Veronesi
Inserto del giornale on line Verona In
n째2/2014
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La tradizione secondo Elisa Zoppei
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Le vecchie osterie di Verona secondo Hans Barth
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“La zuppa delle Povere anime” nella tradizione alpina
Aldo Ridolfi
Giuseppe Rama
Alessandro Norsa
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Badia Calavena. Dove la diversità è un brolo di frutti dimenticati Marta Bicego
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Il restauro della Contrada Valle
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La contafole: un mestiere scomparso
Ludovico Anderloni
Elisa Zoppei
Veronesi Inserto del giornale on line Verona In Direttore editoriale Aldo Ridolfi Redazione: Ludovico Anderloni, Marta Bicego, Alessandro Norsa, Elisa Zoppei Smart Edizioni, Studio Editoriale Giorgio Montolli www.verona-in.it - redazione@verona-in.it La responsabilità di quanto sostenuto negli articoli è dei rispettivi Autori
La tradizione secondo Elisa Zoppei Aldo Ridolfi Sulla credenza, discrete, quattro o cinque copie di Lettura amore mio. Alle pareti il racconto della vita prende la forma di immagini: fotografie, quadri, disegni; e di oggetti... Lei invece, Elisa Zoppei, è seduta al lungo tavolo che sappiamo essere accogliente e generoso. Come il suo sguardo: limpido ed evocativo. Come il suo sorriso: spontaneo. Sa che mi deve raccontare qualcosa attorno alla tradizione. E corre subito, entusiasta, alla sua infanzia, senza indecisioni, senza ripensamenti, in modo irriflesso. Che è la maniera migliore per catturare le emozioni. La ragione, invece, è un’erma bifronte: tanto dà e tanto toglie. I suoi ricordi scorrono limpidi, cristallini, ma anche terragni, robusti. Hanno un profilo preciso, seguono una rotta conosciuta e frequentata. «Nacqui in una notte di temporale al lume di una lampada a petrolio e udii subito lo scroscio della pioggia di mezza estate, violenta e fresca che si riversa ristoratrice sulla terra strinata dal solleone: era la vita nella vita e sempre la amai». Non poteva esserci inizio migliore perché ritorna e insiste quel tema, amore, che stabilisce la cifra di Elisa e di Lettura amore mio. Elisa Zoppei è insieme la pioggia che vivifica e la terra che attende. Lei sa che dobbiamo parlare di tradizione, ce lo siamo detti per telefono. «Ho mantenuto la tradizione del presepio, una stanza intera a catturare la magia di un gesto antico e indicibilmente bello; ho cucinato e cucino il riso con il sedano, una minestra regale e contadina insieme: si aggiungeva anche un po’ di salsa di pomodoro per tingerla di rosa… C’è una pausa, breve: il pensiero prende un’altra di-
rezione. «Nel mio tempo bambino si facevano le veglie ai morti, stando attorno al letto, noi bambini insieme ai grandi. Era come se il defunto fosse ancora in grado di sentire, si parlava di lui, delle sue cose, della sua vita... Ti ricordi... ti ricordi...». «D’accordo Elisa – mi intrometto – ma noi oggi dobbiamo fornire un contributo, il tuo, attorno al concetto di tradizione...» Reagisce, decisa: «Ma questa è la mia tradizione, questo il mio patrimonio. La tradizione è in quei gesti, in quei rituali, nei cibi, nelle particolari scansioni temporali, ... Ogni tentativo di astrazione tradisce quel mondo». Mi sento perdente. Se ne accorge, di sicuro: ha antenne lunghe e auricolari sensibilissimi. Viene a patti, allora, assecondando senza sforzo una natura generosa. «Certo, certo. Quella tradizione è il sostrato fondamentale, irrinunciabile della mia cultura successiva. È patrimonio genetico, guai a chi ce lo nega. E guai a chi, anche oggi, nella
Le veglie
«Nel mio tempo bambino si facevano le veglie ai morti, stando attorno al letto, noi bambini insieme ai grandi. Era come se il defunto fosse ancora in grado di sentire, si parlava di lui, delle sue cose, della sua vita... Ti ricordi... ti ricordi...»
