, esso risulta certamente meno evocativo del precedente. Comunque lo spazio interno della nuova sede, diviso in sale, ben si presta ad «essere utilizzato per eventi culturali diversi: concerti, proiezioni cinematografiche, spettacoli teatrali e mostre d’arte», e l’intenzione è infatti quella di aumentare decisamente

le attività artistico-creative rispetto alla programmazione passata: più mostre d’arte, più workshop e più teatro, utilizzando i concerti, da sempre fiore all’occhiello per Interzona, come principale fonte di finanziamento per altri momenti. L’idea è sia di creare uno spazio dove possano transitare spettacoli nuovi e artisti poco conosciuti, che per motivi diversi non sarebbero visibili in città, ma anche, vista la luminosità del Capannone 22, di utilizzarlo durante il giorno, aprendolo al pubblico per proporre attività formative e laboratori creativi, così che l’azione di Interzona si possa ripercuotere sulla città e lasciare traccia nel suo sviluppo culturale. Oltre a una sala concerti con un palco mobile e il nuovo bar, sono stati ricavati uno spazio per gli uffici e altre 2 sale, una più grande per mostre ed eventi

che richiedano maggiore capienza e una seconda più intima. Tra gli appuntamenti musicali del 2007 con artisti di caratura internazionale spesso di richiamo per tutto il Nord Italia, cui Interzona ci ha abituato in passato e che nel periodo di inattività forzata sono pesantemente mancati a Verona e non solo, il 17 marzo sono arrivati dalla Svezia i Deltahead con i loro riff giocati sulle corde basse, e il 31 marzo il polistrumentista di Los Angeles Nick Castro. L’11 maggio toccherà ai Boredoms dal Giappone con il loro gusto marcato per sonorità “estatiche” e “cosmiche”, il 25 maggio il country malinconico e alternativo degli Sparklehorse (USA) e i loop digitali di Christian Fennez dalla Danimarca. Il polimorfismo di Interzona, con proposte di teatro sperimentale ed eventi in cui diversi media e molteplici espressioni artistiche si compenetrano – come il Festival Intersezioni e lo scambio tra artisti italiani ed internazionali all’insegna di forme d’arte e di cultura “nuova”, testimonianze dell’evoluzione della società contemporanea – ci porterà in futuro, grazie alla collaborazione con la Cineteca di Bologna, i vincitori del Festival di Corti delle Scuole Europee Officinema.

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Spettacoli • Molte stagioni teatrali di Verona sono concluse, ma c’è ancora il tempo per gli ultimi spettacoli al “coperto”prima dell’avvio delle rassegne estive sotto le stelle. La rassegna «Atto Terzo», ai Filippini, si conclude il 14 aprile con Il ponte sugli oceani. Amori del Teatro Impiria, la saga di una famiglia della Lessinia attraverso le vicissitudini di quattro generazioni di emigrati, dai migranti dell’Italia del secolo scorso ai loro figli. • Al Teatro Camploy, per la rassegna Voci e Silenzi, il 17 aprile va in scena La nave fantasma del Teatro della Cooperativa, un testo di G. M. Bellu, Renato Sarti e Bebo Storti, che ha ricevuto il Premio Gassman Città di Lanciano 2005, come Miglior Testo Italiano. Lo spettacolo racconta la tragedia navale – la più grave avvenuta nel Mediterraneo dalla fine della II Guerra Mondiale con 283 vittime – che il 25 dicembre del 1996, al largo delle coste siciliane, vide affondare un piccolo battello carico di migranti da India, Pakistan e Sri Lanka. Partendo da quel naufra-

DE CHIRICO (PADOVA)

Resterà aperta al pubblico fino al 27 maggio a Padova, a Palazzo Zabarella la mostra dedicata a Giorgio De Chirico. Nato a Volo, in Grecia, nel 1888, l’artista chiamò Metafisica l’arte che rivela i misteri della realtà che ci circonda. Dai primi quadri simbolisti ai grandi capolavori del periodo metafisico, dalla fase classica al nuovo romanticismo delle “ville romane”, dai miti moderni degli “anni ruggenti” ai “bagni misteriosi” e alla metafisica dell’America, per chiudere con la celebrazione di sé come pittore “in costume”. Un percorso visivo con cento capolavori. JEAN PROUVÉ (MANTOVA)

Fino al 22 aprile Palazzo Te a Mantova, ospita la mostra Jean Prouvè – The Poetics of the Technical Object, dedicata all’architetto francese. Un’occasione per ammirare alcuni prototipi dei più noti oggetti da lui ideati, unitamente ai maggiori progetti realizzati nel corso degli anni.