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pur necessaria mutabilità del divenire storico e sociale, non ne tiene conto». E infatti, stiamone certi tutti, il suo «te ricordito, te ricordito», non è stanco ripiegamento, memoria inerte, inconcludente nostalgia. A dirlo non è lei, il dubbio nemmeno la sfiora; a testimoniarlo ogni giorno, ogni ora, ogni istante è il telefono che suona, il computer che si accende, la mail che parte, il software che opera, la recensione che vola, la rete che si arricchisce dei suoi lavori. Il suo piccolo studio, a San Pietro di Lavagno, è illuminato da un’ampia porta finestra. La luce meridiana vi entra abbondante e ottimista. Come quella di Mazzantica, dove è nata, durante i meravigliosi anni Cinquanta. Meravigliosi? «Ero la maggiore di sette figli: lavavo i panni delle mie sorelline più piccole nell’acqua dei fossi, ma non è memoria che mi pesa, anzi. Mi pesano, invece, altre tradizioni, dolorose, quelle, davvero. Meno male che non ci sono più le puerpere che dovevano attendere quaranta giorni dopo il parto e sottoporsi a una particolare benedizione per riacquistare un posto in chiesa e nella società. Si faceva di mattina bonora, quasi descondon: un rito riparatore... Ma insomma, riparatore di che? C’erano condizionamenti sociali pesantissimi. L’amore coniugale era regolato da ritualità che negavano ogni spontaneità. Un amore consumato prima del matrimonio assumeva i contorni della tragedia, il biasimo sociale ricadeva sulla famiglia, la vergogna attanagliava la vita di ogni giorno...». A costo di guadagnarmi antipatia (ma con Elisa è impossibile) insisto: «Ma la tradizione, come concetto antropologico...». Elisa è laureata, all’università è stata docente e si è occupata di tecniche di lettura. Capisce la mia esigenza. Ritiene che i riti e i valori della tradizione debbano essere mantenuti vivi, tramandati con ogni possibile iniziativa, non solo editoriale. Oggi anche appoggiandosi alla rete. Ma la sua fede più profonda, il suo impegno più entusiasta e anche la sua intuizione più efficace è che «tutto ciò non può fare a meno dell’oralità, perché il bisogno di comunicare passa ancora attraverso la dimensione orale, questa è per me esigenza fondamentale, indispensabile per raccontare la tradizione». Rimane del tempo per scorrere sul monitor le
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bozze del numero due di “Veronesi”. Ancora non ci sono tutte le immagini, ma i testi sono lì, virtualmente in forma di pagine di rivista. C’è Alessandro Norsa che ci svela gli strani, ma a ben guardare umanissimi, “rapporti” tra i vivi e i morti nelle culture dell’Arco Alpino, vive fino ieri l’altro; c’è Giuseppe Rama che si muove nelle pagine del libro di Hans Barth e nelle vie di una Verona tramontata a cercare vecchie osterie per raccontarcele; c’è Ludovico Anderloni che affida a due giovani, Alberto e Michele, entrambi prossimi alla laurea magistrale presso lo IUAV di Venezia, una acuta e realistica valutazione del restauro di una malga in Lessinia e c’è Marta Bicego per raccontarci con rinnovata passione il sottile e magico legame tra tradizione e contemporaneità narrando di frutti e di alberi da frutto. Ci sono anche Elisa Zoppei e lo scrivente che girano attorno, e dentro, questo universo, ne escono spesso ma altrettante volte vi rientrano e lo trovano accogliente, sicuro, perfino attuale. Usciamo, Elisa ed io, in via Cima Carega affollata di auto parcheggiate. Ci sono anche le nostre. Non fa niente: nessun frastuono potrà smorzare lo scroscio di quella pioggia di mezza estate che si riversava ristoratrice sul terreno riarso dal solleone.
L’oralità.
«Il bisogno di comunicare passa ancora attraverso la dimensione orale, questa è per me esigenza fondamentale, indispensabile per raccontare la tradizione»
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Leosterie vecchie di Verona secondo Hans Barth
San Zeno.
Il patrono della città, soffermò l’attenzione sull’aspetto botanico della vite veronese che classificò come “lambrusca” erudendoci, nei Sermones, sulle tecniche di vinificazione
Giuseppe Rama In questi anni il vino è stato, e ancora è, argomento prediletto di un numero considerevole di riviste specializzate. A tanta attenzione non fanno eccezione i vini veronesi – Valpolicella, Soave, Bardolino e Custoza in primis – sia per la loro conclamata qualità, sia per le moderne tecniche colturali applicate alla vite. Ineludibile punto di riferimento della produzione e della commercializzazione italiana, grazie al Vinitaly, la vocazione enologica di Verona è tenuta viva da centinaia di spacci opportunamente disseminati dal centro storico fino all’estrema periferia
dove i cultori del nettare di Bacco possono trovar conforto alle umane vicissitudini nel rispetto di una spicciola filosofia esistenziale esemplarmente sintetizzata nell’adagio Scarpa larga e goto pien, ciapa la vita come la vien. In effetti, se il detto può essere preso come modello di uno stile di vita allietato da un calice di buon vino, tale usanza a Verona coincide con un modus vivendi millenario come testimonia il mosaico romano rinvenuto in Piazza Bra raffigurante Bacco intento a spremere un grappolo d’uva sulla testa di una pantera, simbolo di un’umanità ammansita e riconoscente al dio per il dono del vino. E, giusto per porre in
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evidenza questa “simpatia” dei veronesi per la coltivazione della vite e la fruizione del suo nobile prodotto, ricordiamo che lo stesso Virgilio eleggeva il vino “retico” – così veniva chiamato il vino prodotto sulle nostre colline – tra i primi della Penisola e altrettanto bene ne dicevano Plinio, Strabone, Marziale e Svetonio. San Zeno, patrono della città, soffermò l’attenzione sull’aspetto botanico della vite veronese che classificò come “lambrusca” erudendoci, nei Sermones, sulle tecniche di vinificazione. Da parte sua Cassiodoro, dignitario alla corte di Teodorico, chiamava “acinatici” i precursori del Reciòto e lodava il sapore regale dei rossi e l’immacolata purezza dei bianchi. A un ipotetico soggiorno di Dante a Soave la tradizione popolare fa risalire i versi: guarda il calor del sol che si fa vino, giunto a l’omor che de la vite cola… (Purg. xxv, 77 - 78), mentre Carducci così salutava Verona: Salve, o Rezia! È bello al bel sole de l’Alpi mescere il nobil tuo vino cantando… Ancora, si racconta che Hemingway, mentre al “Gritti” di Venezia era impegnato a ultimare il romanzo Across the river and beyond the trees, confortasse l’ispirazione con generosi sorsi di Valpolicella. In tempi più recenti è noto il caso di un commodoro della Regia Marina Svedese
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che, assaporato a un pranzo ufficiale del Soave, se ne innamorò a tal punto da preferirlo per tutta la serata agli altri vini. E non finì qui! Fu tale la cotta che l’elisir gli procurò da indurlo a trasferire la dimora a Soave dove, acquistata un’azienda agricola, si dedicò anima e corpo alla coltivazione della vigna. Tornando al tema che ci siamo proposti di trattare, ovvero delle vecchie osterie cittadine e del rapporto creatosi tra osti, clienti e vino, merita un circostanziato approfondimento quanto scriveva Hans Barth in Osteria. Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri. La guida si avvale della traduzione italiana di Giovanni Bistolfi e di una sontuosa prefazione di Gabriele D’Annunzio, garanzia di successo all’itinerario dello scrittore tedesco che inizia a Verona e si conclude, dopo un gaudente pellegrinaggio bibitorio lungo la Penisola, a Capri. Ecco con quali espressioni auliche Barth esalta le affinità elettive di Verona nei confronti del vino: «Che cosa non ha visto la vecchia e veneranda città dell’Adige! Heine la chiama il grande “rifugio dei popoli”; noi specialisti del genere la chiamiamo la “grande osteria dei popoli”; Olimpo, Walhalla, Eden a un tempo; un’osteria potente, coronata di lauro, aureolata di poesia: l’osteria d’Italia!» All’appassionata premessa, Barth fa seguire la descrizione dei principali locali cittadini dell’epoca attraverso un percorso che muove dal centro storico per concludersi a San Zeno. La prima sosta è dedicata all’Antica salumeria e
Hemingway.