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Ultimi spettacoli prima dell’estate gio, la pièce affronta la disperazione dei migranti, il silenzio delle autorità e dei mass media, la ferocia dei trafficanti di esseri umani, la terribile indifferenza e paura della nostra società, facendo però ricorso a elementi tipici del teatro comico e del cabaret, all’improvvisazione e al rapporto diretto con il pubblico. • Al Filarmonico si potrà assistere, il 22, 24, 27 e 29 aprile e il 2 maggio, al balletto ispirato alla storia che ha reso celebre Verona e travalicato confini geografici, culturali e di classe perché i sentimenti che la pervadono, insinuandosi fino a colpire a fondo le nostre sensibilità occidentali, sono Passione, Scontro, Destino, Amore e Morte. Stiamo parlando di Romeo e Giulietta, su musica di H. Berlioz ovvero sulla Simphonie dramatique op.17 com-

• Nella sala Maffeiana, per i concerti della domenica (alle 11), il 6 maggio la Bairav Ensamble propone un concerto che rivisita la musica popolare dei paesi balcanici, giunta in Europa grazie al nomade girovagare di zingari rumeni ed ungheresi, struggente e travolgente.

lebra la «Dichiarazione Schuman» con cui nel 1950 si propose di creare un’Europa unita, Fondazione Aida con Università, Regione, Comune, Siae e Ministero per i Beni e le Attività Culturali organizza, dalle 11 per una durata di circa 11 ore, una nuova Maratona letteraria che quest’anno, forte delle passate letture de La Divina Commedia, l’Orlando Furioso, l’Iliade e il Canzoniere di Petrarca, diventa Europea, grazie al contributo del programma comunitario Cultura 2000 e il coinvolgimento di nove Paesi, impegnati contemporaneamente nella lettura pubblica di uno dei più importanti testi letterari del ‘900 di ogni Paese, probabilmente Calvino per l’Italia. Lo scopo è festeggiare, con la lettura integrale e no stop dell’autore scelto, la Giornata dell’Europa, per rendere la cultura più accessibile e dare a tutti la possibilità di conoscere un capolavoro della tradizione, senza filtri o commenti di professori, tramite l’interpretazione di comuni lettori volontari.

• Per il 9 maggio, giornata che ce-

Alice Castellani

posta in aderenza al testo shakespeariano, che sarà presentato nell’allestimento di Aterballetto e interpretato da Roberto Bolle, Letizia Giuliani e Ma Cong. Coreografia e regia sono di Amedeo Amodio, cui interessa soprattutto compiere un viaggio nell’intimo dei singoli personaggi per esprimere i loro stati d’animo, cioè «la voce delle passioni, quelle più profonde, dalle più crudeli alle più dolci».

Mostre a Verona e fuori porta SARGENT AND VENICE (VENEZIA)

Fino al 22 luglio, a Venezia al Museo Correr, si potranno ammirare sessanta opere tra dipinti ed acquerelli realizzate tra il 1880 e il 1913 da John Singer Sargent. Esponente dell’impressionismo americano, Sargent nacque a Firenze e visse a lungo in Europa. Il primo viaggio a Venezia risale al 1879, ma vi tornerà per più di dieci volte nell’arco di quarant’anni e la rappresenterà con un gran numero di dipinti. Sargent and Venice è organizzata in collaborazione con i Musei Civici Veneziani e le Adelson Galleries di New York. SÉQUENCE (VENEZIA)

Sempre a Venezia dal 5 maggio al 18 novembre, Palazzo Grassi presenta Séquence (1), una grande selezione di opere inedite provenienti dalla Collezione François Pinault. Per questa prima edizione quindici artisti internazionali

espongono i loro maggiori lavori già presenti nella collezione o realizzati ad hoc per la mostra veneziana. DISCONTINUITÀ NARRATIVE

(BRESCIA) Arte contemporanea a Brescia fino al 5 maggio, nella Citric Contemporary Art con Discontinuità narrative. Manuele Cerutti, Clement Page e Sara Rossi, pur impiegando media differenti e seguendo percorsi assolutamente personali, mettono in scena tutti e tre storie possibili, legate alla vita di ogni giorno. Realtà ed immaginazione si fondono e la ricerca di se stessi come fine diviene una chimera. IL SETTIMO SPLENDORE (VERONA)