Si racconta che Hemingway, mentre al “Gritti” di Venezia era impegnato a ultimare il romanzo Across the river and beyond the trees, confortasse l’ispirazione con generosi sorsi di Valpolicella osteria Mazzon, sita in Piazza Indipendenza. In compagnia del pittore Angelo Dall’Oca Bianca, ascende al primo piano del vetustissimo palazzo dove, in una grande sala con la volta a croce e vecchi tavoli odorosi di storia, pasteggia con cotechino e brinda con il “buon vinello bianco frizzante” della casa. Al promettente incipit segue una visita alla piccola, ma pulita, Bottiglieria alla Biedermeier dei Fratelli Sterzi, in Via Scudo di Francia 3, a due passi dall’attuale Via Mazzini, perennemente affollata da uomini e donne di classe che vi convengono per degustare Valpantena e Bardolino. Segue un intermezzo alla Birreria Lowenbrau in Piazza Bra’, arredata in perfetto stile bavarese, quindi il nostro esploratore lascia il centro storico per raggiungere Porta San Zeno e prendere commiato dalla città libando ripetutamente all’Osteria alla Luna che non esita a definire «il più devoto santuario di Verona, anzi dell’Italia, del mondo» eretto in onore di Bacco.
L “ a zuppa
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delle Povere anime”
nella tradizione alpina Alessandro Norsa Dise tôten stent auf vome grabe / Un gent vor alle di haüser / Ba si saint gastant. /Hemmest de alte tôten kemment ale auser / Un kement inn inde haüser, / ba si saint gabürtet. (Siamo i morti, che escono dalle tombe / e vanno in ogni casa / dove abitavano. / Ora escono tutti / i morti antichi / e vanno nelle case dove sono nati). Questa è la cantilena che il primo di novembre si sarebbe potuta udire presso il popolo dei Cimbri. Le anime dei defunti si recavano per sfamarsi nelle loro antiche case nella Santa notte dei morti (de halghe naxt von tôten). Erano i bambini a “incarnarle”, andando a chiedere, alle famiglie del villaggio, la “minestra delle anime”. I giovani, quindi, formavano una grande schiera che andava di casa in casa, impersonando le anime dei trapassati che tornavano nella loro abitazione per sfamarsi. La schiera delle anime aveva una guida, detta “patrono” o “capo”. Era nominata con una elezione o con una scelta. In quest’ultimo caso essa cadeva sul più vecchio della compagnia che dirigeva gli altri e aveva sempre la precedenza. Quel che diceva, gli altri facevano, seguendolo come un capofamiglia. Se la guida era eletta, i giovani la individuavano tirando a sorte con i sassi o mettendosi in cerchio con nel mezzo una pietra: chi riusciva a spostarla con un colpo era il capo che poi tutti avrebbero seguito. L’insegna del capo era costituita da un corno, una bacchetta, un cappello di carta con appuntato un ramo d’abete, una bandiera o, più anticamente, anche una maschera di legno di corteccia d’albero. La gente preparava quella sera la minestra dei morti o, per meglio dire, “delle povere anime” (di suppa von armen sel), a base di patate e fagioli
o lenticchie e grani d’orzo. I bimbi ricevevano della minestra d’orzo che andava consumata sulla soglia delle abitazioni. I morti erano, per così dire, sfamati all’esterno perché non recassero danno in casa. Ognuno di loro aveva una pentola in cui versare la minestra. Poiché nelle diverse famiglie la si preparava con personali ricette, spesso se ne faceva un miscuglio nel medesimo recipiente, ma ai ragazzi non importava nulla. Ricevuta la loro parte, esprimevano il consueto ringraziamento: «Borberz Got vil ! Dio ne renda grazie.» L’uso è connesso con l’antica concezione, propria di tutto il Tirolo, che in questa notte le ani-
Le anime.
Le anime dei defunti si recavano per sfamarsi nelle loro antiche case nella Santa notte dei morti (de halghe naxt von tôten)
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Le favette.
Nella provincia di Verona, è tradizione donare ai bimbi le favete dei morti, i tipici dolcetti che caratterizzano i convivi famigliari di questo periodo. Le tradizioni cimbre presupponevano che non si doveva fare il bucato nella settimana dei morti. Era un costume molto probabilmente associato al presagio di sventura
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me dei trapassati sono libere e possono vagare sulla terra. Secondo Zingherle, in passato si accendevano lampade di strutto per riscaldare quelli che, invece, soffrivano la “pena del freddo”. A Telfs, il giorno dei morti, non si devono uccidere né rane né rospi, perché in essi sono incarnate le anime dei trapassati. Altre tradizioni cimbre presupponevano che non si doveva fare il bucato nella settimana dei morti. Era un costume molto probabilmente associato al presagio di sventura, come lo era pure sognare di rovistare nel lino o nella biancheria. Si evitava quindi di ricordare ai defunti che tornavano a casa in questo periodo ciò che è collegato alla morte, e ci si sforzava di offrire loro tutto quello che è necessario alla vita: luce, calore, cibo. In Valsugana a Ognissanti si ponevano fagioli bolliti in vasi di legno sulla tomba dei propri cari e dei parenti scomparsi, vi si lasciavano per più di due ore e li si riportava quindi fra i poveri, certi che i morti non avrebbero voluto gustarne affatto. Anche nelle vallate ladine, un tempo, erano in uso tradizioni che si riferivano a queste convinzioni; ad esempio a La Villa-La Ila in Val Badia, la sera di Ognissanti, dopo cena veniva imbandita nuovamente la tavola, come se si dovessero aspettare altri commensali. Si servivano, in grandi quantità, i cajincì (specie di tortelli
ripieni di ricotta e/o spinaci) o turtres (che sono una specie di frittelle) e una grande scodella di zuppa o latte scremato. La porta non andava chiusa, in modo che le anime potessero entrare. L’opinione più diffusa era che, se il giorno dopo qualche piatto o posata erano sporchi, si desumeva che qualche anima fosse venuta a rifocillarsi. In questi giorni si era soliti suonare le campane all’una dopo pranzo per “suonare fuori” le povere anime (les anes gnê sonades fora). A questa tradizione, che cambiava di paese in paese, si aggiungevano ogni tipo di preghiere accompagnate a riti particolari. Nella provincia di Verona, è tradizione donare ai bimbi le favete dei morti, i tipici dolcetti che caratterizzano i convivi famigliari di questo periodo. Mentre la produzione dolciaria è ancora in essere, la tradizione delle questue dei bambini si è estinta. Gli anziani di Bardolino ricordano ancora che da giovani si spostavano di casa in casa per richiedere qualche faveta con le tipiche nenie: Santi morti / mocoi siora, / ci ghe n’ ha vegna fora / e se no i resta drente. Ogni regione italiana ha tradizioni simili e con significati simbolici analoghi. In Sicilia, ad esempio troviamo le Ossa di morto e La mani, cioè del pane a forma circolare con due mani che si uniscono, mentre in Lombardia è tipico il pane di morti ovvero piccoli panini dolci, a base di biscotti sbriciolati, ripieni di frutta candita e confezionati su ostie. Fuori dal territorio cimbro, ma in stretta continuità con quello che stiamo dicendo, era tradizione, per esempio nel Bellunese, che i bambini, come racconta Gianluigi Secco, «andassero, alla sera, per le strade gridando avanti e indrìo par ‘sti cortili i vivi par i morti, e i morti par i vivi o dème da magnàr se volè restar, dème da magnàr se volè restar». Queste frasi, pronunciate con tanta partecipazione, davano la sensazione che le anime volessero il cibo per poter tornare nuovamente nelle tombe e quindi nell’al di là. Il rito garantiva la convinzione che le successive generazioni si sarebbero occupate della propria anima, come nel presente veniva fatto per i predecessori, e suggellava inoltre l’idea della continuità tra le generazioni, prospettando una convincente eternità. L’usanza di eseguire rituali di questua, da parte di cantori itineranti, riconduce all’intersezione tra il soprannaturale cristiano e quello delle culture precedenti ed è particolarmente densa in quei periodi dell’anno in cui si verificano dei momenti di passaggio, tanto nel ciclo delle stagioni quanto in quello della vita. Anticamente la questua rientrava nei riti legati al ciclo stagionale e serviva a rendere propizie le forze divine verso il raccolto futuro. Nella
La notte del 1°novembre.
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Nella civiltà agraria, in linea con le tradizioni celtiche, v’era l’idea che nella notte del primo di novembre le anime dei morti sarebbero venute ad incontrare i vivi. Era doveroso essere rispettosi nei loro confronti, ed offrire molto cibo questua è infatti insito un senso collettivo di offerta: chi ha ricevuto dalla natura e da Dio un buon raccolto deve offrire doni ai protetti di Dio: poveri e clero. Il rapporto bambini - questue - mondo dei morti è chiarito da Levi-Strauss in un saggio del 1952. Dopo aver ricordato che le questue dei bambini in Europa non sono limitate al Natale ma hanno inizio con quelle di Halloween, Levi-Strauss nota che «il progredire dell’autunno, dal suo inizio sino al solstizio che segna il salvataggio della luce e della vita, si accompagna quindi, sul piano rituale, a un movimento dialettico le cui principali tappe sono: il ritorno dei morti, la loro condotta minacciosa e persecutrice, la fissazione di un modo di vivere con i vivi che consiste in uno scambio di servigi e di doni, infine il trionfo della vita quando, a Natale, i morti ricolmi di regali abbandonano i vivi per lasciarli in pace sino all’autunno successivo». Per concludere, nella civiltà agraria, in linea con le tradizioni celtiche, v’era l’idea che nella notte del primo di novembre le anime dei morti sarebbero venute ad incontrare i vivi. Era doveroso essere rispettosi nei loro confronti, ed offrire molto cibo, sia per una condizione spirituale, sia perché un buon comportamento avrebbe assicurato la loro protezione.