Centottanta capolavori, suddivisi in sei sezioni, sono esposti a Verona a partire dal 25 marzo e fino al al 29 luglio, in una mostra intitolata Il settimo splendore. La moderni-

tà della malinconia. Le opere sono di Botticelli e del Pontormo, di Giorgione e del Lotto, di Tiziano e del Tintoretto, di Parmigianino e del Carracci, di Caravaggio e del Guercino, di El Greco e del Fetti, di Canova e di Piranesi, di Modigliani e Carrà e di molti altri ancora. Il tema della riflessione malinconica conduce ai principi stessi della sensibilità moderna; e per certi versi polemicamente ne rivendica le origini italiane e mediterranee. MAURICE DENIS (ROVERETO) Infine, al Mart di Rovereto dal 23 giugno al 25 settembre, per la prima volta in Italia, oltre cento capolavori di uno dei maestri del simbolismo internazionale: Maurice Denis. Personaggio chiave nella storia delle prime avanguardie internazionali, artista raffinato e teorico di rilievo nel dibattito fin de siècle, Denis viene presentato al pubblico con una rassegna che può vantare le opere più importanti della sua produzione di pittore, grafico, decoratore, scrittore.

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Viaggiare VARSAVIA

Terra di conquista Nelle sale del Museo della Rivolta sono ricostruite fedelmente le strade della città durante la Seconda Guerra Mondiale. Un percorso che parte dall’occupazione nazista (nel settembre del 1939) per arrivare allo scoppio della rivolta contro gli oppressori (1 agosto 1944)

di Michele Domaschio

Il Palazzo della Cultura e della Scienza a Varsavia

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Il cielo sopra Varsavia è una lastra di piombo, impigliata sul pinnacolo del Palazzo della Cultura e della Scienza. L’edificio è stato subito ribattezzato ironicamente “il regalo” dagli abitanti di Varsavia perché donato dall’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’50 ai compagni cittadini della capitale polacca e ora contende alla “M” di McDonald la palma di edificio più kitsch del centro. La multinazionale statunitense, ben lungi dal fare offerte, ha insediato qui il primo punto vendita dell’est europeo, dopo la caduta del Muro di Berlino, con intenti chiaramente speculativi: insomma, pare che, da Est o da Ovest, tutti si prefiggano l’obiettivo di stravolgere il panorama urbanistico della capitale polacca. Nei decenni passati, a dire il vero, ben altri erano stati gli scempi subiti da questa terra a causa degli appetiti espansionistici dei propri confinanti. Per averne una prova basta visitare il Museo della Rivolta di Varsavia (Muzeum Powstania Warszawskiego, in ul. Grzybowska, 79), inaugurato pochi mesi fa: nelle sale, che ricostruiscono fedelmente le strade della città durante la Seconda Guerra Mondiale, si attraversa un percorso che parte dall’occupazione nazista (nel settembre del 1939) per arrivare allo scoppio della rivolta contro gli oppressori (1 agosto 1944) che durò alcuni mesi e finì con un atroce bagno di sangue (oltre 200mila civili uccisi

e la città pressoché rasa al suolo dalle bombe dell’aviazione tedesca, per espresso volere dello stesso Hitler, come rappresaglia per l’ardire degli irriducibili polacchi). Le atrocità contro la popolazione civile non si fermarono qui: lo sterminio degli ebrei del ghetto di Varsavia è una delle pagine più sconvolgenti dell’aberrazione umana e numerosi monumenti nel cuore della città sono un ricordo e un monito per le generazioni future. Per riprendersi da sensazioni così tristi, è buona cosa entrare in un locale tipico e farsi servire una bella zuppa di barbabietole bollente (borsch), magari accompagnata da un piatto di pierogi (una sorta di ravioli ripieni di carne e funghi, spesso serviti con panna acida). Lo spuntino può essere un toccasana specialmente d’inverno, quando le temperature raggiungono tranquillamente i -12 gradi durante il giorno (come l’anno scorso, quando una coltre di neve e ghiaccio ha coperto Varsavia per lunghissime settimane, senza accennare a sciogliersi sino a marzo inoltrato). In queste condizioni climatiche un’altra valida alternativa è quella di recarsi a visitare le stanze del Castello Reale, a pochi passi dalla piazza dove troneggia la colonna di Zygmunt (per gli ignari turisti, quest’ultimo monumento alto 22 metri può essere tranquillamente scambiato per l’effigie votiva di qualche santo: in realtà, esso raffigura il re Zygmunt, vissuto alla fine del ‘500, nell’atto di reggere una