Una questua in Val Badia. Alla fine della stagione agraria e per tutto l’inverno erano piuttosto frequenti. ( foto Istitut Ladin Micura’ de Ru)
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Badia Calavena
Dove la diversit è un brolo di frutti dime Marta Bicego Dalla tradizione si raccolgono buoni frutti. Vale a dire succosi grappoli di uva saccola, ceste di pere trentosse, spadone, rudene o di San Pietro. Le mele del paradiso e de l’oio, quelle rosse striate e le tenkele, seoloto e decio, biancone e del buro. Manciate di ciliege durone del Chiampo, di rosse, bianche e more di Verona. Nomi curiosi e mai sentiti che, per lo più, fanno addirittura sorridere chi li ascolta. Eppure, soprattutto tra gli anziani, c’è chi ha avuto modo di apprezzare i sapori di queste varietà che arrivano da lontano. Di mezzo, in questo caso, non c’è la globalizzazione dei mercati, ma l’intuizione avuta Remigio Cavallon, titolare di un’azienda agricola a San Gregorio di Veronella, il quale, affiancato dal fratello Giuseppe, ha deciso di far nascere sulle colline di Badia Calavena un Brolo delle biodiversità. Un frutteto singolare «Ho sempre avuto la passione per le piante e ho sempre desiderato avere un terreno in montagna nel quale dedicarmi a quelle colture particolari che per varie ragioni sono state cancellate dalla produzione» esordisce Cavallon. L’occasione si è presentata nel 2001, con la messa in
Si raccoglie nei primi giorni di ottobre il Pomo rosso striato. Il frutto ha forma omogenea, appiattita e circolare. Il peduncolo è breve, inserito in una cavità profonda. La mela è gialla, con un sovra colore rosso brillante striato che ricopre quasi per intero la superficie. La buccia è liscia e presenta varie lenticelle dalle grandi dimensioni. La polpa è fondente e poco succosa, con una tessitura fine, mentre il sapore è mediamente dolce e acido.
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tà enticati Alternativo.
Remigio Cavallon, titolare di un’azienda agricola a San Gregorio di Veronella, il quale, affiancato dal fratello Giuseppe, ha deciso di far nascere sulle colline di Badia Calavena un Brolo delle biodiversità
Matura a metà settembre il Pomo séoloto. Si riconosce per la forma omogenea, appiattita in sezione longitudinale e irregolare oppure circolare in sezione trasversale. Presenta un peduncolo di medio spessore e lunghezza. Il frutto è di colore verde e giallo. La buccia è liscia, segnata da una rugginosità che ricopre parte della superficie fino a confondere le poche lenticelle presenti. vendita a Badia di contrada Giri: sette ettari di collina distribuiti su terrazze ancora da quando le terre erano sotto il dominio dell’antica abbazia benedettina che, con il trascorrere dei decenni, sono stati progressivamente abbandonati e invasi da rovi e cespugli fino a trasformarsi in bosco. Ci sono voluti diversi anni per restituire alla proprietà un nuovo aspetto. E il colpo d’occhio, oggi, è di sicuro effetto. Il Brolo è frutto della sinergia tra la locale Amministrazione comunale e il parco delle energie rinnovabili Peper Park. E, come spiega Cavallon, dei preziosi consigli di Piergiorgio Dal Grande, tecnico agrario della Provincia di Vicenza che è autore con Gino Bassi del volume “Antichi sapori ritrovati”: quasi una enciclopedia dei sapori dimenticati. Così, alle tipologie di piante rare ritrovate con il disboscamento del terreno, se ne sono aggiunte via via molte altre che gli agricoltori sono andati a recuperare pazientemente in Lessinia, nella Valle dell’Agno e del
Chiampo. «Ci sono voluti quasi otto anni anni per vedere i primi risultati dopo aver dissodato il terreno, preparato le terrazze, collocato le reti a protezione dalla grandine, installato un impianto a goccia per l’irrigazione, creato le piante dagli innesti dopo una ricerca lunga e impegnativa delle varietà». Un tesoro di 400 piante Su 2 mila 500 metri di superficie collinare con annesso rustico, il brolo dei fratelli Cavallon racchiude ben cinquantacinque diverse varietà di mele (ciascuna rappresentata da tre piante), venti di pere, dieci di ciliegie e un filare di uva Saccola, un tempo molto diffusa sui Lessini. Nella stagione di raccolta ci sono mele rosse, verdi e gialle dalle forme arrotondate e affusolate, dalla buccia liscia o ruvida. Una fantasia di colori, profumi e sapori che chiunque può andare a visitare se si avventura sulle colline a due chilometri da Badia Calavena fino a rag-
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È pronta a metà settembre la Rosa dura: mela dal frutto di forma omogenea e circolare, dal peduncolo di spessore e lunghezza medi con calice superficiale chiuso. Il pomo ha un colore verde intenso con sovra colore rosso striato che si estende su parte della superficie. La buccia è liscia, con minime lenticelle e una leggera rugginosità. Alla degustazione, la polpa è abbastanza croccante e succosa, con una tessitura grossolana, poco dolce e piuttosto acida.
giungere il Colle San Pietro. Qui, anche chi non ha esattamente il pollice verde, non si troverà smarrito perché ogni pianta reca l’indicazione della varietà presenti con tutte le peculiarità. Per quanto riguarda il meleto di contrada Giri, dopo tre anni di sopralluoghi all’aria aperta e approfondimenti in aula guidati dagli insegnanti, a occuparsi di catalogare e descrivere in una serie di tabelle le caratteristiche di fiore e frutto delle cinquantacinque varietà presenti nel sito sono stati gli allievi della classe quinta dell’istituto tecnico agrario Stefani-Bentegodi di Caldiero. Un’opportunità di formazione sulla biodiversità, che non ha soltanto valenza storica. «Si tratta di varietà dai sapori inaspettati. Certo, non sono tutte così buone da mangiare, poiché alcune piante venivano impiegate come im-
pollinatrici, porta innesto, a scopo ornamentale o, ancora, per le peculiari doti di resistenza alle avversità climatiche» precisa Nicola Piccolboni, docente che ha coordinato il progetto sui banchi dell’istituto agrario di Caldiero. Il valore aggiunto di queste varietà, prosegue, «è nella capacità di resistere alle malattie, alle avversità ambientali come l’abbassamento delle temperature, ai parassiti. Caratteristiche che possono essere sfruttate per eventuali incroci da cui far nascere nuove varietà da immettere sul mercato». Piante più vigorose, sebbene meno produttive, rispetto a quelle impiegate oggi: «Sono state per lo più create all’estero (Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Giappone), sono molto produttive, danno frutti di bell’aspetto, ma non sempre soddisfacenti dal punto di vista organolettico e nutrizionale» conclude Piccolboni. Non è un caso, insomma, se alcuni agricoltori iniziano a guardare al passato per portare sulle tavole frutti della tradizione.