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Il monumento al cardinale Stefan Wyszynski, sul sagrato della chiesa di San Giuseppe Guardiano

grande croce con la mano sinistra). Nel Castello, fulgido esempio di architettura barocca, si possono ammirare alcuni dipinti del pittore Bernardo Bellotto, autore di suggestive vedute di Varsavia, oppure ci si può soffermare ad ammirare l’imponente sala dei marmi, fastosamente decorata e risalente al periodo di reggenza di Wladislaw IV Waza. Lo splendore del Castello Reale costituisce l’esempio forse più eclatante della magnificenza di questa città, ma per cogliere l’aspetto più intimo e velatamente malinconico di Varsavia ci si deve recare nella chiesa della Santa Croce: qui, in uno dei pilastri della navata centrale, è custodito il cuore di Frederic Chopin, e sovente si possono scorgere animi sensibili che vengono a rendere omaggio al grande compositore. Oppure, si può ammirare la sagoma affilata del cardinale Stefan Wyszynski, immortalato nel monumento sul sagrato della chiesa di San Giuseppe Guardiano: il prelato ebbe un ruolo decisivo negli anni bui del dominio comunista, esercitando un’opera di mediazione che per larga parte riuscì a far decollare moti di rinascita democratica, come quelli che ebbero luogo nei cantieri navali di Danzica, nei primi anni ’80, e che diedero il via all’esperienza di Solidarnosc. Una raccomandazione, che può essere molto utile per chi voglia recarsi nella capitale polacca, è quella di osservare monumenti,

in VERONA

Nella chiesa della Santa Croce, in uno dei pilastri della navata centrale, è custodito il cuore di Frederic Chopin. Da vedere anche lo splendido Castello Reale

chiese, palazzi e quant’altro facendo bene attenzione a trovarsi sul marciapiede o, comunque, su zona interdetta al traffico, perché i poliziotti di Varsavia sono inflessibili e implacabili: attraversare fuori dalle strisce pedonali può costare salate multe, o interminabili colloqui con gli agenti che, nella stragrande maggioranza dei casi, ignorano totalmente l’inglese e insisteranno nel ripetervi le

norme infrante dal vostro comportamento fino a quando non verserete il dovuto (stremati dalla conversazione in polacco e dall’illogicità della sanzione). Al di là di questi piccoli inconvenienti, Varsavia conserva un fascino unico, specialmente d’inverno, quando ci sono pochi turisti stranieri che si avventurano per le strade gelate (in primavera e, ancor più, d’estate sta diventando una moda per i giovani inglesi, ad esempio, recarsi qui acquistando uno dei numerosi pacchetti lowcost per scatenarsi poi nei più deliranti riti d’addio al celibato). Quando la nebbia di gennaio, invece, avvolge le strade del centro può capitare di vedere, nelle prime ore del mattino, quel cielo di piombo che proprio non riesce a sollevarsi dalla sagoma grigia del Palazzo della Cultura.

STORICAMENTE I grandi autori polacchi Nel panorama della letteratura mondiale, gli autori polacchi hanno da sempre rivestito un ruolo significativo e importante. Molto spesso, visti i rovesci storico-politici del loro paese, gli scrittori di questa terra hanno dovuto emigrare, e a volte firmare sotto pseudonimo le loro opere. È il caso, ad esempio, di Joseph Conrad, al secolo Teodor Josef Korzeniowski, che nacque a Varsavia e vi passò l’infanzia prima di trasferirsi in Inghilterra nel 1884. Un emigrante “per vocazione” è stato – più di recente – Ryszard Kapuscinski: nato a Pinsk (oggi Bielorussia) nel 1932. Kapuscinski ha lavorato come inviato dell’agenzia polacca Pap in giro per il mondo, raccontando storie ambientate nelle più sperdute località della Terra, dall’Africa al Sud America. I suoi reportage sono diventati, negli anni, un punto di riferimento imprescindibile per quanti hanno voluto cimentarsi con il giornalismo o, più semplicemente, hanno scoperto nelle pagine di questo autore il fascino immortale del saper raccontare. Tra i suoi libri più famosi, si ricordano “La prima guerra del football e altre guerre di poveri”, “Il Negus, splendori e miserie di un autocrate”, “Ebano”, “Shah-in shah” ed infine “In viaggio con