Resistenti.
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«Il valore aggiunto di queste varietà, è nella capacità di resistere alle malattie, alle avversità ambientali come l’abbassamento delle temperature. Caratteristiche che possono essere sfruttate per eventuali incroci da cui far nascere nuove varietà da immettere sul mercato»
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Ildella restauro Contrada Valle Il restauro.
Dopo decenni di abbandono, grazie all’iniziativa della Comunità montana e del Parco della Lessinia, un lungo restauro ha permesso alla contrada di risollevarsi dal degrado
Ludovico Anderloni Contrada Valle di Velo Veronese, un antico complesso in pietra alla base dei pendii che scendono da Parparo, poco a nord della frazione di Camposilvano. Un luogo sorto quando era il lavoro a definire l’organizzazione e la geografia degli spazi: la casa accanto alla stalla con il fienile, la ghiacciaia lì a due passi, vicino alla pozza che d’estate era abbeveratoio per il bestiame. Dopo decenni di abbandono, grazie all’iniziativa della Comunità montana e del Parco della Lessinia, un lungo restauro ha permes-
so alla contrada di risollevarsi dal degrado. L’intervento, seguito dall’architeto Cristiana Rossetti, è durato quasi dieci anni: dall’acquisto delle strutture e dei terreni limitrofi nel 2003 sino allo scorso agosto, quando l’inaugurazione ha scoperto ai visitatori il nuovo volto del complesso. Per la copertura economica si è attinto ai fondi del Programma obiettivo competitività regionale e occupazione, finanziato dalla Regione, dallo Stato e dall’Unione Europea, e la spesa complessiva si è fermata poco sotto il milione e mezzo di euro. Il proposito che sembra aver sostenuto il complicato iter dei lavori è quello
La parte ricostruita della contrada
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di istituire qui un centro dove le nuove generazioni possano conoscere il proprio passato, uno spazio aperto alle Università e alla cittadinanza, dove il paesaggio e l’architettura della Lessinia possano essere oggetto di studio e di ricerca. Proprio per questo motivo parliamo del restauro con due studenti di architettura, Alberto Franchini e Michele Ganzarolli, entrambi prossimi alla laurea magistrale presso lo IUAV di Venezia. – Michele, tu sei veronese: da dove nasce l’interesse per l’architettura della Lessinia? «Le contrade e le malghe di queste montagne sanno tradurre concretamente temi riguardanti il rapporto fra l’opera e il paesaggio con i quali l’architettura di oggi è impegnata a confrontarsi. In Lessinia si può capire come questioni determinanti, e troppo spesso trascurate, possono trovare una risposta immediata proprio nell’essenzialità. Quel che mi ha sempre affascinato è la naturalezza con cui queste abitazioni assolvono le funzioni primarie dell’abitare e del lavorare, costruite sì con abilità tecnica, ma soprattutto con coscienza delle relazioni che l’architettura deve rispettare». – Tu Alberto sei, invece, trevigiano e la Lessinia è per te una scoperta… «Sì, la scoperta non solo di un paesaggio affascinante, ma anche di realtà architettoniche sorprendenti per l’intuitività delle soluzioni e per la loro eleganza. Nell’osservare queste stalle e queste case, si rimane colpiti soprattutto dalla condivisione che si genera fra lo spazio dell’uomo e lo spazio della natura, che si incontrano già sulla soglia delle porte, senza la frammentazione, le recinzioni a cui siamo abituati. Gli stipiti marcano il limite fra l’abitato e il naturale, due mondi interagenti, entrambi aperti l’uno all’altro». – Edifici costruiti da uomini che evidentemente non sentivano il bisogno di marcare distinzioni fra entità che appartenevano alla stessa dimensione. Tale aspetto rimane invariato nel restauro? «Qui a contrada Valle, salendo la strada d’accesso attraverso il bosco, si mostra subito evidente una fitta rete di muretti, in pietra locale certo, ma che demarcano i livelli e suddividono lo spazio davanti e dietro le case. Direi che sotto questo aspetto il restauro sembra non aver letto le tracce suggerite dal paesaggio della Lessinia: piuttosto si è lasciato influenzare dalla tendenza diffusa a delimitare, ad assorbire la natura dentro l’ambiente umano a piccoli frammenti. Questo porta anche a dei paradossi: le lastre
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L’impianto fotovoltaico. La neve impedisce l’accesso alla contrada
Funzioni primarie.
«Quel che mi ha sempre affascinato è la naturalezza con cui queste abitazioni assolvono le funzioni primarie dell’abitare e del lavorare, costruite sì con abilità tecnica, ma soprattutto con coscienza delle relazioni che l’architettura deve rispettare» utilizzate per marcare il confine della proprietà a monte sono sì elementi propri della tradizione in Lessinia, ma da sempre sono state usate per delimitare i pascoli afferenti alle singole malghe, quindi per definire lo spazio riservato agli animali, non certo dove vivono gli uomini». – Un errore di concetto, quindi? «In architettura, come in tutte le altre discipline, ogni fraintendimento di concetto inevitabilmente si traduce in errori di forma. Qui molti
appaiono evidenti. Siamo nel contesto di un restauro che vuole restituire agli edifici il loro assetto originario, di conseguenza si mantengono inalterati gli ambienti interni, si impiega la canna di palude per le coperture come avveniva in passato ecc., ma poi si costruiscono i bagni all’esterno, sullo spiazzo ai piedi della contrada, in cemento rivestito di lastre di pietra, come per nascondere l’oggi dietro a un segno del passato».
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– Il presente appare però evidente nella parte un tempo crollata e ora ricostruita, su suggestione dell’arch. Paolo Portoghesi, con un’ampia superficie in vetro. In questo caso c’è una precisa volontà di segnalare lo scarto del nuovo rispetto all’originale. «Certo, ma qui lo scarto si misura più di tutto fra l’eleganza delle linee più antiche e l’inconsistenza delle soluzioni moderne, come la putrella in ferro impiegata per sorreggere il tetto ricostruito: in passato la finezza tecnica suppliva alla penuria di mezzi, oggi si agisce in modo diametralmente opposto». – Abbiamo parlato di fraintendimenti concettuali, quale inciampo ravvisate nel progetto di questo restauro, a cosa ricondurre le imperfezioni che avete considerato? «Gli antichi abitati della Lessinia derivano il loro incanto dal modo intuitivo in cui sono pensati. È lo stesso principio da cui si genera lo splendore delle nostre città medievali: anche qui l’architettura si esprimeva sulla base delle necessità e in una dimensione di immediatezza giustificata dagli usi e dai bisogni. Chi abitava la montagna veronese, ed era dedito all’allevamento del bestiame o al commercio della legna e del ghiaccio, sapeva trasformarsi in architetto e scalpellino e trovare sul luogo le risorse tecniche e materiali per dare risposta alle proprie esigenze. All’origine di ogni intervento costruttivo stava quindi la funzione. Nel caso del restauro di contrada Valle è proprio questo a essere trascurato. Paradossalmente, un restauro che si propone di recuperare l’architettura originaria, finisce per falsarla perché ne trascura i presup-
Factotum.
« Chi abitava la montagna veronese, ed era dedito all’allevamento del bestiame o al commercio della legna e del ghiaccio, sapeva trasformarsi in architetto e scalpellino e trovare sul luogo le risorse tecniche e materiali per dare risposta alle proprie esigenze» posti, tralasciando di rinnovarne l’elemento essenziale, la destinazione per cui era nata. Ora, l’ipotesi di un centro di studi può essere intrigante, ma appare inverosimile per la perifericità del luogo, per lo stato di difficoltà della ricerca in Italia e soprattutto perché l’edificio non sembra adatto: tre degli ambienti recuperati non comunicano con gli altri e sono accessibili soltanto dall’esterno, e due di questi, le vecchie stalle, hanno un’altezza che non consente a chi abbia una statura appena superiore alla media di stare dritto in piedi. Mancanze che hanno origine proprio nel fatto che evidentemente, al contrario di quanto avveniva in passato, prima si è intervenuti e poi si è pensato a una funzione da attribuire alla nuova struttura». – Ma in un contesto in cui è difficile pensare a nuovi usi, soprattutto se la destinazione, come è giusto, deve rimanere pubblica, che cosa si dovrebbe fare, attendere passivi i crolli? «La Comunità montana e il Parco sono intervenuti con determinazione e il loro impegno
Michele Ganzarolli (a sinistra) e Alberto Franchini, studenti di architettura presso lo IUAV di Venezia
va lodato, ma forse avrebbero dovuto spendere maggiori energie nel pensare in che cosa si intende trasformare davvero questa contrada. Se le idee non ci sono, ci deve però essere la chiarezza degli intenti. E l’alternativa più valida è quella della preservazione. Per così dire: o si trovano le capacità di innovare, riattivando il rapporto fra la struttura e chi la usa, oppure si decide per l’opzione meno impattante, la conservazione del rudere attraverso misure di consolidamento e risistemazione. È difficile pensare che la contrada Valle possa proporsi come un esempio da seguire per futuri restauri, qui è stato investito un milione e mezzo di Euro di fondi pubblici, cifra impensabile per il bilancio dei comuni locali, stanziata per l’occupazione e lo sviluppo. Ora non resta che sperare che il complesso venga utilizzato e possa veramente generare occupazione, anche se appare difficile. Un intervento conservativo avrebbe comportato una spesa decisamente più contenuta e non avrebbe certo rappresentato una sconfitta: il rudere costituisce lo stadio ultimo della vita di un’opera architettonica, l’unico in cui, esaurita la sua funzionalità, l’edificio permane incontaminato come pura forma d’arte. Preservarlo avrebbe forse potuto essere un più forte incentivo alla ricerca e allo studio della storia dell’architettura di questi luoghi». Al termine della cerimonia di inaugurazione, si è tenuto in contrada Valle, il concerto degli argentini Juanjo Mosalini e Carlos Adriàn Fioramonti, inserito nella rassegna estiva Voci e luci in Lessinia. Sui pascoli montani, i musicisti hanno presentato pezzi dal loro ultimo album «Tra(d)icional», ovvero «traición a la tradición», “tradimento della tradizione” tanghera attraverso sonorità proprie di altri generi, del jazz e del rock. Sembra un insegnamento rivolto anche alla Lessinia e alle sue contrade: un mantenimento pedissequo corre il pericolo di risultare mortificante; per essere tramandata, per essere rispettata, la tradizione deve essere inevitabilmente anche tradita.
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Launcontafole: mestiere scompa Alla sera.