Erodoto”, quasi un testamento spirituale, pubblicato nel 2005, poco prima di morire: nella sua valigia di reporter, raccontava infatti Kapuscinski, non mancava mai una copia delle “Storie” del grande autore classico, quasi a voler tenere sempre con sé il metro di paragone con cui confrontarsi per narrare di uomini e città. La figura più importante della poesia polacca contemporanea è, invece, Wislawa Szymborska: nasce nel 1923 e inizia a comporre nel 1945, con una lirica il cui titolo bene esprime il suo desiderio di essenzialità: “Cerco la parola”. Nei versi di Szymborska è racchiuso un umorismo venato di melanconia, tipico dello spirito polacco, che viene trasfigurato da una continua ricerca stilistica, sempre aperta a sperimentazioni ed evoluzioni. Dopo aver raccolto grandi consensi nei paesi di lingua tedesca, l’autrice polacca viene insignita del Premio Nobel per la letteratura nel 1996, ma già prima di questo riconoscimento le sue opere erano state tradotte in oltre 30 lingue in tutto il mondo. In Italia, si trovano le sue raccolte “La fiera dei miracoli”, “Gente sul ponte”, “La fine e l’inizio”, “Vista con granello di sabbia”. (m.d.)

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Lettera

Disavventura in autobus Ho iniziato ad usare i trasporti pubblici, come molti miei coetanei, in prima superiore, nove anni fa, saltuariamente. Da due anni lo uso ogni giorno per recarmi al lavoro in città, dove purtroppo non ci sono alternative al parcheggio a pagamento per chi vi svolge un’occupazione. I miei sedili prediletti sono quello esattamente dietro l’autista, oppure quello in fondo all’autobus, nell’angolo accanto alla finestra. La finestra, in particolare, l’ho spesso usata come ancora di salvezza, per tutelarmi dalle variegate tipologie di odori che si mescolano una volta saliti, vuoi per la fatica di una giornata di lavoro, vuoi perché, (non so il perché, a dire il vero), l’autobus che prendo io, sempre alla stessa ora, sempre nella stessa zona, è spesso utilizzato da ubriachi, persone incuranti che salgono con la sigaretta accesa, stra-fatti di sostanze stupefacenti, per non parlare di quei matti, anche violenti, che saltuariamente salgono urlando, quasi alzando le mani su chi osa far loro qualsiasi tipo di osservazione. Ora il mio bagaglio di avvenimenti spiacevoli sugli AMT (o come si chiama adesso ATV) si è colmato, irrimediabilmente. Lunedì 5 marzo 2007. Salgo sul solito vecchio cassone arancio su quattro ruote. Guardo fuori dal finestrino, penso ai fatti miei, come sempre. Ore 17.45, a Castelvecchio salgono tre ragazzi. Si siedono in fondo all’autobus, dove ci sono anch’io. Parlano tra di loro con un accento slavo. Ne noto uno in particolare, seduto vicino a me, che puzza di alcool da far venire il vomito. Dopo due minuti, l’impossibile. Il “signore” alza il braccio, e lo mette sul mio sedile, sulle mie spalle. Infastidita gli dico di togliere il braccio immediatamente. Iniziano cosi cinque minuti di parole incomprensibili in un italiano inventato, con frasi del tipo: “ti ho chiesto scusa” (tenendo sempre il braccio lì), “perché ti arrabbi?”, “sei italiana?”, “con me non parli cosi!” e vari farfugliamenti dovuti un po’ alla gradazione alcolica e un po’ al suo italiano scarso. Toglie il braccio, ma continua, imperterrito, ad assillarmi. Gli dico di smetterla, che ho finito di rivolgergli la parola, gli chiedo di chiudere lì il discorso ma lui continua. Continua a chiedermi perché mi sono infastidita, a dirmi che non l’ha fatto apposta, a ribadirmi che mi ha chiesto scusa (ma sempre tenendo il braccio lì). All’altezza di San Bernardino il tipo in questione e i suoi due amichetti, che fin’ora sono rimasti ad ascoltare senza batter ciglio, cercano di suonare per scendere, ma si accorgono in ritardo della fermata. Il “signore” allora “civilmente” urla all’autista di aprire la porta, che però rimane chiusa. Allora il simpaticone pensa bene di tornare da me, si avvicina alla mia faccia e mi minaccia. Mi dice che io così con lui non ci parlo, che lui sa dove abito, sa chi sono, sa che faccia ho e che mi ritrova. Io alzo la voce di nuovo, gli dico di andarsene, di scendere, di sparire, aggrappandomi alla speranza che alla prossima fermata smonti. Succede così, infatti. Lui scende e mi sbeffeggia sul marciapiede, ride coi suoi amichetti. Mi applaude, e mi fissa, sghignazzando. Il tutto di fronte ad un autobus con delle persone che hanno finto di non sentire. Nessuno si è girato a guardare come mai una ragazza alzava la voce mentre veniva minacciata. Questa è la nostra città. Una ragazza non è sicura se sale su un mezzo pubblico. Le persone si commuovono solo quando risulta facile mostrarsi sensibili o c’è un interesse a farlo. Altrimenti ti lasciano lì. Se non hai niente da guadagnarci fregatene, chiudi gli occhi, tappa le orecchie e pensa alla tua pancia gonfia di superficialità. Grazie Italia. Grazie Verona. Silvia Andreetto

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«Ciclisti in Lessinia» Ciclisti in Lessinia Pedalando e sognando la libertà di Aldo Ridolfi Ed. La grafica pp. 134 Aldo Ridolfi, insegnante con la passione del ciclismo, nel suo libro ci propone quattro brevi percorsi in Lessinia che diventano dei veri e propri viaggi perchè le strade che lo scrittore invita ad esplorare conducono il lettore dai luoghi fisici ai luoghi dell’anima, dei sentimenti, delle proprie radici. Nel primo itinerario il ciclista partendo da Soave sale verso Campofontana per la strada di Castelcerino, Montecchia, Bolca per scendere verso Verona passando da Selva, Tregnago, Mezzane, Castagnè e Montorio; la seconda proposta porta l’appassionato a Passo Malera partendo da Verona attraverso Montorio, Càmpari, San Francesco, Bosco Chiesanuova, per tornare verso la città transitando da Velo, Giazza, Tregnago e San Vittore; il terzo seducente incontro con l’altipiano prende il via, ancora una volta, dalla città per salire fino al Passo delle Fittanze passando da Grezzana, Stallavena, Bellori, Bosco Chiesanuova, Erbezzo per tornare ad incontrare Verona scendendo da Grezzana; il quarto ed ultimo percorso inizia a Fosse e si snoda per Breonio, Monte, Mazzurega, Fumane, Prun, Corrubio, Ponte di Veja, Sant’Anna d’Alfaedo e poi di nuovo Fosse con il circuito del Corno Mozzo. Viaggiare e sognare in bicicletta lungo i quattro sentieri descritti, ripercorrendo la storia, gli usi, i costumi, le tradizioni, la cultura dei luoghi attraversati. Il vento, pedalando, rievoca il sussurro delle “fade”, il clamore degli “orchi”, la cantilena delle “anguane”, così "la città sembra un’ossessione lontana, inesistente, un mondo con il quale altri dovranno confrontarsi”. Pedalare e sognare, sudare e rab-

brividire lungo i percorsi che uniscono luoghi e ricordi di antiche leggende come quella dell’amore tra Veja e Cereo, per il bisogno esistenziale di riappropriarsi della propria vita, della propria essenza. La forza della pietra della Lessinia, ora mirabile architettura naturale tono e colore dell’altipiano, ora stele sacra a protezione della via percorsa o ancora da percorrere fluisce dentro il viaggiatore che riconosce nella strada il "palcoscenico della vita quotidiana". Quello, esplorato da queste escursioni, è un territorio del quale non è possibile dare una lettura che sia semplicemente economica, climatica o meramente paesaggistica infatti è un territorio ricco di storia e amato dall’uomo fin dagli albori del suo apparire. E’ questo che vede il “ciclista sognatore”, lui che è "alla ricerca di sensazioni più che di numeri, di suggestioni più che di dati", con la sua che "è una grammatica anarchica del territorio, una sintassi diversa e sconosciuta del muoversi".

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N° 14/marzo 2007 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura, stili di vita per la crescita della persona Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona.

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