«Alle prime ombre del buio ci si trovava tutti in stalla resa tiepida dal fiato di quattro buoi, qualche vacca, in fondo al recinto, la Balda, regina delle cavalle da tiro, due pecore»
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Elisa Zoppei Sono nata nel 1939 in un piccolo sperduto paese della Bassa Veronese e dai ricordi della mia infanzia mi tornano volti, immagini e parole che appartengono a un passato ormai dimenticato, legato a forme ancestrali di vita che si perdono nella notte dei tempi. Fino alla metà del secolo scorso, soprattutto in campagna, l’infanzia spartiva col mondo adulto la vita della casa, le pause dal lavoro, il piacere del racconto. I tempi nuovi sono venuti dopo la seconda guerra mondiale con l’arrivo del vento americano, le conserve in scatola, gli allevamenti del bestiame in grande, la razionalizzazione delle
colture, le nuove macchine agricole. Prima, la vita scorreva lenta e solenne, ritmata sull’avvicendarsi delle stagioni, ognuna coi suoi lavori e i suoi riti. E insieme all’inverno veniva il tempo del filò. Rispolverando ricordi quasi dimenticati, riporto a galla le particolari emozioni vissute di quel tempo bambino. Rivedo la mia vecchia narratrice, la Teresa, per noi la Teresona. Alle prime ombre del buio ci si trovava tutti in stalla resa tiepida dal fiato di quattro buoi, qualche vacca, in fondo al recinto, la Balda, regina delle cavalle da tiro, due pecore. Fieno nelle greppie, lento ruminare delle bestie in piedi o stese sul letto di paglia rinnovata. Da mezzo il basso soffitto intessuto di ragnatele, legata a un fil di ferro, pende una lampada a petrolio accesa. Sotto, seduta al centro sopra l’unica seggiola impagliata, lei la Teresona. Intorno, appollaiati su balle di paglia ci siamo tutti noi, figli di padroni e contadini mischiati insieme, affratellati nei giochi, nelle birbonate e da quell’ora di tuffo nell’orrorifico fantastico delle storie della Teresona. Prima di andare a letto vogliamo che ce ne racconti ancora una. Già trema un brivido d’attesa in fondo al cuore: fra poco ci sarà svelato l’arcano volto dell’oltre tomba: spiriti, fantasmi, morti che tornano, lumere che inseguono i viandanti. La Teresona sferruzza veloce con gli occhialetti posati sul naso. Ha fatto la sua giornata di lavoro. È in piedi dall’alba: ha lavato i panni al fosso rompendo l’acqua gelata, ha preparato le verdure per il minestrone di domani, ha accudito al pollame, ha portato da mangiare ai maiali, ha spazzato la casa, aiutato il suo uomo nei campi e in stalla “a guernar” le bestie. Ha detto il rosario e le orazioni della sera. Ora si concede a noi. “Gh’era na òlta na butela, che ghe piasea tanto, ma tanto ’ndar a balar. Fato stà che la gà vù ’n butin e ’lora ghe cognéa star casa parché no la savea ’n do metarlo. Era pena passà coalche mese che, cazziga, la óia de ’ndar a balar la le tormentaa. La se strussiaa dì e note coando la
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arso La Teresona.
La Teresona portava scritti nel suo volto i segni di una vita dedicata al lavoro, attraversato dalla rassegnazione e dalle privazioni. Forse anche lei, come tante altre donne della sua generazione, una volta giunta alla vecchiaia è diventata un personaggio da fiaba e si è seduta su un trono di paglia per raccontare le sue storie sentea la musica de l’armonica rivar da la piassa. Na sera non la ghe ’n pol pì: la indormensa ’l butin e la lo mete drento ’n te la so sesta, ben coerto. Po’ la se veste, la se pètena, la se pitura, la se mete le scarpe, e via de scondon, traèrso i campi la riva ’l balo. E la bala, e la bala par tuta la sera fin che ven note fonda. Alora la torna a casa e la càta la sesta úda. De ’l butin gnanca l’ombra. La vàrda dapartuto: la gà paura che l’àbia sbranà coalche bestia. La se sènte morir. Dopo ghe vegne ’n mente che le strie le pol averlo sconto da coalche parte. Alora la vèrze
l’armaro, la vàrda soto ’l leto, ma gnente. La vàrda soto la legnara, ma gnente. La vàrda ’n te ’l casson de la polenta e gnente. Po’ la vàrda soto la tola e ’lora la éde ’l so butin drito, rente la gamba de la tòla, duro, s-cinco come ’n bacalà. La lo toca e la sènte che l’è fredo come ’n toco de piera. Le strie le l’avea trasformà ’n t’un butin de piera, cossì l’à ’mparà che coando se gà butini picoli se cògne starghe drio e no ’ndar a balar”. 1 Le storie della Teresona finivano sempre con la sentenza morale. “Bison star ’tenti che ’l diaolo ’l te ciàpa e te porta a l’inferno”. E “De sera non se gà da catarse ’n vòlta coando gh’è scuro parché le lumere le te core drio e le te porta
’n simitero e i morti i te liga e i te ména ìa con lori”.2 La Teresona portava scritti nel suo volto i segni di una vita dedicata al lavoro, attraversato dalla rassegnazione e dalle privazioni. Forse anche lei, come tante altre donne della sua generazione, una volta giunta alla vecchiaia è diventata un personaggio da fiaba e si è seduta su un trono di paglia per raccontare le sue storie. La grossa Teresa vestita di nero, la nonna di tutti, veniva da un altro tempo e là è tornata a raccontare le sue “fole” paesane. Dovunque voi siate ora, donne dal grande cuore, sappiate che vi portiamo vive dentro di noi. Noi che abbiamo avuto il privilegio di ascoltarvi.
1. È la storia di una ragazza che amava il ballo. Quando ebbe un bambino non poteva più andare a ballare perché non sapeva a chi affidarlo. Ma una sera dalla piazza le arrivò la musica della fisarmonica e cominciò a desiderare di andare a fare quattro salti. Solo un poco. Lasciò il bambino addormentato nella cesta e via di corsa. Ballò ballò, ballò tanto che si dimenticò del bambino. Quando tornò a casa nella cesta non c’era più. Lo cercò da per tutto, sotto il letto, nell’armadio. Ma niente. Alla fine si accucciò e lo vide sotto il tavolo dritto e rigido. Era diventato pietra. Allora capì il male che aveva fatto. 2. “Bisogna stare attenti che il diavolo non ti prenda e non ti porti all’inferno” e “Di sera non bisogna trovarsi in giro quando fa buio perché le anime del purgatorio (lumere) ti corrono dietro e ti menano al cimitero e i morti ti legano e ti portano via con loro”.
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